25 Set 2025, Gio

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Pastore di una diocesi composta nella sua stragrande maggioranza da contadini e da montanari analfabeti, eredi di una «cultura» ancestrale e pratica, Francesco di Sales si fece pure promotore di una cultura dotta, congeniale a una “élite” intellettuale. Per trasmettere il messaggio che gli stava a cuore, comprese che doveva conoscere il suo pubblico e prenderne in considerazione i bisogni e i gusti. Quando parlava alla gente e soprattutto quando scriveva per persone istruite, il suo metodo era quello esposto nel “Teotimo”: «Certo – diceva – ho preso in considerazione la condizione delle persone di questo secolo e lo dovevo fare: è assai importante tener conto dell’epoca in cui uno scrive».


Francesco di Sales e la cultura popolare
            Nato in una famiglia nobile molto legata alla terra, Francesco di Sales non si è mai estraniato dalla cultura popolare. Già l’ambiente in cui crebbe lo avvicinava alla gente del popolo, al punto che lui stesso seguiva volentieri l’usanza dei montanari quanto alla levata mattiniera. Durante le sue visite pastorali, si serviva del patois per farsi capire meglio. Ad ogni modo, è certo che il contatto diretto con l’insieme della popolazione conferiva alla sua esperienza pastorale una tonalità concreta e calorosa.
            Gli autori che si sono occupati della trasmissione della cultura popolare in tale epoca sottolineano, d’altronde, che non c’erano confini rigorosi tra messaggio religioso e cultura popolare, dato che elementi estranei si fondevano spontaneamente con la religione insegnata in modo ufficiale. Come è noto, la cultura popolare si esprime molto meglio in forma narrativa che per iscritto. Occorre ricordare che una certa percentuale della popolazione non sapeva leggere e la maggioranza non sapeva scrivere. In linea di massima, i vecchi, i saggi e gli uomini sapevano leggere, mentre i fanciulli, il popolino e le donne erano analfabeti.
            Ad ogni modo, i libri esposti nelle librerie o quelli dei venditori ambulanti facevano ormai la loro comparsa, non soltanto nelle città, ma anche nei paesi. Tale produzione di libretti a buon mercato doveva essere necessariamente assai varia, dipendendo probabilmente e in larga parte dalla letteratura popolare, la quale trasmetteva una sensibilità ancora medievale: vite di santi, romanzi cavallereschi, storie di briganti o almanacchi con le loro previsioni metereologiche e i loro consigli per gli uomini e per gli animali. Ma stavano arrivando anche produzioni più moderne: romanzi, forse anche manuali di buona educazione, o ancora opere di pietà nella linea del concilio di Trento.
            Ma la cultura popolare era veicolata anche tramite gli incontri quotidiani e alle feste, quando si andava a bere e mangiare insieme nelle taverne e nelle osterie, in particolare, in occasione delle nozze, dei battesimi, dei funerali e delle confraternite, durante i balli e festosi girotondi, alle fiere e ai mercati. Francesco di Sales forse rese un buon servizio alla società non bandendo sistematicamente ogni manifestazione della convivialità e dei divertimenti pubblici, limitandosi ad imporre delle restrizioni agli ecclesiastici, tenuti a un certo riserbo.

Saggezza e abilità
            Osservatore simpatico della natura e della gente, Francesco di Sales ha imparato molto a loro contatto. Sono i contadini e quanti lavorano la terra coloro che gli hanno detto che «quando nevica in giusta misura in inverno, il raccolto sarà migliore l’anno successivo». Quanto ai pastori e ai mandriani montanari, la cura che hanno dei loro greggi e delle loro mandrie è un esempio di zelo «pastorale».
            Nel mondo dei mestieri, Francesco di Sales ha potuto osservarne spesso da vicino le ammirevoli abilità: «I contadini seminano i campi solo dopo averli arati e ripuliti dagli arbusti spinosi; i muratori usano le pietre solo dopo averle squadrate; i fabbri lavorano il ferro solo dopo averlo battuto; gli orefici cesellano l’oro solo dopo averlo purificato nel crogiuolo».
            Non mancano in certe storie da lui raccontate punte di umorismo. Fin dall’antichità, i barbieri hanno la fama di essere dei grandi chiacchieroni; a uno che chiedeva a un re: come vuole che le tagli la barba? questi rispose: «Senza dire una parola». A chi va attribuito il merito dell’eleganza nel vestire? Se uno «si gloria di essere vestito con proprietà», «chi non vede che tale gloria, se ce n’è, spetta al sarto e al calzolaio?». Col suo lavoro il falegname compie dei piccoli miracoli e «uno che non conosce niente di intarsio, vedendo tronchi contorti nella bottega di un falegname, si stupirebbe sentendo dire che da tale tronco si possa ricavare un vero capolavoro». Anche i vetrai fanno stupire nel vederli creare oggetti meravigliosi col soffio della loro bocca.
            L’arte tipografica, poi, era oggetto della sua grande ammirazione, anche se in lui i motivi religiosi prevalevano rispetto a ogni altra considerazione, come emerge da una lettera in un italiano approssimativo che scrisse al nunzio di Torino nel maggio 1598: «Fra l’altre cose necessarie, una è che si habbia in Annessi un stampatore. Gl’hæretici mandano fuora ogni hora libretti pestilentissimi, et restano molte oprette catholiche nelle mani de gl’authori per non poterle sicuramente inviare in Lione et non haver commodità di stampatore».

L’arte e gli artisti
            Nel campo delle arti, il trionfo del Rinascimento splendeva nelle opere ispirate dall’antichità. Francesco di Sales le ha potute contemplare durante i suoi soggiorni in Francia e in Italia. A Roma, in occasione del suo viaggio del 1599, ha potuto ammirare la stupenda cupola di san Pietro terminata solo alcuni anni prima: “Grande il palazzo, la basilica, il monumento di san Pietro”.
            La scultura classica era allora oggetto di tale ammirazione, scriveva Francesco di Sales, che persino «pezzi di statue antiche sono conservati per ricordare l’antichità». Egli stesso nomina parecchi scultori antichi, incominciando da Fidia, questo artista, il quale «non rappresentava mai qualcosa così perfetta come le divinità». Ecco Policleto, «il mio Policleto, che mi è tanto caro», asseriva, che con «la sua mano maestra» trasfigurava il bronzo. Egli ricorda anche il colosso di Rodi, simbolo della provvidenza divina, nella quale non c’è «né cambiamento né ombra di vicissitudine».
            Ed ecco ora i famosi pittori nominati da Plinio e Plutarco: Arelio, che “dipingeva tutti i volti dei suoi ritratti a somiglianza delle donne che amava”; Apelle, pittore «unico», preferito da Alessandro Magno; Timante, che velava la testa di Agamennone  perché disperava di poter rendere a pieno la costernazione dipinta sul suo volto alla vista della figlia Ifigenia”; Zeusi, che dipinse magistralmente dell’uva, sicché «gli uccelli credettero che l’uva dipinta fosse uva vera, tanto l’arte aveva imitato la natura».
            Si percepisce in Francesco di Sales un reale apprezzamento per la bellezza dell’opera d’arte, in quanto tale, e nel contempo la capacità di comunicare le sue emozioni ai lettori. La pittura non sarebbe forse un’arte divina? La parola di Dio non si situa soltanto sul piano dell’udire, ma anche su quello del vedere e della contemplazione estetica: “Dio è il pittore, la nostra fede è la pittura, i colori sono la parola di Dio, il pennello è la Chiesa”.
            Francesco era soprattutto attirato dalla pittura religiosa, vivamente raccomandata dal suo antico direttore spirituale Possevino, il quale gli fece omaggio della sua «affascinante opera» intitolata De poesi et pictura. Egli stesso si considerava un pittore perché, come scrisse nella prefazione della Filotea, «Dio vuole che dipinga sui cuori delle persone non soltanto le virtù comuni, ma anche la tanto cara e beneamata devozione a lui dovuta».
            Amava pure il canto e la musica. Si sa che faceva cantare delle lodi durante le ore di catechismo, ma ci piacerebbe conoscere che cosa si cantava nella sua cattedrale. Scriveva in una lettera all’indomani di una cerimonia nella quale si era cantato un testo del Cantico dei cantici: «Ah, come venne cantato bene tutto questo, ieri, nella nostra chiesa e nel mio cuore!». Conosceva e sapeva distinguere i suoni dei vari strumenti: «Tra gli strumenti, i tamburi e le trombe fanno più fracasso, ma il liuto e la spinetta danno una melodia migliore; il suono degli uni è più forte, l’altro più soave e spirituale».

L’Accademia «florimontana» (1606)
            «La città d’Annecy – scriveva pomposamente suo nipote Charles-Auguste de Sales – sotto un così celebre prelato come Francesco di Sales e sotto un così illustre presidente come Antoine Favre era paragonabile alla città di Atene, ed era poi abitata da un grande numero di dottori, sia teologi che giuristi e di insigni letterati».
            Ci si è chiesto come è potuto nascere nello spirito di Francesco l’idea di fondare con l’amico Antoine Favre, alla fine del 1606, un’accademia denominata «florimontana», «perché le muse fioriscono sulle montagne della Savoia». Occorre vedervi il frutto dell’amicizia che univa il vescovo e il giureconsulto, e il risultato della loro intima collaborazione. Probabilmente i suoi contatti con l’Italia non erano estranei a tale realizzazione. Nate in Italia sul finire del secolo XIV, le accademie avevano conosciuto una grande diffusione. Tra esse si distingueva l’Accademia platonica di Firenze, animata da Marsilio Ficino, il cui influsso è riconoscibile nell’autore del Teotimo. A Torino esisteva l’Accademia «papiniana», di cui Antoine Favre aveva fatto parte. Né va dimenticato che i calvinisti di Ginevra avevano la loro, e ciò dovette pesare molto allorché si trattò di creare una «rivale» cattolica.
            L’Accademia di Annecy aveva il suo emblema: un arancio, albero ammirato da Francesco di Sales, perché è carico di fiori e di frutti in tutte le stagioni (flores fructusque perennes). Di fatto, spiegava Francesco, «in Italia, sulla costa di Genova, e anche nei paesi di Francia, come la Provenza, lungo le coste, in tutte le stagioni li potete vedere coperti di foglie, di fiori e di frutti».
            Il programma delle riunioni aveva dell’enciclopedico, atteso il fatto che secondo gli Statuti «le lezioni saranno o di teologia o di politica o di filosofia o di retorica o di cosmografia o di geometria o di aritmetica». Ad ogni modo, un’attenzione particolare era riservata alle lettere e alla bellezza formale. Un articolo degli Statuti recitava: «Lo stile nel parlare o nel leggere sarà grave, forbito, elegante e rifuggirà da ogni forma di pedanteria».
            L’Accademia era composta di scienziati e maestri riconosciuti, ma erano previsti anche corsi pubblici che ne facevano una sorte di piccola università popolare. In effetti, c’erano assemblee generali alle quali potevano partecipare «tutti i bravi maestri cultori di arti oneste, come pittori, scultori, falegnami, architetti e simili».
            Si intuisce che lo scopo dei due fondatori era quello di riunire l’élite intellettuale della Savoia e di porre le lettere e le scienze al servizio della fede e della pietà, secondo l’ideale dell’umanesimo cristiano. Le sedute si tenevano nella casa di Antoine Favre, dove la moglie e i figli si davano da fare nell’accogliere gli ospiti. L’atmosfera risentiva quindi di qualcosa di familiare. D’altronde, recitava un articolo, «tutti gli accademici saranno uniti tra loro da amore vicendevole e fraterno».
            Fra gli accademici o membri corrispondenti dell’Accademia spiccava l’abate commendatario di Hautecombe, Alfonso Delbene, discendente da una grande famiglia di Firenze, amico di Giusto Lipsio e di Ronsard che gli dedicò la sua Arte poetica; è stato qualificato come un ponte fra la cultura italiana e la cultura francese.
            Gli inizi dell’Accademia furono brillanti e sembravano promettenti. Secondo Charles-Auguste de Sales, il primo anno si aprì con «il corso di matematica con l’Aritmetica di Jacques Pelletier, gli Elementi d’Euclide, la sfera e cosmografia con le sue parti, la geografia, l’idrografia, la corografia e la topografia; seguì l’arte di navigare e la teoria dei pianeti, e infine la musica teorica». Per il resto ciò che si sa è poca cosa.
            Nel 1610, tre anni dopo gli inizi, Antoine Favre fu nominato presidente del Senato di Savoia e partì per Chambéry. Il vescovo, da parte sua, non poteva certo mantenere da solo l’Accademia florimontana, che declinò e scomparve. Tuttavia, se la sua esistenza fu effimera, il suo influsso fu duraturo. Il progetto culturale che l’aveva fatta nascere sarà ripreso dai barnabiti, giunti al collegio d’Annecy nel 1614.

Un affare Galileo ad Annecy?
            Il collegio d’Annecy vantava una celebrità nella persona del padre Redento Baranzano, un barnabita piemontese conquistato dalle nuove teorie scientifiche, professore brillante che suscitava l’ammirazione e persino l’entusiasmo degli allievi. Nel 1617 venne pubblicato, senza l’autorizzazione dei superiori, con il titolo Uranoscopia, un riassunto dei suoi corsi, dove sviluppava il sistema planetario del Copernico come pure le idee di Galileo. Il libro suscitò ben presto un subbuglio fino al punto che l’autore fu richiamato a Milano dai superiori. Nel settembre del 1617 Francesco di Sales scrisse al generale dei barnabiti una lettera in italiano per difendere l’interessato sul piano personale, senza accennare alle sue idee, affinché fosse ristabilito nelle sue funzioni.
            Il desiderio del vescovo fu esaudito: il padre Baranzano rientrò ad Annecy sul finire del mese di ottobre dello stesso anno. A fine novembre, il vescovo manifestò la sua soddisfazione al superiore generale. Il religioso fece apparire nel 1618 un nuovo opuscolo in segno di buona volontà, ma non pare che abbia rinunciato alle sue idee.
            Nel 1619, il dotto barnabita pubblicò a Lione le Novae opiniones physicae, tomo primo della seconda parte di un’ambiziosa Summa philosophica anneciensis. Il vescovo aveva dato la sua approvazione ufficiale a «quest’opera erudita di un uomo erudito», e ne aveva autorizzato la stampa. Il canonico che, su richiesta del vescovo, l’aveva esaminata, aveva ritenuto che l’opera non conteneva «niente di contrario alla fede, agli insegnamenti della Chiesa cattolica e ai buoni costumi», e che essa presentava «a ogni amante della filosofia una dottrina filosofica assai degna, pregevole per la chiara articolazione, la singolare acribia, la gradevole brevità, la non comune erudizione, e, nella sua materia assai rara».
            Va notato che Baranzano si acquistò una fama internazionale e che fu in contatto con Francesco Bacone, promotore inglese della riforma delle scienze, assieme all’astronomo tedesco Giovanni Keplero, e con lo stesso Galileo. Era l’epoca in cui venne imprudentemente istituito un processo contro quest’ultimo, allo scopo di salvaguardare, si pensava, l’autorità della Bibbia compromessa dalle nuove teorie sulla rotazione della terra attorno al sole. Mentre il cardinal Bellarmino si inquietava di fronte ai danni delle nuove teorie, per Francesco di Sales non ci potevano essere contraddizioni tra la ragione e la fede. E il sole non era forse il simbolo dell’amore celeste, attorno a cui tutto si muove, e il centro della devozione?

La cultura alta e la teologia
            Francesco si teneva informato, inoltre, degli argomenti affrontati da libri di teologia a mano a mano che apparivano. Dopo aver «visto con estremo piacere» un progetto di Somma di teologia d’un padre cistercense, inviò all’autore alcuni consigli per iscritto. Era dell’avviso che era necessario depennare «tutte le parole troppo scolastiche», «superflue» e «inopportune», impiegate nella Somma per non farla «divenire troppo grossa» e per fare in modo che fosse «tutto succo e polpa», rendendola così «più nutriente e appetitosa»; suggeriva poi di «dare maggior spazio alle questioni veramente importanti sulle quali occorre istruire meglio il lettore», e infine di non aver paura di usare uno «stile affettivo», cioè capace di emozionare. Più tardi, scrivendo a un suo prete che si dedicava a studi letterari ed eruditi, gli faceva pressappoco le medesime raccomandazioni: “Vi devo dire che la conoscenza che vado acquistando ogni giorno più degli umori del mondo mi porta ad augurarmi appassionatamente che la divina Bontà ispiri qualcuno dei suoi servi a scrivere secondo il gusto di questo povero mondo”.
            Scrivere «secondo il gusto di questo povero mondo» supponeva che fosse consentito utilizzare certi mezzi capaci di suscitare l’interesse del lettore del tempo:

Siamo infatti, Signore, pescatori, e pescatori di uomini. Dobbiamo quindi usare, per questa pesca, non solo le cure, le fatiche e le veglie, ma anche l’esca, l’industria, gli approcci e, se così è lecito esprimersi, le sante astuzie. Il mondo sta divenendo così delicato, che, fra poco, non si oserà più toccarlo, se non con guanti muschiati, né medicare le sue piaghe, se non con impiastri di zibetto; ma che importa, se gli uomini vengono guariti e, in definitiva, vengono salvati? La nostra regina, la carità, fa tutto per i suoi figli.

            Un altro difetto, specialmente presso i teologi, era la mancanza di chiarezza; ciò gli faceva venire la voglia di scrivere sulla prima pagina di certe opere: Fiat lux!

Uno scrittore pieno di progetti
            Verso la fine della sua vita, numerosi progetti coltivava ancora nel suo animo. Michel Favre ha dichiarato che Francesco si proponeva di scrivere un trattato intitolato Dell’amore del prossimo, come pure una Storia teandrica in quattro libri: una traduzione in lingua volgare dei quattro vangeli in forma di concordanza; una dimostrazione dei principali punti della fede della Chiesa cattolica; un’istruzione sui buoni costumi e sulla pratica delle virtù cristiane»; infine una storia degli Atti degli Apostoli. Aveva ancora in vista un Libro sui quattro amori, nel quale si riprometteva di insegnare come dobbiamo amare Dio, noi stessi, i nostri amici e i nostri nemici.
            Nessuno di questi volumi vedrà la luce. «Morirò come quelle donne incinte – scriveva – che non danno alla luce quello che hanno concepito». La sua «filosofia» era questa: «Occorre assumere più impegni di quanti uno sappia compiere e come se dovesse vivere a lungo, non preoccupandosi, però, di fare più di quanto uno farebbe, sapendo di dover morire all’indomani».

Da P. Wirth MORAND

Salesiano di Don Bosco, professore universitario, biblista e storico salesiano, membro emerito del Centro Studi Don Bosco, autore di vari libri.