Giovani che fanno bene la novena alla Natività di Maria (1868)

Sogno di don Bosco del 2 settembre 1868

            Don Bosco così parlò alla sera dopo le orazioni:

            Pare proprio impossibile! Quando entriamo in qualche novena vi son sempre dei giovani che vogliono andare via dalla casa, oppure che vogliono essere congedati. Ce n’era uno, il più colpevole di certi disordini, che per vari motivi non si voleva mandar via, eppure quasi spinto da forza misteriosa se ne partì.
            Passiamo ad altro. Supponete che Don Bosco entri in casa per la porteria e che venga avanti fin qui sotto i portici, e veda qui una grande signora, la quale senza che Don Bosco le dica niente tenga un quaderno in mano. Me lo porge, dicendomi:
            – Prendi e leggi!
            Io l’ho preso e lessi sopra la copertina: Novena della Natività di Maria. Apro il primo foglio e vedo scritti i nomi di un numero limitatissimo di giovani in carattere d’oro. Volto il foglio e ne vedo scritto un numero un po’ più grande con inchiostro ordinario. Volto ancora e tutto il resto del quaderno è bianco sino al fine. Adesso domando a qualcheduno di voi che cosa voglia dir questo.
            E domandò la spiegazione ad un giovane, aiutandolo a rispondere col dire:
            – In quel libro sono scritti i giovani che fanno la novena. I pochissimi che son scritti in oro sono quelli che la fanno bene e con fervore. L’altra parte è di coloro che la fanno, ma con minor fervore. E tutti gli altri perché non sono scritti? Chi sa da che cosa provenga questo? Io credo che siano le passeggiate lunghe che hanno distratto tanto i giovani, sicché adesso non sono più buoni a raccogliersi. Se venisse un po’ Savio Domenico, o Besucco, o Magone, o Saccardi che cosa ci direbbero? Esclamerebbero: Oh quanto è cangiato l’Oratorio!
            Dunque per contentar la Madonna facciamo tutto quello che possiamo colla frequenza dei SS. Sacramenti e colla pratica dei fioretti che io o D. Francesia daremo. Per domani ci sia questo fioretto: – Far ogni cosa con diligenza.
(MB IX, 337)




Il sogno dell’elefante (1863)

D. Bosco, non avendo potuto dare l’ultimo giorno dell’anno la strenna ai suoi alunni, ritornato da Borgo Cornalense, il giorno 4, domenica, aveva promesso loro di darla la sera della festa dell’Epifania. Era il 6 del mese di gennaio 1863 e tutti i giovani, artigiani e studenti, radunati nel medesimo parlatorio, aspettavano ansiosi la strenna. Recitate le orazioni, il buon padre salì sulla tribuna solita e così prese a dire:

            Ecco la sera della strenna. Ogni anno sino dalle feste Natalizie, soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi qualche strenna, che possa esservi di giovamento. Ma quest’anno raddoppiai le preghiere stante il cresciuto numero dei giovani. Scorse però l’ultimo giorno dell’anno, venne il giovedì, il venerdì e nulla di nuovo. La sera del venerdì vado a letto, stanco delle fatiche del giorno, né mi fu dato prendere sonno lungo la notte, di modo che al mattino mi levai spossato, quasi semimorto. Non mi conturbai per questo, anzi mi rallegrai, poiché sapeva che ordinariamente quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo malissimo la notte antecedente. Continuai le mie solite occupazioni nel paese di Borgo Cornalense e la sera del sabato giunsi qui tra voi. Dopo aver confessato mi posi a letto, e per la stanchezza cagionata dalla predicazione e dalle confessioni a Borgo, e dal poco riposo della notte antecedente facilmente mi addormentai. Ecco, qui comincia il sogno da cui riceverete la strenna.
            Cari giovani, sognai che era giorno di festa, dopo pranzo, nelle ore di ricreazione e voi eravate intenti a divertirvi in mille modi. Mi parve di essere nella mia camera col Cav. Vallauri, professore di belle lettere: avevamo discorso di parecchie cose letterarie e di altre riguardanti la religione, quando improvvisamente sento all’uscio un ticc, tacc di chi bussava.
Corro a vedere. Era mia madre, morta da sei anni, che affannata mi chiamava.
            – Vieni a vedere, vieni a vedere.
            – Che c’è? risposi.
            – Vieni, vieni! replicò.
            A queste istanze mi portai sul balcone ed ecco in cortile vedo in mezzo ai giovani un elefante di smisurata grandezza.
            – Ma come va? esclamai! Corriamo sotto! E sbigottito mi rivolgeva al Cav. Vallauri, ed egli a me, come per interrogarci in qual modo fosse entrata quella belva mostruosa. Scendemmo tosto precipitosi nel porticato col professore.
            Molti di voi, come è naturale, erano accorsi a vederla. Quell’elefante sembrava mite, docile: si divertiva correndo coi giovani; li accarezzava colla proboscide: era tanto intelligente che obbediva ai comandi, come se fosse stato ammaestrato ed allevato qui nell’Oratorio dalla sua prima età, di modo che era sempre seguito ed accarezzato da un gran numero di giovani. Non tutti però eravate intorno a lui vidi che la maggior parte spaventati fuggivate qua e là, cercando un luogo ove ricoverarvi e infine vi siete rifugiati in Chiesa. Io pure cercai d’entrarvi per l’uscio che mette nel cortile; ma nel passare vicino alla statua della Vergine, collocata presso la pompa, avendo io toccato l’estremità del suo manto, come in segno d’invocarne il patrocinio, essa alzò il braccio destro. Vallauri volle imitare il mio atto dall’altra parte e la Vergine mosse il braccio sinistro.
            Io rimasi sorpreso non sapendo come spiegare un fatto così straordinario.
            Venne intanto l’ora delle sacre funzioni e voi, o giovanetti, andaste tutti in Chiesa, lo pure entrai, e vidi l’elefante ritto in fondo vicino alla porta. Si cantarono i vespri, e dopo la predica andai all’altare assistito dal Sac. D. Alasonatti e da D. Savio per impartire la benedizione col SS. Sacramento. Ma nel momento solenne nel quale tutti erano profondamente inchinati ad adorare il Santo dei santi, vidi sempre al fondo della Chiesa, in mezzo al passaggio, fra le due file dei banchi, l’elefante inginocchiato e inchinato in senso inverso, col muso cioè e le orribili zane rivolte alla porta principale.
            Terminate le funzioni io voleva subito uscire nel cortile per osservare ciò che avvenisse, ma trattenuto da alcuno in sacrestia che bramava darmi qualche avviso, dovetti indugiare.
            Esco dopo breve tempo, sotto i portici e voi nel cortile per incominciare i divertimenti come prima. L’elefante uscito di chiesa si avanzò nel secondo cortile intorno al quale sono in costruzione gli edifizi. Notate bene questa circostanza, poiché in quel cortile, accadde la scena straziante che ora vi descriverò.
            In quel mentre là al fondo compariva uno stendardo, su cui stava scritto a caratteri cubitali: Sancta Maria succurre miseris (Santa Maria, soccorri i miseri) e lo seguivano i giovani processionalmente. Quando a un tratto, all’impensata di tutti, vidi quel brutto animale, che prima pareva tanto gentile, avventarsi con furiosi barriti in mezzo agli alunni circostanti e prendendo i più vicini colla proboscide scagliarli in alto, sfracellarli sbattendoli in terra, e coi piedi farne uno strazio orrendo. Tuttavia quelli che erano siffattamente maltrattati non rimanevano morti, ma in uno stato da poter guarire, quantunque le ferite fossero orribili. Era un fuggi fuggi generale; chi gridava, chi piangeva, e chi ferito invocava l’aiuto dei compagni: mentre, cosa straziante, alcuni giovani risparmiati dall’elefante, invece di aiutare e soccorrere i feriti, avevano fatta alleanza col mostro per procacciargli altre vittime.
            Mentre avvenivano queste cose (ed io mi trovava nel secondo arco del porticato presso la pompa) quella statuetta che vedete là (indicava la statua della SS. Vergine) si animò e s’ingrandì, divenne persona di alta statura, alzò le braccia ed aperse il manto, nel quale erano intessute con arte stupenda molte iscrizioni. Questo poi si allargò smisuratamente tanto, da coprire tutti coloro che vi si ricoveravano sotto: quivi erano sicuri della vita, pel primo un numero scelto dei più buoni corse a quel rifugio. Ma vedendo Maria SS. che molti non si prendevano cura di affrettarsi a Lei, gridava ad alta voce: Venite ad me omnes (Venite a me, tutti), ed ecco che cresceva la folla dei giovanetti sotto il manto che sempre si allargava. Alcuni però invece di ricoverarsi sotto il manto, correvano da una parte all’altra e venivano feriti prima che fosse loro dato di ripararsi al sicuro. La Vergine SS. affannata, rossa in viso, continuava a gridare, ma più rari si vedevano quelli i quali correvano a Lei. L’elefante seguitava la strage e parecchi giovani, che maneggiando una spada, chi due, sparsi qua e là, impedivano ai compagni, che ancora si trovavano nel cortile, col minacciarli e col ferirli, di andare a Maria. E costoro l’elefante non li toccava menomamente.
            Alcuni dei giovani ricoverati vicino a Maria e da lei incoraggiati, facevano intanto rapide scorrerie. Strappavano all’elefante qualche preda e trasportavano il ferito sotto il manto della statua misteriosa e quegli subito restava guarito. E quindi ripartivano correndo a nuove conquiste. Varii armati di bastone allontanavano l’elefante dalle sue vittime, e si opponevano ai suoi complici. E non cessarono, anche a rischio della loro vita da quel lavoro, finché quasi tutti li ebbero seco loro condotti in salvo.
            Il cortile ormai era deserto. Alcuni erano distesi a terra pressoché morti. Da una parte presso i portici una moltitudine di fanciulli sotto il manto della Vergine. Dall’altra in distanza l’elefante col quale erano rimasti solamente un dieci o dodici giovani, che lo avevano coadiuvato a far tanto male e che insolentemente imperterriti brandivano le spade.
            Quand’ecco quell’elefante sollevatosi sulle gambe posteriori, cambiarsi in un fantasma orribile con lunghe corna; e preso un nero copertone o rete che fosse, avviluppò quei miseri, che avevano parteggiato con lui, e mandò un ruggito, Allora un denso fumo tutti li involse e si sprofondarono e sparirono col mostro in una voragine improvvisamente apertasi sotto i loro piedi.
            Terminata questa orrenda scena mi guardai attorno per esporre qualche mia riflessione a mia madre ed al Cav. Vallauri, ma più non li vidi.
            Mi rivolsi a Maria, desideroso di leggere le iscrizioni, che apparivano intessute sovra il suo manto e vidi che parecchie erano tratte letteralmente dalla Sacra Scrittura e altre pure scritturali, ma alquanto modificate. Ne lessi alcune: Qui elucidant me vitám aeternam habebunt (Chi mi fa conoscere avrà la vita eterna, Sir. 24,31), Qui me invenerit inveniet vitam (Chi trova me, trova la vita, Pr. 8,35), Si quis est parvulus veniat ad me (Chi è piccolo venga a me, Pr. 9,4), Refugium peccatorum (Rifugio dei peccatori), Salus credentium (Salvezza dei credenti), Plena omnis pietatis, mansuetudinis et misericordiae (Piena di ogni pietà, mitezza e misericordia), Beati qui custodiunt vias meas (Beati quelli che seguono le mie vie, Pr. 8,32)
            Dopo la scomparsa dell’elefante tutto era tranquillo. La Vergine pareva quasi stanca dal suo lungo gridare. Dopo breve silenzio, rivolse ai giovani belle parole di conforto, di speranza; e, ripetendo quelle parole che là vedete sotto quella nicchia, fatte scrivere da me: Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt, disse:
            – Voi che avete ascoltata la mia voce, e siete sfuggiti dalla strage del demonio, avete veduto ed avete potuto osservare quei vostri compagni sfracellati. Volete sapere quale è la cagione della loro perdita? Sunt colloquia prava (sono le conversazioni sbagliate); sono i cattivi discorsi contro la purità, quelle opere disoneste che tennero immediatamente dietro ai cattivi discorsi. Avete pur veduto quei vostri compagni armati colla spada: ecco quelli che cercano la vostra dannazione, allontanandovi da me e che cagionarono la perdita di tanti vostri condiscepoli. Ma quos diutius expectat durius damnat (coloro che Dio aspetta con più pazienza, più rigorosamente poi punisce, se restano ingrati). Quelli che Dio più a lungo aspetta più severamente punisce: e quel demonio infernale avviluppatili, seco li condusse all’eterna perdizione. Ora voi andatevene tranquilli ma ricordatevi delle mie parole: Fuggite quei compagni amici di Satana, fuggite i cattivi discorsi specialmente contro la purità abbiate in me una illimitata confidenza ed il mio manto vi sarà sempre sicuro rifugio.
            Dette queste ed altre simili parole, si dileguò e null’altro rimase al solito posto, se non la nostra cara statuetta. Allora mi vidi ricomparire la defunta mia madre, di bel nuovo si innalzò lo stendardo colla scritta: Sancta Maria succurre miseris; tutti i giovani si ordinarono dietro a questo in processione ed intonarono il canto “Lodate Maria, o lingue fedeli”.
            Ma non andò molto che il canto incominciò ad illanguidirsi, poi svanì tutto quello spettacolo ed io mi svegliai bagnato interamente di sudore. Ecco! Questo è quanto ho sognato.
            O figli miei; ricavate voi stessi la strenna: chi era sotto il manto chi era gettato in alto dall’elefante, e chi aveva la spada se ne accorgerà dall’esaminare la propria coscienza. Io non vi ripeto che le parole della Vergine SS.: Venite ad me omnes; ricorrete tutti a Lei, in ogni pericolo invocate Maria e vi assicuro che sarete esauditi. Del resto pensino coloro che furono sì maltrattati dalla belva a fuggire i cattivi discorsi, i cattivi compagni; e quelli che cercavano di allontanare gli altri da Maria, o mutino vita o partano subito da questa Casa. Chi poi vorrà sapere il posto che teneva, venga da me anche nella mia camera, ed io glielo manifesterò. Ma lo ripeto; i ministri di Satana o cambiare o partire. Buona notte!
            Queste parole furono pronunziate con tanta unzione e commozione di cuore, che i giovani meditando tal sogno per una settimana più non lo lasciarono in pace. Al mattino molte confessioni, dopo pranzo quasi tutti da lui per sapere qual luogo tenessero in quel sogno misterioso.
            E che non fosse sogno, ma visione, lo aveva pure indirettamente affermato D. Bosco stesso, dicendo:
            “- Quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo ecc…Soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi…” e poi col proibire che fece qualunque scherzo intorno a questa narrazione.
            Ma vi è ancora di più.
            Questa volta egli stesso scriveva in un foglietto il nome degli alunni, che nel sogno aveva visti feriti, di quelli che maneggiavano una spada, e di altri che ne maneggiavano due: e lo consegnò a D. Celestino Durando, dandogli incarico di sorvegliarli. D. Durando ci trasmise questa lista e l’abbiamo sottocchio. I feriti sono 13 quelli probabilmente che non furono ricoverati sotto il manto della Madonna, quelli che avevano una spada erano diciassette; quelli che ne avevano due si riducevano a tre. Qualche nota a fianco di un nome indica mutazione di condotta. Si osservi ancora che il sogno, come vedremo, non rappresentava solamente il tempo presente, ma riguardava anche il futuro.
            Ma soprattutto che questo sogno abbia dato nel segno lo comprovarono gli stessi giovani. Uno di questi riferiva: “Non credevo che D. Bosco così mi conoscesse; mi ha manifestato lo stato dell’anima mia, le tentazioni cui sono soggetto con tale precisione, che nulla potrei aggiungere. Due altri giovani cui D. Bosco aveva detto che portavano la spada – Ah! sì, è vero, dicevano, è molto tempo che me ne sono accorto; lo sapeva anch’io. E mutarono condotta.
            “Un giorno dopo pranzo egli parlava del suo sogno, e dopo di aver riferito come alcuni già erano partiti ed altri dovevano partire per allontanare la loro spada dalla Casa, venne a discorrere della sua furberia, come egli diceva, ed a tal proposito riferiva questo fatto. – Un giovane scriveva, è poco tempo, a casa sua appioppando alle persone dell’Oratorio più degne di stima, come a superiori e a preti, gravi calunnie ed insulti. Temendo che D. Bosco potesse vedere quel foglio, cercò, studiò finché gli fu possibile impostarlo senza, che alcuno lo sapesse. La lettera partì. Dopo pranzo lo mandai a chiamare: si presenta nella mia camera ed io, dopo di avergli mostrato il suo fallo, lo interrogava che cosa lo avesse indotto a scrivere tante menzogne. Egli negò sfacciatamente il fatto, io lo lasciai parlare, poscia, cominciando dalla prima parola, gli recitai tutta la lettera. Confuso allora e spaventato, piangendo si gettò ai miei piedi, dicendo: – Non è dunque andata la mia lettera? – Sì, gli risposi, a quest’ora sarà a casa tua, ma pensa tu di ripararvi. – Gli alunni lo interrogarono in qual modo avesse ciò saputo. – Oh! la mia furbizia, rispose ridendo …”.
            Questa furbizia doveva essere quella stessa del sogno, il quale riguardava non solo il presente stato, ma la vita futura di ciascun giovane, uno dei quali, in stretta relazione con Don Rua, cosi gli scriveva molti anni dopo. Si noti che il foglio porta il nome e cognome dello scrivente, col titolo della strada e il numero della sua abitazione in Torino.

Carissimo D. Rua,

            Fra le altre cose mi ricordo di una visione, che D. Bosco ebbe nel 1863, mentre io era ritirato nella sua casa; nella quale vide la vita fu tura di tutti i suoi, e raccontataci da lui stesso dopo le orazioni della sera. Fu il sogno dell’elefante. (Qui descritto quanto sopra abbiamo esposto, continua): Don Bosco terminata la sua narrazione ci disse:
            – Se voi desiderate sapere dove vi siete trovati venite da me nella mia camera, ed io ve lo dirò.
            Dunque anch’io andai.
            – Tu, mi disse, eri uno di coloro che correvi appresso all’elefante prima e dopo le funzioni, quindi naturalmente fosti sua preda; fosti lanciato in alto colla proboscide e cadendo rimanesti malconcio in modo, che non potevi più fuggire, ancorché facessi ogni sforzo. Quando un tuo compagno sacerdote, a te incognito, viene ti prende per un braccio e ti trasporta sotto il manto della Madonna. Fosti salvo.
            Questo non sogno, come diceva D. Bosco, ma vera rivelazione del futuro che il Signore faceva al suo Servo, avvenne nel secondo anno che io era nell’Oratorio, in un tempo che io era di esempio ai miei compagni sì nello studio che nella pietà; eppure Don Bosco mi vide in quello stato.
            Vennero le vacanze scolastiche del 1863. Andai in vacanza per motivi di salute e non ritornai più all’Oratorio. Aveva 13 anni compiuti. L’anno seguente il mio padre mi mise ad imparare il mestiere da calzolaio. Due anni dopo (1866) mi recai in Francia per ultimare d’imparare il mio mestiere. Quivi m’incontrai con gente settaria e poco per volta lasciai la Chiesa e le pratiche religiose, principiai a leggere libri scettici ed arrivai al punto di abborrire la S. Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, come la più pestifera delle religioni.
            Dopo due anni ritornai in patria e qui pure continuai sempre a leggere libri empii e sempre più lui allontanavo dalla vera Chiesa.
            In tutto questo tempo però non ho mai tralasciato di pregare il Signore Iddio Padre a nome di G. C., affinché mi illuminasse e mi facesse conoscere la vera religione.
            Durarono questi tempi ben 13 anni, durante i quali io faceva ogni sforzo per rialzarmi, ma era ferito, era preda dell’elefante, non mi poteva muovere.
            Sul finire dell’anno 1878 si diede una missione spirituale in una parrocchia. Molti intervenivano a queste istruzioni ed anch’io cominciai ad andarci tanto per sentire quei “famosi oratori”.
            Trovai tutte cose belle, verità incontestabili, e finalmente l’ultima predica che trattava appunto del SS. Sacramento, ultimo punto e principale che mi restava in dubbio (poiché io non credeva più alla presenza di G. C. nel SS. Sacramento, né reale, né spirituale) seppe l’oratore sì bene spiegare la verità, confutare gli errori e convincermi, che io tocco dalla grazia del Signore mi decisi a fare la mia confessione e ritornare sotto il manto della B. Vergine. D’allora in poi non tralascio più di ringraziare Dio e la B. Vergine della grazia ricevuta.
            Noti bene che a compimento della visione, seppi poi che quell’oratore missionario era mio compagno nell’Oratorio di D. Bosco.
            Torino, 25 febbraio 1891.

DOMENICO N…

P.S. – Se la S. V. Rev. crede bene di pubblicare questa mia, Le do ampia facoltà anche di ritoccarla, purché non si scambi il senso essendo questa la pura verità. Rispettosamente Le bacio la mano, caro Don Rua, intendendo con questo bacio di baciare quella del nostro amato D. Bosco.

            Ma da questo sogno D. Bosco aveva certamente ricevuto eziandio lume per poter giudicare le vocazioni allo stato religioso o ecclesiastico, le attitudini degli uni e degli altri nel fare in vario modo il bene. Aveva visti quei coraggiosi che affrontavano l’elefante e i suoi partigiani per salvare i compagni e strappar loro i feriti per portarli sotto il manto della Madonna. Egli perciò continuava ad accogliere le domande di quelli fra costoro, che desideravano far parte della Pia Società, oppure ad ammetterli, essendo già ascritti, a pronunciare i voti triennali. E per loro sarà in eterno titolo onorifico la scelta che ne fece D. Bosco. Una parte di questi non pronunciò i voti o compiuta la triennale promessa, uscì dall’Oratorio; ma è un fatto che questi perseverarono quasi tutti nella, loro missione di salvare ed istruire la gioventù o come preti in diocesi o come professori secolari nelle regie scuole.
            I loro nomi stanno nei tre seguenti verbali del Capitolo Salesiano.
(MBVII, 356-363)




Un pergolato di rose (1847)

I sogni di don Bosco sono doni dall’Alto per orientare, avvertire, correggere, incoraggiare. Alcuni di loro sono stati fissati per iscritto e si sono conservati. Uno di questi – fatto all’inizio della missione del santo dei giovani – è quello del pergolato di rose, fatto nel 1847. Lo presentiamo integralmente.

            Nel 1864 una sera dopo le orazioni radunava a conferenza nella sua anticamera, come era solito a fare di quando in quando, coloro che già appartenevano alla sua Congregazione: tra i quali D. Alasonatti Vittorio, D. Michele Rua, D. Cagliero Giovanni, D. Durando Celestino, D. Lazzero, Giuseppe e D. Barberis Giulio. Dopo aver loro parlato del distacco dal mondo e dalle proprie famiglie per seguire l’esempio di N. S. Gesù Cristo, continuò in questi termini:
            Vi ho già raccontato diverse cose in forma di sogno, dalle quali possiamo argomentare quanto la Madonna SS. ci ami e ci aiuti; ma giacché siamo qui noi soli, perché ognuno di noi abbia la sicurezza essere Maria Vergine che vuole la nostra Congregazione e affinché ci animiamo sempre più a lavorare per la maggior gloria di Dio, vi racconterò non già la descrizione di un sogno, ma quello che la stessa Beata Madre si compiacque di farmi vedere. Essa vuole che riponiamo in Lei tutta la nostra fiducia. Io vi parlo in tutta confidenza, ma desidero che quanto io sono per dirvi, non si propali ad altri della Casa, o fuori dell’Oratorio, affinché non si dia appiglio alle critiche dei maligni.

            Un giorno dell’anno 1847 avendo io molto meditato sul modo di far del bene, specialmente a vantaggio della gioventù, mi comparve la Regina del cielo e mi condusse in un giardino incantevole. Ivi era come un rustico, ma bellissimo e vasto porticato, fatto a forma di vestibolo. Piante rampicanti ne ornavano e fasciavano i pilastri e coi rami ricchissimi di foglie e di fiori protendendo in alto le une verso le altre le loro cime ed intrecciandosi vi stendevano sopra un grazioso velario. Questo portico metteva in una bella via, sulla quale a vista d’occhio si prolungava un pergolato incantevole a vedersi, che era fiancheggiato e coperto da meravigliosi rosai in piena fioritura. Il suolo eziandio era tutto coperto di rose. La Beata Vergine mi disse:
            – Togliti le scarpe!
            E poiché me l’ebbi tolte, soggiunse:
            – Va avanti per quel pergolato: è quella la strada che devi percorrere.
            Fui contento di aver deposto i calzari perché mi avrebbe rincresciuto calpestare quelle rose, tanto erano vaghe. E cominciai a camminare; ma subito sentii che quelle rose celavano spine acutissime, cosicché i miei piedi sanguinavano. Quindi, fatti appena pochi passi, fui costretto a fermarmi e poi a ritornare indietro.
            – Qui ci vogliono le scarpe, dissi allora alla mia guida.
            – Certamente, mi rispose: ci vogliono buone scarpe.
            – Mi calzai e mi rimisi sulla via con un certo numero di compagni, i quali erano apparsi in quel momento, chiedendo di camminar meco. Essi mi tennero dietro sotto il pergolato, che era di una vaghezza incredibile; ma avanzandomi quello appariva stretto e basso. Molti rami scendevano dall’alto e rimontavano come festoni; altri pendevano perpendicolari sopra il sentiero. Dai fusti dei rosai altri rami si protendevano di qua e di là ad intervalli, orizzontalmente; altri formando talora una più folta siepe, invadevano una parte della via; altri serpeggiavano a poca altezza da terra. Erano però tutti rivestiti di rose, ed io non vedeva che rose ai lati, rose di sopra, rose innanzi ai miei passi. Io mentre ancora provava vivi dolori nei piedi e alquanto mi contorceva, toccava le rose di qua e di là e sentii che spine ancora più pungenti stavano nascoste sotto di quelle. Tuttavia andai avanti. Le mie gambe si impigliavano nei rami stesi per terra e ne rimanevano ferite; rimoveva un ramo traversale, che mi impediva la via oppure per schivarlo rasentava la spalliera, e mi pungevo e sanguinavo non solo nelle mani, ma in tutta la persona. Al di sopra le rose che pendevano, celavano pure grandissima quantità di spine, che mi si infiggevano nel capo. Ciò non per tanto, incoraggiato dalla Beata. Vergine proseguii il mio cammino. Di quando in quando però mi toccavano eziandio punture più acute e penetranti, che mi cagionavano uno spasimo ancor più doloroso.
            Intanto tutti coloro, ed erano moltissimi, che mi osservavano a camminare per quel pergolato dicevano: Oh! come D. Bosco cammina sempre sulle rose: egli va avanti tranquillissimo; tutto gli va bene. Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere membra. Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a seguitarmi festanti, allettati dalla bellezza di quei fiori; ma quando si accorsero che si doveva camminare sulle spine pungenti e che queste spuntavano da ogni parte, incominciarono a gridare dicendo: Siamo stati ingannati! Io risposi:
            – Chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indietro: gli altri mi seguano.
            Non pochi ritornarono indietro. Percorso un bel tratto di via, mi rivolsi per dare uno sguardo ai miei compagni. Ma qual fu il mio dolore quando vidi che una parte di questi era scomparsa, ed un’altra parte mi aveva già voltate le spalle e si allontanava. Tosto ritornai anch’io indietro per richiamarli, ma inutilmente, poiché neppure mi davano ascolto. Allora incominciai a piangere dirottamente ed a querelarmi dicendo:
            – Possibile che debba io solo percorrere tutta questa via così faticosa?
            Ma fui tosto consolato. Vedo avanzarsi verso di me uno stuolo di preti, di chierici e di secolari, i quali mi dissero: Eccoci; siamo tutti suoi, pronti a seguirla. Precedendoli mi rimisi in via. Solo alcuni si perdettero d’animo e si arrestarono, ma una gran parte di essi giunse con me alla meta.
            Percorso in tutta la sua lunghezza il pergolato, mi trovai in un altro amenissimo giardino, ove mi circondarono i miei pochi seguaci, tutti dimagriti, scarmigliati, sanguinanti. Allora si levò un fresco venticello e a quel soffio tutti guarirono. Soffiò un altro vento e come per incanto mi trovai attorniato da un numero immenso di giovani e di chierici, di laici coadiutori ed anche di preti, che si posero a lavorare con me guidando quella gioventù. Parecchi li conobbi, di fisonomia, molti non li conosceva ancora.
            Intanto, essendo io giunto ad un luogo elevato del giardino mi vidi innanzi un edifizio monumentale sorprendente per magnificenza di arte, e varcatane la soglia, entrai in una spaziosissima sala, di tale ricchezza che nessuna reggia al mondo può vantarne una eguale. Era tutta sparsa e adorna di rose freschissime e senza spine dalle quali emanava una soavissima fragranza. Allora la Vergine SS., che era stata la mia guida, mi interrogò:
            – Sai che cosa significa ciò che tu vedi ora, e ciò che hai visto prima?
            – No, risposi: vi prego di spiegarmelo.
            Allora Ella mi disse:
            – Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu hai da prenderti della gioventù: tu vi devi camminare colle scarpe della mortificazione. Le spine per terra rappresentano le affezioni sensibili, le simpatie o antipatie umane che distraggono l’educatore dal vero fine, lo feriscono, lo arrestano nella sua missione, gli impediscono di procedere e raccogliere corone per la vita eterna. Le rose sono simbolo della carità ardente che, deve distinguere te e tutti i tuoi coadiutori. Le altre spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete di coraggio. Colla carità e colla mortificazione, tutto supererete e giungerete alle rose senza spine.
            Appena la Madre dì Dio ebbe finito di parlare, rinvenni in me e mi trovai nella mia camera.
            D. Bosco, che aveva intesa la qualità del sogno, concludeva affermando che dopo quel tempo vedeva benissimo la strada che doveva percorrere, che le opposizioni e le arti colle quali si tentava di arrestarlo, gli erano già palesi e che sebbene molte dovessero essere le spine tra le quali aveva da camminare, era certo, sicuro della volontà di Dio e del riuscimento della sua grande intrapresa.
            Con questo sogno D. Bosco era avvisato eziandio di non scoraggiarsi per le defezioni che sarebbero avvenute fra coloro che parevano destinati a coadiuvarlo nella sua missione. I primi che si allontanano dal pergolato, sono i preti diocesani ed i secolari, che sul principio si erano consacrati all’Oratorio festivo. Gli altri che sopraggiungono, rappresentano i Salesiani, ai quali è promesso l’aiuto e il conforto divino, figurato dal soffiare del vento. Più tardi D. Bosco manifestò essersi ripetuto questo sogno o visione in anni diversi, cioè nel 1848 e nel 1856, e che ogni volta gli si presentava con. qualche variazione di circostanze. Noi qui le abbiamo collegate in un solo racconto, per non dar luogo a superflue ripetizioni.
(MB III, 32-36)




L’inondazione e la zattera salvatrice (1886)

Nessuno può salvarsi da solo dalla furia delle acque nelle grandi inondazioni. Tutti hanno bisogno di un soccorritore che lo prendano sulle loro barche. Chi non sale sulla barca rischia di essere travolto dalle acque impetuose. Don Bosco capi un senso più profondo nel suo sogno, quello della zattera salvatrice, e lo trasmesse ai suoi giovani.


            Don Bosco adunque, innanzi alla moltitudine dei suoi giovani, così parlò il lunedì a sera, primo giorno del 1866.

            Mi parva di trovarmi poco distante da un paese che all’aspetto mi pareva Castelnuovo d’Asti, ma non lo era. I giovani tutti dell’Oratorio allegramente si ricreavano in un’immensa prateria; quand’ecco all’improvviso si vedono le acque comparire sui margini di quella pianura, e ci vedemmo da ogni parte circondati da una inondazione, la quale cresceva a misura che si avanzava verso noi. Il Po era straripato e immensi e desolanti torrenti traboccano dalle sue sponde.
            Noi, sopraffatti da terrore, la demmo a gambe alla volta di un grande molino isolato, distante da altre abitazioni colle mura grosse come quelle di una fortezza; ed io feci sosta nel suo cortile in mezzo ai miei cari giovani costernati. Ma le acque incominciando a penetrare anche in quell’area, fummo costretti a ritirarci tutti in casa e poi a salire nelle stanze superiori. Dalle finestre si vedeva l’estensione del disastro. Dai colli di Superga alle Alpi, invece di prati, campi coltivati, orti, boschi, cascine, villaggi, città, non si scorgeva più altro che la superficie di un lago immenso. A misura che l’acqua cresceva, noi montavamo da un piano all’altro. Perduta ogni umana speranza di salvarci, presi ad incoraggiare i miei cari, dicendo che si mettessero tutti con piena fiducia nelle mani di Dio e nelle braccia della nostra cara madre Maria.
            Ma l’acqua già era quasi al livello dell’ultimo piano. Allora lo spavento fu universale ed altro scampo non vedemmo che ritirarci in una grandissima zattera, in forma di nave, apparsa in quell’istante, che galleggiava vicino a noi. Ognuno respirando affannosamente voleva essere il primo a rifugiarvisi, ma nessuno osava, perché non si poteva avvicinare il barcone alla casa a cagione di un muro che emergeva un po’ più alto del livello delle acque. Poteva però prestare un sol mezzo al tragitto un lungo e stretto tronco di albero: ma era tanto più difficile il passaggio in quanto che quel tronco poggiando per una estremità sulla barca, si moveva seguendo il beccheggio della barca stessa, agitata dalle onde.
            Fattomi coraggio vi passai per il primo e, per facilitare il trasbordo ai giovani e tranquillarli, stabilii chierici e preti che dal molino sorreggessero alquanto chi partiva, e dal barcone dessero mano a chi arrivava. Ma caso singolare! Dopo un po’ di quel lavoro, i chierici e i preti si trovavano così stanchi che chi qua, chi là cadevano di sfinimento; e quelli che li surrogavano correvano la medesima sorte. Meravigliato anche io volli pormi alla prova ed io pure mi sentii cosi spossato da non potermi più reggere.
            Intanto molti giovani impazienti, sia per timore della morte, sia per mostrarsi coraggiosi, trovato un pezzo di asse lungo abbastanza e un po’ più largo del tronco d’albero, ne fecero un secondo ponte e, senza aspettare l’aiuto dei chierici e dei preti, precipitosi stavano per slanciarvisi non dando ascolto alle mie grida.
            — Cessate, cessate, se no cadrete! — io gridava; ed avvenne che molti, o urtati, o perdendo l’equilibrio, prima di arrivare alla barca, caddero e ingoiati da quelle torbide e putride acque più non si videro. Anche il fragile ponte si era sprofondato con quanti gli stavano sopra. E si grande fu il numero di quei disgraziati che un quarto de’ nostri giovani restò vittima del loro capriccio.
            Io che fino allora aveva tenuto ferma l’estremità del tronco d’albero mentre i giovani vi montavano sopra, accortomi che l’inondazione aveva superato l’ostacolo di quella muraglia, trovai modo di spingere la zattera presso il molino. Qui stava D. Caglierò il quale, con un piede sulla finestra e coll’altro sull’orlo della barca, vi fece saltare i giovani rimasti in quelle camere, dando loro la mano e mettendoli in sicuro sulla zattera.
            Ma non tutti i giovani erano ancora salvati. Un certo numero erano ascesi nelle soffitte e di qui sul tetto, ove si erano aggruppati sul colmo stretti gli uni agli altri, mentre l’inondazione, crescendo sempre senza fermarsi un istante, copriva già le grondaie ed una parte delle sponde del tetto. Ma coll’acqua era pur salita la barca ed io vedendo quei poveretti in cosi orribile frangente, gridai loro che pregassero di cuore, che stessero zitti, che scendessero uniti, legati insieme colle braccia per non scivolare. Obbedirono, e siccome il fianco della nave era aderente alla grondaia, aiutati dai compagni vennero essi pure a bordo. Qui si vedeva una grande quantità di pani, custoditi in molti canestri.
            Quando furono tutti sulla barca, incerti ancora di uscire da quel pericolo, presi il comando di capitano e dissi ai giovani:
            — Maria è la Stella del mare. Essa non abbandona chi in Lei confida: mettiamoci tutti sotto il suo manto; Ella ci scamperà dai perigli e ci guiderà a porto tranquillo.
            Quindi abbandonammo ai flutti la nave, che galleggiava ottimamente e si muoveva, allontanandosi da quel luogo (Facta est quasi navis institoris, de longe portans panem suum). L’impeto delle onde agitate dal vento la spingeva con tale velocità, che noi abbracciati l’un l’altro facemmo un sol corpo per non cadere.
            Percorso molto spazio in brevissimo tempo, tutt’a un tratto la barca si fermò e si mise a girare attorno a sé stessa con straordinaria rapidità, sicché pareva dovesse affondarsi. Ma un soffio violentissimo la spinse fuori del vortice. Prese quindi un corso più regolare e ripetendosi ogni tanto qualche mulinello e il soffio del vento salvatore, andò a fermarsi vicino ad una ripa asciutta, bella e vasta che sembrava ergersi come una collina in mezzo a quel mare.
            Molti giovani se ne invaghirono e dicendo che il Signore aveva posto l’uomo sulla terra e non sulle acque, senza domandarne il permesso, uscirono dalla barca giubilando, e, invitando ancor altri a seguirli, ascesero su quella ripa. Breve fu il loro contento, perché gonfiandosi di nuovo le acque, per un subito infuriare della tempesta invasero le falde di quella bella ripa, e in breve gettando grida disperate quegli infelici si trovarono nell’acqua fino ai fianchi; e poi capovolti dalle onde scomparvero. Io esclamai:
            — È proprio vero che chi fa di sua testa, paga di borsa.
            La nave intanto in balia di quel turbine minacciava di nuovo di andare a fondo. Vidi allora i miei giovani pallidi in volto e ansanti e: — Fatevi coraggio, gridai loro; Maria non ci abbandonerà. — E unanimi e di cuore recitammo gli atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione, alcuni Pater ed Ave e la Salve Regina; quindi, ginocchioni, tenendoci per mano gli uni cogli altri recitavamo ciascuno particolari preghiere. Però parecchi insensati, indifferenti a quel pericolo, quasi nulla fosse avvenuto, alzatisi in piedi e dimenandosi, si aggiravano or qua or là, sghignazzando fra di loro e burlandosi quasi degli atteggiamenti supplichevoli dei loro compagni. Ed ecco che si arresta all’improvviso la nave, e gira con rapidità su sé stessa, e un vento furioso sbatte nelle onde quei sciagurati. Erano trenta, ed essendo l’acqua profonda e melmosa appena vi furono dentro, più nulla si vide di loro. Noi intonammo la Salve Regina e più che mai invocammo di cuore la protezione della Stella del mare.
            Sopravvenne la calma. Ma la nave, a guisa di un pesce, continuava ad avanzare senza che sapessimo ove ci avrebbe condotti. A bordo ferveva continuamente e in varie guise un’opera di salvazione. Si faceva di tutto per impedire ai giovani di cadere nelle acque e per salvarne i caduti. Poiché vi erano di quelli che sporgendosi incautamente dalle basse sponde della zattera cadevano nel lago; e ve ne erano altri sfacciati e crudeli che, chiamando alcuni compagni vicino alle sponde, con un untone li gettavano giù. Perciò vari preti preparavano canne robuste, grosse lenze, ed ami di varie specie. Altri attaccavano gli ami alle canne e li distribuivano a questi e a quelli: altri già si trovavano al loro posto colle canne alzate, follo sguardo fisso sulle onde, e attenti al grido di soccorso. Appena cadeva un giovane le canne si abbassavano e il naufrago si afferrava alla lenza, oppure coll’amo restava uncinato nella cintura o nelle vesti e cosi veniva tratto in salvo. Ma anche fra i deputati alla pesca alcuni disturbavano e impedivano i pescatori e coloro che preparavano e distribuivano gli ami. I chierici poi vigilavano tutt’intorno per tenere indietro i giovanetti che erano ancora una moltitudine.
            Io stava ai piedi di un alto pennone piantato nel centro, circondato da moltissimi giovani e da preti e chierici che eseguivano gli ordini miei. Fintantoché furono docili ed obbedienti alle mie parole, tutto andava bene: eravamo tranquilli, contenti, sicuri. Ma non pochi incominciarono a trovar incomoda quella zattera, a temere il viaggio troppo lungo, a lamentarsi de’ disagi e pericoli di quella traversata, a disputare sul luogo ove avremmo approdato, a pensare al modo di trovare altro rifugio, ad illudersi colla speranza che poco lungi vi fosse terra nella quale troverebbero sicuro ricovero, a dubitare che presto sarebbero mancate le vettovaglie, a questionare fra di loro, a rifiutarmi obbedienza. Invano io cercava di persuaderli colle ragioni.
            Ed ecco in vista altre zattere le quali avvicinandosi sembrava tenessero un corso diverso dal nostro, e quegli imprudenti deliberarono di secondare i loro capricci, di allontanarsi da me e di fare a loro modo. Gettarono nelle acque alcune tavole che erano nella nostra zattera e scopertene altre abbastanza larghe che galleggiavano non molto discosto, vi saltarono sopra e si allontanarono alla volta delle zattere apparse. Fu una scena indescrivibile e dolorosa per me: vedeva quegli infelici che andavano incontro alla rovina. Soffiava il vento, i flutti erano agitati: ed ecco alcuni si sprofondarono sotto di questi che si sollevavano e abbassavano furiosamente: altri furono involti tra le spire dei vortici e trascinati negli abissi: altri urtarono in ostacoli a fior d’acqua e capovolti sparirono: parecchi riuscirono a salir sulle zattere le quali però non tardarono a sommergersi. La notte si fece oscura e buia: e in lontananza si udiva le grida strazianti di coloro che perivano. Naufragarono tutti. In mare mundi submergentur omnes illi quos non suscipit navis ista, cioè la nave di Maria SS.ma.
            Il numero dei miei cari figliuoli era diminuito di molto; ciò non ostante continuando a confidare nella Madonna, dopo un intiera notte tenebrosa la nave entrò finalmente come in una specie di stretto angustissimo, tra due sponde limacciose, coperte da cespugli, e grosse schegge, ciottoli, pali, fascine, assi spezzate, antenne, remi. Tutto intorno alla barca si vedevano tarantole, rospi, serpenti, dragoni, coccodrilli, squali, vipere e mille altri animali schifosi. Sopra salici piangenti, i cui rami pendevano sopra la nostra barca, stavano gattoni di forma singolare che sbranavano pezzi di membra umane; e molti scimmioni che penzolando dai rami si sforzavano di toccare e arroncigliare i giovani; ma questi curvandosi impauriti schivavano quelle insidie.
            Fu colà, in quel greto, che rivedemmo con grande sorpresa ed orrore i poveri compagni perduti, o che avevano disertato da noi. Dopo il naufragio, erano stati gettati dalle onde su quella spiaggia. De membra di alcuni erano state fatte a pezzi per l’urto violentissimo contro gli scogli. Altri era sotterrato nel padule e non se ne vedevano che i capelli e la metà di un braccio. Qui sporgeva dal fango un dorso, più in là una testa: altrove galleggiava interamente visibile qualche cadavere.
            A un tratto si ode la voce di un giovane della barca, il quale grida: — Qui è un mostro che divora le carni del tale dei tali!
            E chiama ripetutamente per nome quel disgraziato, additandolo ai compagni esterrefatti.
            Ma ben altro spettacolo si presentava ai nostri occhi. A poca distanza si innalzava una gigantesca fornace nella quale divampava un fuoco grande e ardentissimo. In questo apparivano forme umane e si vedevano piedi, gambe, braccia, mani, teste, ora salire ora discendere tra quelle fiamme, confusamente, nella stessa maniera delle civaie nella pentola quando questa bolle. Osservando attentamente, vi scorgemmo tanti nostri allievi e rimanemmo spaventati. Sopra quel fuoco vi era come un gran coperchio, sul quale stavano scritte a grossi caratteri queste parole: —IL SESTO E IL SETTIMO CONDUCONO QUI.
            Là vicino v’era pure ima vasta e alta prominenza di terra con numerosi alberi silvestri disordinatamente disposti ove si muoveva ancora una moltitudine dei nostri giovani, o caduti nelle onde o allontanatisi nel corso del viaggio. Io scesi a terra, non badando al pericolo, mi avvicinai e vidi che avevano gli occhi, le orecchie, i capelli o persino il cuore pieno d’insetti e vermi schifosi che li rosicchiavano, e cagionavano loro grandissimo dolore. Uno di questi soffriva più degli altri; voleva accostarmi a lui, ma egli mi fuggiva nascondendosi dietro gli alberi. Altri ne vidi che aprendo pel dolore gli abiti, mostravano la persona cinta di serpenti: altri avevano in seno delle vipere.
            Additai a tutti una fonte che gettava in gran copia acqua fresca e ferruginosa; chiunque andava a lavarsi in quella guariva all’istante e poteva ritornare alla barca. La maggior parte di quegli infelici ubbidì al mio invito; ma alcuni si rifiutarono. Allora io troncando gli indugi, mi rivolsi a quelli che erano risanati, i quali alle mie istanze mi seguirono con sicurezza, essendosi ritirati i mostri. Appena fummo sulla zattera, questa, spinta dal vento, usci da quello stretto dalla parte opposta a quella per la quale era entrata e si slanciò di nuovo in un oceano senza confini.
            Noi, compiangendo la triste sorte e il fine lagrimevole dei nostri compagni abbandonati in quel luogo, ci mettemmo a cantare: Lodate Maria, o lingue fedeli, in ringraziamento alla gran Madre celeste, di averci sino allora protetti; e sull’istante, quasi al comando di Maria, cessò l’infuriare del vento e la nave prese a scorrere rapida sulle placide onde con una facilità che non si può descrivere. Sembrava che si avanzasse al solo impulso che le davano scherzando i giovani spingendo indietro l’acqua colla palma della mano.
            Ed ecco comparire in cielo un’iride, più meravigliosa e varia di un’aurora boreale, ove passando leggemmo scritta a grossi caratteri di luce la parola MEDOUM, senza intenderne il significato. A me parve però che ogni lettera fosse l’iniziale di queste parole: Mater Et Domina Omnis Universi Maria.
            Dopo un lungo tratto di viaggio, ecco spuntar terra in fondo all’orizzonte, alla quale a poco a poco avvicinandoci sentivamo destarcisi in cuore una gioia inesprimibile. Quella terra, amenissima per boschetti con ogni specie di alberi presentava il panorama più incantevole, perché illuminata come dalla luce del sole nascente alle spalle delle sue colline. Era una luce che brillava ineffabilmente quieta, simile a quella di una splendida sera d’estate, che infondeva un senso di riposo e di pace.
            E finalmente urtando contro le sabbie del lido e strisciando su di esse la zattera si fermò all’asciutto ai piedi di una bellissima vigna. Si può ben dire di questa zattera: Eam tu Deus pontem fecisti, quo a mundi fluctibus trajicientes ad tranquillum portum tuum deveniamus.
            I giovani erano desiderosi di entrare in quella vigna ed alcuni curiosi più degli altri con un salto furono sul lido. Ma fatti appena alcuni passi ricordandosi della sorte disgraziata toccata a quei primi che s’invaghirono della ripa posta in mezzo al mare burrascoso, frettolosi ritornarono alla barca.
            Gli occhi di tutti erano a me rivolti e sulla fronte di ognuno si leggeva la domanda:
            — D. Bosco, è tempo di discendere e fermarci?
            Io prima riflettei alquanto e poi dissi loro: — Discendiamo: è giunto il tempo: ora siamo in sicuro!
            Fu mi grido generale di gioia! ed ognuno stropicciandosi le mani per la contentezza, entrò in quella vigna disposta col massimo ordine. Dalle viti pendevano grappoli di uva simili a quelli della terra promessa e sugli alberi era ogni sorta di frutti che possono desiderarsi nella bella stagione, di un gusto mai più sentito. In mezzo a quella vastissima vigna sorgeva un gran castello attorniato da un delizioso e regale giardino e da forti mura.
            Volemmo il passo a quella volta per visitarlo, e ci fu concessa libera entrata. Eravamo stanchi ed affamati ed in un’ampia sala tutta guernita d’oro stava apparecchiata per noi una gran tavola con ogni sorta di cibi i più squisiti, di cui ognuno poté servirsi a piacimento. Mentre finivamo di rifocillarci entrò nella sala un nobile garzone, riccamente vestito, di un’avvenenza indescrivibile, il quale con affettuosa e familiare cortesia ci salutò chiamandoci tutti per nome. Vedendoci stupiti e meravigliati per la sua bellezza e per quella di tante cose già osservate, ci disse: — Questo è niente; venite e vedrete.
            Noi tutti gli tenemmo dietro e dai parapetti delle logge ci fece contemplare i giardini, dicendoci che di quelli eravamo padroni noi per le nostre ricreazioni. E ci condusse di sala in sala, una più magnifica dell’altra per architettura, colonnati e ornamenti di ogni specie. Aperta poscia una porta che metteva in una cappella, ci invitò ad entrare. Di fuori la cappella sembrava piccola, ma appena ne valicammo la soglia, la scorgemmo si ampia che da un’estremità all’altra appena ci potevamo vedere. Il pavimento, le mura, le vòlte erano guernite e ricche con mirabile artificio di marmi, di argento, di oro, e di pietre preziose, che io estatico di meraviglia esclamai: — Ma questa è una bellezza di paradiso: faccio patto di rimaner qui per sempre!
            In mezzo a questo gran tempio s’innalzava sovra ricca base una grande, magnifica statua rappresentante Maria Ausiliatrice. Chiamati molti giovani che si erano sparsi qua e là per esaminare la bellezza di quel sacro edificio, tutta la moltitudine si recò innanzi a quella statua per ringraziare la Vergine Celeste dei tanti favori prestatici. Qui mi accorsi dell’immensità di quella chiesa, poiché tutte quelle migliaia di giovani sembravano un piccolo gruppo che occupasse il centro di quella.
            Mentre i giovani stavano mirando quella statua che aveva una vaghezza di fisonomia veramente celeste, ad un tratto essa parve animarsi e sorridere. Ed ecco un mormorio, una commozione tra la folla. —• La Madonna muove gli occhi! — esclamarono alcuni. E infatti Maria SS. girava con ineffabile bontà i suoi occhi materni su quei giovanetti. Poco dopo un secondo grido generale: — La Madonna muove le mani. — E infatti lentamente aprendo le braccia essa sollevava il manto come per accoglierci tutti sotto di quello. Le lagrime scorrevano per forza di commozione sulle nostre guance. — La Madonna muove le labbra! — dissero alcuni. Si fece un silenzio profondo; e la Madonna aperse la bocca e con una voce argentina, soavissima ci diceva:
            — SE VOI SARETE PER ME FIGLIUOLI DEVOTI, IO SARÒ PER VOI MADRE PIETOSA!
            A queste parole cademmo tutti in ginocchio ed intonammo il canto: Lodate Maria, o lingue fedeli.

            Questa armonia era così forte, così soave, che sopraffatto da essa io mi svegliai e cosi terminò la visione.

Don Bosco conchiudeva:
            Vedete, miei cari figliuoli? In questo sogno possiamo riconoscere il mare burrascoso di questo mondo. Se voi sarete docili ed obbedienti alle mie parole e non darete retta ai cattivi consiglieri, dopo esserci affaticati a fare il bene e fuggire il male, vinte tutte le nostre cattive tendenze, arriveremo finalmente sul termine di nostra vita, ad una spiaggia sicura. Allora ci verrà incontro, mandato dalla Madonna SS. chi, a nome del nostro buon Dio, c’introdurrà, per ristorarci delle nostre fatiche, nel suo reale giardino, cioè nel Paradiso, alla amabilissima sua divina presenza. Ma se facendo il contrario di ciò che io vi predico, vorrete scapricciarvi a vostro modo e non dar retta ai miei consigli, farete miserando naufragio.

            Don Bosco dava in circostanze diverse e in privato qualche spiegazione specificata di questo sogno, riguardante non solo l’Oratorio, ma eziandio, come sembra, la Pia Società.
            «Il prato è il mondo; l’acqua che minacciava di affogarci, i pericoli del mondo. L’inondazione cosi terribilmente estesa, i vizi e le massime irreligiose, e le persecuzioni contro i buoni. — Il molino, cioè un posto isolato e tranquillo, ma pur minacciato, la casa del pane, la Chiesa Cattolica. — I canestri di pane, la SS. Eucaristia che serve di viatico ai naviganti. — La zattera, l’Oratorio. — Il tronco d’albero che forma il passaggio dal molino alla barca è la Croce, ossia il sacrificio di sé stesso a Dio colla mortificazione cristiana. — L’asse messo dai giovani, come ponte più agevole per entrare nella barca, è la regola trasgredita. Molti vi entrano con fini strani e bassi: di far carriera, di lucro, di onori, di comodità, di mutar condizione e stato; costoro sono quelli che poi non pregano e che si burlano della pietà altrui. — I Sacerdoti e i chierici simboleggiano l’obbedienza e indicano i portenti di salvezza che con questa riescono ad operare. — I vortici, le varie e tremende persecuzioni che sorsero e sorgeranno. — L’isola che è sommersa, i disobbedienti che non vogliono star sulla barca e rientrano nel mondo sprezzando la vocazione. — Lo stesso si dica di quelli che cercano di rifugiarsi in altre zattere. — Molti caduti nell’acqua porgevano la mano a coloro che stavano sulla barca ed aiutati dai compagni si rimettevano sopra. Erano quelli di buona volontà, che caduti disgraziatamente in peccato si rimettono in grazia di Dio per mezzo della penitenza. — Lo stretto, i gattoni, gli scimmioni e gli altri mostri sono le rivoluzioni, le occasioni e gli allettamenti alla colpa, ecc. — Gli insetti negli occhi, sulla lingua, nel cuore, gli sguardi cattivi, i discorsi osceni, gli affetti disordinati. — La fontana di acqua ferruginosa, che aveva la virtù di far morire tutti gli insetti e di guarire all’istante, sono i Sacramenti della Confessione e della Comunione. — La fanghiglia e il fuoco sono luogo di peccati e di dannazione. E però da osservarsi che ciò non vuol dire che tutti quelli che caddero nella fanghiglia e più non si videro, e tutti quelli che bruciavano tra le fiamme debbano andar’ perduti nell’inferno; no! ci liberi Iddio dal dir questo. Ma vuol dire che quelli si trovavano allora in disgrazia di Dio, e se fossero morti in quel momento sarebbero andati eternamente perduti. — L’isola felice, il tempio, è la Società Salesiana, stabilita e trionfante. E lo splendido garzone che accoglie i giovani e conduce a visitare il palazzo e il tempio sembra essere un alunno defunto in possesso del paradiso, forse Domenico Savio. (MB VIII, 275-283)




La lettera da Roma (1884)

Nell’1884, trovandosi a Roma, pochi giorni prima di tornare a Torino, don Bosco ebbe due sogni che gli trascrisse in una lettera che invio ai suoi amati di Valdocco. È conosciuta come “La lettera da Roma” ed è uno dei testi più studiati e commentati. Proponiamo alla lettura il testo integrale, originale.

Miei carissimi figliuoli in G. C.,

            Vicino o lontano io penso sempre a voi. Un solo è il mio desiderio, quello di vedervi felici nel tempo e nell’eternità. Questo pensiero, questo desiderio mi risolsero a scrivervi questa lettera. Sento, o cari miei, il peso della mia lontananza da voi e il non vedervi e il non sentirvi mi cagiona pena, quale voi non potete immaginare. Perciò io avrei desiderato scrivere queste righe una settimana fa, ma le continue occupazioni me lo impedirono. Tuttavia benché pochi giorni manchino al mio ritorno, voglio anticipare la mia venuta fra voi almeno per lettera, non potendolo di persona. Sono le parole di chi vi ama teneramente in Gesù Cristo ed ha dovere di parlarvi colla libertà di un padre. E voi me lo permetterete, non è vero? E mi presterete attenzione e metterete in pratica quello che sono per dirvi.
            Ho affermato che voi siete l’unico ed il continuo pensiero della mia mente. Or dunque in una delle sere scorse io mi era ritirato in camera, e mentre mi disponeva per andare a riposo, aveva incominciato a recitare le preghiere, che mi insegnò la mia buona mamma.
            In quel momento non so bene se preso dal sonno o tratto fuor di me da una distrazione, mi parve che mi si presentassero innanzi due degli antichi giovani dell’Oratorio.
            Uno di questi due mi si avvicinò e salutatomi affettuosamente, mi disse:
            – O Don Bosco! Mi conosce?
            – Sì che ti conosco, risposi.
            – E si ricorda ancora di me? soggiunse quell’uomo.
            – Di te e di tutti gli altri. Tu sei Valfrè ed eri nell’Oratorio prima del 1870.
            – Dica! continuò quell’uomo, vuol vedere i giovani, che erano nell’Oratorio ai miei tempi?
            – Si, fammeli vedere, io risposi, ciò mi cagionerà molto piacere.
            Allora Valfrè mi mostrò i giovani tutti colle stesse sembianze e colla statura e nell’età di quel tempo. Mi pareva di essere nell’antico Oratorio nell’ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Qui si giuocava alla rana, là a bararotta ed al pallone. In un luogo era radunato un crocchio di giovani, che pendeva dal labbro di un prete, il quale narrava una storiella. In un altro luogo un chierico che in mezzo ad altri giovanetti giuocava all’asino vola ed ai mestieri. Si cantava, si rideva da tutte parti e dovunque chierici e preti, e intorno ad essi i giovani che schiamazzavano allegramente. Si vedeva che fra i giovani e i superiori regnava la più grande cordialità e confidenza. Io era incantato a questo spettacolo, e Valfrè mi disse:
            – Veda, la famigliarità porta affetto e l’affetto porta confidenza. Ciò è che apre i cuori e i giovani palesano tutto senza timore ai maestri, agli assistenti ed ai Superiori. Diventano schietti in confessione e fuori di confessione e si prestano docili a tutto ciò, che vuol comandare colui, dal quale sono certi di essere amati.
            In quell’istante si avvicinò a me l’altro mio antico allievo, che aveva la barba tutta bianca e mi disse:
            – Don Bosco, vuole adesso conoscere e vedere i giovani, che attualmente sono nell’Oratorio?
            Costui era Buzzetti Giuseppe.
            – Sì, risposi io; perché è già un mese che più non li vedo!
            E me lì additò: vidi l’Oratorio e tutti voi che facevate ricreazione, Ma non udiva più grida di gioia e cantici, non più vedeva quel moto, quella vita, come nella prima scena.
            Negli atti e nel viso di molti giovani si leggeva una noia, una spossatezza, una musoneria, una diffidenza, che faceva pena al mio cuore. Vidi, è vero, molti che correvano, giuocavano, si agitavano con beata spensieratezza, ma altri non pochi io ne vedeva, star soli, appoggiati ai pilastri in preda a pensieri sconfortanti; altri su per le scale e nei corridoi o sopra i poggioli dalla parte del giardino per sottrarsi alla ricreazione comune; altri passeggiare lentamente in gruppi parlando sottovoce fra di loro, dando attorno occhiate sospettose e maligne: talora sorridere ma con un sorriso accompagnato da occhiate da far non solamente sospettare, ma credere che S. Luigi avrebbe arrossito se si fosse trovato in compagnia di costoro; eziandio fra coloro che giuocavano ve ne erano alcuni così svogliati, che facevano veder chiaramente, come non trovassero gusto nei divertimenti.
            – Ha visto i suoi giovani? mi disse quell’antico allievo.
            – Li vedo, risposi sospirando.
            – Quanto sono differenti da quelli che eravamo noi una volta! esclamò quell’antico allievo.
            – Pur troppo! Quanta svogliatezza in questa ricreazione!
            – E di qui proviene la freddezza in tanti nell’accostarsi ai santi Sacramenti, la trascuranza delle pratiche di pietà in chiesa e altrove, lo star mal volentieri in un luogo ove la Divina Provvidenza li ricolma di ogni bene pel corpo, per l’anima, per l’intelletto. Di qui il non corrispondere che molti fanno alla loro vocazione; di qui le ingratitudini verso i Superiori; di qui i segretumi e le mormorazioni, con tutte le altre deplorevoli conseguenze.
            – Capisco, intendo, risposi io. Ma come si possono rianimare questi miei cari giovani acciocché riprendano l’antica vivacità, allegrezza, espansione?
            – Colla carità!
            – Colla carità? Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu lo sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato pel corso di ben quaranta anni, e quanto tollero e soffro ancora adesso. Quanti stenti quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni, per dare ad essi pane, casa, maestri e specialmente per procurare la salute delle loro anime. Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l’affetto di tutta la mia vita.
            – Non parlo di lei!
            – Di chi dunque? Di coloro che fanno le mie veci? Dei direttori, prefetti, maestri, assistenti? Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumano i loro anni giovanili per coloro, che ad essi affidò la Divina Provvidenza?
            – Vedo, conosco; ma ciò non basta: ci manca il meglio.
            – Che cosa manca adunque?
            – Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati.
            – Ma non hanno gli occhi in fronte? Non hanno il lume dell’intelligenza? Non vedono che quanto si fa per essi è tutto per loro amore?
            – No; lo ripeto, ciò non basta.
            – Che cosa ci vuole adunque?
            – Che essendo amati in quelle cose che loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a veder l’amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco; quali sono, la disciplina, lo studio, la mortificazione di sé stessi; e queste cose imparino a far con slancio ed amore.
            – Spiegati meglio!
            – Osservi i giovani in ricreazione.
            Osservai e quindi replicai:
            – E che cosa c’è di speciale da vedere?
            – Sono tanti anni che va educando giovani, e non capisce? Guardi meglio! Dove sono i nostri Salesiani?
            Osservai e vidi che ben pochi preti e chierici si mescolavano fra i giovani e ancor più pochi prendevano parte ai loro divertimenti. I Superiori non erano più l’anima della ricreazione. La maggior parte di essi passeggiavano fra di loro parlando, senza badare che cosa facessero gli allievi: altri guardavano la ricreazione non dandosi nessun pensiero dei giovani: altri sorvegliavano così alla lontana senza avvertire chi commettesse qualche mancanza; qualcuno poi avvertiva ma in atto minaccioso e ciò raramente. Vi era qualche Salesiano che avrebbe desiderato intromettersi in qualche gruppo dì giovani, ma vidi che questi giovani cercavano studiosamente di allontanarsi dai maestri e dai Superiori.
            Allora quel mio amico ripigliò:
            – Negli antichi tempi dell’Oratorio lei non stava sempre in mezzo ai giovani e specialmente in tempo di ricreazione? Si ricorda quei belli anni? Era un tripudio di Paradiso, un’epoca che ricordiamo sempre con amore, perché l’affetto era quello che ci serviva di regola; e noi per lei non avevamo segreti.
            – Certamente! E allora tutto era gioia per me e nei giovani uno slancio per avvicinarsi a me, per volermi parlare, ed una viva ansia di udire i miei consigli e metterli in pratica. Ora però vedi come le udienze continue e gli affari moltiplicati e la mia sanità me lo impediscono.
            – Va bene: ma se lei non può perché i suoi Salesiani non si fanno suoi imitatori? Perché non insiste, non esige che trattino i giovani come li trattava lei?
            – Io parlo, mi spolmono, ma pur troppo molti non si sentono più di far le fatiche di una volta.
            – E quindi trascurando il meno, perdono il più e questo PIÙ sono le loro fatiche. Amino ciò che piace ai giovani e i giovani ameranno ciò che piace ai Superiori. E a questo modo sarà facile la loro fatica. La causa del presente cambiamento nell’Oratorio è che un numero di giovani non ha confidenza nei Superiori. Anticamente i cuori erano tutti aperti ai Superiori, che i giovani amavano ed obbedivano prontamente. Ma ora i Superiori sono considerati come Superiori e non più come padri, fratelli ed amici; quindi sono temuti e poco amati. Perciò se si vuol fare un cuor solo ed un’anima sola, per amore di Gesù bisogna che si rompa quella fatale barriera della diffidenza e sottentri a questa la confidenza cordiale. Quindi l’obbedienza guidi l’allievo come la madre guida il suo fanciullino; allora regnerà nell’Oratorio la pace e l’allegrezza antica.
            – Come dunque fare per rompere questa barriera?
            – Famigliarità coi giovani specialmente in ricreazione. Senza famigliarità non si dimostra l’affetto e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza. Chi vuole essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della famigliarità! Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello.
            Se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa né più né meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama. Quante conversioni non cagionarono alcune sue parole fatte risuonare all’improvviso all’orecchio di un giovane mentre si divertiva! Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. Questa confidenza mette una corrente elettrica fra i giovani ed i Superiori. I cuori si aprono e fanno conoscere i loro bisogni e palesano i loro difetti. Questo amore fa sopportare ai Superiori le fatiche, le noie; le ingratitudini, i disturbi, le mancanze, le negligenze dei giovanetti. Gesù Cristo non spezzo la canna già fessa, né spense il lucignolo che fumigava. Ecco il vostro modello. Allora non si vedrà più chi lavorerà per fine di vanagloria; chi punirà solamente per vendicare l’amor proprio offeso; chi si ritirerà dal campo della sorveglianza per gelosia di una temuta preponderanza altrui; chi mormorerà degli altri volendo essere amato e stimato dai giovani, esclusi tutti gli altri superiori, guadagnando null’altro che disprezzo ed ipocrite moine; chi si lasci rubare il cuore da una creatura e per fare la corte a questa trascurare tutti gli altri giovanetti; chi per amore dei propri comodi tenga in non cale il dovere strettissimo della sorveglianza; chi per un vano rispetto umano si astenga dall’ammonire chi deve essere ammonito. Se ci sarà questo vero amore non si cercherà altro che la gloria di Dio e la salute delle anime. Quando illanguidisce questo amore, allora è che le cose non vanno più bene. Perché si vuoi sostituire alla carità la freddezza di un regolamento? Perché i Superiori si allontanano dall’osservanza di quelle regole di educazione che Don Bosco ha loro dettate? Perché al sistema di prevenire colla vigilanza e amorosamente i disordini, si va sostituendo a poco a poco il sistema meno pesante e più spiccio per chi comanda, di bandir leggi che se si sostengono coi castighi accendono odii e fruttano dispiaceri; se si trascura di farle osservare, fruttano disprezzo per i Superiori e sono causa di disordini gravissimi?
            E ciò accade necessariamente se manca la famigliarità. Se adunque si vuole che l’Oratorio ritorni all’antica felicità, si rimetta in vigore l’antico sistema: il Superiore sia tutto a tutti, pronto ad ascoltar sempre ogni dubbio o lamentanza dei giovani, tutto occhio per sorvegliare paternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale e temporale di coloro che la Provvidenza gli ha affidati. Allora i cuori non saranno più chiusi e non regneranno più certi segretumi che uccidono. Solo in caso di immoralità i Superiori siano inesorabili. É meglio correre pericolo di scacciare dalla casa un innocente, che ritenere uno scandaloso. Gli assistenti si facciano uno strettissimo dovere di coscienza di riferire ai Superiori tutte quelle cose le quali conoscano in qualunque modo esser offesa di Dio.
            Allora io interrogai:
            – E quale è il mezzo precipuo perché trionfi simile famigliarità e simile amore e confidenza?
            – L’osservanza esatta delle regole della casa.
            – E null’altro?
            – Il piatto migliore in un pranzo è quello della buona cera.
            Mentre così il mio antico allievo finiva di parlare ed io continuava ad osservare con vivo dispiacere quella ricreazione, a poco a poco mi sentii oppresso da grande stanchezza che andava ognora crescendo. Questa oppressione giunse al punto che non potendo più resistere mi scossi e rinvenni.
            Mi trovai in piedi vicino al letto. Le mie gambe erano così gonfie e mi facevano così male che non poteva più star ritto. L’ora era tardissima, quindi me ne andai a letto risoluto di scrivere ai miei cari figliuoli queste righe.
            Io desidero di non far questi sogni perché mi stancano troppo. Nel giorno seguente mi sentiva rotto nella persona e non vedeva l’ora di potermi riposare la sera seguente. Ma ecco appena fui in letto ricominciare il sogno. Avevo dinanzi il cortile, i giovani che ora sono nell’Oratorio, e lo stesso antico allievo dell’Oratorio. Io presi ad interrogarlo:
            – Ciò che mi dicesti io lo farò sapere ai miei Salesiani; ma ai giovani dell’Oratorio che cosa debbo dire?
            Mi rispose:
            – Che essi riconoscano quanto i Superiori, i maestri, gli assistenti fatichino e studino per loro amore, poiché se non fosse pel loro bene non si assoggetterebbero a tanti sacrifici; che si ricordino essere l’umiltà la fonte di ogni tranquillità; che sappiano sopportare i difetti degli altri, poiché al mondo non si trova la perfezione, ma questa è solo in Paradiso; che cessino dalle mormorazioni, poiché queste raffreddano i cuori; e soprattutto che procurino di vivere nella santa grazia di Dio. Chi non ha pace con Dio, non ha pace con sé, non ha pace cogli altri.
            – E tu mi dici adunque che vi sono fra i miei giovani di quelli che non hanno la pace con Dio?
            – Questa è la prima causa del mal umore fra le altre che lei sa, alle quali deve porre rimedio, e che non fa d’uopo che ora le dica. Infatti non diffida se non chi ha segreti da custodire, se non chi teme che questi segreti vengano a conoscersi, perché sa che glie ne tornerebbe vergogna e disgrazia. Nello stesso tempo se il cuore non ha la pace con Dio, rimane angosciato, irrequieto, insofferente d’obbedienza, si irrita per nulla, gli sembra che ogni cosa vada a male, e perché esso non ha amore, giudica che i Superiori non lo amino.
            – Eppure, o caro mio, non vedi quanta frequenza di Confessioni e di Comunioni vi è nell’Oratorio?
            – É vero che grande è la frequenza delle Confessioni, ma ciò che manca radicalmente in tanti giovanetti che si confessano è la stabilità nei proponimenti. Si confessano, ma sempre le stesse mancanze, le stesse occasioni prossime, le stesse abitudini cattive, le stesse disobbedienze, le stesse trascuranze nei doveri. Così si va avanti per mesi e mesi, e anche per anni e taluni perfino così continuano alla 5a Ginnasiale.
            Sono confessioni che valgono poco o nulla; quindi non recano pace e se un giovanetto fosse chiamato in quello stato al tribunale di Dio sarebbe un affare ben serio.
            – E di costoro ve n’ha molti all’Oratorio?
            – Pochi in confronto del gran numero di giovani che sono nella casa. Osservi; – e me li additava.
            Io guardai e ad uno ad uno vidi quei giovani. Ma in questi pochi io vidi cose che hanno profondamente amareggiato il mio cuore. Non voglio metterle sulla carta, ma quando sarò di ritorno voglio esporle a ciascuno cui si riferiscono. Qui vi dirò soltanto che è tempo di pregare e di prendere ferme risoluzioni; proporre non colle parole, ma coi fatti, e far vedere che i Comollo, i Savio Domenico, i Besucco e i Saccardi vivono ancora tra noi.
            In ultimo domandai a quel mio amico:
            – Hai nulla altro da dirmi?
            – Predichi a tutti, grandi e piccoli che si ricordino sempre che sono figli di Maria SS. Ausiliatrice. Che essa li ha qui radunati per condurli via dai pericoli del mondo, perché si amassero come fratelli e perché dessero gloria a Dio e a lei colla loro buona condotta; che è la Madonna quella che loro provvede pane e mezzi dì studiare con infinite grazie e portenti. Si ricordino che sono alla vigilia della festa della loro SS. Madre e che coll’aiuto suo deve cadere quella barriera di diffidenza che il demonio ha saputo innalzare tra giovani e Superiori e della quale sa giovarsi per la rovina di certe anime.
            – E ci riusciremo a togliere questa barriera?
            – Sì certamente, purché grandi e piccoli siano pronti a soffrire qualche piccola mortificazione per amore di Maria e mettano in pratica ciò che io ho detto.
            Intanto io continuava a guardare i miei giovinetti e allo spettacolo di coloro che vedeva avviati verso l’eterna perdizione sentii tale stretta al cuore che mi svegliai. Molte cose importantissime che io vidi desidererei ancora narrarvi, ma il tempo e le convenienze non me lo permettono.
            Concludo: Sapete che cosa desidera da voi questo povero vecchio che per i suoi cari giovani ha consumata tutta la vita? Niente altro fuorché, fatte le debite proporzioni, ritornino i giorni felici dell’antico Oratorio. I giorni dell’affetto e della confidenza cristiana tra i giovani ed i Superiori; i giorni dello spinto di accondiscendenza e sopportazione per amore di Gesù Cristo, degli uni verso degli altri; i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore, i giorni della carità e della vera allegrezza per tutti. Ho bisogno che mi consoliate dandomi la speranza e la promessa che voi farete tutto ciò che desidero per il bene delle anime vostre. Voi non conoscete abbastanza quale fortuna sia la vostra di essere stati ricoverati nell’Oratorio. Innanzi a Dio vi protesto: Basta che un giovane entri in una casa Salesiana, perché la Vergine SS. lo prenda subito sotto la sua protezione speciale. Mettiamoci adunque tutti d’accordo. La carità di quelli che comandano, la carità di quelli che devono obbedire faccia regnare fra di noi lo spirito di S. Francesco di Sales. O miei cari figliuoli, si avvicina il tempo nel quale dovrò distaccarmi da voi e partire per la mia eternità. [Nota del Segretario. A questo punto Don Bosco sospese di dettare; gli occhi suoi si empirono di lagrime, non per rincrescimento, ma per ineffabile tenerezza che trapelava dal suo sguardo e dal suono della sua voce: dopo qualche istante continuò]. Quindi io bramo di lasciar voi, o preti, o chierici, o giovani carissimi, per quella via del Signore nella quale esso stesso vi desidera.
            A questo fine il Santo Padre, che io ho visto venerdì 9 di maggio, vi manda di tutto cuore la sua benedizione. Il giorno della festa di Maria Ausiliatrice mi troverò con voi innanzi all’effigie della nostra amorosissima Madre. Voglio che questa gran festa si celebri con ogni solennità e Don Lazzero e Don Marchisio pensino a far sì che stiano allegri anche in refettorio. La festa di Maria Ausiliatrice deve essere il preludio della festa eterna che dobbiamo celebrare tutti insieme uniti un giorno in Paradiso.

Roma, 10 maggio 1884
Vostro aff.mo in G. C.
Sac. GIO. BOSCO.

(MB XVII, 107-114)




Il sogno dei 9 anni

La serie dei “sogni” di don Bosco, iniziano con quello fatto all’età di nove anni, verso il 1824. È uno dei più importanti se non il più importante, perché rileva una missione affidata dalla Provvidenza che si concretizza in un carisma particolare nella Chiesa. Seguiranno molti altri, la maggior parte raccolti nelle Memorie biografiche e ripresi in altre pubblicazioni dedicate a questo argomento. Ci proponiamo di presentare i più rilevanti in vari articoli successivi.

            A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole:
            — Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.
            Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’ ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.
            Quasi senza sapere che mi dicessi,
            — Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile?
            — Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza.
            — Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?
            — Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
            — Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?
            — Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestro di salutar tre volte al giorno.
            — Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.
            — Il mio nome dimandalo a Mia Madre.
            In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accenno di avvicinarmi a Lei, che presomi con bontà per mano, e guarda, mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali.
            — Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei.
            Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora.
            A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare.
            Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi:
            — A suo tempo tutto comprenderai.
            Ciò detto un rumore mi sveglio.
            Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno.
            Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali. Mia madre: Chi sa che non abbi a diventar prete. Antonio con secco accento: Forse sarai capo di briganti. Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto analfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: Non bisogna badare ai sogni.
            Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.
(Memorie dell’Oratorio di S. Franceso di Sales. Giovanni Bosco; MB I, 123-125)




Il sogno delle due colonne

Tra i sogni di Don Bosco, uno dei più noti è quello conosciuto con il titolo di «Sogno delle due colonne». Lo raccontò la sera del 30 maggio 1862.

            “Vi voglio raccontare un sogno. È vero che chi sogna non ragiona, tuttavia io, che a voi racconterei persino i miei peccati, se non avessi paura di farvi scappar tutti e far cadere la casa, ve lo racconto per vostra utilità spirituale. Il sogno l’ho fatto sono alcuni giorni.
            Figuratevi di essere con me sulla spiaggia del mare, o meglio, sopra uno scoglio isolato e di non vedere altro spazio di terra, se non quello che vi sta sotto i piedi. In tutta quella vasta superficie delle acque si vede una moltitudine innumerevole di navi ordinate a battaglia, le prore delle quali sono terminate da un rostro di ferro acuto a mo’ di strale, che ove è spinto ferisce e trapassa ogni cosa. Queste navi sono armate di cannoni, cariche di fucili, di altre armi di ogni genere, di materie incendiarie, e anche di libri, e si avanzano contro una nave molto più grossa e più alta di tutte loro, tentando di urtarla col rostro, di incendiarla o altrimenti di farle ogni guasto possibile.
            A quella maestosa nave arredata di tutto punto, fanno scorta molte navicelle, che da lei ricevono i segnali di comando ed eseguiscono evoluzioni per difendersi dalle flotte avversarie. Il vento è loro contrario e il mare agitato sembra favorire i nemici.
            In mezzo all’immensa distesa del mare si elevano dalle onde due robuste colonne, altissime, poco distanti l’una dall’altra. Sovra di una vi è la statua della Vergine Immacolata, ai cui piedi pende un largo cartello con questa iscrizione: — Auxilium Christianorum — sull’altra, che è molto più alta e grossa, sta un’Ostia di grandezza proporzionata alla colonna e sotto un altro cartello colle parole: Salus credentium.
            Il comandante supremo sulla gran nave, che è il Romano Pontefice, vedendo il furore dei nemici e il mal partito nel quale si trovano i suoi fedeli, pensa di convocare intorno a sé i piloti delle navi secondarie per tener consiglio e decidere sul da farsi. Tutti i piloti salgono e si adunano intorno al Papa. Tengono consesso, ma infuriando il vento sempre più e la tempesta, sono rimandati a governare le proprie navi.
            Fattasi un po’ di bonaccia, il Papa raduna per la seconda volta intorno a sé i piloti, mentre la nave capitana segue il suo corso. Ma la burrasca ritorna spaventosa.
            Il Papa sta al timone e tutti i suoi sforzi sono diretti a portar la nave in mezzo a quelle due colonne, dalla sommità delle quali tutto intorno pendono molte ancore e grossi ganci attaccati a catene.
            Le navi nemiche si muovono tutte ad assalirla e tentano ogni modo per arrestarla e farla sommergere. Le une cogli scritti, coi libri, con materie incendiarie di cui sono ripiene e che cercano di gettarle a bordo; le altre coi cannoni, coi fucili e coi rostri: il combattimento si fa sempre più accanito. Le prore nemiche l’urtano violentemente, ma inutili riescono i loro sforzi e il loro impeto. Invano ritentano la prova e sciupano ogni loro fatica e munizione: la gran nave procede sicura e franca nel suo cammino. Avviene talvolta che, percossa da formidabili colpi, riporta ne’ suoi fianchi larga e profonda fessura, ma non appena è fatto il guasto spira un soffio dalle due colonne e le falle si richiudono e i fori si otturano.
            E scoppiano intanto i cannoni degli assalitori, si spezzano i fucili, ogni altra arma ed i rostri; si sconquassano molte navi e si sprofondano nel mare. Allora i nemici furibondi prendono a combattere ad armi corte; e colle mani, coi pugni, colle bestemmie e colle maledizioni.
            Quand’ecco che il Papa, colpito gravemente, cade. Subito coloro, che stanno insieme con lui, corrono ad aiutarlo e lo rialzano. Il Papa è colpito la seconda volta, cade di nuovo e muore. Un grido di vittoria e di gioia risuona tra i nemici; sulle loro navi si scorge un indicibile tripudio. Senonché appena morto il Pontefice un altro Papa sottentra al suo posto. I Piloti radunati lo hanno eletto cosi subitamente, che la notizia della morte del Papa giunge colla notizia dell’elezione del successore. Gli avversari incominciano a perdersi di coraggio.
            Il nuovo Papa sbaragliando e superando ogni ostacolo, guida la nave sino alle due colonne e giunto in mezzo ad esse, la lega con una catenella che pendeva dalla prora ad un’àncora della colonna su cui stava l’Ostia; e con un’altra catenella che pendeva a poppa la lega dalla parte opposta ad un’altra àncora appesa alla colonna su cui è collocata la Vergine Immacolata.
            Allora succede un gran rivolgimento. Tutte le navi che fino a quel punto avevano combattuto quella su cui sedeva il Papa, fuggono, si disperdono, si urtano e si fracassano a vicenda. Le une si affondano e cercano di affondare le altre. Alcune navicelle che hanno combattuto valorosamente col Papa vengono per le prime a legarsi a quelle colonne. •
            Molte altre navi che, ritiratesi per timore della battaglia si trovano in gran lontananza, stanno prudentemente osservando, finché dileguati nei gorghi del mare i rottami di tutte le navi disfatte, a gran lena vogano alla volta di quelle due colonne, ove arrivate si attaccano ai ganci pendenti dalle medesime, ed ivi rimangono tranquille e sicure, insieme colla nave principale su cui sta il Papa. Nel mare regna una gran calma.
            D. Bosco a questo punto interrogò D. Rua: — Che cosa pensi tu di questo racconto?
            D. Rua rispose: — Mi pare che la nave del Papa sia la Chiesa, di cui esso è il Capo: le navi gli uomini, il mare questo mondo. Quei che difendono la grossa nave sono i buoni affezionati, alla santa Sede, gli altri i suoi nemici, che con ogni sorta di armi tentano di annientarla. Le due colonne di salute mi sembra che siano la divozione a Maria SS. ed al SS. Sacramento dell’Eucarestia.
            D. Rua non parlò del Papa caduto e morto e D. Bosco tacque pure su di ciò. Solo soggiunse: — Dicesti bene. Bisogna soltanto correggere un’espressione. Le navi dei nemici sono le persecuzioni. Si preparano gravissimi travagli per la Chiesa. Quello che finora fu, è quasi nulla a petto di ciò che deve accadere. I suoi nemici sono raffigurati nelle navi che tentano di affondare, se loro riuscisse, la nave principale. Due soli mezzi restano per salvarsi fra tanto scompiglio! — Divozione a Maria SS. e frequenza alla Comunione, adoperando ogni modo e facendo del nostro meglio per praticarli e farli praticare dovunque e da tutti.
            Buona notte!”
(M.B. VII, 169-171).

* * *

            Il servo di Dio cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, dava tanta importanza a questa visione, che nel 1953, quando fu a Torino come Legato Pontificio al Congresso Eucaristico Nazionale, la notte sul 13 settembre, durante il solenne pontificale di chiusura, sulla Piazza Vittorio, gremita di popolo, diede a questo sogno una parte rilevante della sua Omelia.
            Disse tra l’altro: «In quest’ora solenne, nell’Eucaristica Torino del Cottolengo e di Don Bosco, mi torna in mente una visione profetica che il Fondatore del Tempio di Maria Ausiliatrice narrò ai suoi nel maggio del 1862. Gli sembrò di vedere la flotta della Chiesa battuta qua e là dai flutti di una orribile tempesta; tanto che, ad un certo momento, il supremo condottiero della nave capitana — Pio IX — convocò a consiglio i gerarchi delle navi minori.
            Purtroppo la bufera, che mugghiava sempre più minacciosa, interruppe a mezzo il Concilio Vaticano (è da notare che Don Bosco annunciava questi eventi otto anni prima che avvenissero). Nelle alterne vicende di quegli anni, per ben due volte gli stessi Supremi Gerarchi soccombettero al travaglio. Quando successe il terzo, in mezzo all’oceano furente cominciarono ad emergere due colonne, in cima alle quali trionfavano i simboli dell’Eucaristia e della Vergine Immacolata.
            A quella apparizione il nuovo Pontefice — il Beato Pio X — prese animo e con una salda catena, agganciò la nave Capitana di Pietro a quei due solidi pilastri, calando in mare le ancore.
            Allora i navigli minori cominciarono a vogare strenuamente per raccogliersi attorno alla nave del Papa, e così scamparono dal naufragio.
            La storia confermò la profezia del Veggente. Gli inizi pontificali di Pio X con l’àncora sullo stemma araldico coincisero appunto con il cinquantesimo anno giubilare della proclamazione dogmatica della Concezione Immacolata di Maria, e venne festeggiata in tutto l’orbe cattolico. Tutti noi vecchi ricordiamo l’8 dicembre 1904, in cui il Pontefice in San Pietro circondò la fronte dell’Immacolata d’una preziosa corona di gemme, consacrando alla Madre tutta intera la famiglia che Gesù Crocifisso le aveva commesso.
            Il condurre i pargoli innocenti e gli infermi alla Mensa Eucaristica entrò parimenti a far parte del programma del generoso Pontefice, che voleva restaurare in Cristo tutto quanto l’orbe. Fu così che, finché visse Pio X, non ci fu guerra, ed Egli meritò il titolo di pacifico Pontefice dell’Eucaristia.
            Da quel tempo le condizioni internazionali non sono davvero migliorate; così che l’esperienza di tre quarti di secolo ci conferma che la nave del Pescatore sul mare in burrasca può sperare salvezza solo con l’agganciarsi alle due colonne dell’Eucaristia e dell’Ausiliatrice, apparse in sogno a Don Bosco» (L’Italia, 13 settembre 1953).

            Lo stesso santo card. Schuster, un giorno disse a un Salesiano: «Ho visto riprodotta la visione delle due colonne. Dica ai suoi Superiori che la facciano riprodurre in stampe e cartoline, e la diffondano in tutto il mondo cattolico, perché questa visione di Don Bosco è di grande attualità: la Chiesa e il popolo cristiano si salveranno con queste due devozioni: l’Eucaristia e Maria, Aiuto dei Cristiani».

don ZERBINO Pietro, sdb




Le profezie di don Bosco e i re d’Italia

“La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione”.

            È morto pochi giorni fa il pretendente al trono d’Italia, Vittorio Emanuele di Savoia (n. 12.02.1937 – † 03.02.2024), il quinto discendente del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia. È stata concessa la sepoltura nella cripta della Basilica di Superga, Torino, dove si trovano altre decine di resti mortali della Casa di Savoia. Questo evento ci fa ricordare altri sogni di don Bosco che si sono avverati pienamente.

            Nel novembre 1854, si stava preparando una legge sulla confisca dei beni ecclesiastici e sulla soppressione dei conventi. Per la validità, doveva essere sancita dal Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia. Alla fine di questo mese di novembre, don Bosco ebbe due sogni che erano delle vere profezie riguardanti il re e la sua famiglia. Ricordiamo con don Lemoyne i fatti.

            Don Bosco adunque anelava a dissipare una minacciosa nube che andava sempre più oscurandosi sulla Real Casa.
            Egli in una notte verso il fine del mese di novembre, aveva fatto un sogno. Gli era parso di trovarsi ove è il portico centrale dell’Oratorio, costrutto allora solo per metà, presso alla pompa idraulica fissa al muro della casetta Pinardi. Era circondato da preti e da chierici: ad un tratto vide avanzarsi in mezzo al cortile un valletto di Corte, col suo rosso uniforme, il quale, con passo affrettato venuto alla sua presenza, gli parve che gridasse:
            – Grande notizia!
             – E quale? gli chiese D. Bosco.
             – Annunzia: gran funerale in Corte! gran funerale in Corte!
            Don Bosco a questa improvvisa comparsa, a questo grido, restò come di sasso, e il valletto ripetè: – Gran funerale in Corte! – Don Bosco allora voleva domandargli spiegazione di questo suo ferale annunzio, ma quegli erasi dileguato. D. Bosco, risvegliatosi, era come fuori di sè e, inteso il mistero di quell’apparizione, prese la penna e preparò subito una lettera per Vittorio Emanuele, palesando quanto gli era stato annunziato, e raccontando semplicemente il sogno.
[…]
…era di conoscere ciò che Don Bosco aveva scritto al Re, tanto più che sapevano cosa egli pensasse intorno all’usurpazione dei beni ecclesiastici. Don Bosco non li tenne in indugio e loro palesò quanto aveva scritto pel Re, perché non permettesse la presentazione dell’infausta legge. Quindi narrò il sogno, concludendo: Questo sogno mi ha fatto star male e mi ha affaticato, molto. – Egli era sopra pensiero ed esclamava a quando, a quando: – Chi sa?… chi sa?… preghiamo!
            Sorpresi i chierici presero allora a discorrere, interrogandosi a vicenda se avessero sentito a dire che nel palazzo reale vi fosse qualche nobile signore infermo; ma tutti conchiusero, non constare in nessun modo questo. Don Bosco intanto, chiamato presso di sè il Ch. Angelo Savio, gli consegnò la lettera: – Copia, gli disse, ed annunzia al Re: Grande funerale in Corte! – E il Ch. Savio scrisse. Ma il Re, come Don Bosco venne a sapere dai suoi confidenti impiegati a palazzo, lesse con indifferenza quel foglio e non ne tenne conto.
            Erano passati cinque giorni da questo sogno, e Don Bosco, dormendo, nella notte, sognò di bel nuovo. Gli pareva di essere in sua camera a tavolino, scrivendo; quando udì lo scalpitare di un cavallo in cortile. Ad un tratto vede spalancarsi la porta ed apparire il valletto nella sua rossa livrea, che entrato fino a metà della camera gridò:
            Annunzia: non grande funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte! -E ripetè queste parole due volte. Quindi ritirossi con passo rapido e chiuse la porta dietro di sè. Don Bosco voleva sapere, voleva interrogarlo, voleva chiedergli, spiegazione; quindi si alzò da, tavolino, corse sul balcone e vide il: valletto nel cortile che saliva a cavallo. Lo, chiamò, chiese perchè fosse venuto a ripetergli quell’annunzio; ma il valletto gridando: – Grandi funerali in Corte! – si dileguò. Venuta l’alba, Don Bosco stesso indirizzò al Re un’altra lettera, nella quale raccontavagli il secondo sogno e concludeva dicendo a sua Maestà “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, mentre la pregava di impedire a qualunque costo quella legge”.
Alla sera dopo cena Don Bosco esclamò in mezzo a’ suoi chierici: – Sapete che ho da dirvi una cosa ancor più strana, che quella dell’altro giorno? – E raccontò ciò che aveva visto nella notte. Allora i chierici, più stupiti di prima, si domandavano che cosa indicassero questi annunzi di morte; e si può immaginare quale fosse la loro ansietà nell’attendere come si sarebbero verificate queste predizioni.
            Al chierico Cagliero e ad alcuni altri svelava intanto apertamente essere, quelle, minacce di castighi che il Signore faceva sentire a chi più danni e mali già aveva arrecati alla Chiesa ed altri stava preparandone. In quei giorni egli era addoloratissimo e ripeteva frequentemente: – Questa legge attirerà sulla casa del Sovrano gravi disgrazie. – Tali cose diceva a’ suoi alunni per impegnarli a pregare per il Re, e per intercedere dalla misericordia del Signore che impedisse la dispersione eli tanti religiosi e la perdita di tante vocazioni.
            Intanto il Re aveva confidate quelle lettere al Marchese Fassati, che avendole lette, venne all’Oratorio e diceva a D. Bosco: – Oh! le pare la maniera questa di mettere sossopra tutta la Corte? Il Re ne è rimasto più che impressionato e turbato!… Anzi montò sulle furie.
            E Don Bosco gli rispose – Ma se ciò che fu scritto è verità? Mi rincresce di aver cagionato questi disturbi al mio Sovrano; ma insomma, si tratta del suo bene e di quello della Chiesa.
            Gli avvisi di Don Bosco non furono ascoltati. Il 28 novembre 1854 il Ministro guardasigilli Urbano Rattazzi presenta va ai deputati un disegno di legge per la soppressione dei conventi. Il Conte Camillo di Cavour, Ministro delle finanze, era risoluto di farlo approvare a qualunque costo. Questi signori stabilivano come principio incontrastato e incontrastabile, che fuori del gran corpo civile, non v’ha e non può darsi società a lui superiore e da lui indipendente; che lo Stato è tutto, e che perciò nessun ente morale, e neppure la Chiesa Cattolica può sussistere giuridicamente senza il consenso e riconoscimento dell’autorità civile. Perciò tale autorità non riconoscendo nella Chiesa universale il dominio dei beni ecclesiastici, e attribuendo questo dominio a ciascun ente delle corporazioni religiose, sostenevano essere queste creazione della sovranità, civile e la loro esistenza modificarsi od estinguersi per volontà della sovranità medesima, e lo Stato, erede d’ogni personalità civile che non abbia successioni, divenire solo ed assoluto proprietario di tutti i loro beni quando fossero soppresse. Errore grossolano perchè tali patrimonii, per qualsivoglia causa una Congregazione Religiosa cessasse d’esistere, non rimanevano senza padroni, dovendo essere devoluti alla Chiesa di G. C., rappresentata dal Sommo Pontefice, per quanto gli statolatri perfidiassero a negarlo (MB V, 176-180).

            Che fossero ammonimenti che venivano dal Cielo, lo conferma anche la lettera scritta quattro anni prima, il 9 aprile 1850, che la madre de Re, Regina Madre Maria Teresa, vedova di Carlo Alberto, aveva indirizzato a suo figlio, il Re Vittorio Emanuele II di Savoia.

Iddio te ne compenserà, ti benedirà, ed invece chi sa quanti castighi, quanti flagelli di Dio ci attirerà per te, la famiglia ed il paese se la sanzioni [la legge Siccardi sull’abolizione del foro ecclesiastico]. Pensa qual sarebbe il tuo dolore se il Signore facesse ammalare gravemente od anche se si prendesse la tua cara Adele che tu con santa ragione tanto ami, o la tua Chichina (Clotilde’) oil tuo Betto (Umberto); e se potessi vedere dentro il mio cuore, quanto sono addolorata, angustiata, spaventata dal timore che tu sanzioni subito questa legge per le tante disgrazie, che son certa che ci porterà se sarà fatta senza il consentimento del Santo Padre, forse il tuo cuore che è proprio buono e sensibile, e che ha sempre tanto amato la sua povera Mammina si lascerebbe intenerire. (Antonio Monti, Nuova Antologia, 1° gennaio 1936, pag. 65; MB XVII, 898).

            Però il re non fece caso a questi avvertimenti e le conseguenze non tardarono. Le trattative per l’approvazione continuarono e anche le profezie si compirono:
            – il 12 gennaio 1855 morì Maria Teresa, Regina madre, a 53 anni;
            – il 20 gennaio 1855 morì la Regina Maria Adelaide, a 33 anni;
            – l’11 febbraio 1855 morì il Principe Ferdinando, fratello del Re, a 32 anni;
            – il 17 maggio 1855 morì il figlio del re, il principe Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio, di appena 4 mesi.

            Don Bosco continuo ad avvertire, pubblicando la carta di fondazione di Altacomba (Hautecombe) con l’esposizione di tutte le maledizioni comminate a chi osasse distruggere od usurpare i beni dell’Abbazia d’Altacomba, inserite in quel documento proprio dagli antichi Duchi di Savoia per proteggere quel luogo, dove sono inumate decine di illustri antenati della casa Savoia.
E continuò anche pubblicando nel mese di aprile 1855, nelle «Letture Cattoliche» un opuscolo scritto dal Barone Nilinse intitolato: I beni della chiesa, come si rubino e quali siano le conseguenze; con breve appendice sulle vicende del Piemonte. Sul frontispizio stava scritto: Come! Per nessun diritto si può violare la casa di un privato, e tu hai ardimento di mettere la mano sopra la casa del Signore! S. Ambrogio. In quello scritto si dimostrava che non solo gli spogliatori della Chiesa e degli Ordini Religiosi, ma eziandio le loro famiglie ne andarono colpite quasi sempre, avverandosi il terribile detto: La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione! (MB V, 233-234).

            Il 29 maggio Vittorio Emanuele II firmò lui stesso la legge Rattazzi, con la quale si confiscavano i beni ecclesiastici e si sopprimevano le corporazioni religiose, senza tener conto di quanto predetto da don Bosco e dei lutti che avevano colpito la sua famiglia dal mese di gennaio… non sapendo che così firmava anche il destino della famiglia reale.

            Infatti, anche qui la profezia si avverò, come vediamo.
            – il re Vittorio Emanuele II di Savoia (n. 14.03.1820 – † 09.01.1878), regnante dal 17.03.1861 al 09.01.1878, morì a soli 58 anni di età;
            – il re Umberto I (n. 14.03.1844 – † 29.07.1900), figlio del re Vittorio Emanuele II di Savoia, regnante dal 10.01.1878 al 29.07.1900, fu ucciso a Monza a 56 anni;
            – il re Vittorio Emanuele III (n. 11.11.1869 – † 28.12.1947), nipote del re Vittorio Emanuele II di Savoia, regnante dal 30.07.1900 al 09.05.1946, fu costretto ad abdicare il 9 maggio 1946 e morì un anno dopo.
            – il re Umberto II (n. 15.09.1904 – † 18.03.1983) ultimo Re d’Italia, regnante dal 10.05.1946 al 18.06.1946, pronipote di Vittorio Emanuele II (la quarta generazione), dovette abdicare dopo soli 35 giorni di regno, a seguito del Referendum istituzionale del 2 giugno dello stesso anno. Morì il 18 marzo 1983 a Ginevra e fu sepolto nell’Abbazia di Altacomba…

            Alcuni interpretano questi avvenimenti come semplici coincidenze, perché non possono negare i fatti, ma chi conosce l’agire di Dio, sa che nella sua misericordia avverte sempre in un modo o in un altro delle gravi conseguenze che possono avere certe decisioni di grande importanza, che influiscono sul destino del mondo e della Chiesa.
            Ricordiamo solo il fine della vita del più saggio uomo della terra, il re Salomone.

Quando Salomone fu vecchio, le sue donne l’attirarono verso dei stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre.
Salomone seguì Astàrte, dea di quelli di Sidòne, e Milcom, obbrobrio degli Ammoniti.
Salomone commise quanto è male agli occhi del Signore e non fu fedele al Signore come lo era stato Davide suo padre.
Salomone costruì un’altura in onore di Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche in onore di Milcom, obbrobrio degli Ammoniti.
Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dei.
Il Signore, perciò, si sdegnò con Salomone, perché aveva distolto il cuore dal Signore Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dei, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore.
Allora disse a Salomone: “Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né i decreti che ti avevo impartiti, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo suddito. (1Re 11,4-11).

            Basta leggere con attenzione la storia, sia sacra che profana…




Il sogno di 9 anni. Genesi di una vocazione

Il sogno di 9 anni presentato in dieci punti, sintesi di una celeste vocazione, confermata dai frutti che ha prodotto, presentato alla 42° edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana a Valdocco, Torino.

Duecento anni fa, un ragazzino di nove anni, povero e senza altro futuro se non quello di fare il contadino, fece un sogno. Lo raccontò al mattino a madre, nonna e fratelli, che la presero sul ridere. La nonna concluse: «Non bisogna badare ai sogni». Molti anni dopo, quel ragazzo, Giovanni Bosco, scrisse: «Io ero del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile togliermi quel sogno dalla mente». Perché non era un sogno come tanti altri e non morì all’alba.

Primo: è un ordine imperioso
Don Lemoyne, il primo storico di Don Bosco, infatti riassume così il sogno: «Gli era parso di vedere il Divin Salvatore vestito di bianco, raggiante per luce splendidissima, in atto di guidare una turba innumerabile di giovanetti. Rivoltosi a lui aveagli detto: – Vieni qua: mettiti alla testa di questi fanciulli e guidali tu stesso. – Ma io non sono capace, rispondeva Giovanni. Il Divin Salvatore insistette imperiosamente finché Giovanni si pose a capo di quella moltitudine di ragazzi e cominciò a guidarli giusto il comando che eragli stato fatto». Come il «Seguimi» di Gesù.

Secondo: è il segreto della gioia
Quel sogno tornò e tornò, altre volte. Con una carica trascinante di energia. Era fonte di gioiosa sicurezza e di forza inesauribile per Giovanni Bosco. La fonte della sua vita.
Al processo diocesano per la causa di beatificazione di Don Bosco, Don Rua, suo primo successore, testimoniò: «Mi raccontò Lucia Turco, appartenente a famiglia, ove D. Bosco si recava sovente a trattenersi coi di lei fratelli, che un mattino lo videro arrivare più giulivo del solito. Interrogato quale ne fosse la causa, rispose che nella notte aveva avuto un sogno, che tutto l’aveva rallegrato».

Terzo: la risposta
La domanda per tutti è: «Vuoi una vita qualunque o vuoi cambiare il mondo?»
Viktor Frankl sottolinea la differenza tra “senso della vita” e “senso nella vita“. Il senso della vita è associato a domande come Perché sono qui? Qual è il senso di tutto questo? Che senso ha la vita? Molte persone cercano le risposte nella religione o in una nobile missione per un bene superiore, come per esempio combattere la povertà o fermare il riscaldamento globale. Spesso è difficile trovare il senso della vita; portare avanti la lotta per afferrare questo concetto può essere sfiancante, soprattutto nei momenti di difficoltà, quando fatichiamo perfino ad arrivare a fine giornata. D’altro canto, è molto più facile trovare senso nella vita: nelle cose ordinarie che facciamo d’abitudine, nel momento presente, nelle attività quotidiane a casa o al lavoro. È proprio il senso nella vita che costituisce il mezzo preferenziale per sperimentare il benessere spirituale.

Quarto: un segno dall’Alto
In seminario, Don Bosco come motivazione della sua vocazione scrisse una pagina di umiltà ammirevole: «II sogno di Morialdo, mi stava sempre impresso; anzi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro» Noi possiamo essere sicuri: egli aveva riconosciuto il Signore e sua Madre. Nonostante la sua modestia, non dubitava affatto di essere stato visitato dal Cielo. Non dubitava nemmeno che quelle visite fossero destinate a svelargli il suo avvenire e quello della sua opera. Lui stesso l’ha detto: «La Congregazione salesiana non ha fatto un passo senza che un fatto soprannaturale glielo avesse consigliato. Non è arrivata al punto di sviluppo in cui si trova senza un ordine speciale del Signore».

Quinto: assistenza continua
«Intesi poi da altri che egli chiese: – Come farò io ad aver cura di tante pecore? E tanti agnelli? Dove troverò i pascoli per mantenerli? La Signora gli rispose: – Non temere, io ti assisterò, e poi sparì».

Sesto: una Maestra
Una madre.

Settimo: una missione
«Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare, continuò a dire quella Signora. Renditi umile, forte, robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». 

Ottavo: un metodo
«Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici».

Nono: i destinatari
«Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, di orsi e di parecchi altri animali».

Decimo: un’Opera
«Oppresso dalla stanchezza voleva sedermi accanto di una strada vicina, ma la pastorella mi invitò a continuare il cammino. Fatto ancora breve tratto di via, mi sono trovato in un vasto cortile con porticato attorno, alla cui estremità eravi una chiesa. Allora mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli. Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi pastorelli per custodirli. Ma essi fermavansi poco e tosto partivano. Allora succedette una meraviglia. Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri. Io voleva andarmene, ma la pastora mi invitò di guardare al mezzodì. ‘Guarda un’altra volta’, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Nell’interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea».
Per questo, quando entriamo nella Basilica di Maria Ausiliatrice, entriamo nel sogno di Don Bosco.

Il testamento di Don Bosco
Il Papa stesso chiese ordinò a Don Bosco di scrivere il sogno per i suoi figli. Lui cominciò così: «A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro».
Per questo le Costituzioni salesiane cominciano con un “atto di fede”: «Con senso di umile gratitudine crediamo che la Società di san Francesco di Sales è nata non da solo progetto umano, ma per iniziativa di Dio».




Il Sogno dei nove anni di don Bosco. Lettura teologica. Video

            Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza carismatica che da lui ha preso origine. Scegliamo di concentrare l’attenzione su cinque piste di riflessione spirituale che riguardano rispettivamente (1) la missione oratoriana, (2) la chiamata all’impossibile, (3) il mistero del Nome, (4) la mediazione materna e, infine, (5) la forza della mansuetudine.

1. La missione oratoriana
            Il sogno dei nove anni è pieno di ragazzi. Essi sono presenti dalla prima all’ultima scena e sono i beneficiari di tutto ciò che avviene. La loro presenza è caratterizzata dall’allegria e dal gioco, che sono tipici della loro età, ma anche dal disordine e da comportamenti negativi. I fanciulli non sono dunque nel sogno dei nove anni l’immagine romantica di un’età incantata, non ancora toccata dai mali del mondo, né corrispondono al mito postmoderno della condizione giovanile, come stagione dell’agire spontaneo e della perenne disponibilità al cambiamento, che dovrebbe essere conservata in un’eterna adolescenza. I ragazzi del sogno sono straordinariamente “veri”, sia quando appaiono con la loro fisionomia, sia quando sono raffigurati simbolicamente sotto forma di animali. Essi giocano e bisticciano, si divertono ridendo e si rovinano bestemmiando, proprio come avviene nella realtà. Non paiono né innocenti, come li immagina una pedagogia spontaneista, né capaci di fare da maestri a sé stessi, come li ha pensati Rousseau. Dal momento in cui appaiono, in un “cortile assai spazioso”, che fa presagire i grandi cortili dei futuri oratori salesiani, essi invocano la presenza e l’azione di qualcuno. Il gesto impulsivo del sognatore, però, non è l’intervento giusto; è necessaria la presenza di un Altro.
            Con la visione dei fanciulli s’intreccia l’apparizione della figura cristologica, come ormai possiamo apertamente chiamarla. Colui che nel Vangelo ha detto: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14), viene a indicare al sognatore l’atteggiamento con cui i ragazzi vanno avvicinati e accompagnati. Egli appare maestoso, virile, forte, con tratti che ne evidenziano chiaramente il carattere divino e trascendente; il suo modo di agire è contrassegnato da sicurezza e potenza e manifesta una piena signoria sulle cose che avvengono. L’uomo venerando, però, non incute paura, ma anzi porta la pace dove prima c’era confusione e schiamazzo, manifesta benevola comprensione nei confronti di Giovanni e lo orienta su una via di mansuetudine e carità.
            La reciprocità tra queste figure – i ragazzi da una parte e il Signore (cui si aggiunge poi la Madre) dall’altra – definisce i contorni del sogno. Le emozioni che Giovanni prova nell’esperienza onirica, le domande che pone, il compito che è chiamato a svolgere, il futuro che gli si apre davanti sono totalmente vincolati alla dialettica tra questi due poli. Forse il messaggio più importante che il sogno gli trasmette, quello che probabilmente ha capito per primo perché gli è rimasto impresso nell’immaginazione, prima ancora di comprenderlo in modo riflesso, è che quelle figure si richiamano a vicenda e che egli per tutta la vita non potrà più dissociarle. L’incontro tra la vulnerabilità dei giovani e la potenza del Signore, tra il loro bisogno di salvezza e la sua offerta di grazia, tra il loro desiderio di gioia e il suo dono di vita devono diventare ormai il centro dei suoi pensieri, lo spazio della sua identità. La partitura della sua vita sarà tutta scritta nella tonalità che questo tema generatore gli consegna: modularlo in tutte le sue potenzialità armoniche sarà la sua missione, in cui dovrà riversare tutte le sue doti di natura e di grazia.

            Il dinamismo della vita di Giovanni si prospetta dunque nel sogno-visione come un continuo movimento continuo, una sorta di andirivieni spirituale, tra i ragazzi e il Signore. Dal gruppo di fanciulli in mezzo a cui si è buttato con impeto Giovanni deve lasciarsi attirare al Signore che lo chiama per nome, per poi ripartire da Colui che lo invia e andare a mettersi, con ben altro stile, alla testa dei compagni. Anche se dai ragazzi riceve in sogno pugni così forti, da sentirne il male ancora al risveglio, e dall’uomo venerando ascolta parole che lo lasciano interdetto, il suo andare e venire non è un viavai inconcludente, ma un percorso che gradualmente lo trasforma e fa arrivare ai giovani un’energia di vita e di amore.
            Che tutto ciò avvenga in un cortile è altamente significativo e ha un chiaro valore prolettico, poiché della missione di don Bosco il cortile oratoriano diventerà il luogo privilegiato e il simbolo esemplare. Tutta la scena è collocata in quest’ambiente, insieme vasto (cortile assai spazioso) e familiare (vicino a casa). Il fatto che la visione vocazionale non abbia come sfondo un luogo sacro o uno spazio celeste, ma l’ambiente in cui i ragazzi vivono e giocano, indica chiaramente che l’iniziativa divina assume il loro mondo come luogo dell’incontro. La missione che viene affidata a Giovanni, anche se è chiaramente indirizzata in senso catechetico e religioso («fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e la preziosità della virtù»), ha come proprio habitat l’universo dell’educazione. L’associazione della figura cristologica con lo spazio del cortile e le dinamiche del gioco, che certamente un ragazzo di nove anni non può aver “costruito”, costituisce una trasgressione dell’immaginario religioso più consueto, la cui forza ispiratrice è pari alla profondità misterica. Essa infatti sintetizza in sé tutta la dinamica del mistero dell’incarnazione, per cui il Figlio prende la nostra forma per poterci offrire la sua, e mette in luce come non vi sia nulla di umano che debba essere sacrificato per far spazio a Dio.
            Il cortile dice dunque la vicinanza della grazia divina al “sentire” dei ragazzi: per accoglierla non occorre uscire dalla propria età, trascurarne le esigenze, forzarne i ritmi. Quando don Bosco, ormai adulto, scriverà nel Giovane provveduto che uno degli inganni del demonio è far pensare ai giovani che la santità sia incompatibile con la loro voglia di stare allegri e con l’esuberante freschezza della loro vitalità, non farà che restituire in forma matura la lezione intuita nel sogno e divenuta poi un elemento centrale del suo magistero spirituale. Il cortile dice allo stesso tempo la necessità di intendere l’educazione a partire dal suo nucleo più profondo, che riguarda l’atteggiamento del cuore verso Dio. Lì, insegna il sogno, non vi è solo lo spazio di un’apertura originaria alla grazia, ma anche l’abisso di una resistenza, in cui si annida la bruttezza del male e la violenza del peccato. Per questo l’orizzonte educativo del sogno è francamente religioso, e non solo filantropico, e mette in scena la simbolica della conversione, e non solo quella dello sviluppo di sé.
            Nel cortile del sogno, colmo di ragazzi e abitato dal Signore, si dischiude dunque a Giovanni quella che sarà in futuro la dinamica pedagogica e spirituale dei cortili oratoriani. Di essa vogliamo ancora sottolineare due tratti, chiaramente evocati nelle azioni che nel sogno compiono i fanciulli prima, e gli agnelli mansueti poi.
            Il primo tratto va ravvisato nel fatto che i ragazzi «cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava». Questo tema del “radunarsi” è una delle matrici teologiche e pedagogiche più importanti della visione educativa di don Bosco. In una celebre pagina scritta nel 1854, l’Introduzione al Piano di Regolamento per l’Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco, egli presenta la natura ecclesiale e il senso teologico dell’istituzione oratoriana citando le parole dell’evangelista Giovanni: «Ut filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum» (Gv 11,52). L’attività dell’Oratorio è così posta sotto il segno del raduno escatologico dei figli di Dio che ha costituito il centro della missione del Figlio di Dio:

Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù de’ nostri giorni.

            La gioventù, «questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana Società», si trova spesso a essere dispersa e sbandata per il disinteresse educativo dei genitori o per l’influenza di cattivi compagni. La prima cosa da fare per provvedere all’educazione di questi giovani è proprio «radunarli, loro poter parlare, moralizzarli». In queste parole dell’Introduzione al Piano di Regolamento l’eco del sogno, maturata nella coscienza dell’educatore ormai adulto, è presente in modo chiaro e riconoscibile. L’oratorio vi è presentato come una gioiosa “radunanza” dei giovani intorno all’unica forza calamitante in grado di salvarli e di trasformarli, quella del Signore: «Sono questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa». Fin da bambino, infatti, don Bosco ha capito che «questa fu la missione del figliuolo di Dio; questo può solamente fare la santa sua religione».
            Il secondo elemento che diventerà un tratto identitario della spiritualità oratoriana è quello che nel sogno si rivela attraverso l’immagine degli agnelli che corrono «per fare festa a quell’uomo e a quella signora». La pedagogia della festa sarà una dimensione portante del sistema preventivo di don Bosco, che vedrà nelle numerose ricorrenze religiose dell’anno l’occasione per offrire ai ragazzi la possibilità di respirare a pieni polmoni la gioia della fede. Don Bosco saprà coinvolgere entusiasticamente la comunità giovanile dell’oratorio nella preparazione di eventi, rappresentazioni teatrali, ricevimenti che permettono di fornire uno svago rispetto alla fatica del dovere quotidiano, di valorizzare i talenti dei ragazzi per la musica, la recitazione, la ginnastica, di orientare la loro fantasia in direzione di una creatività positiva. Se si tiene conto che l’educazione proposta negli ambienti religiosi dell’Ottocento aveva solitamente un tenore piuttosto austero, che sembrava presentare come ideale pedagogico da raggiungere quello di una devota compostezza, le sane baraonde festive dell’oratorio si stagliano come espressione di un umanesimo aperto a cogliere le esigenze psicologiche del ragazzo e capace di assecondare il suo protagonismo. L’allegria festosa che segue alla metamorfosi degli animali del sogno è dunque ciò cui deve mirare la pedagogia salesiana.

2. La chiamata all’impossibile
            Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire. Si è soliti pensare, infatti, con qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di consolazione. È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello “stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto.
            Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).
            Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita, orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante. Il Vangelo di Luca afferma che perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore («a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6), Amos aveva paragonato al ruggito di un leone (Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto. Pur testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a capofitto nell’avventura della missione.
            Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno sembra un’esperienza analoga. Esso nasce dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire “impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»). L’aggettivo potrebbe sembrare “esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo. Ma questo elemento di psicologia infantile non sembra sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza spirituale che esso comunica. Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la predica del parroco. Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6).
            Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza. Oltre questa frontiera, si apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio. “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27).
            Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è, però, il momento decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte. È in questo spazio generato dalla risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno, splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile. E lo fa con una formula sorprendente: «Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili coll’ubbidienza». Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare.
«Obbedisci e vedrai che ci riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto che è tutto nascosto nella sua obbedienza. L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza.
            Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni altro evento salvifico è segno. Non deve dunque stupire che nel sogno la dialettica del possibile-impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità. Essa caratterizza anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità. Vi sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato. Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Giovanni non può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai».
            Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per chiarirne il messaggio. Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa manifesta il suo senso più profondo.

3. Il mistero del Nome
            Giunti a questo punto della riflessione, siamo in grado di interpretare meglio un altro elemento importante dell’esperienza onirica. Si tratta del fatto che al centro della duplice tensione tra possibile e impossibile e tra conosciuto e sconosciuto, e anche, materialmente, al centro della narrazione del sogno, vi sia il tema del Nome misterioso dell’uomo venerando. Il fitto dialogo della sezione III è, infatti, intessuto di domande che ribattono lo stesso tema: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»; «Chi siete voi che parlate in questo modo?», e infine: «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». L’uomo venerando dice a Giovanni di chiedere il Nome a sua madre, ma in realtà quest’ultima non glielo dirà. Esso resta fino alla fine avvolto nel mistero.
            Abbiamo già accennato, nella parte dedicata a ricostruire lo sfondo biblico del sogno, che il tema del Nome è strettamente correlato all’episodio della vocazione di Mosè al roveto ardente (Es 3). Questa pagina costituisce uno dei testi centrali della rivelazione veterotestamentaria e pone le basi di tutto il pensiero religioso di Israele. André LaCoque ha proposto di definirla “rivelazione delle rivelazioni”, perché costituisce il principio di unità della struttura narrativa e prescrittiva che qualifica la narrazione dell’Esodo, cellula-madre dell’intera Scrittura.[i] È importante notare come il testo biblico articoli in stretta unità la condizione di schiavitù del popolo in Egitto, la vocazione di Mosè e la rivelazione teofanica. La rivelazione del Nome di Dio a Mosè non avviene come la trasmissione di un’informazione da conoscere o di un dato da acquisire, ma come la manifestazione di una presenza personale, che intende suscitare una relazione stabile e generare un processo di liberazione. In questo senso la rivelazione del Nome divino è orientata in direzione dell’alleanza e della missione. «Il Nome è insieme teofanico e performativo, poiché quelli che lo ricevono non sono semplicemente introdotti nel segreto divino, ma sono i destinatari di un atto di salvezza».[ii]
            Il Nome, infatti, a differenza del concetto, non designa meramente un’essenza da pensare, ma un’alterità cui riferirsi, una presenza da invocare, un soggetto che si propone come vero interlocutore dell’esistenza. Pur implicando l’annuncio di un’incomparabile ricchezza ontologica, quella stessa dell’Essere che non può mai essere adeguatamente definito, il fatto che Dio si riveli come un “Io” indica che solo attraverso la relazione personale con Lui sarà possibile accedere alla sua identità, al Mistero dell’Essere che Egli è. La rivelazione del Nome personale è dunque un atto di parola che interpella il destinatario, chiedendogli di situarsi nei confronti del parlante. Solo così, infatti, è possibile coglierne il senso. Tale rivelazione, inoltre, si pone esplicitamente come fondamento per la missione liberatrice che Mosè deve realizzare: «Io-sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Presentandosi come un Dio personale, e non un Dio legato a un territorio, e come il Dio della promessa, e non puramente come il signore dell’immutabile ripetizione, Jahwè potrà sostenere il cammino del popolo, il suo viaggio verso la libertà. Egli ha dunque un Nome che si fa conoscere in quanto suscita alleanza e muove la storia.
            «Ditemi il vostro nome»: questa domanda di Giovanni non può ricevere risposta semplicemente attraverso una formula, un nome inteso come etichetta esteriore della persona. Per conoscere il Nome di Colui che parla nel sogno non basta ricevere un’informazione, ma è necessario prendere posizione di fronte al suo atto di parola. È necessario cioè entrare in quel rapporto di intimità e di consegna, che i Vangeli descrivono come un “rimanere” presso di Lui. Per questo quando i primi discepoli interrogano Gesù sulla sua identità – «Maestro, dove abiti?» o alla lettera «dove rimani?» – egli risponde «Venite e vedrete» (Gv 1,38s.). Solo “rimanendo” con lui, abitando nel suo mistero, entrando nella sua relazione con il Padre, si può conoscere realmente Chi egli sia.
            Il fatto che il personaggio del sogno non risponda a Giovanni con un appellativo, come noi faremmo presentando ciò che c’è scritto sulla nostra carta di identità, indica che il suo Nome non può essere conosciuto come una pura designazione esterna, ma mostra la sua verità solo quando sigilla un’esperienza di alleanza e di missione. Giovanni dunque conoscerà quel Nome proprio attraversando la dialettica del possibile e dell’impossibile, della chiarezza e dell’oscurità; lo conoscerà realizzando la missione oratoriana che gli è stata affidata. Lo conoscerà, dunque, portandolo dentro di sé, grazie a una vicenda vissuta come storia abitata da Lui. Un giorno Cagliero testimonierà di don Bosco che il suo modo di amare era
«tenerissimo, grande, forte, ma tutto spirituale, puro, veramente casto», tanto che «dava un’idea perfetta dell’amore che il Salvatore portava ai fanciulli» (Cagliero 1146r). Questo indica che il Nome dell’uomo venerando, il cui volto era tanto luminoso da accecare la vista del sognatore, è realmente entrato come un sigillo nella vita di don Bosco. Egli ne ha avuta la experientia cordis attraverso il cammino della fede e della sequela. È questa l’unica forma in cui la domanda del sogno poteva trovare risposta.

4. La mediazione materna
            Nell’incertezza circa Colui che lo invia, l’unico punto fermo cui Giovanni può appigliarsi nel sogno è il rimando a una madre, anzi a due: quella dell’uomo venerando e la propria. Le risposte alle sue domande, infatti, suonano così: «Io sono il figlio di colei che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno» e poi «il mio nome dimandalo a Mia Madre».
            Che lo spazio del chiarimento possibile sia mariano e materno è indubbiamente un elemento su cui merita riflettere. Maria è il luogo in cui l’umanità realizza la più alta corrispondenza alla luce che viene da Dio e lo spazio creaturale in cui Dio ha consegnato al mondo la sua Parola fatta carne. È altresì indicativo che al risveglio dal sogno, colei che ne intuisce al meglio il senso e la portata sia la mamma di Giovanni, Margherita. Su livelli diversi, ma secondo una reale analogia, la Madre del Signore e la madre di Giovanni rappresentano il volto femminile della Chiesa, che si mostra capace di intuizione spirituale e costituisce il grembo in cui le grandi missioni vengono gestate e partorite.
            Non c’è dunque da stupirsi che le due madri siano accostate tra loro e proprio nel punto in cui si tratta di andare al fondo della questione che il sogno presenta, ossia la conoscenza di Colui che affida a Giovanni la missione di una vita. Come già per il cortile vicino a casa, così anche per la madre, nell’intuizione onirica gli spazi dell’esperienza più familiare e quotidiana si dischiudono e mostrano nelle loro pieghe un’insondabile profondità. I gesti comuni della preghiera, il saluto angelico che era usuale tre volte al giorno in ogni famiglia, improvvisamente appaiono per ciò che sono: dialogo con il Mistero. Giovanni scopre così che alla scuola di sua madre ha già instaurato un legame con la Donna maestosa, che può spiegargli tutto. Vi è già dunque una sorta di canale femminile che consente di superare l’apparente distanza che c’è tra «un povero ed ignorante fanciullo» e l’uomo «nobilmente vestito». Tale mediazione femminile, mariana e materna, accompagnerà Giovanni per tutta la vita e farà maturare in lui una particolare disposizione a venerare la Vergine con il titolo di Aiuto dei cristiani, divenendone l’apostolo per i suoi ragazzi e per la Chiesa intera.
            Il primo aiuto che la Madonna gli offre è quello di cui un bambino ha naturalmente bisogno: quello di una maestra. Ciò che essa devi insegnargli è una disciplina che rende veramente sapienti, senza cui «ogni sapienza diviene stoltezza». Si tratta della disciplina della fede, che consiste nel dare credito a Dio e nell’obbedire anche di fronte all’impossibile e all’oscuro. Maria la trasmette come l’espressione più alta della libertà e come la sorgente più ricca della fecondità spirituale e educativa. Portare in sé l’impossibile di Dio e camminare nell’oscurità della fede è, infatti, l’arte in cui la Vergine eccelle al di sopra di ogni creatura.
            Essa ne ha fatto un arduo tirocinio nella sua peregrinatio fidei, segnata non di rado dal buio e dall’incomprensione. Basti pensare all’episodio del ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio (Lc 2,41- 50). Alla domanda della madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Gesù risponde in modo sorprendente: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E l’evangelista annota: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro». Meno ancora probabilmente Maria capì quando la sua maternità, annunciata solennemente dall’alto, le fu per così dire espropriata perché divenisse comune eredità della comunità dei discepoli: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Ai piedi della croce poi, quando si fece buio su tutta la terra, l’Eccomi pronunciato nel momento della chiamata prese i contorni della rinuncia estrema, la separazione dal Figlio al cui posto doveva ricevere dei figli peccatori per i quali lasciarsi trapassare il cuore dalla spada.
            Quando dunque la donna maestosa del sogno inizia a svolgere il suo compito di maestra e, ponendo una mano sul capo di Giovanni, gli dice «A suo tempo tutto comprenderai», essa trae queste parole dalle viscere spirituali della fede che ai piedi della croce l’ha resa madre di ogni discepolo. Sotto la sua disciplina Giovanni dovrà restare per tutta la vita: da giovane, da seminarista, da sacerdote. In modo particolare dovrà rimanervi quando la sua missione prenderà contorni che al momento del sogno non poteva immaginare; quando, cioè, egli dovrà divenire nel cuore della Chiesa fondatore di famiglie religiose destinate alla gioventù di ogni continente. Allora Giovanni, divenuto ormai don Bosco, capirà anche il senso più profondo del gesto con cui l’uomo venerando gli ha dato sua madre come “maestra”.
            Quando un giovane entra in una famiglia religiosa, trova ad accoglierlo un maestro di noviziato, cui viene affidato perché lo introduca nello spirito dell’Ordine e lo aiuti ad assimilarlo. Quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria.
            In effetti la donna del sogno sa indicargli in modo preciso e appropriato le ricchezze del carisma oratoriano. Essa non aggiunge nulla alle parole del Figlio, ma le illustra con la scena degli animali selvaggi divenuti agnelli mansueti e con l’indicazione delle qualità che Giovanni dovrà maturare per svolgere la sua missione: «umile, forte, robusto». In questi tre aggettivi, che designano il vigore dello spirito (l’umiltà), del carattere (la forza) e del corpo (la robustezza), c’è una grande concretezza. Sono i consigli che darebbe a un giovane novizio chi ha una lunga esperienza di oratorio e sa ciò che richiede il “campo” in cui si deve “lavorare”. La tradizione spirituale salesiana ha custodito con cura le parole di questo sogno che si riferiscono a Maria. Le Costituzioni salesiane vi alludono in modo evidente quando affermano: «La Vergine Maria ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani»,[iii] o ricordano che «guidato da Maria che gli fu Maestra, don Bosco visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò Sistema Preventivo».[iv]
            Don Bosco riconobbe a Maria un ruolo determinante nel suo sistema educativo, vedendo nella sua maternità l’ispirazione più alta di ciò che significa “prevenire”. Il fatto che Maria sia intervenuta fin dal primo momento della sua vocazione carismatica, che essa abbia avuto un ruolo così centrale in questo sogno, farà per sempre comprendere a don Bosco che essa appartiene alle radici del carisma e che ove non le sia riconosciuto questo ruolo ispiratore, il carisma non è inteso nella sua genuinità. Data per Maestra a Giovanni in questo sogno, essa dovrà esserlo anche per tutti coloro che ne condividono la vocazione e la missione. Come i successori di don Bosco non si sono mai stancati di affermare, la «vocazione salesiana è inspiegabile, tanto nella sua nascita come nel suo sviluppo e sempre, senza il concorso materno e ininterrotto di Maria».[v]

5. La forza della mansuetudine
            «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici»: queste parole sono senza dubbio l’espressione più nota del sogno dei nove anni, quella che in qualche modo ne sintetizza il messaggio e ne trasmette l’ispirazione. Sono anche le prime parole che l’uomo venerando dice a Giovanni, interrompendo il suo sforzo violento di mettere fine al disordine e alle bestemmie dei suoi compagni. Non si tratta solo di una formula che trasmette una sentenza sapienziale sempre valida, ma di un’espressione che precisa le modalità esecutive di un ordine («mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole») con cui, come si è detto, viene riorientato il movimento intenzionale della coscienza del sognatore. La foga delle percosse deve divenire lo slancio della carità, l’energia scomposta di un intervento repressivo deve lasciar spazio alla mansuetudine.
            Il termine “mansuetudine” viene ad avere qui un peso rilevante, che colpisce ancora di più se si pensa che l’aggettivo corrispondente sarà usato alla fine del sogno per descrivere gli agnelli che fan festa intorno al Signore e a Maria. L’accostamento suggerisce un’osservazione che non pare priva di pertinenza: perché possano divenire “mansueti” agnelli coloro che erano animali feroci, bisogna che divenga mansueto anzitutto il loro educatore. Entrambi, seppur a partire da punti diversi, devono compiere una metamorfosi per entrare nell’orbita cristologica della mitezza e della carità. Per un gruppo di ragazzi scalmanati e rissosi è facile capire che cosa esiga questo cambiamento. Per un educatore forse è meno evidente. Egli, infatti, si pone già sul versante del bene, dei valori positivi, dell’ordine e della disciplina: quale cambiamento gli può essere chiesto?
            Si pone qui un tema che nella vita di don Bosco avrà uno sviluppo decisivo, anzitutto sul piano dello stile dell’azione e, in certa misura, anche su quello di una riflessione teorica. Si tratta dell’orientamento che conduce don Bosco a escludere categoricamente un sistema educativo basato sulla repressione e sui castighi, per scegliere con convinzione un metodo che è tutto basato sulla carità e che don Bosco chiamerà “sistema preventivo”. Di là delle diverse implicanze pedagogiche che derivano da questa scelta, per le quali rimandiamo alla ricca bibliografia specifica, interessa qui evidenziare la dimensione teologico-spirituale che è sottesa a questo indirizzo, di cui le parole del sogno costituiscono in qualche modo l’intuizione e l’innesco.
            Ponendosi dalla parte del bene e della “legge”, l’educatore può essere tentato di impostare la sua azione con i ragazzi secondo una logica che mira a far regnare l’ordine e la disciplina essenzialmente attraverso regole e norme. Eppure anche la legge porta dentro di sé un’ambiguità che la rende insufficiente a guidare la libertà, non solo per i limiti che ogni regola umana porta dentro di sé, ma per un limite che ultimamente è di ordine teologale. Tutta la riflessione paolina è una grande meditazione su questo tema, poiché Paolo aveva percepito nella sua esperienza personale che la legge non gli aveva impedito di essere «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Tim 1,13). La stessa Legge data da Dio, insegna la Scrittura, non basta a salvare l’uomo, se non vi è un altro Principio personale che la integri e la interiorizzi nel cuore dell’uomo. Paul Beauchamp riassume felicemente questa dinamica quando afferma: «La Legge è preceduta da un Sei amato e seguita da un Amerai. Sei amato: fondazione della legge, e Amerai: il suo superamento».[vi] Senza questa fondazione e questo superamento, la legge porta in sé i segni di una violenza che rivela la sua insufficienza a generare quel bene che essa, pure, ingiunge di compiere. Per tornare alla scena del sogno, i pugni e le percosse che Giovanni dà in nome di un sacrosanto comandamento di Dio, che proibisce la bestemmia, rivelano l’insufficienza e l’ambiguità di ogni slancio moralizzatore che non sia interiormente riformato dall’alto.
            Occorre dunque anche per Giovanni, e per coloro che apprenderanno da lui la spiritualità preventiva, la conversione a una logica educativa inedita, che va oltre il regime della legge. Tale logica è resa possibile solo dallo Spirito del Risorto, effuso nei nostri cuori. Solo lo Spirito, infatti, consente di passare da una giustizia formale ed esteriore (sia essa quella classica della “disciplina” e della “buona condotta” o quella moderna delle “procedure” e degli “obiettivi raggiunti”) a una vera santità interiore, che compie il bene perché ne è interiormente attratta e guadagnata. Don Bosco mostrerà di avere questa consapevolezza quando nel suo scritto sul Sistema preventivo dichiarerà francamente che esso è tutto basato sulle parole di san Paolo: «Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet».
            Naturalmente “guadagnare” i giovani in questo modo è un compito assai esigente. Implica di non cedere alla freddezza di un’educazione fondata solo sulle regole, né al buonismo di una proposta che rinuncia a denunciare la “bruttezza del peccato” e a presentare la “preziosità della virtù”. Conquistare al bene mostrando semplicemente la forza della verità e dell’amore, testimoniata attraverso la dedizione “fino all’ultimo respiro”, è la figura di un metodo educativo che è al contempo una vera e propria spiritualità.
            Non c’è da stupirsi che Giovanni nel sogno faccia resistenza a entrare in questo movimento e chieda di comprendere bene chi è Colui che lo imprime. Quando però avrà capito, facendo diventare quel messaggio dapprima un’istituzione oratoriana e poi anche una famiglia religiosa, penserà che raccontare il sogno in cui ha appreso quella lezione sarà il modo più bello per condividere con i suoi figli il significato più autentico della sua esperienza. È Dio che ha guidato ogni cosa, è Lui stesso che ha impresso il movimento iniziale di quello che sarebbe divenuto il carisma salesiano.

don Andrea Bozzolo, sdb, Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana


[i] A. LACOCQUE, La révélation des révélations: Exode 3,14, in P. RICOEUR – A. LACOCQUE, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998, 305.

[ii] A. BERTULETTI, Dio, il mistero dell’unico, Queriniana, Brescia 2014, 354.

[iii] Cost art. 8.

[iv] Cost art. 20.

[v] E. VIGANÒ, Maria rinnova la Famiglia Salesiana di don Bosco, ACG 289 (1978) 1-35, 28.

[vi] P. BEAUCHAMP, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 116.

Il sogno che fa sognare. Lettura teologica del sogno dei 9 anni di don Bosco. Prof. don Andrea Bozzolo. Conferenza tenuta nel 15.01.2024 nella Basilica Maria Ausiliatrice, Torino