Una ruota misteriosa e profetica (1861)

Il Cuore del saggio conosce il tempo (di operare) e la maniera di rispondere (per rendere ragione delle sue azioni). Per ogni cosa v’ha il suo tempo opportuno; ma è di grande afflizione per l’uomo il non sapere il passato e il non potere avere novella pel futuro (Qo 8, 6-7).
Di tale conoscenza di Don Bosco e del non essere a lui nascoste le cose passate e le future che lo interessavano ce ne dà novella riprova la persuasione, che ispirò le cronache di D. Ruffino Domenico, di D. Bonetti Giovanni e le memorie scritte da D. Giovanni Cagliero, da D. Cesare Chiala e da altri, tutti testimoni auricolari delle parole del servo di Dio. Con singolare accordo ci espongono un altro sogno da lui raccontato, nel quale ci vide il suo Oratorio di Valdocco e i frutti che produceva, la condizione degli alunni al cospetto di Dio; quelli che erano chiamati allo stato ecclesiastico, o allo stato religioso nella Pia Società, o a vivere nello stato laico; e l’avvenire della nascente Congregazione.

            Don Bosco adunque sognò nella notte precedente il 2 maggio, ed il sogno durò circa sei ore. Appena fu giorno si alzò del letto per iscrivere gli appunti principali e i nomi di alcuni fra i personaggi, che aveva visti passarglisi innanzi mentre dormiva. Per raccontarlo impiegò tre sere consecutive stando sul pulpitino sotto i portici dopo le orazioni.
            Il 2 maggio parlò per circa tre quarti d’ora. L’esordio, al solito di queste sue narrazioni apparve alquanto confuso e strano per le ragioni che abbiamo già altre volte esposte, e per quelle che presenteremo al giudizio dei nostri lettori.
            Così egli prese a parlare ai giovani dopo aver annunziato l’argomento.

            Questo sogno riguarda solo gli studenti. Moltissime cose da me viste non possono essere descritte, perché non mi bastano né la mente, né le parole. Mi pareva di essere uscito dalla mia casa dei Becchi. Era avviato per un sentiero, il quale conduceva ad un paese vicino a Castelnuovo, detto Capriglio. Voleva recarmi ad un campo tutto sabbioso di nostra proprietà, in una valletta dietro alla casa, detta Valcappone, il cui raccolto basta appena a pagare le imposte. Ivi nella mia fanciullezza sono andato sovente a lavorare. Avevo già percorso un bel tratto di strada, quando vicino a quel campo incontrai un uomo sui quarant’anni, di statura ordinaria, con la barba lunga, ben fatta e bruno di faccia. Era vestito di un abito che gli scendeva sino alle ginocchia e stretto ai fianchi; in testa portava una specie di candido berretto. Stava in atto di aspettare qualcuno. Costui mi salutò famigliarmente, come se io fossi persona a lui nota da molto tempo, e mi domandò:
            – Dove vai?
            Arrestando il passo, gli risposi:
            – Eh! Vado a vedere un campo che abbiamo da queste parti. E tu cosa fai qui?
            – Non essere curioso, mi rispose; non hai bisogno di saperlo.
            – Benissimo. Ma intanto favorisci di dirmi il tuo nome e chi tu sia, poiché mi avvedo che tu mi conosci. Io però non ti conosco.
            – Non occorre che io ti dica il mio nome e le mie qualità. Vieni. Facciamoci compagnia.
            Mi rimisi in cammino con lui e dopo alcuni passi mi vidi innanzi un vasto campo coperto di alberi di fico. Il mio compagno mi disse:
            – Vedi i bei fichi che qui ci sono? Se ne vuoi, prendine pure e mangiane.
            Io risposi meravigliato:
            – Non vi furono mai fichi in questo campo.
            Ed egli:
            – E adesso ve ne sono: eccoli là.
            – Ma essi sono immaturi: non è ancora la stagione dei fichi.
            – Eppure guarda; ve ne sono già dei belli e ben maturi; se ne vuoi, fa presto perché è tardi.
            Ma io non mi muoveva e l’amico instava:
            – Ma fa presto, non perdere tempo, perché la sera è vicina.
            – Ma per qual motivo mi fai tanta fretta? Eh no! non ne voglio; mi piace il vederli, il regalarli, ma gustano poco al mio palato.
            – Se la cosa è così andiamo: ma ricordati quel che dice il Vangelo di S. Matteo, dove parla dei grandi avvenimenti che sovrastavano a Gerusalemme. Diceva Gesù Cristo ai suoi Apostoli. Ab arbore fici discite parabolam. Cum iam ramus ejus tener fuerit et folia nata, scitis quia prope est aestas (Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina, Mt. 24,32). Ed ora tanto più è vicina se i fichi incominciano a maturare.
            Ci rimettemmo in via ed ecco comparire un altro campo messo tutto a viti. Lo sconosciuto tosto mi disse:
            – Vuoi dell’uva? Se non ti piacciono i fichi, vedi là quell’uva: prendine e mangiane.
            – Oh! dell’uva ne prenderemo a suo tempo nella vigna.
            – Ce n’è anche qui.
            – A suo tempo! gli risposi.
            – Ma non vedi là tutta quell’uva matura?
            – Possibile? a questa stagione?
            – Ma fa presto! Si fa sera; non hai tempo da perdere.
            – E che premura c’è da far presto? Purché passi la giornata e mi trovi a casa in sulla sera.
            – Fa presto: dico fa presto, che tosto si fa notte.
            – Ah! Se si fa notte, ritornerà giorno.
            – Non è vero; non ritornerà più il giorno.
            – Ma come? Che cosa vuoi dire?
            – Che si avvicina la notte.
            – Ma di qual sera mi vai parlando? Vorrai dire che debbo proprio preparare il fagotto e partire? Che io debba presto andarmene alla mia eternità?
            – Si avvicina la notte: hai più poco tempo.
            – Ma dimmi almeno se sarà presto! Quando sarà?
            – Non voler essere tanto curioso. Non plus sapere quam oportet sapere (Rom. 12,3).
            Così diceva mia madre ai ficcanaso: pensai fra me stesso e risposi ad alta voce:
            Per ora non ho voglia di uva!
            Intanto camminammo ancora avanti di conserva per breve tratto di via e siamo arrivati in capo al nostro podere, dove trovammo il mio fratello Giuseppe che caricava un carro. Egli avvicinandosi mi salutò: poi salutò il mio compagno, ma vedendo che quegli non rispondeva al saluto e non gli dava retta, mi domandò se fosse stato mio condiscepolo alle scuole.
            – No; non l’ho mai visto, risposi.
            Allora ei gli volse di nuovo la parola:
            – Di grazia, mi dica il suo nome; mi favorisca di una risposta: che io sappia con chi parlo. – Ma l’altro non gli badava. Mio fratello meravigliato si rivolse a me per interrogarmi.
            – Ma chi è costui?
            – Non lo so: non me lo volle dire! – Ambedue insistemmo ancora qualche poco per sapere donde venisse, ma l’altro sempre ripeteva: Non plus sapere quam oportet sapere.
Intanto mio fratello si era allontanato e più non lo vidi, e quello sconosciuto rivoltosi a me, disse:          – Vuoi vedere qualche cosa di singolare?
            – Vedrò volentieri, risposi.
            – Vuoi vedere i tuoi ragazzi tali e quali sono al presente? Quali saranno in futuro? E li vuoi tu contare?
            – Oh sì, sì.
            – Vieni adunque.

I parte

            Allora egli trasse fuori, non so di dove, una grossa macchina, la quale non saprei descrivere, che aveva dentro una grande ruota e la piantò per terra.
            – Che cosa significa questa ruota? domandai.
            Mi fu risposto:
            – L’Eternità nelle mani di Dio! – E prese la manovella di quella ruota e la fece girare: quindi mi disse:
            – Prendi il manubrio e dà un giro.
            Così feci; e mi soggiunse:
            – Ora guarda là dentro.
            Osservai la macchina e vidi esservi un gran vetro in figura di una lente, largo un metro e mezzo circa, che si trovava nel mezzo della macchina, fisso alla ruota. Intorno a questa lente stava scritto: Hic est oculus qui humilia respicit in coelo et in terra (Sal 112,6). Subito misi la faccia su quella lente. Guardai. Oh spettacolo! Vidi là entro tutti i giovani dell’Oratorio. – Ma come è possibile questo? diceva fra me. Fino adesso ho visto nessuno in questa regione ed ora vedo tutti i miei figli! Non si trovano essi tutti a Torino? – Guardai al disopra ed ai lati della macchina, ma fuori di quella lente niente vedeva. Alzai la faccia per fare le mie meraviglie con quell’amico, ma dopo qualche istante egli mi ordino di dare un secondo giro alla manovella e vidi una singolare e strana separazione dei giovani. I buoni divisi dai cattivi. I primi erano raggianti di gioia. I secondi, che però non erano molti, facevano compassione. Io li riconobbi tutti, ma come erano diversi da quelli che i compagni li credevano. Gli uni avevano la lingua bucata, altri gli occhi compassionevolmente stravolti, altri oppressi da male al capo per ulceri ributtanti, altri avevano il cuore roso dai vermi. Io più li guardava tanto più mi sentiva afflitto dicendo: – Ma è possibile che questi siano i miei figli? Non capisco che cosa vogliano significare queste così strane infermità.
            A tali mie parole, colui che mi aveva condotto alla ruota, mi disse:
            -Ascolta me: la lingua forata significa i discorsi cattivi; gli occhi guerci coloro che interpretano e apprezzano stortamente le grazie di Dio preferendo la terra al cielo; la testa ammalata è la noncuranza dei tuoi consigli, la soddisfazione dei propri capricci; i vermi sono le malvagie passioni che rodono i cuori: vi sono anche dei sordi che non vogliono udire le tue parole per non metterle in pratica.
            Quindi mi fece un cenno ed io dato un terzo giro alla ruota applicai l’occhio alla lente dell’apparecchio. Vi erano quattro giovani legati con grosse catene. Li osservai attentamente e li conobbi tutti. Chiesi spiegazione allo sconosciuto, e mi rispose:
            – Lo puoi sapere facilmente: sono quelli che non ascoltano i tuoi consigli e, se non mutano costume, sono in pericolo di essere messi in prigione e di marcirvi pei loro delitti o gravi disobbedienze.
            – Voglio prendere nota del loro nome per non dimenticarlo, io dissi; ma l’amico rispose:
            -Non fa di bisogno; sono tutti notati: eccoli scritti in questo quaderno!
            Mi accorsi allora di un libretto che egli teneva in mano. Mi comandò di dare un altro giro. Obbedii e mi posi nuovamente a guardare. Si vedevano sette altri giovani, i quali stavano tutti fieri, in contegno diffidente, con un lucchetto alla bocca che chiudeva le loro labbra. Tre di costoro si turavano eziandio le orecchie colle mani. Mi alzai nuovamente dal vetro: voleva estrarre il taccuino per notare colla matita i loro nomi, ma quell’uomo disse:
            – Non fa di bisogno; eccoli qui notati su questo quaderno, che non mi lascia mai.
            E assolutamente non volle che scrivessi. Io stupito e addolorato per quella stranezza, domandai per qual motivo il lucchetto stringesse le labbra di quei tali. Egli mi rispose:
            – E non lo intendi? Questi sono coloro che tacciono.
            – Ma che cosa tacciono?
            – Tacciono!
            Allora capii che ciò voleva significare per rispetto alla confessione. Sono coloro che, anche interrogati dal confessore, non rispondono, o rispondono evasivamente, o contro la verità. Rispondono no, quando è sì.
            L’amico continuò:
            – Vedi quei tre che, oltre il lucchetto alla bocca, hanno le mani alle orecchie? quanto è deplorevole la loro condizione! Questi sono quei tali che non solo tacciono in confessione, ma non vogliono in nessuna maniera ascoltare gli avvisi, i consigli, i comandi del confessore. Essi sono quelli che udirono le tue parole, ma non le ascoltarono, non vi diedero retta. Potrebbero metter giù quelle mani, ma non vogliono. Gli altri quattro ascoltarono le tue esortazioni, raccomandazioni, ma non ne approfittarono.
            – E come debbono fare per togliersi quel lucchetto?
            – Ejiciatur superbia e cordibus eorum (scacciando la superbia dal loro cuore).
            – Io avviserò tutti costoro, ma per quelli che hanno le mani alle orecchie ci è poca speranza.
Quell’uomo diede poi a me un consiglio: cioè che quando si dicono due parole in pulpito, una sia intorno al far bene le confessioni. Promisi che avrei obbedito. Non voglio dire di regolarmi assolutamente così, perché mi renderei noioso; ma farò il possibile per inculcare spesse e spesse volte questa massima necessaria. Infatti è più grande il numero di coloro che si dannano confessandosi, che di coloro che si dannano per non confessarsi, perché anche i più cattivi qualche volta si confessano, ma moltissimi non si confessano bene.
            Quel personaggio misterioso mi fece dare un altro giro di ruota.
            Detto, fatto. Guardai e vidi tre altri giovani in un pauroso atteggiamento. Avevano ciascuno un grosso scimmione sulle spalle. Osservava attentamente e vidi che gli scimmioni avevano le corna. Ciascuna di quelle orribili bestiacce colle zampe davanti stringeva un infelice al collo talmente stretto, che lo faceva venir rosso ed infiammato in volto, quasi schizzandogli fuori dalle orbite gli occhi iniettati di sangue; colle zampe di dietro lo serrava nelle cosce dimodoché a stento poteva muoversi, e colla coda, che andava giù fino a terra, lo avvolgeva ancora attorno alle gambe, sicché gli rendeva più difficile e quasi impossibile il camminare. Questo significava quei giovani che dopo gli esercizi sono in peccato mortale, specialmente d’impurità e d’immodestia, rei di materia grave contro il sesto comandamento. Il demonio li stringeva al collo non lasciandoli parlare quando dovrebbero: li faceva venir rossi in faccia al punto che perdono il cervello e non sanno più quel che si facciano, rimanendo poi legati da vergogna fatale, la quale invece di condurli a salute li conduce a perdizione; per le sue strette loro faceva schizzar gli occhi fuori dal capo, per cui non son capaci di vedere la loro miseria, e i mezzi per uscire da questo orribile stato, perché trattenuti da una paurosa apprensione e ripugnanza dei Sacramenti. Li tiene poi stretti alle cosce ed alle gambe, affinché non possano più camminare, né fare passo per mettersi sulla via del bene: tale essendo il predominio della passione per causa dell’abito, da far loro credere impossibile l’emendazione.
            Vi assicuro, o cari giovani, che io piansi a tale spettacolo. Avrei voluto gettarmi avanti per andare a liberare quei disgraziati, ma appena mi allontanava dalla lente più nulla vedeva. Volli allora notarmi il nome di questi tre, ma l’amico replicò:
            – Cosa inutile perché sono scritti in questo libro che tengo in mano.
Allora pieno il cuore di commozione indicibile, colle lagrime agli occhi, mi volsi al compagno e dissi:
            – Ma come? In tale stato questi poveri giovani, per i quali ho spese tante parole, ho usate tante cure in confessione e fuori di confessione? – E chiesi come dovessero fare quei giovani per gettar via dalle spalle così brutto mostro. Egli si mise a dire in fretta e borbottando: Labor, sudor, fervor (Lavoro, sudore, fervore).
            – Io non capisco: parla più chiaro.
            Di nuovo ripeté, ma sempre borbottando:
            – Labor, sudor, fervor.
            – È inutile: se tu parli così io non capisco.
            – Oh! tu vuoi burlarti di me.
            – Sia come si vuole, ma ripeto che io non capisco.
            – Già! tu sei uso alle grammatiche ed alle costruzione delle scuole: sta dunque attento. Labor, punto e virgola; Sudor, punto e virgola; Fervor, punto. Hai capito?
            – Ho capito materialmente le parole, ma conviene che tu me ne dia la spiegazione.
            – Labor in assiduis operibus; Sudor in poenitentiis continuis; Fervor in orationibus ferventibus et perseverantibus (Lavoro in un assiduo operare; Sudore in continue penitenze; Fervore nelle preghiere ferventi e perseveranti). Ma per costoro hai un bel sacrificarti: non riuscirai a guadagnarli, perché non vogliono scuotere il giogo di satana del quale sono schiavi.
            Io intanto guardava e continuava a corrucciarmi pensando: – Ma come! Tutti questi adunque sono perduti? Possibile! Anche dopo gli esercizi spirituali… quei tali… dopo aver io fatto tanto per loro… dopo aver tanto lavorato… dopo tante prediche… dopo tanti consigli che loro ho dato… e tante promesse!… Averli tante volte avvisati… Non mi sarei mai aspettato simile disinganno. E non poteva darmi pace.
            Allora il mio interprete prese a rimproverarmi:
            – Oh il superbo! Vedete il superbo! E chi sei tu dunque che pretendi di convertire perché lavori? Perché tu ami i tuoi giovani, pretendi di vederli tutti corrispondere alle tue intenzioni? Credi tu forse di essere dappiù del nostro divin Salvatore nell’amare le anime, faticare e patire per esse? Credi tu che la tua parola debba essere più efficace di quella di Gesù Cristo? Predichi tu forse meglio di lui? Credi tu di aver usata più carità, maggior cura verso i tuoi giovani, di quella che abbia usata il Salvatore verso i suoi apostoli? Tu sai che vivevano con lui continuamente, erano ricolmi ad ogni istante di ogni sorta di suoi benefizi, udivano giorno e notte i suoi ammonimenti e i precetti della sua dottrina, vedevano le opere sue che essere dovevano un vivo stimolo per la santificazione dei loro costumi. Quanto non ha fatto e detto intorno a Giuda! Eppure Giuda lo tradì e morì impenitente. Sei tu forse dappiù degli apostoli? Ebbene: gli apostoli elessero sette diaconi: erano solo sette, scelti con ogni cura: eppure uno prevaricò! E tu fra cinquecento ti meravigli di questo piccolo numero, che non corrisponde alle tue cure? Pretendi di riuscire a non averne alcuno cattivo, che sia perverso? Oh il superbo! – Ciò udito io tacqui, ma non senza sentirmi l’anima oppressa dal dolore.
            – Del resto consolati, riprese quell’uomo, vedendomi tanto abbattuto: e mi fece dare un altro giro alla ruota, ripigliando: – Ammira quanto è generoso Iddio! Guarda quante anime ti vuol donare! Vedi là quel numero di giovani?
            Mi rimisi a guardare nella lente e vidi uno stuolo grandissimo di giovani che non aveva mai conosciuti in vita mia:
            – Sì, li vedo, risposi, ma non li conosco.
            – Ebbene costoro sono quelli che il Signore ti darà in compenso di quei quattordici che non corrispondono alle tue cure. Sappi che per ognuno di essi il Signore te ne darà cento.
            – Ah! povero me! io esclamava: ho già la casa piena! dove metterò io tutti questi giovani nuovi?
            – Non corrucciarti! Pel momento i posti ci sono. Più tardi Colui che te li manda, sa Egli dove li metterai. Egli stesso troverà i posti.
            – Ma, non è tanto il posto che mi dà fastidio: il più è il refettorio che mi dà seriamente da studiare.
            – Lascia adesso le celie: il Signore provvederà.
            – Se è così, sono contentissimo; risposi tutto consolato.
            E osservando per lungo tempo e con viva compiacenza tutti quei giovani, di molti ne ritenni le fisionomie, in modo di poterli riconoscere, qualora li incontrassi.
            E così Don Bosco fini di parlare la sera del 2 maggio.

II Parte

            La sera del 3 ripigliava il suo racconto. In quel cristallo aveva contemplato eziandio lo spettacolo della vocazione, che riguardava ciascuno dei suoi alunni. Fu conciso e vibrato nel dire. Non fece alcun nome, e rimise ad altro tempo la narrazione delle domande da lui mosse alla sua guida e le spiegazioni udite, intorno a certi simboli o allegorie che gli erano passate innanzi agli occhi. Di questi nomi però ne raccolse parecchi il Ch. Ruffino, per le confidenze dei giovani stessi, avendo loro D. Bosco spiegato privatamente ciò, che di essi aveva veduto; e ce ne trasmise la nota. Questa fu scritta nel 1861.
            Noi intanto per maggior chiarezza di esposizione e per non essere costretti a troppe ripetizioni, faremo un sol tutto, introducendo nel racconto i nomi ommessi e le spiegazioni date; ma queste le più volte senza forma di dialogo. Tuttavia saremo esatti nel riportare alla lettera ciò che scrisse il cronista.
            D. Bosco adunque prese a dire:

            Quello sconosciuto era presso il suo apparecchio della ruota e della lente. Io mi era rallegrato nel vedere tanti giovanetti che sarebbero venuti con noi, quando mi fu detto:
            – Vuoi tu ancora vedere uno spettacolo dei più belli?
            – Vediamo pure!
            – Gira la ruota! – Girai, guardai nella lente e vidi tutti i miei giovani divisi in due numerose schiere, alquanto distanti una dall’altra, sopra una stessa vasta regione. Da una parte scorgeva un terreno messo a legumi, erbaggi e prati, sulla sponda del quale vi erano alcuni filari di viti selvatiche. Quivi i giovani di una di quelle due schiere con le vanghe, le zappe, i picconi a due punte, i rastrelli, i badili lavoravano la terra. Erano sparsi in squadre che avevano i loro sovrastanti. Presiedeva il Cavaliere Oreglia di S. Stefano, il quale distribuiva strumenti agricoli di ogni sorta a quelli che zappavano; e faceva lavorare coloro che ne avevano poca voglia. Lontani, in fondo a quel terreno, vidi anche giovani che gettavano le sementi.
            La seconda schiera si trovava dall’altra parte in un esteso campo di grano coperto di spighe biondeggianti. Un lungo fosso serviva di confine tra questo e altri campi coltivati che da ogni lato si perdevano nell’estremo orizzonte. Quei giovani lavoravano a raccogliere la messe, ma non tutti facevano lo stesso lavoro. Molti mietevano e facevano grossi covoni; chi formava le biche, chi spigolava, chi guidava un carro, chi trebbiava, chi arrotava le falci, chi le affilava, chi le distribuiva, chi suonava la chitarra. Vi assicuro che era una bella scena di una varietà sorprendente.
            In quel campo, all’ombra di alberi annosi si vedevano tavole col cibo necessario per tutta quella gente; e più in là poco lontano un vasto e magnifico giardino recinto ed ombreggiato, ridente di ogni specie di aiuole di fiori.
            La separazione dei coltivatori della terra dai mietitori, indicava quelli che abbracciavano lo stato ecclesiastico e quelli che no. Io però non intendeva il mistero e rivoltomi alla mia guida:
            – Che cosa vuol dir questo? domandai: chi sono quei là che zappano?
            – Non sai ancora queste cose? Mi fu risposto; quelli che zappano sono coloro che lavorano solo per sé stessi, cioè che non sono chiamati allo stato ecclesiastico, ma ad uno stato laicale. – E intesi subito che quelli che zappavano erano gli artigiani, pei quali, nel loro stato, basta che pensino a salvare l’anima propria, senza che abbiano obbligo speciale di adoperarsi alla salvezza di quella degli altri.
            – E coloro che mietono, che sono nell’altra parte del campo replicai: e conobbi senz’altro essere quelli che erano chiamati allo stato ecclesiastico. Ed ora io so chi si deve far prete, e chi deve abbracciare altra carriera.
            Io contemplava con viva curiosità quel campo di grano. Provera distribuiva le falci ai mietitori e ciò indicava che egli avrebbe potuto divenire Rettore di Seminario o Direttore di Comunità religiosa o di casa di studio, o forse anche qualche cosa di più. È da notarsi che non tutti quelli che lavoravano prendevano la falce da lui, perché coloro che gliela chiedevano erano quelli, che avrebbero fatto parte della nostra Congregazione. Gli altri la ricevevano da alcuni distributori, che non erano dei nostri e con ciò si voleva significare, che si sarebbero fatti preti, ma per dedicarsi al Sacro Ministero fuori dell’Oratorio. La falce è simbolo della parola di Dio.
            Non a tutti quelli che la volevano, Provera dava subito la falce. Alcuni erano da lui mandati a mangiar prima, chi un boccone, chi due bocconi, cioè quello della pietà e quello dello studio. Rossi Giacomo fu mandato a prenderne uno. Costoro si recavano nel boschetto ove era il chierico Durando che faceva molte cose e tra le altre preparava la tavola pei mietitori e dava loro da mangiare. Tale uffizio indicava quelli che sono destinati in modo speciale a promuovere la divozione verso il SS. Sacramento. Intanto Galliano Matteo si affaccendava a portar da bere ai mietitori.
            Costamagna andò pure a prendere una falce ma fu da Provera mandato nel giardino a raccogliere due fiori. Lo stesso accadde a Quattroccolo. A Rebuffo venne indicato di raccogliere tre fiori con promessa che poi gli sarebbe stata messa in mano la falce. Vi era anche Olivero.
            Intanto tutti gli altri giovani si vedevano sparsi qua e là in mezzo alle spighe. Molti erano disposti in linea; alcuni avevano innanzi una porca larga, altri una meno larga. D. Ciattino parroco di Maretto mieteva con una falce ricevuta da Provera. D. Francesia e Vibert tagliavano il grano. Mietevano pure Perucatti Giacinto, Merlone, Momo, Garino, Iarach, i quali, cioè, avrebbero salvate le anime colla predicazione, se corrisponderanno alla loro vocazione. Chi tagliava più e chi meno. Bondioni mieteva da disperato, ma cosa violenta durerà? Altri davano con tutta forza la falce nel grano, ma non tagliavano mai niente. Vaschetti prese una falce e si mise a tagliare, tagliare, finché uscì fuori del campo e andò a lavorare altrove. Ad altri accadde lo stesso. Fra quelli che mietevano molti non avevano la falce affilata; ad altre falci mancava la punta. Alcuni l’avevano così guasta che, volendo tuttavia mietere, laceravano e guastavano ogni cosa.
            Ruffino Domenico mieteva e gli era stata assegnata una porca larga molto; la sua falce tagliava bene: aveva solo questo difetto che le mancava la punta, simbolo dell’umiltà. Era il desiderio di tendere a più alto grado tra gli eguali. Egli andava da Cerruti Francesco per farla martellare. Infatti osservai Cerruti che martellava le falci, indizio che doveva mettere nei cuori scienza e pietà, alludendo che sarebbe divenuto un insegnante. Il martellare era l’ufficio di colui che si dà all’insegnamento del clero e Provera consegnava a lui le falci guaste. A D. Rocchietti e ad altri consegnava quelle che avevano bisogno di essere affilate, tale essendo la loro occupazione. L’ufficio di affilare era proprio di colui, il quale dirige il clero alla pietà. Si presentò Viale e andò a prendere una falce che non era affilata, ma Provera volle dargliene un’altra tagliente passata allora sulla coté. Vidi eziandio un fabbro ferraio, che doveva preparare i ferri agricoli e questi era Costanzo.
            Mentre ferveva tutto questo complicato lavoro, Fusero faceva i covoni, e ciò voleva dire conservare le coscienze in grazia di Dio: ma venendo anche più al particolare e prendendo i covoni non come immagini dei semplici fedeli, ma di quelli che sono destinati allo stato ecclesiastico, si capiva che avrebbe egli occupato un posto d’insegnante nell’istruzione dei chierici.
            Vi era chi lo aiutava a legare i covoni e ricordo aver veduti tra gli altri D. Turchi e Ghivarello. Ciò significa coloro che sono destinati ad aggiustare le coscienze, come sarebbe confessando; e specialmente per gli addetti o aspiranti allo stato ecclesiastico.
            Altri trasportavano i covoni sopra di un carro, il quale rappresentava la grazia di Dio. I peccatori convertiti debbono mettersi sopra di questo, ad incamminarsi per la retta via della salute, che ha per termine il cielo. Il carro si mosse quando fu colmo di covoni. Veniva tirato non da giovani, ma dai buoi simbolo di forza perseverante. Vi erano coloro che li conducevano. D. Rua precedeva il carro e lo guidava e ciò vuol dire che a lui toccherebbe guidare le anime al cielo. D. Savio veniva dietro colla scopa raccogliendo le spiche e i covoni che cadevano.
            Sparsi pel campo si vedevano quelli che spigolavano, tra i quali Bonetti Giovanni e Bongiovanni Giuseppe, cioè quelli che raccoglievano i peccatori ostinati. Bonetti specialmente è chiamato dal Signore in modo particolare a cercare questi disgraziati sfuggiti dalla falce dei mietitori.
            Con Fusero anche Anfossi rizzava sul campo mucchi di covoni del grano segato, perché fosse battuto a tempo opportuno: ciò forse era indizio di qualche cattedra. Altri come D. Alasonatti formavano le biche e sono quelli che amministrano i danari, vegliano per l’esecuzione delle regole, insegnano le orazioni e il canto delle laudi sacre, che insomma cooperano materialmente e moralmente a mettere le anime sulla strada del paradiso.
            Uno spazio di terra appariva spianato e accomodato per battervi le biade. D. Cagliero Giovanni, che prima era andato nel giardino a cogliere dei fiori e li aveva distribuiti ai compagni, col suo mazzolino in mano si recò in quell’aia a trebbiare il grano. Trebbiare il grano si riferisce a coloro che sono destinati da Dio ad occuparsi dell’istruzione del basso popolo.
            A distanza si vedevano parecchie nere fumate alzarsi verso il cielo. Era opera di quelli che raccoglievano il loglio e, usciti fuori dal confine del campo occupato dalle spighe, lo mettevano a mucchio e lo abbruciavano. Significava coloro che sono specialmente destinati a togliere i cattivi di mezzo ai buoni, indicando i direttori delle nostre case future. Fra questi si vedevano D. Cerruti Francesco, Tamietti Giovanni, Belmonte Domenico, Albera Paolo e altri che ora giovanetti studiano nelle prime classi ginnasiali.
            Tutte le scene sopra descritte si svolgevano ad un tempo e vidi tra quella moltitudine di giovani alcuni, i quali portavano una lucerna in mano per far lume anche in pieno mezzogiorno. Sono coloro che sarebbero stati di buon esempio agli altri operai del vangelo e con questo devono illuminare il clero. Fra essi era Albera Paolo il quale oltre avere la lucerna, suonava eziandio la chitarra; e ciò significa che mostrerà la via ai sacerdoti, e farà loro coraggio per andare avanti nella loro missione. Si alludeva a qualche alta carica che sarà da lui occupata nella Chiesa.
            In mezzo però a tanto movimento non tutti i giovani che io vedeva, erano occupati in qualche lavoro. Uno di questi teneva una pistola in mano, cioè tendeva alla milizia; non si era però ancora deciso.
            Chi stava colla mano alla cintola osservando quelli che mietevano, e nello stesso tempo risoluti di non imitare il loro esempio; chi si mostrava indeciso, ma pesandogli la fatica, non sapeva se avesse anch’egli da risolversi alla mietitura; chi invece correva a por mano alla falce. Alcuni però là giunti, se ne stavano oziosi. Altri adoperavano la falce tenendola rivolta all’indietro e fra questi Molino. Sono coloro che fanno l’opposto di ciò che debbono fare. Vi erano di quelli, e ne contavo molti, che si allontanavano per andare a raccogliere lambrusche: cioè quelli che perdono il tempo in cose estranee al loro ministero.
            Mentre io contemplava ciò che andava accadendo nel campo di grano, vedeva l’altra schiera di giovani che zappavano, la quale presentava essa pure uno spettacolo singolare. La maggior parte di quei robusti lavorava con molto impegno, non mancavano però i negligenti. Chi maneggiava la zappa al contrario; altri dava il colpo sulle zolle, ma la zappa era sempre fuori di terra; ad alcuni ad ogni zappata sfuggiva il ferro dal manico. Il manico significa la retta intenzione.
            Quello che allora osservai si è che alcuni, i quali adesso sono artigiani, erano sul campo di biade che mietevano, ed altri che adesso studiano, erano là che zappavano. Tentai nuovamente di prender nota di ogni cosa; ma il mio interprete mi mostrava sempre il suo quaderno e mi impediva di scrivere.
            Nello stesso tempo vedeva moltissimi giovani che stavano là senza far nulla, non sapendo determinarsi, se dovessero mettersi a mietere o a zappare. I due Dalmazzo, Gariglio Primo, Monasterolo con molti altri guardavano ma risoluti di prendere una decisione.
            Continuando ad osservare distinsi di quelli che usciti di mezzo a coloro che zappavano, volevano andare a mietere. Uno corse nel campo di grano così sbadatamente da non pensare a procurarsi prima una falce. Arrossendo di quella stolta precipitazione ritornò indietro per chiederla. Colui che le distribuiva non voleva dargliela ed egli la pretendeva:
            – Non è ancor tempo, gli disse quel distributore.
            – Si è tempo: la voglio.
            – No; va ancora a prendere due fiori in quel giardino.
            – Ah! esclamò alzando le spalle quel presuntuoso; vado a prenderne finché vuole dei fiori.
            – No; due soli.
            Corse tosto, ma quando fu nel giardino pensò che non aveva domandato, quali fiori dovesse prendere; e si affrettò a rifare il sentiero:
            – Prenderai, gli fu risposto, il fiore della carità e il fiore dell’umiltà.
            – Li ho già.
            – Li avrai nella presunzione, ma in realtà non li hai.
            E quel giovane, rissava, si arrabbiava, saltava per la stizza che tutto lo agitava.
            – Non è più tempo adesso di andare sulle furie, gli disse il distributore, negandogli risolutamente la falce. E quegli si mordeva i pugni per la rabbia.
            Visto quest’ultimo spettacolo tolsi gli occhi per un istante da quella lente, per mezzo della quale tante cose aveva apprese, commosso eziandio delle applicazioni morali, che mi erano state suggerite dal mio amico. Volli ancora pregarlo che mi desse alcune spiegazioni, e mi ripeté:
            – Il campo di grano significa la Chiesa: la messe il frutto riportato: la falce è simbolo dei mezzi per fare frutto e specialmente la parola di Dio: la falce senza filo mancanza di pietà, senza punta mancanza di umiltà: l’uscire dal campo mietendo, vuol dire abbandonare l’Oratorio e la Pia Società.

III Parte

            La sera del 4 maggio D. Bosco veniva alla conclusione del sogno che nel primo quadro gli aveva presentato l’Oratorio i suoi alunni in ispecie gli studenti; e nel secondo coloro che erano chiamati allo stato ecclesiastico. Siamo ora al terzo quadro nel quale in visioni successive apparivano quelli che in quest’anno 1861 erano ascritti alla Pia Società di S. Francesco di Sales col prodigioso ingrandimento di questa, e collo scomparire a poco a poco dal mondo dei primi Salesiani ai quali succedevano i continuatori dell’Opera loro.
            D. Bosco parlò:

            Dopo che con pieno mio agio ebbi considerata la scena della mietitura ricca di tante varietà, quel gentile sconosciuto mi comandò:
            – Ora dà colla ruota dieci giri: conta e poi guarda.
            Mi posi a far girare la ruota e compiuto il decimo giro guardai. Ed ecco che vidi tutti i medesimi giovani, che io ricordava aver pochi giorni prima accarezzati ragazzi, comparire adulti, d’aspetto virile, gli uni colla barba lunga, altri coi capelli brizzolati.
            – Ma come va, domandai: l’altro giorno quel lì era bambino e quasi lo si prendeva ancora in braccio! e adesso è già così grande?
            L’amico mi rispose:
            – È naturale, quanti giri hai numerati?
            – Dieci.
            – Ebbene; 61 e 71. Contano già tutti dieci anni di più.
            – Ah! Ho capito. E osservai in fondo alla lente, panorami sconosciuti, case nuove che ci appartenevano e molti giovani alunni sotto la direzione dei miei cari figliuoli dell’Oratorio, già preti, maestri e direttori che li istruivano e poi li facevano divertire.
            – Dà di bel nuovo dieci giri, – mi disse quel personaggio – e andremo al 1881. Presi il manubrio e la ruota fece dieci altri giri. Guardai ed ecco io vidi più solo la metà dei giovani visti la prima volta, quasi tutti coi capelli grigi e alcuni un po’ curvi.
            – E gli altri dove sono? – domandai.
            – Sono già passati, mi fu risposto, nel numero dei più.
            Questa così notevole diminuzione dei miei giovani mi cagionò vivo dispiacere, ma rimasi consolato dallo scorgere anche, come in un quadro immenso paesi nuovi e regioni sconosciute ed una moltitudine di ragazzi sotto la custodia e direzione di maestri nuovi dipendenti ancora dai miei antichi giovani, alcuni dei quali divenuti di età matura.
            Poi diedi altri dieci giri alla ruota, ed ecco che ne vidi soltanto una quarta parte dei miei giovani visti pochi momenti prima più vecchi colla barba e coi capelli bianchi:
            – E tutti gli altri? chiesi.
            – Sono già nel numero dei più. Siamo nel 1891.
            Ed ecco succedere sotto i miei occhi un’altra scena commovente. I miei figli preti, logori dalle fatiche erano circondati da fanciulli, che io non aveva mai visti, e molti di pelle e di colore diverso da quello degli abitanti dei nostri paesi.
            Girai ancora dieci volte la ruota ed io vidi un terzo solo dei miei primi giovani, già cadenti vecchi, gobbi, sfigurati, macilenti, nei loro ultimi anni. Tra gli altri mi ricordo di aver visto D. Rua così vecchio e sparuto da non potersi più riconoscere tanto era cambiato.
            – E tutti gli altri? domandai.
            – Sono già nel numero dei più. Siamo al 1901.
            In molte case non riconobbi più nessuno dei nostri antichi; ma direttori e maestri da me mai veduti ed una moltitudine di giovani sempre più ingrossata, di case aumentate, di personali dirigenti mirabilmente accresciuti.
            – Ora continuò a dirmi il cortese interprete darai altri dieci giri e vedrai cose che ti consolano e cose che ti angustiano.
            Diedi altri dieci giri.
            – Ecco il 1911! esclamò quel misterioso amico. Ah! miei cari giovani! vidi case nuove, giovani nuovi, direttori e maestri con abiti e costumi nuovi.
            E dei miei dell’Oratorio di Torino? Cercai e cercai molto in mezzo a tanta moltitudine di giovani, e ne raffigurai solo più uno di voi altri incanutito e cadente per gli anni molti, il quale, circondato da bella corona di fanciulli, raccontava i principii del nostro Oratorio e loro ricordava e ripeteva le cose imparate da D. Bosco; e ne mostrava il ritratto che stava appeso alle pareti del loro parlatorio. E degli altri nostri vecchi allievi, superiori delle case, che aveva già visti invecchiati?…
            Dopo un nuovo cenno presi il manubrio e più volte girai. Non vidi che una vasta solitudine senza persona viva:
            – Oh! esclamai stupito, non vedo più nessuno dei miei! E dove dunque sono ora tutti i giovani che furono da me accolti, così allegri, vispi e robusti, e che attualmente si trovano con me all’Oratorio?
            – Sono col numero dei più. Sappi che sono passati dieci anni per ogni decimo girar di ruota.
            Contai allora quante volte aveva fatto dare dieci giri alla ruota e ne risultò che erano trascorsi cinquant’anni e che intorno al 1911 tutti gli attuali giovani dell’Oratorio sarebbero già morti.
            E ora vuoi ancor vedere qualche cosa di sorprendente? – mi disse quell’uomo benevolo.
            – Si: io risposi.
            – Dunque sta attento se ti piace vedere e sapere di più. Gira la ruota in senso contrario, contando altrettanti giri quanti ne hai dati prima.
            La ruota girò.
            – Ora guarda! Mi fu detto.
            Guardai; ed ecco io ebbi innanzi una quantità immensa di giovani tutti nuovi, di un’infinita varietà di costumi, paesi, fattezze e linguaggi, sicché non ostante che io mi sforzassi quanto poteva, non mi fu dato distinguerne che una minima parte coi loro superiori, direttori, maestri, assistenti.
            – Mi sono costoro affatto ignoti, io dissi alla mia guida.
            – Eppure, mi fu risposto, sono tutti figli tuoi. Ascoltali parlano di te e dei tuoi antichi figli e loro superiori che ora non sono più da tempo; e ricordano gli insegnamenti avuti da te e da loro.
            Guardai ancora con attenzione; ma quando alzai la faccia dalla lente, la ruota si mise a girare da per sé con tanta fretta e con tanto fragore, che io mi svegliai trovandomi sul letto stanco a morte.
            Adesso che vi ho raccontato tutte queste cose voi penserete: Chi sa! D. Bosco è un uomo straordinario, qualche cosa di grande, un santo sicuramente! Miei cari giovani! Per impedire stolti giudizi intorno a me, vi lascio tutti in piena libertà di credere o non credere queste cose, di dar loro più o meno importanza; solo raccomando di mettere niente in derisione, sia coi compagni, sia cogli estranei. Stimo bene però di dirvi che il Signore ha molti mezzi per manifestare agli uomini la sua volontà. Alcune volte si serve degli istrumenti più inetti ed indegni, come si servì dell’asina di Balaam facendola parlare: e di Balaam falso profeta che predisse molte cose riguardanti il Messia. Perciò lo stesso può accadere di me. Io vi dico adunque che non guardiate le mie opere per regolare le vostre. Quel che voi dovete unicamente fare si è di badare a quello che dico, perché questo, almeno lo spero, sarà sempre la volontà di Dio, e ridonderà a bene delle anime. Riguardo a quel che faccio non dite mai: l’ha fatto D. Bosco, dunque è bene: no. Osservate prima quello che faccio; se vedete che è buono imitatelo; se per caso mi vedeste a fare qualche cosa di male, prendetevi guardia dall’imitarlo: lasciatelo come malfatto.
(MB VI, 898-916)




Il fazzoletto della purezza (1861)

            Il 16 giugno D. Bosco diede per fioretto ai giovani di fare qualche preghiera speciale, affinché Dio faccia ravvedere quei del scimmione, che disse giungere appena al numero plurale: e la sera del 18 raccontò la seguente storiella, o specie di sogno, come la definì altra volta. Il modo però che teneva nel raccontare era sempre tale, che di lui poté ripetere Ruffino, che ne tenne memoria, ciò che diceva Baruch delle visioni di Geremia: “Egli pronunziava colla sua bocca tutte queste parole come se le leggesse, ed io le scriveva nel libro coll’inchiostro”. (Baruch XXXVI).
            D. Bosco adunque così parlava.

            Era la notte del 14 al 15 del mese. Quando fui coricato appena preso un po’ di sopore, sento un gran colpo sulla lettiera, come di uno che con un asse vi battesse sopra. Balzai seduto sul letto: mi venne subito alla mente il fulmine: guardai di qua e di là, ma nulla vidi. Perciò persuaso di aver sognato e che nulla vi fosse di reale, mi tornai a coricare.
            Ma non appena ricominciava ad addormentarmi, ecco un secondo colpo mi ferisce le orecchie e mi scuote. Allora mi rizzo di nuovo sui cuscini, scendo dal letto, cerco, guardo sotto il letto, sotto il tavolino e nei cantoni della camera, ma non vidi niente. Allora mi rassegnai nelle mani del Signore; presi l’acqua benedetta e mi coricai. Fu allora che la mia mente si portò di qua e di là e vidi quello che ora son per narrare.
            Mi parve di essere sul pulpito della nostra chiesa in atto di dar principio alla predica. I giovani erano tutti seduti ai loro posti collo sguardo fisso in me, ed aspettavano attenti che io parlassi. Io però non sapeva quale argomento dovessi trattare, ed in qual maniera incominciare la predica. Per quanto faticassi colla memoria, la mia mente rimaneva sterile e vuota. Stetti così un po’ di tempo confuso ed angosciato, non essendomi mai accaduto un simile imbroglio dopo tanti anni che predico: ed ecco che in un istante vedo questa nostra chiesa convertirsi in una gran valle. Cercava le mura della chiesa e non le vedeva più e non vedeva pia nessun giovane. Io era fuori di me per la meraviglia e non sapeva persuadermi di quel cambiamento di scena.
            – Ma che cosa è mai questo? dissi fra me: un momento fa io ero in chiesa, in pulpito ed ora mi trovo in questa valle! Sogno? Che faccio io? – Mi risolsi allora di procedere per quella valle. Camminai alquanto e mentre cercava qualcheduno per esprimergli la mia meraviglia e chiedere spiegazioni, vidi un bel palazzo con molti grandi balconi o vasti terrazzi, come si vogliono chiamare, i quali formavano un sol tutto mirabile. Innanzi al palazzo si stendeva una piazza. In un angolo di questa, a destra, scopersi un gran numero di giovani affollati, i quali stavano d’intorno ad una Signora, che distribuiva a ciascheduno un fazzoletto. Costoro preso il fazzoletto salivano poi e si disponevano schierati un dopo l’altro su quel lungo terrazzo con balaustrata.
            Io pure mi avvicinai a quella Signora e udii che, nell’atto di consegnare i fazzoletti, diceva a tutti i singoli giovani queste parole:
            – Non distenderlo mai quando tira vento: ma se il vento ti sorprende, quando tu l’avessi disteso, volgiti subito a destra, non mai a sinistra.
            Io osservava tutti quei giovani, ma in quel momento non ne conobbi nessuno. Finita la distribuzione dei fazzoletti, quando tutti furono sul terrazzo, fecero un dopo l’altro una lunga fila e stavano là ritti senza dir parola. Io continuava ad osservare e vidi un giovane che incominciava a trar fuori il suo fazzoletto e lo spiegava e poi gli altri giovani a poco a poco, successivamente trar fuori il proprio e spiegarlo, finché li vidi tener tutti il fazzoletto disteso. Esso era molto largo, ricamato in oro con un lavoro di grandissimo pregio e vi si leggevano queste parole anch’esse in oro, che lo occupavano tutto: – Regina virtutum (Regina delle virtù).
            Quand’ecco incominciò da settentrione cioè a sinistra, a spirare bene un po’ d’aria, poi a farsi più forte e finalmente a levarsi il vento. Appena ebbe incominciato questo vento vidi alcuni di quei giovani piegare subito il fazzoletto e nasconderlo: altri voltarsi dal fianco destro. Ma una parte stette immobile col fazzoletto spiegato.
            Dopoché questo vento erasi fatto gagliardo, incominciò a comparire e stendersi una nuvola che ben presto velò tutto il cielo, quindi levarsi il turbine, scoppiare un gran temporale e rombare spaventosamente il tuono: poi cadere la grandine, dopo la pioggia, e finalmente la neve.
            Intanto molti giovani stavano col fazzoletto disteso: e la grandine vi batteva dentro trapassandolo da parte a parte; ed anche la pioggia le cui gocciole pareva che avessero la punta; come pure lo foravano i fiocchi di neve. In un momento tutti quei fazzoletti furono guasti e crivellati, sicché più nulla avevano di bello.
            Questo fatto destò in me tale stupore, che non sapeva quale spiegazione dargli. Il peggio si è che avvicinatomi a quei giovani che prima non aveva conosciuti, adesso, avendo guardato con maggior attenzione, li riconobbi tutti distintamente. Erano i miei giovani dell’Oratorio. Fattomi ancor più dappresso andava interrogandoli:
            – Che cosa fai tu qui! Sei il tale?
            – Si che son qui! Veda! c’è anche il tale, il tale, il tal’altro.
            Andai allora là dove era quella Signora che distribuiva i fazzoletti. Quivi stavano alcuni altri uomini e domandai loro:
            – Che cosa vuol dire tutto questo?
            Quella Signora voltasi a me rispose:
            – Non hai visto quello che vi era scritto in quei fazzoletti?
            – Sì: Regina virtutum.
            – Non sai perché?
            – Sì che lo so.
            – Ebbene; quei giovani esposero la virtù della purità al vento delle tentazioni. Alcuni al primo accorgersene subito fuggirono e sono quelli che nascosero il fazzoletto; altri sorpresi e non avendo avuto tempo a nasconderlo si volsero a destra e sono coloro che nel pericolo ricorrono al Signore, voltando le spalle al nemico. Altri poi stettero col fazzoletto aperto all’impeto della tentazione che li fece cadere nei peccati.
            A questo spettacolo restai corrucciato ed era per disperarmi vedendo quanto pochi erano quelli, che avevano conservata la bella virtù. Ruppi per tanto in un pianto doloroso e quando potei calmarmi, chiesi:
            – Ma, come va che i fazzoletti rimasero forati, non solo dalla tempesta, ma anche dalla pioggia e dalla neve? Queste gocce, quei fiocchi di neve non indicano forse i peccati piccoli, ossia veniali?
            – E non sai che in questo non datur parvitas materiae? (non vi è mai materia lieve?) Tuttavia non affannarti; vieni a vedere!
            Uno di quelli uomini si avanzò davanti al balcone, fece segno colla mano a quei giovani e gridò:
            – A destra!
            Quasi tutti i giovani si volsero a destra, ma alcuni non si mossero dal luogo ed il loro fazzoletto, finì con essere interamente lacero. Allora io vidi il fazzoletto di quelli i quali si erano voltati a destra divenir molto stretto, tutto rappezzato e cucito, in modo però che non si scorgeva più nessun buco. Erano tuttavia in così cattivo stato che facevano pietà. Non avevano più regolarità alcuna. Gli uni si vedevano lunghi tre palmi, altri due, altri uno.
            Quella Signora intanto soggiungeva:
            – Ecco quelli che ebbero la disgrazia di perdere la bella virtù, ma ci rimediarono colla confessione. Gli altri poi che non si mossero, sono quelli che continuano nel peccato e forse, forse, andranno alla perdizione.
            In fine poi mi disse:
            – Nemini dicito, sed tantum admone (Non dirlo a nessuno, ma solo ammonisci).
(MB VI, 972-975)




Passeggiata dei giovani al paradiso (1861)

Passiamo a narrare un altro bel sogno ch’ebbe Don Bosco nelle notti del 3, 4, 5 aprile 1861. “Varie circostanze, scrisse D. Bonetti, che in quello si ammirano, convinceranno abbastanza il lettore essere uno di quei sogni che il Signore si compiace a quando a quando di mandare a suoi servi fedeli”. Egli e D. Ruffino lo descrissero minutamente, come noi lo esponiamo.

            D. Bosco nella sera del 7 aprile, dopo le orazioni, salì in cattedra per indirizzare qualche buona parola ai suoi giovanetti e cominciò così:
            – Ho qualche cosa a dirvi molto curiosa. Vi voglio raccontare un sogno. Egli è un sogno e perciò non è una realtà. Di ciò vi avviso acciocché non gli diate maggior valore di quello che si merita. Prima di narrarvelo debbo premettere qualche osservazione. Io a voi dico tutto, come desidero che voi diciate tutto a me. Per voi non ho segreti; ma quello che si dice qui non sia propagato di fuori; sia detto e rimanga solo fra noi. Non che sia reo di peccato chi lo raccontasse a persone estranee, ma è meglio che non varchi le soglie di questa casa. Parlatene pure fra di voi, ridete, scherzate su ciò che sono per dirvi, finché vi pare e vi piace; ed anche, ma solo con quelle poche persone, le quali potrete capire che dalla vostra confidenza saranno per ricavarne alcun bene; e alle quali crederete sia conveniente farla. Il sogno è diviso in tre parti: fu fatto in tre notti consecutive e perciò stasera ve ne conterò una parte e le altre due parti nelle sere seguenti. Ciò che mi produsse molta meraviglia si è che io ripresi il sogno, nella seconda e nella terza notte, da quel punto stesso nel quale lo avevo interrotto la notte antecedente nel risvegliarmi.

PARTE PRIMA

            I sogni si fanno dormendo e perciò io dormiva. Alcuni giorni prima mi ero recato fuori di Torino, passando vicino alle colline di Moncalieri. La vista di queste colline già alquanto verdeggianti, mi rimase impressa; e quindi può darsi che nelle notti seguenti dormendo, l’idea di quello spettacolo delizioso venisse di bel nuovo ad affacciarsi alla mia mente, e, lavorando la fantasia nascesse vaghezza di fare una passeggiata. Fatto sta che io sognando, divisai di fare una passeggiata. Mi pareva di essere in mezzo ai miei giovani in una pianura; innanzi ai miei occhi si elevava un alto e vasto colle. Eravamo tutti fermi, quando ad un tratto feci ai giovani la proposta:    – Andiamo a fare una bella passeggiata?
            – Andiamo!
            – Ma dove?
            Ci siamo guardati in faccia, abbiamo pensato, e poi per non so quale stranezza alcuno incominciò a dire:
            – Andiamo in paradiso?
            – Sì, sì! andiamo in paradiso, gridarono gli uni.
            – Sì, sì! andiamo a fare una bella passeggiata in paradiso! replicarono gli altri.
            – Bene, benissimo! andiamo; gridarono tutti d’accordo.
            Eravamo in una pianura e messici in via, dopo qualche tratto di cammino, ecco che ci trovammo ai piedi della collina. Abbiamo incominciato ad andar su per i sentieri di questa. Ma quale spettacolo veramente ammirabile! Quanto il nostro sguardo poteva stendersi, il pendio di quella lunga collina era tutto coperto di piante di ogni specie, tenere e basse, robuste e alte, queste però non più grosse di un braccio. Vi erano piante di pere, di mele, di ciliege, di susine, di vite ecc. ecc. Ma quello che è singolare, sovra una medesima pianta si vedevano fiori che incominciavano a sbocciare, e fiori pienamente formati con vaghi colori: frutti piccoli e verdeggianti e frutti grossi e maturi: dimodoché sopra ciascuna di quelle piante vi era quanto di bello ha la primavera, l’estate, l’autunno. Le frutta erano in tanta quantità, che pareva le piante non potessero sostenerle.
            I giovani venivano da me e mi domandavano curiosamente spiegazione di questo, perché non sapevano rendersi ragione di simile miracolo. Io mi ricordo che, per appagarli in qualche modo, dava loro cotesta risposta:
            – Ecco! Il paradiso non è come la nostra terra, dove si cangiano le temperature e le stagioni. Qui non vi sono cangiamenti; la temperatura è sempre uguale, mitissima, adatta per la vegetazione di ogni pianta. Quindi raccoglie in sé stesso e nel medesimo tempo, tutto il bello e tutto il buono delle varie stagioni dell’anno.
            Noi restavamo estatici osservando quell’incantevole giardino. Spirava un’aria dolce, dolce; nell’atmosfera regnava una calma, un tepore, una soavità di profumi, che ci penetrava tutti e ci persuadeva essere desso confacente ed ogni sorta di frutta. I giovani qua prendevano un pomo, là un pero, ora una ciliegia, ora un grappolo d’uva: e così tutti insieme salimmo lentamente quella collina. Quando giungemmo alla sommità ci credevamo di essere in paradiso; ma invece ne eravamo ben lungi. Da quella vetta, al di là di una grande spianata, in mezzo ad un vasto altipiano, si vedeva un’altissima montagna che toccava le nubi. Su per questa saliva arrampicandosi con stento, ma con grande alacrità, molta gente e sulla cima vi era CHI invitava quei che salivano e faceva loro coraggio. Vedevamo eziandio altri che discendevano dalla sommità fino al basso e venivano ad aiutare coloro, che erano troppo affaticati nel progredire fra quelle rapide balze. Quelli che finalmente giungevano alla meta erano ricevuti con gran festa e giubilo. Tutti noi ci siamo accorti che là, stava il paradiso e scendendo verso l’altipiano movemmo alla volta di quella montagna per vedere e salire anche noi. Già avevamo percorso buon tratto di via: molti giovani correndo, per giungere più presto, precedevano di lungo tratto la moltitudine dei compagni.
            Ma che? Prima di arrivare alle falde della montagna, vi era in quell’altipiano un gran lago pieno di sangue e di una estensione come dall’Oratorio a Piazza Castello. Intorno alle rive di questo giacevano tronconi di mani, di piedi, di braccia, di gambe crani spaccati, corpi squartati ed altre membra lacerate. Miserando spettacolo d’orrore! Sembrava che in questi luoghi fosse stata combattuta una sanguinosissima battaglia! Quei giovani, che correndo arrivarono i primi si arrestarono inorriditi. Io che mi trovavo ancor lontano e di nulla mi ero accorto, osservando i loro gesti di stupore e come più non camminassero e fossero profondamente melanconici, gridai:
            – Che cosa vuol dire questa tristezza? Che cosa c’è? Andate avanti!
            – Sì? Andare avanti? Venga, venga a vedere – Mi rispondevano essi. Affrettai i passi e vidi!! Tutti gli altri giovani sopraggiunti, che pochi istanti prima erano così allegri, diventarono tutti silenziosi e melanconici. Io ritto sulle spiagge del lago misterioso osservava: ma non si poteva passar oltre. In faccia, sulle rive opposte, si leggeva scritto a grandi caratteri: Per sanguinem (per sangue).
            I giovani si domandarono a vicenda:
            – Che cosa è? Che cosa vuol dire questo spettacolo?
            Allora ho interrogato UNO, che ora non mi ricordo più chi fosse, il quale ci disse:
            – Ecco qui vi è il sangue versato da coloro e sono tanti e tanti, che già toccarono la sommità del monte e andarono in paradiso. Questo sangue è quello dei martiri! Qui vi è il sangue di Gesù Cristo dal quale furono bagnati i corpi di coloro che furono uccisi in testimonio della fede. Nessuno può andare in paradiso senza passare per questo sangue e senza esserne asperso. Questo sangue è quello che difende la S. Montagna, figura della Chiesa Cattolica. Chiunque tenterà di assalirla, rimarrà affogato. E appunto tutte queste mani e piedi troncati, quei teschi sfracellati, quelle membra a pezzi, di cui vedete seminate queste rive, sono avanzi miserabili di tutti i nemici, che vollero combattere la Chiesa. Tutti furono fatti a pezzi! Tutti perirono in questo lago! – Quel giovane misterioso nel corso del suo parlare aveva nominati molti martiri, fra i quali enumerò pure i soldati del Papa, caduti sul campo di battaglia per la difesa del dominio temporale.
            Ciò detto additandoci alla nostra destra, verso oriente, in fondo, un immenso vallone molto più grande, un quattro o cinque volte almeno del lago di sangue, soggiunse:
            – Vedete là quel vallone? Sappiate che laggiù si metterà il sangue di coloro, che per questa via avranno da salire su questo monte, il sangue dei giusti, di quei che morranno per la fede nei tempi futuri.
            Io faceva coraggio ai giovani, esterrefatti per ciò che vedevano e ciò che loro veniva annunziato, dicendo: – che se dovessimo morir martiri il nostro sangue sarebbe messo in quel vallone: ma le nostre membra non sarebbero mai state gettate con quelle che là si trovavano.
            Intanto ci affrettammo a rimetterci in marcia e costeggiando quelle sponde, avevamo a sinistra la sommità della collina, per la quale eravamo venuti e alla destra il lago e la montagna. A un certo punto ove terminava il lago di sangue vi era un terreno sparso di querce, allori, palme e di altre piante. Noi ci mettemmo in questo per vedere se ci fosse possibile avvicinarci alla montagna. Ma ecco presentarcisi un altro spettacolo. Un secondo grande lago pieno d’acqua, con dentro altre membra tronche e squartate. Sulla sponda stava scritto a caratteri cubitali: Per aquam (per acqua).
            Di bel nuovo domandavamo:
            – Che è? che non è? Chi ci darà la spiegazione di quest’altro mistero?
            – In questo lago, UNO ci disse, c’è l’acqua uscita dal costato di Gesù Cristo, la quale benché in piccola quantità, pure si è così aumentata, aumenta continuamente, ed aumenterà in futuro. Questa è l’acqua del Santo Battesimo nella quale furono lavati e purificati quelli che già salirono su questo monte, e dalla quale dovranno essere battezzati e purificati quelli, che ancora dovranno ascendere in avvenire. Da questa debbono essere bagnati tutti quelli che vogliono andare in paradiso. Vi si sale o per mezzo dell’innocenza o per mezzo della penitenza. Nessuno può salvarsi senza essere bagnato in quest’acqua.
            Quindi accennando a quella strage prosegui:
            – Quelle membra di morti son di coloro che nel tempo presente assalirono la Chiesa.
            Intanto noi vedevamo molta gente, ed anche alcuni dei nostri giovani, che camminava sopra l’acqua con celerità straordinaria e con una leggerezza tale, che appena toccava l’acqua colla punta dei piedi senza bagnarsi, e si portava all’altra sponda.
            Noi eravamo attoniti per questo portento, ma ci fu detto: Costoro sono i giusti, poiché l’anima dei santi, allorché è sciolta dalla prigione del corpo e anche il corpo quando è glorificato, non solo cammina leggermente e velocemente sopra l’acqua, ma vola sull’aria stessa.
            Tutti i giovani allora desiderarono di correre sulle acque di quel lago, come avevano fatto coloro che avevano visti. Quindi si volgevano a me quasi interrogandomi collo sguardo. Ma nessuno osava ed io diceva ad essi:
            – Per parte mia non oso; è una temerità supporci così giusti, da poter passare su queste acque senza cadervi dentro.
            Allora tutti esclamarono!
            – Se non osa lei tanto meno noi!
            Continuammo ad andare ancora più avanti sempre girando attorno alla montagna ed eccoci ad un terzo lago, vasto come il primo, pieno di fuoco, con entrovi altre membra umane spezzate e tagliate. Si leggeva scritto sulla sponda opposta in un cartello: Per ignem (per fuoco). Mentre noi stavamo osservando quella pianura di fiamme:
            – Qui, ci disse quel tale, c’è il fuoco della carità di Dio e dei santi: le fiamme dell’amore, del desiderio per cui devono passare quelli che non sono passati pel sangue e per l’acqua. Questo è eziandio il fuoco con cui furono dai tiranni tormentati e consumati i corpi di tanti martiri. Molti sono quelli che dovettero passare per questa via per salire alla volta di quella montagna. Queste fiamme serviranno per abbruciare i loro nemici. – Per la terza volta noi vedevamo stritolati i nemici del Signore sul campo delle loro sconfitte!
            Ci affrettammo ad andare più avanti e al di là di questo lago, ve ne era un altro a guisa di grandissimo anfiteatro che presentava una vista ancor più terribile. Era pieno di bestie feroci, lupi, orsi, tigri, leoni, pantere, serpenti, cani, gatti e di tanti altri mostri che stavano colle fauci spalancate per divorar chiunque si avvicinasse. Vedevamo gente camminare sulle loro teste. Alcuni giovani si misero a correre e passeggiavano anch’essi senza paura sulla testa spaventosa di quelle bestie, senza essere menomamente lesi. Io voleva richiamarli e gridava a tutta forza:
            – No! Per carità! Arrestatevi! Non andate avanti! Non vedete che esse stanno là, aspettando per sbranarvi e per divorarvi? – Ma la mia voce non era udita e continuavano a camminare sui denti e sulle teste di quelli animali, come sopra il luogo più sicuro. Il solito interprete allora mi disse: Queste bestie, sono i demoni, i pericoli e le trame del mondo; costoro che passano sopra di esse impunemente sono le anime giuste, sono gli innocenti. E non sai che sta scritto: Super aspidem ei basiliscum ambulabunt ei conculcabunt leonem et draconem? (Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi, Ps. 90,13) Di tali anime parlava Davide. E nel Vangelo si legge: Ecce dedi vobis potestatem calcandi supra serpentes et scorpiones, et super omnem virtutem inimici: ti nihil vobis nocebit (Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi, Lc 10,19).
            Ci domandavamo:
            – Come dobbiamo fare per passare di là? Dovremo camminare anche noi su queste orribili teste?
            – Sì, sì! venga, andiamo! mi disse qualcuno.
            – Oh! io non me ne sento coraggio, risposi: è da presuntuoso supporci giusti da poter passare illesi sulle teste di questi mostri feroci. Andate voialtri se volete; io non ci vado.
            Ed i giovani ripeterono:
            – Oh! Se non si sente ella tanto coraggio, tanto meno ci sentiamo noi!
            Allontanatici dal lago delle bestie, abbiamo veduto un vasto terreno tutto gremito di gente. Ma di questi chi era o aveva apparenza di essere, senza naso, chi senza orecchie, chi aveva la testa tagliata: quale mancava di braccia, quale di gambe: questi era senza mani, quegli senza piedi. Agli uni mancava la lingua, agli altri erano stati svelti gli occhi. I giovani erano meravigliati nel vedere tutta questa gente così malconcia, quando UNO ci disse:
            – Sono gli amici di Dio: sono coloro che per salvarsi si mortificarono nei sensi, nelle orecchie, negli occhi, nella lingua e quindi hanno fatte molte opere buone. Molti hanno perdute quelle parti del corpo di cui son privi, per le grandi opere di penitenza, o lavorando per amore di Dio e del prossimo. Quelli della testa tagliata sono coloro che in modo particolare si consacrano al Signore.
            Mentre stavamo considerando queste cose, vedevamo molta gente, parte della quale aveva attraversato i laghi, salire la montagna e ci furono additati altri sulla cima che davano la mano e facevano coraggio a chi saliva; e poi battevano le mani e dicevano:
            – Bravi! Bene! – Al rumore di questi applausi e di queste grida mi svegliai e mi accorsi che era nel mio letto. Questa è la prima parte del sogno, cioè la prima notte.

            La sera dell’8 aprile D. Bosco si presentò ai giovani bramosi di ascoltare la continuazione del sogno. Sulle prime rinnovò la proibizione di mettersi le mani addosso e vietò loro eziandio di muoversi dal posto nella sala di studio e di girare qua e là da una tavola all’altra. Aggiunse ancora:
            – Chi deve uscire dallo studio per qualsivoglia motivo domandi sempre licenza al capo della tavola. – I giovani erano impazienti e D. Bosco sorridendo, dato uno sguardo attorno, dopo breve pausa, proseguì:

PARTE SECONDA

            Tenete bene a mente che vi era un gran lago da riempire ancora di sangue, in fondo ad un vallone vicino al primo lago. Adunque dopo aver visti tutti i vari spettacoli già descritti e terminato il giro di quel vasto altipiano, trovammo che vi era un posto libero per poter passare oltre e ci avanzammo, io e tutti i miei giovani per una valle, che alla sua estremità metteva in una gran piazza. Ci inoltrammo. La piazza era larga e spaziosa nel suo entrare, ma andava restringendosi a poco a poco, in modo che in fondo, vicino alla montagna, terminava in un sentiero fra due rupi, per cui appena poteva passare un uomo solo. Quella piazza era piena di gente contenta e felice che si divertiva; ma tutta tendeva a quello strettissimo passaggio che metteva al monte. Noi ci domandammo l’un l’altro:
            – Che sia quella la via del paradiso?
            Intanto coloro che erano assembrati in quel luogo, uno per volta andavano a passare per quel sentiero e per inoltrarsi dovevano restringere bene e panni e membra, farsi piccoli e deporre, se l’avevano, il fagotto o qualsivoglia altra cosa. Ciò bastò per assicurarmi quella essere la via del paradiso e mi venne in mente che per andare in cielo bisogna non solo spogliarsi del peccato, ma lasciare indietro ogni pensiero, ogni affetto terreno, secondo quello che dice l’Apostolo: Nil coinquinatum intrabit in ea (Non entrerà in essa nulla d’impuro, Ap 21,27). Noi per breve ora stavamo là a guardare. Ma quanto io fui stolto! Invece di tentare quel passaggio, abbiamo voluto tornare indietro per vedere che cosa ci fosse alle spalle di quella piazza. Avevamo vista altra molta gente in distanza ed eravamo spinti da viva curiosità di vedere che cosa facesse. Quindi ci mettemmo per una campagna amplissima il cui estremo confine non poteva essere raggiunto da occhio umano. Là ci siamo trovati in mezzo ad uno strano spettacolo. Vedemmo uomini ed eziandio molti dei nostri giovani aggiogati con varie specie d’animali. Vi erano dei giovani aggiogati con buoi. Pensava: – Che cosa vuol dire ciò? – Allora mi venne in testa che il bue è simbolo della pigrizia e pensai quelli essere i giovani pigri. Li conosceva, li vedeva proprio certi tali che erano inerti, lenti nell’adempimento dei loro doveri e diceva fra me stesso: – Sì! sta lì! Ben ti sta: Non vuoi far mai niente ed ora sta pur lì con quell’animale.
            Vidi poi altri aggiogati con asini. Quelli erano i testardi e così accoppiati portavano pesi o pascolavano cogli asini. Erano coloro che non volevano arrendersi né ai consigli, né ai comandi dei Superiori. Ne vidi altri aggiogati coi muli o coi cavalli e mi venne in mente quello che dice il Signore. Factus est sicut equus et mulus quibus non est intellectus (Non siate come il cavallo e come il mulo privi d’intelligenza Ps 31,9). Erano coloro che non vogliono mai pensare alle cose dell’anima: disgraziati senza cervello!
            Vidi altri i quali pascolavano insieme coi porci: grufolavano nell’immondezza e nella terra come quegli animali schifosi, e come essi si avvoltolavano nel fango. Erano coloro che si pascolano solo di cose terrene, che vivono nelle brutte passioni, che stanno lontani dal Padre Celeste. Oh triste spettacolo! Allora mi venne pure in pensiero quello che dice il Vangelo del figliuol prodigo, che fu ridotto a questo stato luxuriose vivendo (vivere in lussuria).
            Vidi poi in fine moltissima gente e giovani con gatti, cani, galli, conigli, ecc. ecc. ossia i ladri, gli scandalosi, i millantatori, i timidi per rispetto umano e via discorrendo. Da tutta questa varietà di scene ci siamo accorti che quella gran valle era il mondo. Osservai bene tutti quei giovani ad uno ad uno! Da quel posto ci siamo avanzati ancora un poco in un’altra parte eziandio spaziosissima di quell’immensa pianura. Il terreno andava in declivio ma insensibilmente, cosicché discendevamo senza accorgersene.
Vedevamo ad una certa distanza che il terreno sembrava prendesse l’aspetto di un giardino e dicemmo:
            – Andiamo a vedere quello che c’è colà?
            – Andiamo!
            E incominciammo a trovare delle bellissime rose purpuree.
            – Oh le belle rose! oh le belle rose! – gridavano i giovani, e corsero a coglierle. Ma che? Appena le ebbero in mano sentivano che mandavano cattivo odore. Quelle rose tanto vaghe e rosseggianti fuori, dentro poi erano infracidite. I giovani rimasero mortificati. Vedemmo eziandio delle violette freschissime in apparenza, che ci sembrava spandessero buon odore. Ma accostatici a prenderne alcune per formare qualche mazzolino, ci accorgemmo che sotto erano esse pure tutte guaste e puzzolenti.
            Andavamo sempre avanti ed ecco ci siam trovati in mezzo ad incantevoli selvette di alberi, così carichi di frutti che era un piacere il vederli. Specialmente i pometi, oh qual dilettevole apparenza avevano! Un giovane corse tosto e staccò dai rami una grossa pera che non poteva essere più bella e più matura, ma appena ci ebbe piantati dentro i denti, lo gettò sdegnato lungi da sé. Era piena di terra e di sabbia con un gusto che muoveva il vomito.
            – Ma che cosa è mai questo? domandammo.
            Uno dei nostri giovani, e del quale so il nome, ci disse: Questo è tutto il bello e il buono che presenta il mondo? Tutto è apparenza, tutto è insipido!
            Mentre pensavamo dove ci conducesse il nostro sentiero ci accorgemmo finalmente che discendeva, benché appena fosse sensibile quel declivio. Un giovanetto allora osservò:
            – Qui si discende; si va in giù; non andiamo bene!
            – Eh! andiamo a vedere – io risposi.
            Intanto compariva una moltitudine sterminata, che correva per quella strada sulla quale eravamo noi. Erano chi in vettura, chi a cavallo, e chi a piedi. Saltavano, scorrazzavano, cantando, danzando colla musica e molti camminavano al suono dei tamburi. Si faceva una festa ed un tripudio indicibile.
            – Fermiamoci un poco, abbiamo detto: stiamo un poco ad osservare, prima di avviarci con questa gente.
            In quel mentre qualche giovane notò in mezzo a quella folla alcuni, che accompagnavano e sembravano dirigere le singole brigate. Essi erano di bell’aspetto e ben vestiti e di maniere graziose, ma si vedeva che sotto il cappello avevano le corna. Quella gran pianura era adunque il mondo perverso e maligno. Est via quae videtur homini recta, et novissima eius ducunt ad mortem (C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte, Prov. 16, 25). A un tratto UNO ci disse:
            – Ecco come gli uomini vanno all’inferno, quasi senza accorgersene.
            Ciò udito e visto, subito chiamai quei giovani che mi precedevano, i quali si misero a correre verso di me gridando:
            – Noi non vogliamo andare per colà giù. – E continuando tutti sempre correndo a ricalcare la via già fatta, mi lasciarono solo.
            – Sì, avete ragione, io dissi quando li ebbi raggiunti; fuggiamo, e presto di qui, ritorniamo indietro, altrimenti senza che ce ne avvediamo discenderemo noi pure nell’inferno.
            E volevamo tornare a quella piazza dalla quale eravamo partiti e metterci finalmente anche noi per quel sentiero che conduceva alla montagna del paradiso. Ma qual fu la nostra sorpresa quando dopo lungo cammino, non vedemmo più la valle, per la quale si andava al paradiso, ma sebbene un prato e nient’altro. Ci volgevamo da una banda, ci volgevamo dall’altra, ma non riuscivamo ad orizzontarci.
            Chi diceva:
            – Abbiamo sbagliata la strada!
            Chi gridava:
            – No, non abbiamo sbagliato; la strada è questa. – Mentre i vari giovani altercavano e ciascuno voleva sostenere la propria opinione, io mi svegliai.

            Questa è la seconda parte del sono fatto nella seconda notte. Ma prima di ritirarvi, udite ancora questo. Io non voglio che diate peso al mio sogno, ma ricordatevi che i piaceri, i quali menano alla perdizione non sono che apparenti, non hanno che la superficie del bello. Ricordatevi anche di prendervi guardia da quei vizi, che ci rendono così simili alle bestie, da farci meritevoli di essere aggiogati con esse; e specialmente da certi peccati, che ci rendono simili agli immondi animali. Oh quanto è disdicevole per una creatura ragionevole essere messo a paro coi buoi e cogli asini! Quanto più è disdicevole a chi fu creato ad immagine e somiglianza di Dio, e fatto erede del paradiso, l’avvoltolarsi nel fango come porci con quei peccati che la S. Scrittura chiama: Luxuriose vivendo (vivere in lussuria).
            Io non vi accennai che le circostanze principali del mio sogno e queste in breve, perché, a dirlo come fu, sarebbe cosa troppo lunga. Anzi, anche ieri sera non feci che un piccolo cenno di quanto ho veduto. Domani a sera vi racconterò la terza parte.

            Alla sera del sabato 9 aprile D. Bosco continuava le sue descrizioni.

PARTE TERZA

            Non vorrei mai raccontarvi i miei sogni, anzi avantieri, appena ebbi incominciata la mia narrazione, mi sono pentito della mia promessa; ed avrei voluto non aver dato principio all’esposizione di ciò che voi desideravate sapere. Ma debbo dirlo: se taccio, se tengo per me il mio segreto soffro grandemente e raccontandolo ricevo da questo sfogo un grande sollievo, quindi proseguo.
            Prima però devo premettere che nelle sere precedenti, dovetti troncare molte cose, delle quali non era spediente farvi racconto, e tralasciarne anche altre, le quali si possono vedere cogli occhi, ma non si possono esprimere colle parole.
            Contemplate adunque passando, tutte quelle scene già dette, dopo aver visti i diversi luoghi, ed i modi con cui si va all’inferno, noi volevamo ad ogni costo andare in paradiso; ma gira di qua, gira di là ci disviammo sempre a vedere altre cose nuove. Finalmente indovinata la via giungemmo su quella piazza dove era radunata tanta gente che si contendeva di arrivare alla montagna; su quella piazza che pareva così grande, ma terminava in un sentiero piccolo, piccolo tra le due alte rupi. Chi si metteva per questo, uscito appena dalla parte opposta, doveva passare un ponte alquanto lungo, strettissimo e senza ringhiera, sotto il quale si inabissava uno spaventoso precipizio.
            – Oh! Ecco là il luogo che conduce al Paradiso, abbiamo detto; eccolo là; andiamoci! – E ci siamo incamminati alla volta di quello. Alcuni giovani si misero subito a correre lasciandosi indietro i compagni. Io voleva che mi aspettassero, ma essi si erano incapricciati di giungere prima di noi. Giunti però al varco si fermarono spaventati e non osavano inoltrarsi. Io faceva loro coraggio, perché passassero:
            – Avanti, avanti! Che cosa fate?
            – Eh sì, mi rispondevano; venga lei a fare la prova! Fa caldo dover passare per un posto tanto stretto, ed attraverso quel ponte; se sbagliamo un passo, cadiamo in quell’acqua profonda incassata in questo abisso; e nessun più ci vede.
            Ma finalmente qualcuno si avanzò pel primo, un secondo gli tenne dietro e così tutti, uno dopo l’altro, siamo passati al di là e ci trovammo ai piedi della montagna. Ci provammo a salire ma non riuscivamo a trovare alcun sentiero. Andavamo attorno alle falde osservando, ma ci si opponevano mille difficoltà ed impedimenti. In un luogo vi erano sparsi macigni accatastati disordinatamente, in un altro una rupe da sormontare: qui un precipizio, un cespuglio spinoso ci impediva il passo. Ripida dappertutto la salita. Scabrosa adunque era la fatica alla quale andavamo incontro. Tuttavia non ci sgomentammo ed incominciammo ad arrampicarci con ardore. Dopo breve ora di faticosa ascesa, aiutandoci di mani e di piedi, e a vicenda talvolta soccorrendoci, gli ostacoli incominciarono a sparire e ad un certo punto trovammo un sentiero praticabile e potemmo salire più comodamente.
            Quand’ecco arrivammo ad un luogo ove in una parte di quel monte vedemmo molta gente, la quale pativa ma in un modo così orribile, così strano, che tutti restammo compresi di orrore e di compassione. Io non posso dirvi quello che vidi perché vi farei troppa pena e non potreste resistere alla mia descrizione. Nulla dunque vi dirò e andrò avanti.
            Intanto vedevamo un gran numero di altra gente che saliva essa pure, sparsa su per i fianchi del monte e arrivata alla cima, veniva accolta da quelli che la aspettavano, fra grandi feste e prolungati applausi. Udivamo nello stesso tempo una musica veramente celeste, un canto di voci le più dolci e un intreccio di inni i più soavi. Ciò ci incoraggiava maggiormente a continuare su per quell’erta. Camminando io pensava fra me e diceva ai giovani:
            – Ma noi, che vogliamo andare in paradiso, siamo già morti? Ho sempre sentito dire e so che bisogna prima passare al giudizio! E noi siamo già stati giudicati?
            – No, mi rispondevano; noi siamo ancora vivi: al giudizio non siamo ancora andati. – E ridevamo.
            – Comunque sia, ripigliai, o vivi o morti andiamo avanti per vedere ciò che sta lassù: poi qualche cosa sarà. – Ed accelerammo il passo.
            A forza di camminare finalmente giungemmo anche noi quasi alla cima della montagna. Quelli che erano di sopra già stavano pronti a farci delle gran feste ed accoglienze, quando mi volsi indietro per guardare se avessi con me tutti i giovani; ma con vivo dolore mi trovava quasi solo. Di tanti miei piccoli compagni non me ne restava che tre o quattro.
            – E gli altri? – domandai fermando il passo e non poco corrucciato.
            – Oh, mi dissero: si sono fermati chi qua e chi là; forse verranno.
            Io guardai all’ingiù e li vidi sparsi per la montagna che si erano fermati, chi a cercare delle lumache fra i sassi, chi a fare raccolta di alcuni fiori senza odore, chi a prendere frutti selvatici, chi a correre dietro alle farfalle, chi ad inseguire i grilli e chi a riposarsi seduto su qualche gerbido all’ombra di una pianta ecc. ecc. Io mi misi a gridare con quanta voce aveva in gola, mi sbracciava a far lor segni, li chiamava per nome ad uno ad uno, che venissero su presto, che non era quello il tempo da fermarci. Qualcheduno venne, dimodoché erano poi circa otto i giovani intorno a me: tutti gli altri non badavano alle mie chiamate, e non pensavano a venire in su, occupati in quelle loro bazzecole. Ma io non voleva assolutamente andare in paradiso accompagnato da così pochi giovani e perciò determinato di andare io stesso a prendere quei renitenti, dissi a coloro che erano con me: – Io ritorno indietro e vado giù a raccoglierli. Voi altri fermatevi qui.
            E così feci. Quanti ne incontra va scendendo, tanti ne spingeva in su. A questi dava un avviso, a quello un rimprovero amorevole, ad un terzo una solenne sgridata; ad uno un pugno, ad un altro un urtone:
            -Andate su, per carità, mi affannavo a dire: non fermatevi per queste cose da nulla. – E così io venendo in giù, li aveva già avvertiti quasi tutti e mi trovavo sulle balze del monte che avevamo salito con tanto stento. Quivi aveva fermati alcuni che stanchi per la fatica del salire e impauriti dell’altezza da raggiungere, ritornavano al basso. Allora mi rivolsi per ripigliare l’ascesa e ritornare dove erano i giovani. Ma che? Inciampai in una pietra e mi svegliai.

            Eccovi raccontato il sogno, ma desidero da voi due cose: Vi ripeto che non lo raccontiate fuori di casa a nessuna persona estranea, poiché se qualcuno del mondo sentisse queste cose ne riderebbe. Io ve le narro così per divertirvi: raccontatelo fra di voi finché volete, ma intendo che non diate loro altro peso fuori di quello che ad un sogno si conviene. E poi un’altra cosa voglio dirvi; che cioè nessuno venga ad interrogarmi, se esso vi era o non vi era, chi vi fosse e chi no, che cosa faceva, o che cosa non faceva, se eravate fra i pochi ovvero fra i molti, qual posto avevate ecc. ecc.; perché sarebbe un rinnovare la musica di quest’inverno. Ciò potrebbe essere per alcuni più svantaggioso che utile ed io non voglio intorbidare le coscienze.
            Vi dico solo che se il sogno non fosse stato un sogno, ma una realtà e veramente avessimo dovuto morire allora, fra tanti giovani che siamo qui, se ci incamminassimo verso il paradiso, pochissimi vi giungerebbero: fra settecento oppure ottocento e più non sarebbero forse che tre o quattro. Ma a momenti: non vi turbate, intendiamoci: vi spiego questa proposizione così azzardata: dico che non sarebbero che tre o quattro coloro, i quali andrebbero di volo al paradiso, senza passare qualche tempo tra le fiamme del purgatorio. Qualcuno forse vi resterà un minuto solo: altri forse un giorno, altri dei giorni e delle settimane: ma quasi tutti dovrebbero passarvi almeno per un poco. Volete sapere come si fa per evitare il purgatorio? Procurate di acquistare delle indulgenze quanto più potete. Se voi farete quelle pratiche, cui sono annesse, colle dovute disposizioni, se acquisterete un’indulgenza plenaria, andrete di volo al paradiso.

            D. Bosco di questo sogno non diede nessuna spiegazione personale e pratica a ciascuno degli alunni, e ben poche sopra i vari significati degli spettacoli da lui visti. E non era cosa facile. Si trattava, come poi ci riserviamo di provare, di idee in quadri molteplici che ora si succedevano e ora apparivano simultanee, le quali rappresentavano l’Oratorio col suo presente e col suo futuro; tutti i giovani che attualmente erano nella casa e quelli che sarebbero venuti dopo, col loro ritratto morale e le lor sorti avvenire; la Pia Società Salesiana col suo accrescimento, le sue peripezie e le sue fortune; la Chiesa cattolica colle odiose persecuzioni preparate dai suoi nemici, e i trionfi che non le sarebbero mancati: e via via dicendo altri fatti generali o particolari.
            Con tali vastità, intrecci, e confusione di vedute, Don Bosco non poteva, non sapeva esporre per intero ciò che si era spiegato così vivamente innanzi alla sua fantasia; e di molte cose era convenienza e anche dovere che fossero taciute o palesate solo a persone prudenti per le quali poteva essere di conforto o di avviso tale segreto.
            Egli adunque esponendo ai giovani vari sogni dei quali a suo tempo avremo a parlare, sceglieva ciò che loro poteva essere di maggiore utilità, essendo tale l’intento di chi ispirava quelle misteriose rivelazioni. A quando a quando però Don Bosco, per ragione dell’impressione, profonda che ne aveva provato, ed anche per lo studio della scelta, accennava confusamente e di volo ad altri fatti, o cose, o idee talvolta direi incoerenti ed estranee al suo racconto, ma che svelavano essere molto di più ciò che taceva di quello che dicesse.
            Così egli aveva incominciato a fare in questi giorni, descrivendo la sua magnifica passeggiata, e noi cercheremo di brevemente spiegarla, sia con alcune parole di D. Bosco, sia con nostre varie riflessioni, le quali però rimettiamo all’esame dei lettori; e diremo:
            1° La collina che D. Bosco incontra sul principio del suo cammino pare sia l’Oratorio. Su di essa ride una splendida giovinezza di vegetazione. Non vi sono alberi annosi di largo ed alto fusto. In ogni stagione vi si raccolgono fiori e frutti e così è o deve essere l’Oratorio. Questo come tutta l’opera di D. Bosco ha per sostegno la beneficenza, della quale dice l’Ecclesiastico al capo XI, essere dessa come un giardino benedetto da Dio che dà frutti preziosi, frutti d’immortalità, simile al paradiso terrestre ove fra gli altri era l’albero della vita.
            2° Chi saliva sulla montagna deve essere quell’uomo beato descritto nel salmo LXXXIII la cui fortezza è tutta nel Signore. Egli in questa terra, valle di lagrime, ascensiones in corde suo disposuit (decide nel suo cuore il santo viaggio, Ps. 83,6) risoluto di salire continuamente per giungere al tabernacolo dell’Altissimo ossia al cielo. E con esso altri molti. Ed il legislatore Gesù Cristo li benedirà, li ricolmerà di grazie celesti, andranno di virtù in virtù e giungeranno a veder Dio nella beata Sione, e saranno eternamente felici.
            3° I laghi sembrano come il compendio della storia della Chiesa; quelle innumerabili membra spezzate presso le rive appartengono ai persecutori infedeli, agli eretici, agli scismatici e cattivi cristiani ribelli. Da certe parole del sogno s’intende come D. Bosco avesse visti gli avvenimenti presenti ed anche i futuri. “Ad alcuni pochi ed in privato, narra la cronaca, egli parlando di quel vallone vuoto al di là del lago di sangue, disse:
            – Quel vallone deve riempirsi specialmente col sangue dei sacerdoti e può essere anche molto presto.
            È andato D. Bosco, continua la cronaca, in questi giorni a visitare il Cardinale De Angelis. S. Eminenza gli disse:
            – Mi racconti qualche cosa da tenermi allegro.
            – Le racconterò un sogno.
            – Volentieri, sentiamo.
            D. Bosco incominciò a narrargli ciò che sopra abbiamo descritto, però con maggiori particolarità e riflessioni; ma quando fu al lago di sangue il Cardinale si faceva serio e malinconico. Allora D. Bosco troncò il racconto, dicendo:
            – Fin qui!
            – Vada avanti! – gli disse il Cardinale.
            – Fin qui e basta – concluse D. Bosco: e prese a discorrere di fatti ameni”.
            4° La scena che rappresenta lo strettissimo passaggio fra due rupi, il ponticello di legno (che era la croce di Gesù Cristo), la sicurezza di passare oltre in chi è sorretto dalla fede, il pericolo di precipitare nell’avanzarsi senza retto fine, gli ostacoli di ogni genere per giungere ove il sentiero si fa agevole, tutto ciò, se per avventura non siamo in errore, ci indica le vocazioni religiose. Quelli che stavano sulla piazza dovevano essere giovanetti chiamati da Dio a servirlo nella Pia Società. Infatti si nota che la gente la quale aspettava per entrare in quella via che metteva al paradiso era contenta, felice e si divertiva. Ciò caratterizza almeno in gran parte una moltitudine che non era di adulti. Aggiungiamo che nel salire quel monte parte si era fermata, parte ritornava indietro. Non sarebbe il raffreddamento nel seguire la vocazione? D. Bosco diede a questa parte del sogno un significato che indirettamente poteva alludere alla vocazione, ma non credette bene parlarne.
            5° Sul fianco del monte, appena oltrepassati gli ostacoli che si accavallavano alle sue falde, D. Bosco aveva veduto gente che soffriva. “Alcuni lo interrogarono in privato, scrisse D. Bonetti, ed egli rispose:
            – Questo luogo, significava il purgatorio. Se avessi da fare una predica su questo argomento, non farei altro che descrivere quello che vidi. Sono Cose che fanno paura. Dirò solo che, fra i vari generi di supplizi, vidi quelli che erano premuti da torchi, di sotto ai quali si vedevano sporgere le mani, i piedi, il capo; gli occhi loro schizzavano fuori dalle orbite. Erano slombati, stritolati, e mettevano un raccapriccio indescrivibile nel cuore di chi guardava”.

            Aggiungiamo un’ultima ed importante osservazione, la quale serve per questo sogno e per quelli molti, che descriveremo in avvenire. In questi sogni o visioni, per così chiamarle, entra quasi sempre in scena un personaggio misterioso, il quale fa da guida e da interprete a D. Bosco. Chi potrà mai essere?… Ecco la parte più sorprendente è più bella di questi sogni e che D. Bosco, raccontando, riteneva nel segreto del suo cuore.
(MB VI, 864-882)




La fede. Nostro scudo e nostra vittoria, la temperanza e l’ozio (1876)

“Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi di consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime; intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi aiuti di poter così continuare fino all’ultimo respiro di mia vita.” (Don Bosco)

            I giovani, e non essi soli, aspettavano avidamente il racconto del sogno; Don Bosco mantenne la promessa, ma con un giorno di ritardo, nella “buona notte” del 30 giugno, solennità del Corpus Domini. Esordì a questo modo: “Mi rallegro nel vedervi. Oh! quante facce angeliche io ho davanti e tutte rivolte a me (risa generali). Ho pensato che raccontandovi quel sogno vi farei paura! Se avessi pur io una faccia angelica, potrei dirvi: Guardate me! E allora si dissiperebbe ogni vostro timore. Ma sfortunatamente non sono altro che fango, come siete voi. Siamo però fattura di Dio e posso dire con S. Paolo che voi siete gaudium meum et corona mea: voi siete la mia consolazione e la mia corona. Però non vi è da stupirsi, se nella corona vi sarà qualche Gloria Patri un po’ ruvido. Ma veniamo al sogno. Io non voleva raccontarvelo per timore di farvi paura; ma poi ho pensato: Un padre nulla deve tener nascosto ai suoi figli, tanto più se essi in ciò che egli sa hanno interesse e questi devono sapere ciò che il padre conosce e fa. Perciò mi son deciso a raccontarvelo in tutti i suoi particolari; ma vi prego di non dargli se non l’importanza che si dà a un sogno, e ciascuno lo prenda nella parte che più gli piace e che è più salutare. Sappiate dunque che il sogno si fa dormendo (risa generali). Ma sappiate anche che questo sogno non l’ho fatto adesso; l’ho fatto quindici giorni addietro, proprio allora quando voi terminavate i vostri esercizi. Era da molto tempo che io pregava il Signore, affinché mi facesse conoscere lo stato dell’anima dei miei figliuoli e che cosa si potesse fare per il loro maggiore avanzamento nella virtù e per sradicare dal loro cuore certi vizi. Specialmente in questi esercizi spirituali io era sopra pensiero per tale motivo. Ringraziando il Signore, gli esercizi sono andati veramente bene, sia per gli studenti che per gli artigiani. Ma il Signore non si fermò qui nelle sue misericordie; Egli volle favorirmi in modo, che io potessi leggere nelle coscienze dei giovani, proprio come se leggessi in un libro; e quello che è più mirabile, vidi non solamente lo stato presente di ciascuno, ma le cose, che a ciascuno sarebbero accadute nell’avvenire. E ciò, in modo proprio anche per me straordinario; perché non mi avveniva mai che io vedessi in simile modo, così bene, così chiaro, così svelatamente nelle cose future e nelle coscienze dei giovani. È stata questa la prima volta. Avevo anche pregato molto Maria Santissima, acciocché mi volesse concedere la grazia, che nessuno di voi avesse il demonio in cuore, e spero che anche questo mi sia stato concesso; poiché ho motivi di credere che tutti voi mi abbiate interamente palesato la vostra coscienza. Essendo io adunque in questi pensieri e pregando il Signore che mi facesse conoscere che cosa potesse giovare e nuocere alla salute dell’anima dei miei cari giovani, andai a letto, ed ecco che mi posi a fare il sogno, che io qui vi racconterò”.
            Il preambolo comincia da un sentimento consueto di profonda umiltà; ma questa volta finisce in un’asserzione di tal natura, che esclude ogni dubbio circa il carattere soprannaturale del fenomeno.
            Il sogno si potrebbe intitolare così: La fede, nostro scudo e nostra vittoria.

            Mi parve di trovarmi nell’Oratorio coi miei giovani, che formano la mia gloria e la mia corona. Era sera in sull’imbrunire. Si vedeva ancora, ma non più tanto chiaramente. Io, uscendo qui dai portici, era incamminato verso la portineria; ma un numero immenso di giovani mi circondava, come voi siete soliti a fare, perché siamo amici. Gli uni erano venuti per salutarmi, gli altri per dirmi qualche cosa. Io indirizzava una parola a questo ed una a quello. Così lentamente era giunto in mezzo al cortile; quando sento degli ahi! ahi! Lamentevoli e prolungati e un rumore grandissimo, misto ad alte strida di giovani e ad urla feroci che venivano dalla parte della portineria. Gli studenti all’udire quell’insolito tumulto vanno per vedere; ma ben presto, insieme cogli artigiani spaventati, li vidi fuggire a precipizio, gridando e correndo verso di noi. Molti artigiani erano passati dalla porta al fondo del cortile.
            Ma crescendo ognor più le grida cogli accenti di dolore e di disperazione, io con ansietà domandava a tutti che cosa fosse accaduto, e cercava di avanzarmi, per portare aiuto ove fosse stato d’uopo. Ma i giovani affollati intorno a me mi trattenevano. Allora io:
            – Ma lasciatemi andare a vedere che cosa c’è che mette tanto spavento.
            – No, no, per carità, tutti mi dicevano; non vada avanti, venga, venga indietro; vi è un mostro che la divorerà; fugga, fugga con noi: non vada laggiù.
            Volli tuttavia vedere che cosa vi fosse e svincolatomi dai giovani mi avanzai alquanto nel cortile degli artigiani, mentre tutti i giovani gridavano:
            -Veda, veda!
            – Che cosa c’è?
            – Veda là in fondo!
            Mi volsi da quella parte e vidi un mostro che sulle prime mi parve un gigantesco leone, che l’eguale certamente non esiste sulla terra. Lo fissai attentamente. Era schifoso, aveva l’aspetto quasi di orso, ma più feroce e orribilissimo La parte di dietro a proporzione delle altre membra era piuttosto piccola, ma le spalle anteriori aveva larghissime, come pure lo stomaco. Enorme era la sua testa, e la bocca così smisurata e aperta, che sembrava fatta per divorare la gente in un boccone. Da questa sporgevano fuori due grossi, acuti e lunghissimi denti a guisa di spade taglienti.
            Io tosto mi ritrassi in mezzo ai giovani, i quali mi chiedevano consiglio ansiosamente: ma neppur io era libero dallo spavento e mi trovava non poco imbarazzato. Tuttavia risposi:
            – Vorrei potervelo dire che cosa avete da fare; ma non lo so. Intanto raduniamoci sotto i portici.
            Mentre così diceva, l’orso entrava nel secondo cortile e si avanzava verso di noi con passo grave e lento, come colui che è sicuro della preda che vuol fare. Noi retrocedemmo inorriditi finché ci siamo trovati qui sotto i portici. I giovani si erano stretti attorno alla mia persona. Tutti gli occhi erano fissi in me:
            – D. Bosco, che cosa dobbiamo fare? – mi dicevano. Ed io pure guardava i giovani, ma silenzioso, non sapendo a qual partito appigliarmi. Finalmente esclamai:
            – Voltiamoci là verso il fondo dei portici, all’immagine della Madonna, mettiamoci in ginocchio, preghiamola fervorosamente, con maggior divozione del solito, perché essa ci dica ciò che abbiamo da fare in questi momenti, ci faccia conoscere chi sia questo mostro, venga in nostro aiuto e ci liberi. Se è un animale feroce, in qualche modo fra tutti insieme cercheremo di ucciderlo; se è un demonio, Maria ci soccorrerà. Non temete! La Madre celeste provvederà alla nostra salute!
            Intanto l’orso continuava ad avvicinarsi lentamente e quasi si strisciava per terra in atto di prendere lo slancio per avventarsi.
            Ci siamo inginocchiati e ci mettemmo a pregare. Trascorsero pochi minuti di grande costernazione. La belva era giunta così vicina da poter con uno slancio piombarci sopra. Quand’ecco non so né come, né quando, ci vedemmo ad un tratto trasportati di là del muro e ci trovammo tutti nel refettorio dei chierici.
            Nel mezzo di questo si vedeva la Madonna che aveva somiglianza, non so bene se colla statua che è qui sotto i portici, o con quella del refettorio stesso, o con quella che è posta sulla cupola, oppure con quella che sta in Chiesa. Ma comunque sia, fatto sta che era tutta raggiante di vivissima luce e illuminava tutto il refettorio, ampliato in vastità ed in altezza cento volte tanto, come un sole in pieno meriggio. Era attorniata da beati e da angioli, sicché quella sala sembrava un paradiso. Le sue labbra si muovevano come se volesse parlare, per dirci qualche cosa.
            Noi in quel refettorio eravamo in numero straordinario. Nei nostri cuori allo spavento sottentrò lo stupore. Gli occhi di tutti erano intenti nella Madonna, la quale con voce dolcissima ci rassicurò.
            -Non temete, disse; abbiate fede; questa è solo una prova che di voi vuol fare il mio divin Figlio.
            Osservai allora attentamente coloro che sfolgoranti di gloria facevano corona alla Santa Vergine e riconobbi Don Alasonatti, Don Ruffino, un certo Michele fratello delle scuole cristiane (Romano, direttore della casa di noviziato dei Fratelli a Torino), che qualcuno di voi avrà conosciuto, e mio fratello Giuseppe; e altri i quali furono anticamente nel nostro Oratorio, appartenenti alla Congregazione ed ora sono in paradiso. Con questi ne vidi alcuni altri che sono ancora vivi.

***

            Quand’ecco che uno di coloro che facevano corteggio alla Vergine, dice ad alta voce: Surgamus! (alziamoci)
            Noi eravamo in piedi e non sapevamo che cosa ci indicasse quell’avviso, e dicevamo: – Ma come surgamus? Se siamo già tutti in piedi! Surgamus! ripeté più forte la stessa voce. I giovani fermi ed attoniti si erano rivolti a me, aspettando un mio cenno; e non sapevano che cosa fare. Io mi volsi colà donde quel suono era partito e dissi:
            – Ma come fare? che cosa vuol dire surgamus, mentre siamo già tutti in piedi?
            E quella voce mi rispose con maggior forza: Surgamus! Io non sapeva rendermi ragione di questo comando che non intendeva.
            Allora un altro di quelli che erano colla Beata Vergine si indirizzò a me, che stava sopra di un tavolo per dominare tutta la moltitudine, e così prese a dire con voce mirabilmente robusta, mentre i giovani stavano attenti:
            – E tu che sei prete dovresti intendere questo surgamus! Quando celebri la S. Messa non dici tutti i giorni sursum corda (in alto i nostri cuori)? Intendi forse con ciò di alzarti materialmente, oppure di innalzare gli affetti del cuore al cielo, a Dio?
            Io tosto gridai ai giovani:
            – Su, su, figliuoli, ravviviamo, fortifichiamo la nostra fede, innalziamo i nostri cuori a Dio; facciamo un atto di amore e di pentimento; facciamo uno sforzo di volontà per pregare con vivo fervore, confidiamo in Dio. E feci un segno e tutti ci inginocchiammo.
            Un momento dopo mentre noi pregavamo sommessamente con slancio pieno di fiducia, una voce di nuovo si fece udire: Surgite (alzatevi)! E fummo tutti in piedi e ci sentimmo sollevare sensibilmente da terra per una forza soprannaturale e salimmo io non so dire quanto, ma ben so che eravamo tutti molto in alto. Non saprei neppur dire sopra di che posassero i nostri piedi. Mi ricordo che io mi teneva stretto al telaio o al parapetto di una finestra. Tutti i giovani poi si arrampicavano su per le finestre e sulle porte. Chi si attaccava di qua, chi si attaccava di là; chi a spranghe di ferro, chi a chiodi robusti, chi alla cornice della volta. Tutti eravamo sollevati in aria ed io era stupito che non cadessimo per terra.
            Ed ecco quel mostro, che avevamo veduto nel cortile, entra nella sala seguito da una innumerevole quantità di bestie di varia specie, ma tutte feroci. Scorrazzavano qua e là pel refettorio, mandavano urli orribili, sembravano smaniose di combattimento, sembrava che ad ogni momento fossero per slanciarsi con un salto addosso a noi. Ma ancora non facevano la prova di assalirci. Ci guatavano però sollevando il muso con occhio sanguigno. Noi dall’alto stavamo osservandole ed io tenendomi stretto stretto a quella finestra: – Se cadessi, diceva fra me, quale strazio orribile farebbero della mia persona!

***

            Mentre noi eravamo in quella strana posizione, una voce uscì dalla Madonna, la quale cantava le parole di S. Paolo: Sumite ergo scutum fidei inexpugnabile (prendete dunque lo scudo invincibile della fede). Era un canto così armonioso, così unito, di tale sublime melodia, che noi eravamo come in estasi. Si sentivano tutte le note dalla più bassa alla più alta e pareva che cento voci cantassero in una sola.
            Noi stavamo ascoltando quel canto di paradiso, quando abbiamo visto partire dai fianchi della Madonna molti leggiadrissimi giovanetti, forniti di ali e discesi dal cielo. Si avvicinarono a noi portando degli scudi in mano e ne ponevano uno sul cuore di ciascheduno dei nostri giovani. Tutti quelli scudi erano grandi, belli, risplendenti. Si rifletteva in essi la luce che veniva dalla Madonna e sembrava proprio una cosa celeste. Ogni scudo nel mezzo pareva di ferro, poi un gran cerchio di diamante, e in ultimo sull’orlo un cerchio d’oro purissimo. Questo scudo rappresentava la fede. Quando tutti fummo così armati, coloro che erano intorno alla Beata Vergine intonarono un duetto e cantavano con sì bella armonia che non saprei quali parole possano in qualche modo esprimere tanta dolcezza. Era tutto ciò che si può immaginare di più bello, di più soave, di più melodioso.
            Mentre io contemplava quello spettacolo ed era assorto in quella musica, fui scosso da una voce potente che gridava: Ad pugnam (Alla lotta)! Tutte quelle belve presero ad agitarsi furiosamente.
            In un subito noi tutti cademmo, restando in piedi sul suolo ed ecco ognuno trovarsi in lotta colle fiere, protetti dallo scudo divino. Non so dire se abbiamo ingaggiata la battaglia nel refettorio oppure nel cortile. Il coro celeste continuava le sue armonie. Quei mostri slanciavano contro di noi, coi vapori che uscivano dalle loro fauci, palle di piombo, lance, saette ed altri proiettili di ogni specie; ma queste armi o non ci arrivavano o colpivano i nostri scudi e rimbalzavano indietro. Ma i nemici a tutti i modi volevano ferire ed uccidere e si precipitavano all’assalto; ma non potevano recarci nessuna ferita. Tutti i loro colpi urtavano con impeto in quelli scudi, ed essi si rompevano i denti e fuggivano. Come flutti l’uno dopo l’altro si succedevano nell’assalirci quelle masse di belve spaventevoli, ma tutte incontravano la stessa sorte.
            Lunga fu la pugna. Finalmente si fece udire la voce della Madonna: Haec est victoria vestra, quae vincit mundum, fides vestra. (questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la vostra fede, 1Gv 5,4)
            A questa voce quella moltitudine di belve spaventata si diede a precipitosa fuga e scomparve. Noi restammo liberi, salvi, vincitori in quella sala immensa del refettorio, sempre illuminata dalla viva luce che si diffondeva dalla Madonna.
            Allora io guardai fissandoli attentamente coloro che portavano quello scudo. Erano molte migliaia. Fra gli altri vidi Don Alasonatti, Don Ruffino, mio fratello Giuseppe e il Fratello delle scuole Cristiane che avevano combattuto con noi.
            Ma gli occhi di tutti i giovani non potevano staccarsi dalla Madonna Santissima. Essa intonava un cantico di ringraziamento, che in noi destava nuovi gaudi e nuove estasi indescrivibili. Non so se si possa sentire cantico più bello in paradiso.

***

            Ma la nostra allegrezza venne all’improvviso turbata da grida e gemiti strazianti misti ad urli feroci. Sembrava che i nostri giovani fossero dilaniati da quelle belve, fuggite pochi momenti prima da quel luogo. Io volli subito uscir fuori per vedere che cosa accadesse, e portar soccorso ai miei figli; ma non poteva uscire perché alla porta vi erano i giovani che mi trattenevano e non volevano a tutti i costi che io uscissi. Io faceva ogni sforzo per liberarmi e diceva loro:
            – Ma lasciatemi andare ad aiutare quelli che gridano. Voglio vedere i miei giovani e se loro tocca danno o morte, voglio morire con loro. Voglio andare, sebbene avessi da lasciarci la vita. E strappatomi dalle loro mani, fui sotto i portici. Ed oh! miserando spettacolo. Il cortile era sparso di morti, di moribondi e di feriti.
            I giovani, impauriti dallo spavento, tentavano fuggire da una parte e dall’altra e tutti quei mostri li inseguivano, si slanciavano loro addosso, conficcavano i denti nelle loro membra e li dilaniavano. Ad ogni istante erano giovani che cadevano e spiravano, mandando grida le più dolorose.
            Ma chi più di tutti faceva spaventevole macello, era quell’orso comparso pel primo nel cortile degli artigiani. Con quei due denti simili a spade trapassava il petto dei giovani da destra a sinistra, e da sinistra a destra e quelli con doppia ferita nel cuore cadevano miseramente morti.
            Io risolutamente mi posi a gridare:
            – Coraggio, miei cari giovani!
            Molti giovani si rifugiarono vicino a me. Ma l’orso al mio apparire mi corse incontro. Io, facendomi coraggio, feci qualche passo verso di lui. Intanto alcuni giovani di quelli che erano nel refettorio e che avevano già vinte le bestie, vennero sulla soglia e si unirono a me. Quel principe dei demoni si avventò contro di me e contro di essi, ma non ci poté ferire perché eravamo difesi dagli scudi. Anzi neppur ci toccò, perché alla vista di questi, spaventato e quasi riverente, indietreggiava. Allora fu che guardando fisso quei suoi lunghi denti in forma di spade, vi lessi scritte due parole a grossi caratteri. Sull’uno era scritto: Otium; sull’altro: Gula.
            Restai stupefatto e andava dicendo fra me: – Possibile che nella nostra casa, dove tutti sono tanto occupati, dove vi è tanto da fare che non si sa neppure dove dare del capo per sbrogliarci delle nostre occupazioni, vi sia chi pecchi di ozio? E riguardo ai giovani mi pare che lavorino, che studino a tempo e luogo e che in ricreazione non perdano tempo. – E non potevo darmi ragione della cosa.
            Ma mi fu risposto:
            – Eppure delle mezz’ore se ne perdono!
            – E di gola poi? io continuava; tra noi pare che anche volendolo non si possano commettere molte golosità. Non abbiamo guari occasioni di essere intemperanti. I cibi non sono ricercati e così le bevande. Si dà appena il necessario. Come dunque possono accadere intemperanze che conducano all’inferno?
            Di nuovo mi fu risposto:
            – O sacerdote! Tu credi di essere profondo nelle cognizioni morali e di avere già molta esperienza; ma in ciò ne sai niente; sei nuovo del tutto. E non sai che si può commettere una golosità, una intemperanza anche bevendo acqua?
            Io non contento volli avere una più chiara spiegazione ed essendo ancora il refettorio illuminato dalla Vergine, andai tutto triste dal fratello Michele perché volesse schiarire il mio dubbio. Michele mi rispose:
            – Eh, mio caro, in questa parte sei ancora novizio. Ti spiegherò quanto domandi.
            Riguardo alla gola hai da sapere che si può peccare d’intemperanza, quando anche a tavola si mangia o si beve più del bisognevole; si commette intemperanza nel dormire o quando si fa qualsiasi cosa riguardo al corpo che sia oltre il bisogno, che non sia necessaria. Riguardo all’ozio sappi che con questa parola non si intende solo il non lavorare e l’occupare o no il tempo di ricreazione nel divertirsi, ma sebbene anche quando in questo tempo si lascia libera l’immaginazione nel pensare a cose che sono pericolose. L’ozio ha luogo eziandio quando nello studio uno si diverte con altrui disturbo, quando certi ritagli di ora si sprecano in letture frivole, o stando inerti a badare agli altri, lasciandosi vincere da quel momento di accidia, e specialmente quando in chiesa non si prega e si hanno a noia le cose di pietà. L’ozio è il padre, la sorgente, la causa di tante tentazioni cattive e di tutti i mali. Tu poi, che sei Direttore di questi giovani, devi procurare di tener da loro lontani questi due peccati, cercando di ravvivare in loro la fede. Se tu potrai ottenere dai tuoi giovani che siano temperanti in quelle piccole cose che ho detto, essi vinceranno sempre il demonio e colla temperanza verranno loro l’umiltà, la castità e le altre virtù. E se occuperanno il tempo a dovere non cadranno mai nelle tentazioni del nemico infernale e vivranno e morranno da santi cristiani.

***

            Ascoltate queste cose, io lo ringraziai di così bella istruzione e quindi per accertarmi se ciò che io vedevo fosse realtà ovvero semplice sogno, cercai di toccargli la mano: ma nulla strinsi. Cercai di stringerla per la seconda volta e per la terza, e inutilmente: non strinsi che aria. Pure tutte quelle persone le vedeva, parlavano, sembravano vive. Mi accostai a Don Alasonatti, a Don Ruffino, a mio fratello: ma non mi fu possibile palpar loro la mano.
            Io era fuor di me ed esclamai:
            – Ma è vero o non è vero tutto ciò che io vedo? Ma queste non sembrano persone? Non le ho udite a parlare?
            Il fratello Michele mi rispose:
            – Dovresti sapere, e lo hai studiato, che, finché l’anima non sarà riunita al corpo, è inutile tentare di toccarmi. Non puoi toccare i puri spiriti. Solo per farci vedere dai mortali dobbiamo prendere la nostra figura. Ma quando tutti risorgeremo al Giudizio, allora riprenderemo i nostri corpi immortali e spiritualizzati.
            Allora volli appressarmi alla Madonna, che pareva avesse qualche cosa a dirmi. Ero quasi vicino a lei, quando mi pervenne all’orecchio un nuovo rumore e nuove e alte grida di fuori. Subito volli uscire per la seconda volta dal refettorio; ma nell’uscire mi svegliai.

            Terminato che ebbe il suo racconto, vi aggiunse queste osservazioni e raccomandazioni: “Checché sia di questo sogno così variamente intrecciato, il fatto si è che in esso si ripetono e spiegano i detti di S. Paolo. Ma tanto era l’abbattimento e la prostrazione di forze cagionatimi da questo sogno, che io pregai il Signore di non permettere che altra volta si presentasse alla mia mente un simile sogno; ma ecco che nella notte seguente rifeci di nuovo lo stesso sogno e di questo dovetti vedere anche la fine, che non aveva vista la notte precedente. Ed io mi mossi e gridai tanto, che Don Berto udì il rumore e al mattino mi venne a chiedere perché avessi gridato e se la notte fosse trascorsa insonne. Questi sogni mi hanno stancato molto più che se avessi passata tutta la notte vegliando e scrivendo. Come vedete, questo è un sogno, ed io non voglio dargli alcuna autorità, ma solo farne caso come di un sogno senz’andare più in là. Non vorrei poi che se ne scrivesse a casa, o qua o là, affinché quei di fuori, che nulla conoscono delle cose dell’Oratorio, non abbiano a dire, come han già detto, che Don Bosco fa vivere i suoi giovani di sogni. Questo però poco m’importa; dicano quello che vogliono. Ciascheduno tuttavia tragga dal sogno ciò che fa per lui. Per ora non vi do spiegazioni di esso, perché è tanto facile a capirsi da tutti. Quello che vi raccomando molto e molto si è che ravviviate la vostra fede, la quale si conserva special mente con la temperanza e con la fuga dell’ozio. Di questo siate nemici, di quella amici. In altre sere ritornerò su quest’argomento. Intanto vi do la buona notte”.
(MB XII, 348-356)




Quinto sogno missionario: Pechino (1886)

            Nella notte dal 9 al 10 aprile Don Bosco fece un nuovo sogno missionario, che raccontò a Don Rua, a Doli Branda e al Viglietti, con voce rotta a volte dai singulti. Il Viglietti lo scrisse subito dopo e per ordine suo ne inviò copia a Don Lemoyne, affinché se ne desse lettura a tutti i Superiori dell’Oratorio e servisse di generale incoraggiamento. “Questo però, avvertiva il segretario, non è che l’abbozzo di una magnifica e lunghissima visione”. Il testo che noi pubblichiamo è quello del Viglietti, ma un po’ ritoccato da Don Lemoyne nella forma per renderne più corretta la dizione.

            Don Bosco si trovava nelle vicinanze di Castelnuovo sul poggio, così detto, Bricco del Pino, vicino alla valle Sbarnau. Spingeva di lassù per ogni parte il suo sguardo, ma altro non gli veniva fatto di vedere che una folta boscaglia, sparsa ovunque, anzi coperta di una quantità innumerevole di piccoli funghi.
            – Ma questo, diceva Don Bosco, è pure il contado di Rossi Giuseppe (di questa terra Don Bosco per scherzo aveva creato conte il coadiutore Rossi): dovrebbe ben esserci!
            Ed infatti dopo qualche tempo, scorse Rossi il quale tutto serio stava guardando da un lontano poggio le sottostanti valli. Don Bosco lo chiamò, ma egli non rispose che con uno sguardo come chi è soprappensiero.
            Don Bosco, volgendosi dall’altra parte, vide pure in lontananza Don Rua il quale, allo stesso modo che Rossi, stava con tutta serietà tranquillamente quasi riposando seduto.
            Don Bosco li chiamava entrambi, ma essi silenziosi non rispondevano neppure a cenni.
            Allora scese da quel poggio e camminando arrivò sopra un altro, dalla cui vetta scorgeva una selva, ma coltivata e percorsa da vie e da sentieri. Di là volse intorno il suo sguardo, lo spinse in fondo all’orizzonte, ma, prima dell’occhio, fu colpito il suo orecchio dallo schiamazzo di una turba innumerevole di fanciulli.
            Per quanto egli facesse affine di scorgere donde venisse quel rumore, non vedeva nulla; poi allo schiamazzo succedette un gridare come al sopraggiungere di qualche catastrofe. Finalmente vide un’immensa quantità di giovanetti, i quali, correndo intorno a lui, gli andavano dicendo:
            – Ti abbiamo aspettato, ti abbiamo aspettato tanto, ma finalmente ci sei: sei tra noi e non ci fuggirai!
            Don Bosco non capiva niente e pensava che cosa volessero da lui quei fanciulli; ma mentre stava come attonito in mezzo a loro contemplandoli, vide un immenso gregge di agnelli guidati da una pastorella, la quale, separati i giovani e le pecore, e messi gli uni da una parte e le altre dall’altra, si fermò accanto a Don Bosco e gli disse:
            – Vedi quanto ti sta innanzi?
            – Sì, che lo vedo, rispose Don Bosco.
            – Ebbene, ti ricordi del sogno che facesti all’età di dieci anni?
            – Oh è molto difficile che lo ricordi! Ho la mente stanca; non ricordo più bene presentemente.
            – Bene, bene: pensaci e te ne ricorderai.
            Poi fatti venire i giovani con Don Bosco gli disse:
            – Guarda ora da questa parte, spingi il tuo sguardo e spingetelo voi tutti e leggete che cosa sta scritto… Ebbene, che cosa vedi?
            – Vedo montagne, poi mare, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari.
            – Leggo, diceva un fanciullo, Valparaiso.
            – Io leggo, diceva un altro, Santiago.
            – Io, ripigliava un terzo, li leggo tutt’e due.
            – Ebbene, continuò la pastorella, parti ora da quel punto e avrai una norma di quanto i Salesiani dovranno fare in avvenire. Volgiti ora da quest’altra parte, tira una linea visuale e guarda.
            – Vedo montagne, colline e mari!…
            E i giovani aguzzavano lo sguardo ed esclamarono in coro:
            – Leggiamo Pechino.
            Vide Don Bosco allora una gran città. Essa era attraversata da un largo fiume sul quale erano gittati alcuni grandi ponti.
            – Bene, disse la donzella che sembrava la loro maestra; ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Pechino a Santiago, fanne un centro nel mezzo dell’Africa ed avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani.
            – Ma come fare tutto questo? esclamò Don Bosco. Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi.
            – Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei figli loro; ma si tenga fermo nell’osservanza delle Regole e nello spirito della Pia Società.
            – Ma dove prendere tanta gente?
            – Vieni qui e guarda. Vedi là cinquanta Missionari in pronto? Più in là ne vedi altri e altri ancora? Tira una linea da Santiago al centro dell’Africa. Che cosa vedi?
            – Vedo dieci centri di stazioni.
            – Ebbene, questi centri che tu vedi, formeranno studio e noviziato e daranno moltitudine di Missionari affine di provvederne queste contrade. Ed ora volgiti da quest’altra parte. Qui vedi dieci altri centri dal mezzo dell’Africa fino a Pechino. E anche questi centri somministreranno i Missionari a tutte queste altre contrade. Là c’è Hong-Kong, là Calcutta, più in là Madagascar. Questi e più altri avranno case, studi e noviziati.
            Don Bosco ascoltava guardando ed esaminando; poi disse:
            – E dove trovare tanta gente, e come inviare Missionari in quei luoghi? Là ci sono i selvaggi che si nutrono delle carni umane; là ci sono gli eretici, là i persecutori, e come fare?
            – Guarda, rispose la pastorella, mettiti di buona volontà. Vi è una cosa sola da fare: raccomandare che i miei figli coltivino costantemente la virtù di Maria.
            – Ebbene, sì, mi pare d’aver inteso. Predicherò a tutti le tue parole.
            – E guardati dall’errore che vige adesso, che è la mescolanza di quelli che studiano le arti umane, con quelli che studiano le arti divine, perché la scienza del cielo non vuol essere con le terrene cose mescolata.
            Don Bosco voleva ancora parlare; ma la visione disparve: il sogno era finito.
(MB XVIII, 71-74)




Quarto sogno missionario in Africa e Cina (1885)

La medesima Provvidenza non cessava di squarciare ogni tanto dinanzi agli occhi di Don Bosco il velo del futuro sui progressi della Società Salesiana nel campo sconfinato delle Missioni. Anche nel 1885 un sogno rivelatore venne a manifestargli quali fossero i disegni di Dio nel remoto avvenire. Don Bosco lo narrò e commentò a tutto il Capitolo la sera del 2 luglio; Don Lemoyne si affrettò a scriverlo.

            Mi parve di essere innanzi ad una montagna elevatissima, sulla cui vetta stava un Angelo splendentissimo per luce, sicché illuminava le contrade più remote. Intorno al monte vi era un vasto regno di genti sconosciute.
            L’Angelo colla destra teneva sollevata in alto una spada che splendeva come fiamma vivissima e colla sinistra mi indicava le regioni all’intorno. Mi diceva: Angelus Arfaxad vocat vos ad proelianda bella Domini et ad congregandos populos in horrea Domini (L’Angelo di Arfaxad vi chiama a combattere le battaglie del Signore ed a radunare i popoli nei granai del Signore). La sua parola però non era come le altre volte in forma di comando, ma a modo di proposta.
            Una turba meravigliosa di Angeli, di cui non ho saputo o potuto ritenere il nome, lo circondava. Fra questi vi era Luigi Colle, al quale faceva corona una moltitudine di giovanetti, a cui egli insegnava a cantare lodi a Dio, cantando lui stesso.
            Intorno alla montagna, ai piedi di essa, e sopra i suoi dorsi abitava molta gente. Tutti parlavano fra di loro, ma era un linguaggio sconosciuto ed io non intendeva. Solo capiva ciò che diceva l’Angelo. Non posso descrivere quello che ho visto. Sono cose che si vedono, s’intendono, ma non si possono spiegare. Contemporaneamente vedeva oggetti separati, simultanei, i quali trasfiguravano lo spettacolo che mi stava dinanzi. Quindi ora mi pareva la pianura della Mesopotamia, ora un altissimo monte; e quella stessa montagna su cui era l’Angelo di Arfaxad ad ogni istante prendeva mille aspetti, fino a sembrare ombre vagolanti quelle genti che l’abitavano.
            Innanzi a questo monte e in tutto questo viaggio mi sembrava di essere sollevato ad una altezza sterminata, come sopra le nuvole, circondato da uno spazio immenso. Chi può esprimere a parole quell’altezza, quella larghezza, quella luce, quel chiarore, quello spettacolo? Si può godere, ma non si può descrivere.
            In questa e nelle altre vedute vi erano molti che mi accompagnavano e m’incoraggiavano, e facevano animo anche ai Salesiani, perché non si fermassero nella loro strada. Fra costoro che calorosamente mi tiravano, a così dire, per mano affinché andassi avanti, vi era il caro Luigi Colle e schiere di Angeli, i quali facevano eco ai cantici di quei giovanetti che stavano a lui d’intorno.
            Quindi mi parve di essere nel centro dell’Africa in un vastissimo deserto ed era scritto in terra a grossi caratteri trasparenti: Negri. Nel mezzo vi era l’Angelo di Cam, il quale diceva: – Cessabit maledictum (è finita la maledizione) e la benedizione del Creatore discenderà sopra i riprovati suoi figli e il miele e il balsamo guariranno i morsi fatti dai serpenti; dopo saranno coperte le turpitudini dei figliuoli di Cam.
            Quei popoli erano tutti nudi.
            Finalmente mi parve d’essere in Australia.
            Qui pure vi era un Angelo, ma non aveva nessun nome. Egli guidava e camminava e faceva camminare la gente verso il mezzodì. L’Australia non era un continente, ma un aggregato di tante isole, i cui abitanti erano di carattere e di figura diversa. Una moltitudine di fanciulli che colà abitavano, tentavano di venire verso di noi, ma erano impediti dalla distanza e dalle acque che li separavano. Tendevano però le mani stese verso Don Bosco ed i Salesiani, dicendo: -Venite in nostro aiuto! Perché non compite l’opera che i vostri padri hanno incominciata? – Molti si fermarono; altri con mille sforzi passarono in mezzo ad animali feroci e vennero a mischiarsi coi Salesiani, i quali io non conosceva, e si misero a cantare: Benedictus qui venit in nomine Domini (benedetto colui che viene nel nome del Signore, Ps 118,26; Mt 21,9; et passim). A qualche distanza si vedevano aggregati di isole innumerabili; ma io non ne potei discernere le particolarità. Mi pare che tutto questo insieme indicasse che la divina Provvidenza offriva una porzione del campo evangelico ai Salesiani, ma in tempo futuro. Le loro fatiche otterranno frutto, perché la mano del Signore sarà costantemente con loro, se non demeriteranno dei suoi favori.
            Se potessi imbalsamare e conservare vivi un cinquanta Salesiani di quelli che ora sono fra di noi, da qui a cinquecento anni vedrebbero quali stupendi destini ci riserba la Provvidenza, se saremo fedeli.
            Di qui a centocinquanta o duecento anni i Salesiani sarebbero padroni di tutto il mondo.
            Noi saremo ben visti sempre, anche dai cattivi, perché il nostro campo speciale è di tal fatta da tirare le simpatie di tutti, buoni ed empi. Potrà essere qualche testa matta che ci voglia distrutti, ma saranno progetti isolati e senza appoggio degli altri.
            Tutto sta che i Salesiani non si lascino prendere dall’amore delle comodità e quindi rifuggano dal lavoro. Mantenendo anche solo le nostre opere già esistenti, e non dandosi al vizio della gola, avranno caparra di lunga durata.
            La Società Salesiana prospererà materialmente, se procureremo di sostenere e di estendere il Bollettino, l’opera dei Figli di Maria Ausiliatrice, e l’estenderemo. Sono così buoni tanti di questi figliuoli! La loro istituzione è quella che ci darà valenti Confratelli risoluti nella loro vocazione.

            Queste sono le tre cose che Don Bosco vide più distintamente, che meglio ricordò e che narrò la prima volta; ma, come espose successivamente a Don Lemoyne, egli aveva visto assai più. Aveva visto tutti i paesi, nei quali i Salesiani sarebbero stati chiamati con l’andare del tempo, ma in una visione fugace, facendo un rapidissimo viaggio, in cui, partito da un punto, là era ritornato. Diceva essere stato come un lampo; tuttavia nel percorrere quello spazio immenso aver distinto in un attimo regioni, città, abitanti, mari, fiumi, isole, costumi e mille fatti che s’intrecciavano e cambiamenti simultanei di spettacoli impossibili a descriversi. Di tutto perciò il fantasmagorico itinerario serbava appena un ricordo indistinto ne sapeva più farne una particolareggiata descrizione. Gli era sembrato di aver con sé molti, che incoraggiavano lui e i Salesiani a non mai arrestarsi per via. Fra i più animati a spronare perché si andasse sempre avanti, appariva Luigi Colle, del quale scriveva al padre il 10 agosto: “Il nostro amico Luigi mi ha condotto a fare una gita nel centro dell’Africa, terra di Cam, diceva egli, e nelle terre di Arfaxad ossia in Cina. Se il Signore vorrà che ci troviamo insieme, ne avremo delle cose da dire”.
            Percorse una zona circolare intorno alla parte meridionale della sfera terrestre. Ecco la descrizione del viaggio, secondo che Don Lemoyne asserisce averla udita dalla sua bocca. Partì da Santiago del Cile e vide Buenos Aires, S. Paolo nel Brasile, Rio de Janeiro, Capo di Buona Speranza, Madagascar, Golfo Persico, sponde del Mar Caspio, Sermaar, monte Ararat, Senegal, Ceylon, Hong-Hong, Macao sull’entrata di un mare sterminato e davanti all’alta montagna da cui si scopriva la Cina; poi l’Impero Cinese, l’Australia, le isole Diego Ramirez; si chiuse infine la peregrinazione con il ritorno a Santiago del Cile. Nel fulmineo giro Don Bosco distingueva isole, terre e nazioni sparse sui vari gradi e molte regioni poco abitate e sconosciute. Dei nomi di tante località vedute nel sogno più non ricordava con esattezza i nomi; Macao, per esempio, la chiamava Meaco. Delle parti più meridionali dell’America fece parola con il capitano Bove; ma questi, non avendo passato il capo di Magellano per mancanza di mezzi e perché costretto poi da diversi affari a tornar indietro, non gli poté fornire alcuno schiarimento.
            Dobbiamo dire qualche cosa di quell’enigmatico Arfaxad. Prima del sogno Don Bosco non sapeva chi fosse; dopo invece ne parlava con certa frequenza. Incaricò il chierico Festa di cercare in dizionari biblici, in storie e geografie, in periodici, per scoprire con quali popoli della terra quel supposto personaggio avesse avuto rapporti. Finalmente si credette d’aver trovato la chiave del mistero nel primo volume del Rohrbacher, il quale asserisce che da Arfaxad discendono i Cinesi.
            Il suo nome compare nel capo decimo del Genesi, dove si fa la genealogia dei figli di Noè, che si divisero il mondo dopo il diluvio. Al versetto 22 si legge: Filii Sem Aelam et Assur et Arphaxad et Lud et Gether et Mes. Qui, come in altre parti del grande quadro etnografico, i nomi propri designano individui che furono padri di popoli, con riferimento pure alle contrade dai medesimi popolate. Così Aelam che significa paese alto, accenna all’Elimaide che con la Susiana divenne poi provincia della Persia; Assur è il padre degli Assiri. Sul terzo nome gli esegeti non vanno d’accordo nel determina e il popolo a cui si riferisce. Alcuni, come il Vigouroux (tanto per citarne uno dei più alla mano), assegnano ad Arfaxad la Mesopotamia. In ogni modo, essendo elencato fra progenitori di schiatte asiatiche e precisamente dopo due di essi che popolarono il lembo più orientale della terra descritta nel documento mosaico, si può arguire che anche Arphaxad stia a indicare una popolazione da collocarsi al seguito delle precedenti, propagatasi poi sempre più verso l’Oriente. Non parrebbe dunque improbabile che nell’Angelo di Arfaxad sia da vedere quello dell’India e della Cina.
            Don Bosco si fissò particolarmente sulla Cina e diceva sembrargli che colà fra non molto sarebbero stati chiamati i Salesiani, una volta anzi aggiunse:
            – Se io avessi venti Missionari da spedire in Cina, è certo che vi riceverebbero un’accoglienza trionfale nonostante la persecuzione. – Perciò d’allora in poi s’interessava assai per tutto quello che poteva riguardare il celeste impero.
            A questo sogno mostrava di pensare sovente, ne discorreva volentieri e ravvisava in esso una conferma dei sogni precedenti sulle Missioni.
(MB XVII 643-645)




Terzo sogno missionario: viaggio aereo (1885)

Il sogno di don Bosco alla vigilia della partenza dei missionari per l’America è un evento ricco di significato spirituale e simbolico nella storia della Congregazione Salesiana. Durante quella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, don Bosco ebbe una visione profetica che sottolinea l’importanza della pietà, dello zelo apostolico e della totale fiducia nella Provvidenza Divina per il successo della missione. Questo episodio non solo incoraggiò i missionari, ma consolidò anche la convinzione di Don Bosco sulla necessità di espandere la loro opera oltre i confini italiani, portando educazione, assistenza e speranza alle nuove generazioni in terre lontane.

            S’arrivò frattanto alla vigilia della partenza. Per tutta la giornata il pensiero che Monsignore e gli altri sarebbero andati così lontano, e l’impotenza assoluta di accompagnarli, come le volte precedenti, fino all’imbarco, anzi l’impossibilità forse di dar loro almeno l’addio nella chiesa di Maria Ausiliatrice, gli causarono sussulti di commozione, che in certi momenti lo opprimevano e lo lasciavano abbattuto. Or ecco che nella notte dal 31 gennaio al 1° febbraio fece un sogno simile a quello del 1883 sulle Missioni. Lo raccontò quindi a Don Lemoyne che subito lo scrisse. É il seguente.

            Mi parve di accompagnare i Missionari nel loro viaggio. Ci siamo parlati per un breve momento prima di partire dall’Oratorio. Essi mi stavano attorno e mi chiedevano consigli; e mi pareva di dire loro:
            – Non colla scienza, non colla sanità, non colle ricchezze, ma collo zelo e colla pietà, farete del gran bene, promovendo la gloria di Dio e la salute delle anime.
            Eravamo poco prima all’Oratorio, e poi senza sapere per quale via fossimo andati e con quale mezzo, ci siamo trovati quasi subito in America. Giunto al termine del viaggio mi trovai solo in mezzo ad una vastissima pianura, posta tra il Chile e la Repubblica Argentina. I miei cari Missionari si erano tutti dispersi qua e là per quello spazio senza limiti. Io guardandoli mi meravigliava, poiché mi sembravano pochi. Dopo tanti Salesiani che in varie volte aveva mandati in America, mi pensava di dover vedere un numero maggiore di Missionari. Ma poscia riflettendo conobbi che se piccolo sembrava il loro numero, ciò avveniva perché si erano sparsi in molti luoghi, come seminagione che doveva trasportarsi altrove ad essere coltivata e moltiplicata.
            In quella pianura apparivano molte e lunghissime vie per le quali si vedevano sparse numerose case. Queste vie non erano come le vie di questa terra, e le case non erano come le case di questo mondo. Erano oggetti misteriosi e direi quasi, spirituali. Quelle strade erano percorse da veicoli, o da mezzi di trasporto che correndo prendevano successivamente mille aspetti fantastici e mille forme tutte diverse, benché magnifiche e stupende, sicché io non posso definirne o descriverne una sola. Osservai con stupore che i veicoli giunti vicini ai gruppi di case, ai villaggi, alle città, passavano in alto, cosicché chi viaggiava vedeva sotto di sé i tetti delle case, le quali benché fossero molto elevate, pure di molto sottostavano a quelle vie le quali mentre nel deserto aderivano al suolo, giunte vicine ai luoghi abitati diventavano aeree quasi formando un magico ponte. Di lassù si vedevano gli abitanti nelle case, nei cortili, nelle vie, e nelle campagne occupati a lavorare i loro poderi.
            Ciascheduna di quelle strade faceva capo ad una delle nostre missioni. In fondo ad una lunghissima via che si protendeva dalla parte del Chile io vedeva una casa [tutte le particolarità topografiche che precedono e che seguono, sembrano indicare la casa di Fortìn Mercedes, sulla riva sinistra del Colorado] con molti confratelli Salesiani, i quali si esercitavano nella scienza, nella pietà, in varie arti e mestieri e nell’agricoltura. A mezzodì era la Patagonia. Dalla parte opposta in un colpo d’occhio scorgeva tutte le case nostre nella Repubblica Argentina. Quindi nell’Uruguay, Paysandú, Las Piedras, Villa Colón; nel Brasile il Collegio di Nicteroy e molti altri ospizi sparsi nelle provincie di quell’impero. Ultima ad occidente si apriva un’altra lunghissima strada che traversando fiumi, mari e laghi faceva capo in paesi sconosciuti. In questa regione vidi pochi Salesiani. Osservai con attenzione e potei solamente vederne due.
            In quell’istante apparve vicino a me un personaggio di nobile e vago aspetto, pallidetto di carnagione, grasso, con barba rasa in modo da parere imberbe e per età uomo fatto. Era vestito in bianco, con una specie di cappa color di rosa intrecciata con fili d’oro. Risplendeva tutto. Io conobbi in quello il mio interprete.
            – Dove siamo qui? chiesi io additandogli quest’ultimo paese.
            – Siamo in Mesopotamia, mi rispose l’interprete.
            – In Mesopotamia? io replicai: ma questa è la Patagonia.
            – Ti dico, rispose l’altro, che questa è la Mesopotamia.
            – Ma pure… ma pure… non posso persuadermene.
            – La cosa è così! Questa è la Me.. so.. po.. ta.. mi.. a, concluse l’interprete sillabando la parola, perché mi restasse bene impressa.
            – Ma perché i Salesiani che vedo qui sono così pochi?
            – Ciò che non è, sarà, concluse il mio interprete.
            Io intanto sempre fermo in quella pianura percorreva collo sguardo tutte quelle interminabili vie e contemplava, in modo chiarissimo ma inesplicabile, i luoghi che sono e saranno occupati dai Salesiani. Quante cose magnifiche io vidi! Vidi tutti i singoli collegi. Vidi come in un punto solo il passato, il presente e l’avvenire delle nostre missioni. Siccome vidi tutto complessivamente in uno sguardo solo, è ben difficile, anzi impossibile rappresentare anche languidamente qualche ristretta idea di questo spettacolo. Solamente ciò che io vidi in quella pianura del Chile, del Paraguay, del Brasile, della Repubblica Argentina domanderebbe un grosso volume, volendo indicare qualche sommaria notizia. Vidi pure in quella vasta pianura, la gran quantità di selvaggi che sono sparsi nel Pacifico fino al golfo di Ancud, nello stretto di Magellano, al Capo Horn, nelle isole Diego, nelle isole Malvine. Tutta messe destinata per i Salesiani. Vidi che ora i Salesiani seminano soltanto, ma i nostri posteri raccoglieranno. Uomini e donne ci rinforzeranno e diverranno predicatori. I loro figli stessi che sembra quasi impossibile guadagnare alla fede, eglino stessi diverranno gli evangelizzatori dei loro parenti e dei loro amici. I Salesiani riusciranno a tutto colla umiltà, col lavoro, colla temperanza. Tutte quelle cose che io vedeva in quel momento e che vidi in appresso, riguardavano tutte i Salesiani, il loro regolare stabilimento in quei paesi, il loro aumento meraviglioso, la conversione di tanti indigeni e di tanti Europei colà stabiliti. L’Europa si verserà nell’America del Sud. Dal momento che in Europa si incominciò a spogliare le chiese, incominciò a diminuire la floridezza del commercio, il quale andò e andrà sempre più deperendo. Quindi gli operai e le loro famiglie spinti dalla miseria correranno a cercare ricovero in quelle nuove terre ospitali.
            Visto il campo che ci assegna il Signore ed il glorioso avvenire della Congregazione Salesiana, mi parve di mettermi in viaggio pel ritorno in Italia. Io era trasportato con rapidissimo corso per una via strana, altissima e così giunsi in un attimo sopra l’Oratorio. Tutta Torino era sotto i miei piedi e le case, i palagi, le torri mi sembravano basse casupole, tanto io mi trovava in alto. Piazze, strade, giardini, viali, le ferrovie le mura di cinta, le campagne, e le colline circostanti, le città, i villaggi della provincia, la gigantesca catena delle Alpi coperta di neve stavano sotto i miei occhi presentandomi uno stupendo panorama. Vedeva i giovani là in fondo nell’Oratorio che sembravano tanti topolini. Ma il loro numero era straordinariamente grande; preti, chierici, studenti, capi d’arte ingombravano tutto. Molti partivano in processione ed altri sottentravano alle file di coloro che partivano. Era una continuata processione.
            Tutti si andavano a raccogliere in quella vastissima pianura tra il Chile e la Repubblica Argentina, nella quale io tosto era ritornato in un batter d’occhio. Io li stava, osservando. Un giovane prete il quale sembrava il nostro D. Pavia, ma che non era, con aria affabile, parola cortese, di un aspetto candido, e di carnagione fanciullesca venne verso di me e mi disse:
            – Ecco le anime ed i paesi destinati ai figliuoli di S. Francesco di Sales.
            Io era meravigliato come tanta moltitudine che sì era raccolta colà in un momento disparisse e appena appena in lontananza si scorgesse la direzione che aveva presa.
            Qui io noto che nel narrare il mio sogno vado per sommi capi e non mi è possibile precisare la successione esatta dei magnifici spettacoli che mi si presentavano e i vari accidenti accessori. Lo spirito non regge, la memoria dimentica, la parola non basta. Oltre il mistero che involgeva quelle scene, queste si avvicendavano, talora s’intrecciavano, soventi volte si ripetevano secondo il vario unirsi o dividersi o partire dei missionari, e lo stringersi, o allontanarsi da essi di quei popoli che erano chiamati alla fede o alla conversione. Lo ripeto: vedeva in un punto solo il presente, il passato, l’avvenire di queste missioni, con tutte le fasi, i pericoli, le riuscite, le disdette o disinganni momentanei che accompagneranno questo Apostolato. Allora intendeva chiaramente tutto, ma ora è impossibile sciogliere questo intrigo di fatti, di idee, di personaggi. Sarebbe come chi volesse comprendere in una sola storia e ridurre ad un solo fatto e ad unità tutto lo spettacolo del firmamento, narrando il moto, lo splendore, le proprietà di tutti gli astri colle loro relazioni e leggi particolari e reciproche; mentre un solo astro darebbe materia all’attenzione e allo studio della mente più robusta. E noto ancora che qui si tratta di cose le quali non hanno relazione con gli oggetti materiali.
            Ripigliando adunque il racconto, dico che restai meravigliato nel vedere scomparire tanta moltitudine. Monsignor Cagliero era in quell’istante al mio fianco. Alcuni missionari erano ad una certa distanza. Molti altri erano intorno a me con un bel numero di cooperatori Salesiani, fra i quali distinsi Mons. Espinosa, il Dottor Torrero, il Dottor Caranza e il Vicario generale del Chile [forse si voleva dire di Mons. Domenico Cruz, Vicario Capitolare della diocesi di Concepción]. Allora il solito interprete venne verso di me che parlava con Mons. Cagliero e molti altri, mentre andavamo studiando se quel fatto racchiudesse qualche significazione. Nel modo più cortese l’interprete mi disse:
            – Ascoltate e vedrete.
            Ed ecco in quel momento la vasta pianura divenire una gran sala. Io non posso descrivere esattamente quale apparisse nella sua magnificenza e nella sua ricchezza. Dico solo che se uno si mettesse a descriverla, nessun uomo potrebbe sostenerne lo splendore neppure coll’immaginazione. L’ampiezza era tale che si perdeva a vista d’occhio e non si riusciva a vederne le mura laterali. La sua altezza non si poteva raggiungere. La volta terminava tutta con archi altissimi, larghissimi e risplendentissimi e non si vedeva sopra qual sostegno si appoggiassero. Non vi erano né pilastri, né colonne. In generale sembrava che la cupola di quella gran sala fosse di un candidissimo lino a guisa di tappezziera. Lo stesso dicasi del pavimento. Non vi erano lumi, né sole, né luna, né stelle, ma sebbene uno splendore generale, diffuso egualmente in ogni parte. La stessa bianchezza dei lini luccicava e rendeva visibile ed amena ogni parte, ogni ornamento, ogni finestra, ogni entrata, ogni uscita. Tutto intorno era diffusa una soavissima fragranza, la quale era mescolanza di tutti gli odori più grati.
            Un fenomeno si scorse in quel momento. Una gran quantità di tavole in forma di mensa si trovavano là di una lunghezza straordinaria. Ve ne erano per tutte le direzioni, ma concorrevano ad un centro solo. Erano coperte da eleganti tovaglie e sopra stavano disposti in ordine bellissimi vasi cristallini in cui erano fiori molti e vari.
            La prima cosa che notò Mons. Cagliero fu:
            – Le tavole ci sono, ma i commestibili dove sono?
            Infatti non era apparecchiato nessun cibo e nessuna bevanda, anzi neppure vi erano piatti, coppe o altri recipienti nei quali porre le vivande.
            L’amico interprete rispose allora:
            – Quelli che vengono qui, neque sitient, neque esurient amplius (Non avranno più fame né avranno più sete Ap. 7.16).
            Detto questo incominciò ad entrare gente, tutta vestita in bianco con una semplice striscia come collana, di color di rosa ricamata a fili d’oro che cingeva il collo e le spalle. I primi che entrarono erano in numero limitato. Solo alcuni in piccola schiera. Appena entrati in quella gran sala andavano a sedersi intorno ad una mensa loro preparata, cantando: Evviva! Ma dopo queste, altre schiere più numerose si avanzavano, cantando: Trionfo! Ed allora incominciò a comparire una varietà di persone, grandi e piccoli, uomini e donne, di ogni generazione, diversi di colore, di forme, di atteggiamenti e da tutte parti risuonavano cantici. Si cantava: Evviva! da quelli che erano già al loro posto. Si cantava trionfo! da quelli che entravano. Ogni turba che entrava erano altrettante nazioni o parti di nazioni che saranno tutte convertite dai missionari.
            Ho dato un colpo d’occhio a quelle mense interminabili e conobbi che là sedute e cantando vi erano molte nostre suore e gran numero dei nostri confratelli. Costoro però non avevano nessun distintivo di essere preti, chierici, o suore, ma egualmente come gli altri avevano la veste bianca e il pallio color di rosa.
            Ma la mia meraviglia crebbe quando ho veduto uomini dall’aspetto ruvido, col medesimo vestito degli altri e cantare: Evviva trionfo! In quel momento il nostro interprete disse:
            – Gli stranieri, i selvaggi che bevettero il latte della parola divina dai loro educatori, divennero banditori della parola di Dio.
            Osservai pure in mezzo alla folla schiere di fanciulli con aspetto rozzo e strano e domandai:
            – E questi fanciulli che hanno una pelle così ruvida, che sembra quella di un rospo, ma pure così bella e di un colore così risplendente? Chi sono costoro?
            L’interprete rispose:
            – Questi sono i figliuoli di Cam che non hanno rinunziato alla eredità di Levi. Essi rinforzeranno le armate per tutelare il regno di Dio che finalmente è giunto anche fra noi. Era piccolo il loro numero, ma i figli dei figli loro lo accrebbero. Ora ascoltate e vedete, ma non potete intendere i misteri che vedrete.
            Quei giovanetti appartenevano alla Patagonia ed all’Africa Meridionale.
            In quel mentre si ingrossarono tanto le file di coloro che entrarono in quella sala straordinaria, che ogni sedia pareva occupata. Le sedie e i sedili non avevano forma determinata, ma prendevano quella forma che ciascheduno desiderava. Ognuno era contento del seggio che occupava e del seggio che occupavano gli altri.
            Ed ecco mentre si gridava da tutte Evviva! trionfo! ecco sopraggiungere in ultimo una gran turba che festevolmente veniva incontro agli altri già entrati e cantando: Alleluia, gloria, trionfo!
            Quando la sala apparve interamente piena, e le migliaia dei radunati non si potevano numerare, si fece un profondo silenzio e quindi quella moltitudine incominciò a cantare divisa in diversi cori.
            Il primo coro: Appropinquavit in nos regnum Dei (È vicino a voi il regno di Dio Lc. 10,11); laetentur Coeli et exultet terra (Gioiscano i cieli, esulti la terra, 1Cr 16,31); Dominus regnavit super nos (Il Signore regnò su di noi); alleluia.
            Altro coro: Vicerunt; et ipse Dominus dabit edere de ligno vitae et non esurient in aeternum: alleluia (Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita e non avrà fame in eterno, alleluia Ap. 2,7).
            Un terzo coro: Laudate Dominum omnes gentes, laudate eum omnes populi. (Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, Ps 117,1)
            Mentre queste ed altre cose cantavano e si alternavano, a un tratto si fece per la seconda volta un profondo silenzio. Quindi incominciarono a risuonare voci che venivano dall’alto e lontane. Il senso del cantico era questo con una armonia che non si può in nessun modo esprimere: Soli Deo honor et gloria in saecula saeculorum ([solo a Dio] onore e gloria nei secoli dei secoli 1Tm 1,17). Altri cori sempre in alto e lontani rispondevano a queste voci: Semper gratiarum actio illi qui erat, est, et venturus est. Illi eucharistia, illi soli honor sempiternus (Ringraziamento in eterno a Colui che era, che è e che verrà. A lui l’Eucaristia, a lui solo l’eterno onore).
            Ma in quel momento quei cori si abbassarono e si avvicinarono. Fra quei musici celesti vi era anche Luigi Colle. Gli altri che stavano nella sala si misero allora tutti a cantare e si unirono, collegandosi le voci insieme in somiglianza di straordinari istrumenti musicali, con suoni la cui estensione non aveva limiti. Quella musica sembrava avesse contemporaneamente mille note e mille gradi di elevazione che si associavano a fare un solo accordo di voci. Le voci in alto salivano così acute che non si può immaginare. Le voci di coloro che erano nella sala scendevano sonore, rotonde così basso che non si può esprimere. Tutti formavano un coro solo, una sola armonia, ma così i bassi come gli alti con tale gusto e bellezza e con tale penetrazione in tutti i sensi dell’uomo e assorbimento di questi, che l’uomo dimenticava la propria esistenza, ed io caddi in ginocchio ai piedi di Mons. Cagliero esclamando:
            – Oh Cagliero! Noi siamo in paradiso!
            Mons. Cagliero mi prese per mano e mi rispose:
            – Non è il paradiso, è una semplice, una debolissima figura di ciò che in realtà sarà in paradiso.
            Intanto unanimi le voci dei due grandiosi cori proseguivano, e cantavano con inesprimibile armonia: Soli Deo honor et gloria, et triumphus alleluia, in aeternum in aeternum! (Solo a Dio onore e gloria e vittoria alleluia, nei secoli dei secoli!) Qui ho dimenticato me stesso e non so più che cosa sia stato di me. Al mattino stentava a levarmi di letto; appena appena potei richiamarmi a me stesso, quando sono andato a celebrare la santa Messa.
            Il pensiero principale che mi restò impresso dopo questo sogno, fu di dare a Mons. Cagliero ed ai miei cari missionari un avviso di somma importanza riguardante le sorti future delle nostre missioni: – Tutte le sollecitudini dei Salesiani e delle suore di Maria Ausiliatrice siano rivolte a promuovere le vocazioni ecclesiastiche e religiose.
(MB XVII, 299-305)




Il secondo sogno missionario: attraverso l’America (1883)

            Don Bosco raccontò questo sogno il 4 settembre nella seduta ante meridiana del Capitolo Generale. Don Lemoyne lo mise subito in carta e il Servo di Dio rivide da capo a fondo lo scritto, aggiungendo e modificando. Noi stamperemo in corsivo le parti che nell’originale rivelano la mano del Santo; chiuderemo invece fra parentesi quadre alcuni tratti, che Don Lemoyne introdusse posteriormente a modo di chiose, mercè ulteriori spiegazioni dategli da Don Bosco.

            Era la notte che precedeva la festa di S. Rosa di Lima [30 agosto] ed io ho fatto un sogno. Mi accorgeva di dormire e nello stesso tempo mi sembrava di correre molto, a segno che mi sentiva stanco di correre, di parlare, di scrivere e di faticare nel disimpegno delle altre mie solite occupazioni. Mentre pensava se il mio fosse un sogno ovvero realtà, mi parve di entrare in una sala di trattenimento dove erano molte persone che stavano parlando di cose diverse.
            Un lungo discorso si aggirò intorno alla moltitudine dei selvaggi che nell’Australia, nelle Indie, nella China, nell’Africa e più particolarmente nell’America, in numero sterminato sono tuttora sepolti nell’ombra di morte.
            – L’Europa, disse con serietà un ragionatore, la cristiana Europa, la grande maestra di civiltà e di Cattolicismo pare sia venuta apatica per le missioni estere. Pochi sono quelli che sono abbastanza arditi di affrontare lunghe navigazioni e sconosciuti paesi per salvare le anime di milioni di uomini che pur furono redente dal Figlio di Dio, da Cristo Gesù.
            Disse un altro:
            – Che quantità di idolatri vivono infelici fuori della Chiesa e lontani dalla conoscenza del Vangelo nella sola America! Gli uomini si pensano (ed i geografi s’ingannano) che le Cordigliere d’America siano come un muro che divide quella gran parte del mondo. Non è così. Quelle lunghissime catene di alte montagne fanno molti seni di mille e più chilometri in sola lunghezza. In essi vi sono selve non mai visitate, vi sono piante, animali, e poi si trovano pietre di cui colà si scarseggia. Carbon fossile, petrolio, piombo, rame, ferro, argento ed oro stanno nascosti in quelle montagne, nei siti dove furono
collocati dalla mano onnipotente del Creatore a benefizio degli uomini. O Cordigliere, Cordigliere, quanto mai è ricco il vostro oriente!
            In quel momento mi sentii preso da vivo desiderio di chiedere spiegazioni di più cose e di interrogare chi fossero quelle persone colà raccolte e in quale luogo io mi trovassi. Ma dissi fra me: – Prima di parlare bisogna
che osservi qual gente sia questa! E volsi curiosamente lo sguardo attorno. Se non che tutti quei personaggi mi erano sconosciuti. Essi intanto, come se in quel momento soltanto mi avessero veduto, mi invitarono a farmi innanzi e mi accolsero con bontà.
            Io chiesi allora:
            – Ditemi, di grazia! Siamo a Torino, a Londra, a Madrid, a Parigi? Ove siamo? E voi chi siete? Con chi ho il piacere di parlare? Ma tutti quei personaggi rispondevano vagamente sempre discorrendo delle missioni.
            In quel mentre si avvicinò a me un giovane in sui sedici anni, amabile per sovrumana bellezza e tutto raggiante di viva luce più chiara di quella del sole. Il suo vestito era intessuto con celestiale ricchezza e il suo capo era cinto di un berretto a foggia di corona, tempestato di brillantissime pietre preziose. Fissandomi con sguardo benevolo, mi dimostrava un interesse speciale. Il suo sorriso esprimeva un affetto di irresistibile attraenza. Mi chiamò per nome, mi prese per mano ed incominciò a parlarmi della Congregazione Salesiana.
            Io ero incantato al suono di quella voce. Ad un certo punto l’interruppi:
            – Con chi ho l’onore di parlare? Favoritemi il vostro nome? E quel giovane:
            – Non dubitate! Parlate pure con piena confidenza, che siete con un amico.
            – Ma il vostro nome?
            – Ve lo direi il mio nome, se ciò facesse di bisogno; ma non occorre, poiché mi dovete conoscere.
            Così dicendo sorrideva.
            Fissai meglio quella fisionomia cinta di luce. Oh quanto era bella! E riconobbi allora in lui il figlio del Conte Fiorito Colle di Tolone, insigne benefattore della nostra Casa e specialmente delle nostre Missioni Americane. Questo giovinetto era morto poco tempo prima.
            – Oh! voi? dissi io chiamandolo per nome. Luigi! E tutti costoro chi sono?
            – Sono amici dei vostri Salesiani, ed io come amico vostro e dei Salesiani, a – nome di Dio, vorrei darvi un po’ di lavoro.
            – Vediamo di che si tratta. Quale è questo lavoro?
            – Mettetevi qui a questa tavola e poi tirate giù questa corda.
            In mezzo a quella gran sala vi era un tavolo, sul quale stava aggomitolata una corda, e questa corda vidi che era segnata come il metro, con linee e numeri. Più tardi mi accorsi eziandio come quella sala fosse posta nell’America del Sud, proprio sulla linea dell’Equatore, e come i numeri stampati sulla corda corrispondessero ai gradi geografici di latitudine. Io presi adunque l’estremità di quella corda, la guardai e vidi che sul principio aveva segnato il numero zero.
            Io rideva. E quell’angelico giovinetto:
            – Non è tempo di ridere, mi disse. Osservate! che cosa sta scritto sopra la corda?
            – Numero zero.
            – Tirate un poco!
            Tirai alquanto la corda, ed ecco il numero 1.
            – Tirate ancora e fate un gran rotolo di quella corda.
            Tirai e venne fuori il numero 2, 3, 4, fino al 20.
            – Basta? dissi io.
            – No; più in su; più in su! Andate finché troverete un nodo! rispose quel giovanetto.
            Tirai fino al numero 47, dove trovai un grosso nodo. Da questo punto la corda continuava ancora ma divisa in tante cordicelle che si sparpagliavano ad oriente, ad occidente, a mezzodì.
            – Basta? replicai.
            – Che numero è? interrogò quel giovane. È il numero 47. 47 Più 3 quanto fa? 50! E più 5? 55! Notate; cinquantacinque.
            E poi mi disse:
            – Tirate ancora.
            – Sono alla fine! io risposi.
            – Ora dunque voltatevi indietro e tirate la corda dall’altra parte. Tirai la fune dalla parte opposta, fino al numero 10.
            Quel giovane replicò:
            – Tirate ancora!
            – C’è più niente!
            – Come! C’è più niente? Osservate ancora! Che cosa c’è?
            – C’è dell’acqua, risposi.
            Infatti in quell’istante si operava in me un fenomeno straordinario, quale non è possibile descrivere. Io mi trovava in quella stanza, tirava quella corda e nello stesso tempo si svolgeva sotto i miei occhi come un panorama di un paese immenso, che io dominava quasi a volo d’uccello e che si stendeva collo stendersi della corda.
            Dal primo zero al numero 55 era una terra sterminata che dopo uno stretto di mare, in fondo si frastagliava in cento isole di cui una assai maggiore delle altre. A queste isole pareva alludessero le cordicelle sparpagliate che partivano dal gran nodo. Ogni cordicella faceva capo ad un’isola. Alcune di queste erano abitate da indigeni abbastanza numerosi; altre sterili, nude, rocciose, disabitate; altre tutte coperte di neve e ghiaccio. Ad occidente gruppi numerosi di isole, abitate da molti selvaggi. [Pare che il nodo posto sul numero o grado 47 figurasse il luogo di partenza, il centro Salesiano, la missione principale donde i missionari nostri si diramavano alle isole Malvine, alla Terra del fuoco e alle altre isole di quei paesi dell’America].
            Dalla parte opposta poi, cioè dallo zero al 10 continuava la stessa terra e finiva in quell’acqua da me vista per l’ultima cosa. Mi parve essere quell’acqua il mare delle Antille, che vedeva allora in un modo così sorprendente, da non essere possibile che io spieghi a parole quel modo di vedere.
            Or dunque avendo io risposto:
            – C’è dell’acqua! – quel giovanetto rispose:
            – Ora mettete insieme 55 più 10. A che cosa è eguale?
            Ed io:
            – Somma 65.
            – Ora mettete tutto insieme e ne farete una corda sola.
            – E poi?
            – Da questa parte che cosa c’è? – E mi accennava un punto sul panorama.
            – All’occidente vedo altissime montagne, e all’oriente c’è il mare!
            [Noto qui che allora io vedeva in compendio, come in miniatura tutto ciò che poi vidi, come dirò, nella sua reale grandezza ed estensione, e i gradi segnati dalla corda corrispondenti con esattezza ai gradi geografici di latitudine, furono quelli che mi permisero di ritenere a memoria per vari anni i successivi punti che visitai viaggiando nella seconda parte di questo stesso sogno].
            Il giovane mio amico proseguiva:
            – Or bene: queste montagne sono come una sponda, un confine. Fin qui, fin là è la messe offerta ai Salesiani. Sono migliaia e milioni di abitanti che attendono il vostro aiuto, attendono la fede.
            Queste montagne erano le Cordigliere dell’America del Sud e quel mare l’Oceano Atlantico.
            – E come fare? io ripresi; come riusciremo a condurre tanti popoli all’ovile di Gesù Cristo?
            – Come fare? Guardate!
            Ed ecco giungere Don Lago [don Angelo Lago, segretario particolare di Don Rua, morto in concetto di santità nel 1914] il quale portava un canestro di fichi piccoli e verdi: e mi disse:
            – Prenda, Don Bosco!
            – Che cosa mi porti? risposi io guardando ciò che conteneva il canestro.
            – Mi hanno detto di portarli a lei.
            – Ma questi fichi non sono buoni da mangiare; non sono maturi.
            Allora il mio giovane amico prese quel canestro, che era molto largo, ma aveva poco fondo e me lo presentava, dicendo:
            – Ecco il regalo che vi fo!
            – E che cosa debbo fare di questi fichi?
            – Questi fichi sono immaturi, ma appartengono al gran fico della vita. E voi cercate il modo di farli maturare.
            – E come? Se fossero più grossi!… potrebbero farsi maturare colla paglia, come si usa cogli altri frutti; ma così piccoli… così verdi… È cosa impossibile.
            – Anzi sappiate che per farli maturare, bisogna che facciate in modo che tutti questi fichi siano di nuovo attaccati alla pianta.
            – Cosa incredibile! E come fare?
            – Guardate!
            E prese uno di quei fichi e lo mise a bagno in un vasetto di sangue; poscia lo immerse in un altro vasetto pieno di acqua, e disse:
            – Col sudore e col sangue i selvaggi ritorneranno ad essere attaccati alla pianta e ad essere gradevoli al padrone della vita.
            Io pensava: Ma per ciò conseguire ci vuol tempo. E quindi ad alta voce esclamai:
            – Io non so più che cosa rispondere.
            Ma quel caro giovane, leggendo ne’ miei pensieri, proseguì:
            – Questo avvenimento sarà ottenuto prima che sia compiuta la seconda generazione.
            – E quale sarà la seconda generazione?
            – Questa presente non si conta. Sarà un’altra e poi un’altra.
            Io parlava confuso, imbrogliato e quasi balbettando nell’ascoltare i magnifici destini che son preparati per la nostra Congregazione, e domandai:
            – Ma ognuna di queste generazioni quanti anni comprende?
            – Sessanta anni!
            – E dopo?
            – Volete vedere quello che sarà? Venite!
            E senza saper come, mi trovai ad una stazione di ferrovia. Quivi era radunata molta gente. Salimmo sul treno. Io domandai ove fossimo. Quel giovane rispose:
            – Notate bene! Guardate! Noi andiamo in viaggio lungo le Cordigliere. Avete la strada aperta anche all’Oriente fino al mare. É un altro dono del Signore.
            – E a Boston, dove ci attendono, quando andremo?
            – Ogni cosa a suo tempo.
            Così dicendo trasse fuori una carta ove in grande era rilevata la diocesi di Cartagena. [Era questo il punto di partenza].
            Mentre io guardava quella carta, la macchina mandò il fischio e il treno si mise in moto. Viaggiando, il mio amico parlava molto, ma io per il rumore del convoglio non poteva capirlo interamente. Tuttavia imparai cose bellissime e nuove sull’astronomia, sulla nautica, sulla meteorologia, sulla mineralogia, sulla fauna, sulla flora, sulla topografia di quelle contrade, che esso mi spiegava con meravigliosa precisione. Condiva frattanto le sue parole con una contegnosa e nello stesso tempo con una tenera famigliarità, che dimostrava quanto mi amasse. Fin dal principio mi aveva preso per mano e mi tenne sempre così affettuosamente stretto fino alla fine del sogno. Io portava talora l’altra mia mano libera sulla sua, ma questa sembrava sfuggire di sotto alla mia quasi svaporasse e la mia sinistra stringeva solamente la mia destra. Il giovinetto sorrideva al mio inutile tentativo.
            Io frattanto guardava dai finestrini del carrozzone e mi vedeva sfuggire innanzi svariate, ma stupende regioni. Boschi, montagne, pianure, fiumi lunghissimi e maestosi che io non credeva così grandi in regioni tanto distanti dalle foci. Per più di mille miglia abbiamo costeggiato il lembo di una foresta vergine, oggi giorno ancora inesplorata. Il mio sguardo acquistava una potenza visiva meravigliosa. Non aveva ostacoli per spingersi su quelle regioni. Non so spiegare come accadesse nei miei occhi questo sorprendente fenomeno. Io era come chi, sovra una collina, vedendo distesa ai suoi piedi una grande regione, se pone innanzi agli occhi a piccola distanza un listello anche stretto di carta, più nulla vede o ben poco: che se toglie quel listello o solo lo alza o abbassa alquanto, ecco che la sua vista può estendersi fino allo estremo orizzonte. Così successe a me per quella straordinaria intuizione acquisita; ma con questa differenza; di mano in mano che io fissavo un punto, e questo punto mi passava innanzi, era come un successivo alzarsi di singoli sipari ed io vedeva a sterminate incalcolabili distanze. Non solo vedeva le Cordigliere eziandio quando ne era lontano, ma anche le catene di montagne, isolate in quei piani immensurabili, erano da me contemplate con ogni loro più piccolo accidente. [Quelle della Nuova Granata, di Venezuela, delle tre Guyane; quelle del Brasile, e della Bolivia, fino agli ultimi confini].
            Potei quindi verificare la giustezza di quelle frasi udite al principio del sogno nella gran sala posta sul grado zero. Io vedeva nelle viscere delle montagne e nelle profonde latebre delle pianure. Aveva sott’occhio le ricchezze incomparabili di questi paesi che un giorno verranno scoperte. Vedeva miniere numerose di metalli preziosi, cave inesauribili di carbon fossile, depositi di petrolio così abbondanti quali mai finora si trovarono in altri luoghi. Ma ciò non era tutto. Tra il grado 15 e il 20 vi era un seno assai largo e assai lungo che partiva da un punto ove si formava un lago. Allora una voce disse ripetutamente:
            – Quando si verranno a scavare le miniere nascoste in mezzo a questi monti, apparirà qui la terra promessa fluente latte e miele. Sarà una ricchezza inconcepibile.
            Ma ciò non era tutto. Quello che maggiormente mi sorprese fu il vedere in vari siti le Cordigliere che rientrando in sé stesse formavano vallate, delle quali i presenti geografi neppur sospettano l’esistenza, immaginandosi che in quelle parti le falde delle montagne siano come una specie di muro diritto. In questi seni e in queste valli che talora si stendevano fino a mille chilometri, abitavano folte popolazioni non ancor venute a contatto cogli Europei, nazioni ancora pienamente sconosciute.
            Il convoglio intanto continuava a correre e va e va, e gira di qua e gira di là, finalmente si fermò. Quivi discese una gran parte di viaggiatori, che passava sotto le Cordigliere, andando verso occidente.
            [D. Bosco accennò la Bolivia. La stazione era forse La Paz ove una galleria aprendo passaggio al littorale del Pacifico può mettere in comunicazione il Brasile con Lima per mezzo di un’altra linea di via ferrata].
            Il treno di bel nuovo si rimise in moto, andando sempre avanti. Come nella prima parte del viaggio attraversavamo foreste, penetravamo in gallerie, passavamo sovra giganteschi viadotti, ci internavamo fra gole di montagne, costeggiavamo laghi e paludi su ponti, valicavamo fiumi larghi, correvamo in mezzo a praterie ed a pianure. Siamo passati sulle sponde dell’Uruguay. Mi pensava che fosse fiume di poco corso, ma invece è lunghissimo. In un punto vidi il fiume Paranà che si avvicinava all’Uruguay, come se andasse a portargli il tributo delle sue acque, ma invece dopo essere corso per un tratto quasi parallelamente, se ne allontanava facendo un largo gomito. Tutti e due questi fiumi erano larghissimi [Arguendo da questi pochi dati sembra che questa futura linea di ferrovia partendo da La – Paz, toccherà Santa – Cruz, passerà per l’unica apertura che è nei monti Cruz della Sierra ed è attraversata dal fiume Guapay; valicherà il fiume Parapiti nella provincia Chiquitos della Bolivia; taglierà l’estremo lembo nord della Repubblica del Paraguay; entrerà nella provincia di S. Paolo nel Brasile e di qui farà capo a Rio Janeiro. Da una stazione intermedia nella provincia di S. Paolo partirà forse la linea ferroviaria che passando tra il Rio Paranà e il Rio Uruguay congiungerà la capitale del Brasile colla Repubblica dell’Uruguay e colla Repubblica Argentina].
            E il treno andava sempre in giù, e gira da una parte e gira da un’altra, dopo un lungo spazio di tempo si fermò la seconda volta. Quivi molta altra gente scese dal convoglio e passava essa pure sotto le Cordigliere andando verso occidente. [Don Bosco indicò nella Repubblica Argentina la provincia di Mendoza. Quindi la stazione era forse Mendoza e quella galleria metteva a Santiago capitale della Repubblica del Chile].
            Il treno riprese la sua corsa attraverso le Pampas e la Patagonia. I campi coltivati e le case sparse qua e là indicavano che la civiltà prendeva possesso di quei deserti.
            Sul principio della Patagonia passammo una diramazione del Rio Colorado ovvero del Rio Chubut [o forse del Rio Negro?]. Non poteva vedere la sua corrente da qual parte andasse, se verso le Cordigliere ovvero verso l’Atlantico. Cercava di sciogliere questo mio problema, ma non poteva orizzontarmi.
            Finalmente giungemmo allo stretto di Magellano. Io guardava. Scendemmo. Aveva innanzi Punt’Arenas. Il suolo per varie miglia era tutto ingombro di depositi di carbon fossile, di tavole, di travi, di legna, di mucchi immensi di metallo, parte greggio, parte lavorato. Lunghe file di vagoni per mercanzie stavano sui binari.
            Il mio amico mi accennò a tutte queste cose. Allora domandai:
            – E adesso che cosa vuoi dire con questo?
            Mi rispose:
            – Ciò che adesso è in progetto, un giorno sarà realtà. Questi selvaggi in futuro saranno così docili da venire essi stessi per ricevere istruzione, religione, civiltà e commercio. Ciò che altrove desta meraviglia, qui sarà tale meraviglia da superare quanto ora reca stupore in tutti gli altri popoli.
            – Ho visto abbastanza, io conclusi; ora conducetemi a vedere i miei Salesiani in Patagonia.
            Ritornammo alla stazione e risalimmo sul treno per ritornare. Dopo aver percorso un lunghissimo tratto di via, la macchina si fermò innanzi ad un borgo considerevole. [Posto forse sul grado 47 ove sul principio del sogno aveva visto quel grosso nodo della corda]. Alla stazione non vi era alcuno ad aspettarmi. Discesi dal vapore e trovai subito i Salesiani. Ivi erano molte case con abitanti in gran numero; più chiese, scuole, vari ospizi di giovanetti e adulti, artigiani e coltivatori, ed un educatorio di figlie che si occupavano in svariati lavori domestici. I nostri missionari guidavano insieme giovinetti ed adulti.
            Io andai in mezzo a loro. Erano molti, ma io non li conosceva e fra loro non vi era alcuno degli antichi miei figli. Tutti mi guardavano stupiti, come se fossi persona nuova, ed io diceva loro:
            – Non mi conoscete? Non conoscete voi Don Bosco?
            – Oh Don Bosco! Noi lo conosciamo di fama, ma l’abbiamo visto solamente nei ritratti! Di persona, no, certo!
            – E Don Fagnano, Don Costamagna, Don Lasagna, Don Milanesio, dove sono essi?
            – Noi non li abbiamo conosciuti. Sono coloro che vennero qui una volta nei tempi passati: i primi Salesiani che arrivarono in questi paesi dall’Europa. Ma oramai scorsero tanti anni da che sono morti!
            A questa risposta io pensavo meravigliato: – Ma questo è un sogno ovvero una realtà? E batteva le mani una contro dell’altra, mi toccava le braccia, e mi scuoteva, mentre realmente udiva il suono delle mie mani e sentiva me stesso e mi persuadeva di non essere addormentato.
            Questa visita fu cosa di un istante. Visto il meraviglioso progresso della Chiesa Cattolica, della nostra Congregazione e della civiltà in quelle regioni, io ringraziava la Divina Provvidenza che si fosse degnata di servirsi di me come istrumento della sua gloria e della salute di tante anime.
            Il giovinetto Colle frattanto mi fece segno, che era tempo di ritornare indietro: quindi, salutati i miei Salesiani, ritornammo alla stazione, ove il convoglio era pronto per la partenza. Risalimmo, fischiò la macchina, e via verso il nord.
            Mi cagionò meraviglia una novità che mi cadde sotto gli occhi. Il territorio della Patagonia nella parte più vicina allo stretto di Magellano, tra le Cordigliere e il mare Atlantico, era meno largo di quello che si crede comunemente dai geografi.
            Il treno si avanzava nella sua corsa velocissima e mi parve che percorresse le provincie, che ora sono già civilizzate nella Repubblica Argentina.
            Procedendo entrammo in una foresta vergine, larghissima, lunghissima, interminabile. Ad un certo punto la macchina si fermò e sotto gli occhi nostri apparve un doloroso spettacolo. Una turba grandissima di selvaggi stava radunata in uno spazio sgombro in mezzo alla foresta. I loro volti erano deformi e schifosi; le loro persone vestite, come sembrava, di pelli d’animali cucite insieme. Circondavano un uomo legato che stava seduto sopra una pietra. Esso era molto grasso; perché i selvaggi lo avevano fatto a bello studio ingrassare. Quel poveretto era stato fatto prigioniero e sembrava appartenesse ad una nazione straniera dalla maggiore regolarità dei suoi lineamenti. Le turbe dei selvaggi lo interrogavano ed esso rispondeva narrando le varie avventure, che gli erano occorse nei suoi viaggi. A un tratto un selvaggio si alza e brandendo un grosso ferro che non era spada, ma però molto affilato, si slancia sul prigioniero e con un colpo solo gli tronca il capo. Tutti i viaggiatori del convoglio stavano agli sportelli e alle finestrine dei vagoni attenti e muti per l’orrore. Lo stesso Colle guardava e taceva. La vittima aveva mandato un grido straziante nell’atto che era colpita. Sul cadavere che giaceva in un lago di sangue si slanciarono allora quei cannibali e fattolo a pezzi, posero le carni ancora calde e palpitatiti sovra fuochi appositamente accesi e, fattele arrostire alquanto, così mezze crude le divorarono. Al grido di quel disgraziato la macchina si era messa in moto e a poco a poco riprese la sua vertiginosa velocità.
            Per lunghissime ore si avanzò sulle sponde di un fiume larghissimo. E ora il treno correva sulla sponda destra ed ora sulla sinistra di questo. Io non feci caso dal finestrino, su quali ponti facessimo questi frequenti tragitti. Intanto su quelle rive comparivano di tratto in tratto numerose tribù di selvaggi. Tutte le volte che vedevamo queste turbe il giovanetto Colle andava ripetendo:
            – Ecco la messe dei Salesiani! Ecco la messe dei Salesiani!
            Entrammo poscia in una regione piena di animali feroci e di rettili velenosi, di forme strane ed orribili. Ne formicolavano le falde dei monti, i seni delle colline; i poggerelli da questi monti e da questi colli ombreggiati, le rive dei laghi, le sponde dei fiumi, le pianure, i declivi, le ripe. Gli uni sembravano cani che avessero le ali ed erano panciuti straordinariamente [gola, lussuria, superbia]. Gli altri erano rospi grossissimi che mangiavano rane. Si vedevano certi ripostigli pieni di animali, diversi di forma dai nostri. Queste tre specie d’animali erano mischiate insieme e grugnivano sordamente come se volessero mordersi. Si vedevano pure tigri, iene, leoni, ma di forma diversa dalle specie dell’Asia e dell’Africa. Il mio compagno mi rivolse eziandio qui la parola e, accennandomi quelle belve, esclamò:
            – I Salesiani le mansueferanno.
            Il treno intanto si avvicinava al luogo della prima partenza e ne eravamo poco lontani. Il giovane Colle trasse allora fuori una carta topografica di una bellezza stupenda e mi disse:
            – Volete vedere il viaggio che avete fatto? Le regioni da noi percorse?
            – Volentieri! risposi io.
            Esso allora spiegò quella carta nella quale era disegnata con esattezza meravigliosa tutta l’America del Sud. Di più ancora, ivi era rappresentato tutto ciò che fu, tutto ciò che è, tutto ciò che sarà in quelle regioni, ma senza confusione, anzi con una lucidezza tale che con un colpo d’occhio si vedeva tutto. Io compresi subito ogni cosa, ma per la molteplicità di quelle circostanze, simile chiarezza mi durò per brev’ora e adesso nella mia mente si è formata una piena confusione.
            Mentre io osservava quella carta aspettando che il giovanetto aggiungesse qualche spiegazione, essendo io tutto agitato per la sorpresa di ciò che avevo sott’occhi, mi sembrò che Quirino (santo coadiutore, matematico, poliglotta e campanaro) suonasse l’Ave Maria dell’alba; ma, svegliatomi, mi accorsi che erano i tocchi delle campane della parrocchia di S. Benigno. Il sogno aveva durato tutta la notte.

            Don Bosco pose termine al suo racconto con queste parole:
            – Con la dolcezza di S. Francesco di Sales i Salesiani tireranno a Gesù Cristo le popolazioni dell’America. Sarà cosa difficilissima moralizzare i selvaggi; ma i loro figli obbediranno con tutta facilità alle parole dei Missionari e con essi si fonderanno colonie, la civiltà prenderà il posto della barbarie e così molti selvaggi verranno a far parte dell’ovile di Gesù Cristo.
(MB XVI, 385-394)




Il serpente e il Rosario (1862)

I parte

            Il 20 agosto 1862 recitate le preghiere della sera D. Bosco, dopo dati alcuni avvisi spettanti l’ordine della casa, disse:

            – Voglio contarvi un mio sogno fatto poche notti sono. (Deve essere la notte che precedeva la festa dell’Assunzione di Maria SS.)
            Sognai di trovarmi con tutti i giovani a Castelnuovo d’Asti a casa di mio fratello. Mentre tutti facevano ricreazione, viene a me uno ch’io non sapeva chi fosse, e mi invita ad andar con lui. Lo seguii e mi menomai in un prato attiguo al cortile e là mi indicò fra l’erba un serpentaccio lungo sette od otto metri e di una grossezza straordinaria. Inorridii a tal vista e voleva fuggirmene:
            – No, no, mi disse quel tale; non fugga; venga qui e veda.
            – E come, risposi, vuoi che io osi avvicinarmi a quella bestiaccia? Non sai che è capace d’avventarmisi addosso e divorarmi in un istante?
            – Non abbia paura non le recherà alcun male; venga con me.
            – Ah! non son così pazzo di andarmi a gettare in tal pericolo.
            – Allora, continuò quello sconosciuto, si fermi qui! E poi andò a prendere una corda e con questa in mano ritornò presso di me e disse:
            – Prenda questa corda per un capo e lo tenga ben stretto fra le mani; io prenderà l’altro capo e andrò alla parte opposta e così sospenderemo la corda sul serpente.
            – E poi?
            – E poi gliela lasceremo cadere attraverso la schiena.
            – Ah! no, per carità! Perché, guai se noi faremo questo. Il serpe salterà su indispettito e ci farà a pezzi.
            – No, no; lasci fare da me.
            – Là, là! Io non voglio prendermi questa soddisfazione che può costarmi la vita. E già me ne voleva fuggire. Ma quel tale insistette di nuovo, mi assicurò che non avevo di che temere, che il serpe non mi avrebbe fatto male alcuno e tanto disse che io rimasi e acconsentii a far il suo volere. Egli intanto passò dall’altra parte del mostro, alzò la corda e poi con questa diede una sferzata sulla schiena del serpe. Il serpente fa un salto volgendo la testa indietro per mordere ciò che l’aveva percosso, ma invece di mordere la corda, resta da essa allacciato come in cappio corsoio. Allora mi gridò quell’uomo:
            – Tenga stretto, tenga stretto e non lasci sfuggire la corda. E corse ad un pero che era là vicino, e legò a quello il capo di corda che aveva tra le mani: corse quindi da me, mi tolse il mio capo di corda e andò a legarlo all’inferriata di una finestra della casa. Frattanto il serpente si dimenava, si dibatteva furiosamente e dava giù tali colpi in terra colla testa e colle immani sue spire, che si lacerava le sue carni e ne faceva saltare i pezzi a grande distanza. Così continuò finché ebbe vita; e morto che fu, più non rimase di lui che il solo scheletro spolpato.
            Morto il serpente, quel medesimo uomo slegò la corda dall’albero e dalla finestra, la trasse a sé, la raccolse, ne formò come un gomitolo e poi mi disse:
            – Stia attento neh! Così mise la corda in una cassetta che chiuse e poi dopo qualche istante aprì. I giovani erano accorsi attorno a me. Gettammo l’occhio dentro alla cassetta e fummo tutti stupiti. Quella corda si era disposta in modo che formava le parole Ave Maria!
            – Ma come vai ho detto. Tu hai messa quella corda nella cassetta così alla rinfusa ed ora è così ordinata.
            – Ecco, disse colui; il serpente figura il demonio, e la corda l’Ave Maria o piuttosto il Rosario che è una continuazione di Ave Maria, colla quale e colle quali si possono battere, vincere, distruggere tutti i demoni dell’inferno.
            Fin qui, concluse D. Bosco, è la prima parte del sogno. V’è n’è un’altra parte, la quale sarà, ancor più curiosa e interessante per tutti. Ma l’ora è già tarda e perciò differiremo a contarla domani a sera. Frattanto teniamo in considerazione ciò che disse quel mio amico riguardo all’Ave Maria ed al Rosario. Recitiamola devotamente ad ogni assalto di tentazione, sicuri di uscirne sempre vittoriosi. Buona notte!

            E qui domandiamo che ci si permettano alcuni commenti, giacché D. Bosco non diede su questa scena alcuna interpretazione.
            Il pero di cui si tratta nel sogno è quello stesso al quale D. Bosco fanciullo aveva tante volte attaccata una fune, assicurandone l’altra estremità ad un secondo albero poco distante, per intrattenere coi giuochi di ginnastica i conterrazzani e così obbligarli ad ascoltare i suoi catechismi. Questo pero ci pare di poterlo raffrontare con quella pianta, della quale si legge nel Cantico dei Cantici, al Capitolo II, versicolo 3. Sicut malus inter ligna silvarum, sic dilectus meus inter filios (Come un melo tra gli alberi del bosco, così l’amato mio tra i giovani, Cant. 2,3). Il Tirino e molti altri celebri commentatori della Sacra Scrittura, notano che il melo è qui posto per qualunque pianta che porti frutto. Simile pianta, che spande un’ombra gradita e salubre, è un simbolo di Gesù Cristo, della, sua croce, dalla virtù della quale viene l’efficacia della preghiera e la sicurezza della vittoria. Sarà questo il motivo pel quale un capo della corda, fatale al serpe, è primieramente assicurato al pero? E l’altra estremità annodata alle spranghe della finestra non può essere indizio che all’abitante di quella casa ed ai suoi figli era affidata la missione di propagare la pratica del Rosario.
            E D. Bosco da tempo l’aveva intesa.
            Egli ai Becchi ne aveva istituita la festa annuale; ogni giorno volle che ne fosse recitata una terza parte dagli alunni di tutte le sue case; e colle prediche e colle stampe cercò di rimetterne l’antica usanza nelle famiglie. Ei reputava essere il Rosario un’arma che avrebbe data la vittoria non solo agli individui, ma anche alla Chiesa. Perciò dai suoi discepoli furono poi pubblicate tutte le Encicliche di Leone XIII su questa preghiera così cara a Maria; e col Bollettino Salesiano caldeggiarono l’esecuzione dei voti del Vicario di Gesù Cristo.

Reverendissimo Padre (Don Rua),

Tornato a Roma dal Congresso Eucaristico di Napoli, apprendo con molto piacere che l’esortazione diretta ai Parroci nel Bollettino Salesiano incomincia a portare frutti. Rendo perciò le migliori grazie alla S. V. R.ma, e Le accerto che Ella ha fatto opera ben gradita al Santo Padre, il quale tanto desidera che si tengano vive le sue Encicliche sul Rosario, mediante l’erezione della Confraternita sotto lo stesso titolo.
Ai sentimenti di riconoscenza aggiungo per altro una preghiera; ed è che a quando a quando rinnovi con poche linee la memoria ai parroci e Rettori di Chiese, acciocché la dimenticanza non faccia loro perdere di vista la fondazione della Confraternita dei S. Rosario.
E Dio prosperi sempre la S. V. R.ma della quale rimango
Dev.mo Oss.mo Servo in G. Maria

Roma, Palazzo S. Uffizio, 27 novembre 1891.
                        † Fr. VINCENZO LEONE SALLUA, Comm. Gle.
Arcivescovo di Calcedonia.

II parte

            – Il domani 22 agosto, lo pregammo più volte a volerci raccontare se non in pubblico, almeno in privato quella parte di sogno che aveva taciuta. Non voleva accondiscendere. Dopo però molte suppliche si piegò e disse che alla sera avrebbe ancor parlato del sogno. Così fece. Dette le orazioni, incominciò:

            Dietro molte vostre istanze racconterò la seconda parte del sogno.
Se non tutta, almeno vi dirò quel tanto che potrò raccontarvi. Ma prima debbo premettere una condizione, cioè che nessuno scriva o dica fuori di casa quello che io racconterò. Parlatene tra di voi, ridetene, fatene tutto quel che volete, ma fra di voi soli.
            Mentre adunque io e quel personaggio parlavamo della corda, del serpente e dei loro significati, mi volgo indietro e vedo giovani che raccoglievano di quei pezzi di carne del serpente e mangiavano. Io allora gridai subito:
            – Ma che cosa fate? Pazzi che siete! Non sapete che quella carne è velenosa e vi farà molto male?
            – No, no, mi rispondevano i giovani: è tanto buona!
            Ma intanto, mangiato che avevano, cadevano in terra, gonfiavano e restavano duri come pietra. Io non sapeva darmi pace, perché non ostante quello spettacolo altri e altri giovani continuavano a mangiare. Io gridava all’uno, gridava all’altro; dava schiaffi a questo, pugni a quello, cercando di impedire che mangiassero: ma inutilmente. Qui uno cadeva, là un altro si metteva a mangiare. Allora chiamai i chierici in aiuto e dissi loro che si mettessero in mezzo ai giovani e si adoperassero in ogni modo perché più nessuno mangiasse di quella carne. Il mio ordine non ottenne l’effetto desiderato, che anzi alcuni degli stessi chierici si misero a mangiare le carni del serpe e caddero egualmente che gli altri. Io era fuori di me stesso, allorché vidi tutto intorno a me un gran numero di giovani distesi per terra in quello stato miserando.
            Mi rivolsi allora A quello sconosciuto e gli dissi:
            – Ma che cosa vuol dire ciò? Questi giovani conoscono che quella carne reca loro la morte, tuttavia la vogliono mangiare! E perché?
            Egli rispose: – Sai bene: che animalis homo non percipit ea quae Dei sunt. (l’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio, Cor 2,14)
            – Ma e ora non c’è più rimedio per riaver di nuovo questi giovani?
            – Sì che c’è
            – Quale sarebbe?
            – Non vi è altro che l’incudine ed il martello.
            – L’incudine? il martello? E che cosa fare di tali cose?
            – Bisogna sottoporre i giovani alle azioni di questi strumenti.
            – Come? Debbo forse io metterli su di un’incudine e poi batterli con un martello?
            Allora l’altro spiegando il suo pensiero, disse:
            – Ecco; il martello significa la confessione; l’incudine la S. Comunione: bisogna fare uso di questi due mezzi. Mi misi all’opera e trovai giovevolissimo questo rimedio, ma non per tutti. Moltissimi ritornavano in vita e guarivano, ma per alcuni il rimedio fu inutile. Questi sono coloro che non facevano buone confessioni.

            Come i giovani si furono ritirati nelle camerate, io chiesi privatamente a D. Bosco perché il suo ordine ai chierici, di impedire ai giovani che mangiassero le carni del serpe, non avesse ottenuto l’effetto desiderato. Mi rispose:
            – Non fui obbedito da tutti: anzi vidi alcuni degli stessi chierici, come ho già detto, a mangiare quelle carni”.
            Questi sogni in buona sostanza rappresentano la realtà della vita e colle parole e fatti di D. Bosco manifestano lo stato intimo di una, di cento comunità, ove in mezzo a preziosissime virtù si trovano non poche miserie. E non è da farne le meraviglie. Pur troppo che il vizio di sua natura si espande assai più che la virtù, quindi la necessità di una vigilanza continua.
            Qualcuno potrebbe osservare che sarebbe stato conveniente attenuare od anche omettere qualche descrizione troppo disgustosa, ma non è tale il nostro parere. Se la storia deve effettivamente adempiere al suo nobile ufficio di maestra della vita, essa deve descrivere la vita passata quale fu realmente, acciocché le future generazioni possano non solo trarre coraggio e fervore dalle virtù di quelli che li precedettero, ma al tempo stesso dai loro mancamenti ed errori imparino con quale prudenza debbano regolarsi. Una narrazione che rappresenti un lato solo della realtà storica non può condurre che ad un falso concetto. Errori e difetti altre volte commessi, quando non siano conosciuti o non riconosciuti come tali, torneranno ad essere commessi, senza emendazione. Una malintesa apologia, non giova nulla ai benevoli e non converte i mal disposti, potendo sola una franchezza illimitata generare credito e fiducia.
            Quindi noi per esporre tutto il nostro pensiero, diremo di vantaggio come D. Bosco avesse dato al sogno le spiegazioni più ovvie all’intelligenza de’ giovani, ma che però altre ne lasciava travedere di non minore importanza. Non le svelò perché forse in quel momento non li riguardavano. Infatti nei sogni lo vediamo tratteggiare non solo il presente, ma anche l’avvenire lontano, come in quello della Ruota e in altri che verremo esponendo. Ma intanto le carni imputridite di quel mostro non potrebbero indicare scandalo che fa perdere la fede, lettura di libri immorali, irreligiosi? Che cosa indica la disobbedienza al Superiore, la caduta, la gonfiezza, la durezza come di pietra, se non colpa, superbia, ostinazione, malizia?
            È il veleno che in loro ha trasfuso quel cibo maledetto, quel dragone descritto da Giobbe nel Capo XLI, che asseriscono i Santi Padri essere figura di Lucifero. Il versicolo 15° dice così: Il cuore di lui è duro come la pietra. E cosi diventa il cuore dei miseri avvelenati, ribelle e ostinato nel male. E quale sarà il rimedio a tale durezza? D. Bosco si esprime con un simbolo alquanto oscuro, ma che in sostanza indica un aiuto soprannaturale. A noi sembra che si possa spiegare così: Essere necessario che la grazia preveniente, ottenuta colla preghiera e coi sacrifici dei buoni, accenda i cuori induriti e li renda malleabili; che i due sacramenti, cioè il martello dell’umiltà e l’incudine dell’eucaristia sulla quale il ferro riceve una forma costante, artistica per essere poi temperato, possano esercitare la loro efficacia divina; che il martello che batte, e l’incudine che sostiene, concorrano insieme a compiere l’opera che nel nostro caso è la riforma di un cuore ulcerato, ma divenuto docile. Ed è allora che questo, circondato come da un nimbo di splendenti scintille, ritorna ad essere quel che era una volta.
            Espressa così la nostra idea, ripigliamo le cronache. Colla protezione di Maria SS., D. Bosco era sicuro nel sostenere e vincere gli urti del nemico infernale, e quindi preparava i suoi alunni alla festa della Natività della Madre di Dio. Il 29 agosto diede il primo fioretto e quindi altri cinque nelle sere successive. D. Bonetti li trascrisse.

            1° Tutti facciamo uno sforzo per passar questa novena senza commettere alcun peccato, né mortale né veniale.
            2° Dare un buon consiglio ad un amico.
            Egli la sera dopo lo diede pure a tutti in generale e disse che ci facessimo una generosa violenza per correggere i nostri cattivi abiti mentre siamo ancora giovani; e che avessimo coi superiori una grande confidenza, sia nelle cose dell’anima, sia anche nelle cose del corpo.
            3° Pensare se sia bene di fare una confessione generale, e ciò per quelli che non l’hanno ancor fatta; quelli che l’hanno già fatta procurino di recitare un atto di contrizione per tutti i peccati della vita passata.
            4° Ci raccontò quello che disse una volta Don Cafasso ad un brentatore, il quale gli aveva domandato qual cosa piacesse più alla Madonna. Interrogò egli il brentatore: – Quale è la cosa che molto piace alle madri?
            L’altro rispose:
            – Alle madri molto piace che si accarezzino i loro figli.
            – Bravo, riprese D. Cafasso; hai risposto bene. Se adunque vuoi fare una cosa molto gradevole alla Madonna, fa molte carezze al suo Divin figliuolo Gesù, prima col mezzo di una santa Comunione, quindi col tener lontano dal tuo cuore ogni sorta di peccato anche solo veniale. – Così disse D. Cafasso a quel tale e così io dico a voi tutti.
(MB VII, 238-239.242-245)




Primo sogno missionario: la Patagonia (1872)

Ecco il sogno che decise Don Bosco ad iniziare l’apostolato missionario nella Patagonia.
Lo narrò per la prima volta a Pio IX nel marzo 1876. In seguito ne ripeté il racconto anche ad alcuni salesiani in privato. Il primo, ammesso a questa confidenziale narrazione, fu Don Francesco Bodrato, il 30 luglio dello stesso anno. E Don Bodrato, di quella sera medesima, lo raccontava a Don Giulio Barberis, a Lanzo, dov’era andato a passare alcuni giorni di svago con un gruppo di chierici novizi.
Tre giorni dopo Don Barberis si recava a Torino, e trovandosi nella biblioteca in colloquio col Santo, passeggiando un po’ con lui, ne udiva egli pure il racconto. Don Giulio si guardò dal dirgli che l’aveva già udito, lieto di sentirlo ripetere dal suo labbro, anche perché Don Bosco, nel fare questi racconti, ogni volta aveva sempre qualche nuovo particolare interessante.
Anche Don Lemoyne l’apprese dal labbro di Don Bosco; e l’uno e l’altro, Don Barberis e Don Lemoyne, lo misero per iscritto. Don Bosco – dichiarava Don Lemoyne – disse loro che erano i primi a cui svelava dettagliatamente questa specie di visione, che rechiamo qui quasi colle sue stesse parole.

            Mi parve di trovarmi in una regione selvaggia ed affatto sconosciuta. Era un’immensa pianura, tutta incolta, nella quale non si scorgeva né colline né monti. Nelle estremità lontanissime però tutta la profilavano scabrose montagne. Vidi in essa turbe di uomini che la percorrevano. Erano quasi nudi, di un’altezza e statura straordinaria, di un aspetto feroce, coi capelli ispidi e lunghi, di colore abbronzato e nerognolo, e solo vestiti di larghi mantelli di pelli di animali, che loro scendevano dalle spalle. Avevano per armi una specie di lunga lancia e la fionda (il lazo).
            Queste turbe di uomini, sparse qua e là, offrivano allo spettatore scene diverse: questi correvano dando la caccia alle fiere; quelli andavano, portavano conficcati sulle punte delle lance pezzi di carne sanguinolenta. Da una parte gli uni si combattevano fra di loro: altri venivano alle mani con soldati vestiti all’europea, ed il terreno era sparso di cadaveri. Io fremeva a questo spettacolo: ed ecco spuntare all’estremità della pianura molti personaggi, i quali, dal vestito e dal modo di agire, conobbi Missionari di vari Ordini. Costoro si avvicinavano per predicare a quei barbari la religione di Gesù Cristo. Io li fissai ben bene, ma non ne conobbi alcuno. Andarono in mezzo a quei selvaggi; ma i barbari, appena li vedevano, con un furore diabolico, con una gioia infernale, loro erano sopra e tutti li uccidevano, con feroce strazio li squartavano, li tagliavano a pezzi, e ficcavano i brani di quelle carni sulla punta delle loro lunghe picche. Quindi si rinnovavano di tanto in tanto le scene delle precedenti scaramucce fra di loro e con i popoli vicini.
            Dopo di essere stato ad osservare quegli orribili in macelli, dissi tra me: – Come fare a convertire questa gente così brutale? – Intanto vedo in lontananza un drappello d’altri missionari che si avvicinavano ai selvaggi con volto ilare, preceduti da una schiera di giovinetti. Io tremava pensando: – Vengono a farsi uccidere. – E mi avvicinai a loro: erano chierici e preti. Li fissai con attenzione e li riconobbi per nostri Salesiani. I primi mi erano noti e sebbene non abbia potuto conoscere personalmente molti altri che seguivano i primi, mi accorsi essere anch’essi Missionari Salesiani, proprio dei nostri.
            – Come mai va questo? – esclamava. Non avrei voluto lasciarli andare avanti ed era lì per fermarli. Mi aspettava da un momento all’altro che incorressero la stessa sorte degli antichi Missionari. Voleva farli tornare indietro, quando vidi che il loro comparire, mise in allegrezza tutte quelle turbe di barbari, le quali abbassarono le armi, deposero la loro ferocia ed accolsero i nostri Missionari con ogni segno di cortesia. Meravigliato di ciò diceva fra me: – Vediamo un po’ come ciò andrà a finire! – E vidi che i nostri Missionari si avanzavano verso quelle orde di selvaggi; li istruivano ed essi ascoltavano volentieri la loro voce; insegnavano ed essi imparavano con premura; ammonivano, ed essi accettavano e mettevano in pratica le loro ammonizioni.
            Stetti ad osservare, e mi accorsi che i Missionari recitavano il santo Rosario, mentre i selvaggi, correndo da tutte parti, facevano ala al loro passaggio e di buon accordo rispondevano a quella preghiera.
            Dopo un poco i Salesiani andarono a porsi nel centro di quella folla che li circondò, e s’inginocchiarono. I selvaggi, deposte le armi per terra ai piedi dei Missionari, piegarono essi pure le ginocchia.
            Ed ecco uno dei Salesiani intonare: Lodate Maria, o lingue fedeli, e quelle turbe, tutte ad una voce, continuare il canto di detta lode, così all’unisono e con tanta forza di voce, che io, quasi spaventato, mi svegliai.
            Questo sogno l’ebbi quattro o cinque anni fa e fece molta impressione sul mio animo, ritenendo che fosse un avviso celeste. Tuttavia non ne capii bene il significato particolare. Intesi però che trattavasi di Missioni straniere, le quali prima d’ora avevano formato il mio più vivo desiderio.

            Il sogno, adunque, avvenne verso il 1872. Dapprima Don Bosco credette che fossero i popoli dell’Etiopia, poi pensò ai dintorni di Hong-Kong, quindi alle genti dell’Australia e delle Indie; e solo nel 1874, quando ricevette, come vedremo, i più pressanti inviti di mandare i Salesiani all’Argentina, conobbe chiaramente, che i selvaggi veduti in sogno erano gli indigeni di quell’immensa regione, allora quasi sconosciuta, che era la Patagonia.
(MB X, 53-55)