La pastora, le pecore e agnelli (1867)

Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.

                La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:

                In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso.
                – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
                Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
                – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
                Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
                – Di chi è questo gregge così numeroso?
                Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
                – Che cosa hai da saper tu?
                – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
                – Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
                Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce:
                – Chi è questo padrone?
                – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
                Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile.
                Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
                – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
                – Ma tu chi sei?
                – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
                E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
                Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
                – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
                – Guarda, mi rispose; osserva.
                Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
                – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
                – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
                Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
                Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio.
                Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse:
                – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
                – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
                – E chi sono? interrogai.
                – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
                Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse:
                – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi.
                Mi disse il pastore:
                – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza.
                Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
                Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
                Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
                – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
                Mi rispose il pastore:
                – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
                – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
                – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore).
                Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
                Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza.
                Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…

                 D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
                Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.

                Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
                Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
                Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
                – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
                Risposi:
                – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
(MB VIII 839-845)




Nessuno spaventava le galline (1876)

Ambientato nel gennaio 1876, il brano presenta uno dei più suggestivi «sogni» di Don Bosco, strumento prediletto con cui il santo torinese scuoteva e guidava i giovani dell’Oratorio. La visione si apre su una pianura sterminata in cui fervono i lavori dei seminatori: il grano, simbolo della Parola di Dio, germoglierà solo se protetto. Ma galline voraci piombano sul seme e, mentre i contadini cantano versetti evangelici, i chierici addetti alla custodia restano muti o distratti, lasciando che tutto vada perduto. La scena, animata da dialoghi arguti e citazioni bibliche, diventa parabola della mormorazione che spegne il frutto della predicazione e monito alla vigilanza attiva. Con toni insieme paterni e severi, Don Bosco trasforma l’elemento fantastico in lezione morale incisiva.

            Nella seconda metà di gennaio il Servo di Dio ebbe un sogno simbolico, del quale fece parola con alcuni Salesiani. Don Barberis lo pregò di raccontarlo in pubblico, perché i suoi sogni piacevano molto ai giovani, facevano loro gran bene e li affezionavano all’Oratorio.
            – Sì, questo è vero, rispose il Beato, fanno del bene e sono ascoltati con avidità; il solo che ne riceva nocumento sono io, perché bisognerebbe che avessi polmoni di ferro. Si può ben dire, che nell’Oratorio non ci sia un solo, il quale non si senta scosso da tali narrazioni; poiché per lo più questi sogni toccano tutti, e ciascheduno vuol sapere in quale stato io l’abbia veduto, che cosa debba fare, quale significato abbia questo o quello; ed io sono tormentato giorno e notte. Se poi voglio svegliare il desiderio delle confessioni generali, non ho da far altro che raccontare un sogno… Senti, fa’ una cosa. Domenica andrò a parlare ai giovani, e tu interrogami in pubblico. Io allora conterò il sogno.
            Il 23 gennaio, dopo le orazioni della sera, egli montò in cattedra. Il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un po’ di silenzio, Don Barberis chiese di parlare e interrogò:
            – Scusi, signor Don Bosco, mi permette che io le faccia una domanda?
            – Di’ pure.
            – Ho sentito a dire che in queste notti scorse ha fatto un sogno di semenza, di seminatore, di galline, e che l’ha già raccontato al chierico Calvi. Vorrebbe favorire di raccontarlo anche a noi? Questo ci farebbe assai piacere.
            – Curioso!! – fece Don Bosco in tono di rimprovero. E qui scoppiò una risata generale.
            – Non importa, sa, che mi dia del curioso; purché ci racconti il sogno. E con questa mia domanda credo d’interpretare la volontà di tutti i giovani, i quali certamente lo ascolteranno tanto volentieri.
            – Se è così ve lo racconto. Non voleva dir nulla, perché ci sono cose che riguardano diversi di voi in particolare, e alcune anche per te, che fanno bruciare un po’ le orecchie; ma poiché me ne richiedi, io racconterò.
            – Ma eh! signor Don Bosco, se c’è qualche bastonata per me, me la risparmi qui in pubblico.
            – Io racconterò le cose come le sognai; ciascuno prenda la parte sua. Ma prima di tutto bisogna che ciascuno tenga bene a mente, che i sogni si fanno dormendo, e dormendo non si ragiona; perciò se vi è qualche cosa di buono, qualche ammonimento da prendere, si prende. Del resto nessuno si metta in apprensione. Ho detto che io sognando di notte dormiva, perché taluni sognano anche di giorno e alcune volte perfino essendo svegliati e con non leggiero disturbo dei professori, per i quali riescono scolari fastidiosi.

            Mi pareva di essere lontano di qui e di trovarmi a Castelnuovo d’Asti, mia patria. Aveva avanti a me una grande estensione di terreno, situata in una vasta e bella pianura; ma quel terreno non era nostro e non sapeva di chi fosse.
            In quel campo vidi molti che lavoravano colle zappe, colle vanghe, coi rastrelli ed altri strumenti. Chi arava, chi seminava il grano, chi spianava la terra, chi faceva altro. Vi erano qua e là i capi preposti a dirigere i lavori e fra costoro mi sembrava di esser anch’io. Cori di contadini stavano in altra parte cantando. Io osservava stupito e non sapeva darmi ragione di quel luogo. Meco stesso andava dicendo: – Ma a che fine costoro lavorano tanto? – E rispondeva a me stesso: – Per provvedere le pagnotte ai miei giovani. – Ed era veramente una meraviglia il vedere come quei buoni agricoltori non desistessero un istante dal lavoro e incessantemente continuassero nel loro uffizio con uno slancio costante e colla stessa solerzia. Solo alcuni stavano ridendo e scherzando fra di loro.
            Mentre io contemplava così bel quadro, mi guardo attorno e vedo che mi circondavano alcuni preti e molti dei miei chierici, parte vicini, parte ad una certa distanza. Diceva tra me: – Ma io sogno; i miei chierici sono a Torino, qui invece siamo a Castelnuovo. E poi come ciò può essere? Io sono vestito da inverno da capo a piedi, solamente ieri io aveva tanto freddo, ed ora qui si semina il grano. – E mi toccava le mani e camminava e diceva: – Ma pure non sogno, questo è proprio un campo; questo chierico che è qui è il chierico A… in persona; quest’altro è il chierico B… E poi come potrei nel sogno vedere questa cosa e quest’altra?
            Intanto vidi lì presso, ma a parte, un vecchio che all’aspetto sembrava molto benevolo ed assennato, intento ad osservare me e gli altri. Mi accostai a lui e gli domandai:
            – Dite, bravo uomo, ascoltate! Che cosa è ciò che io vedo e non ne capisco nulla? Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo?
            – Oh! mi risponde quell’uomo; belle interrogazioni da farsi! Ella è prete e non sa queste cose?
            – Ma dunque ditemi! Credete voi che io sogni o che sia desto? Poiché a me par di sognare e non mi sembrano possibili le cose che vedo.
            – Possibilissime, anzi reali e a me pare che Lei sia desto affatto. Non se ne avvede? Parla, ride, scherza.
            – Eppure vi son taluni, io soggiunsi, cui sembra nel sogno di parlare, ascoltare, operare, come se fossero desti.
            – Ma no; lasci da parte tutto questo. Lei è qui in corpo ed anima.
            – Ebbene, sia pure; e se son desto, ditemi allora di chi sia questo campo.
            – Ella ha studiato il latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha studiato nel Donato? Lo sa ancora?
            – Eh! sì che lo so; ma che cosa ha da far questo con ciò che vi domando?
            – Ha da far moltissimo. Dica adunque quale è il primo nome che si studia nella seconda declinazione.
            – È Dominus.
            – E come fa al genitivo?
            – Domini!
            – Bravo, bene, Domini; questo campo adunque è Domini, del Signore.
            – Ah! ora comincio a capire qualche cosa! – esclamai.
            Era meravigliato della conseguenza tratta da quel buon vecchio. Intanto vidi varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, e un gruppo di contadini cantava: Exit, qui seminat, seminare semen suum (Il seminatore uscì a seminare il suo seme, Lc 8,5).
            A me pareva un peccato gettar via quella semente e farla marcire sotterra. Era così bello quel grano! – Non sarebbe meglio, diceva fra me. macinarlo e fame del pane o delle paste? – Ma poi pensava: – Chi non semina, non raccoglie. Se non si getta via la semente e questa non marcisce, che cosa si raccoglierà poi?
            In quel mentre vedo da tutte le parti uscire una moltitudine di galline e andar pel seminato a beccarsi tutto il grano che altri spargeva per seme.
            E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves caeli, sustulerunt frumentum et reliquerunt zizaniam (Gli uccelli del cielo vennero e raccolsero il grano e lasciarono la zizzania).
            Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno colle mani conserte stava guardando con fredda indifferenza; un altro chiacchierava coi compagni; alcuni si stringevano nelle spalle, altri guardavano il cielo, altri ridevano di quello spettacolo, altri tranquillamente proseguivano la loro ricreazione e i loro giuochi, altri sbrigavano alcuna loro occupazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando ciascuno per nome, diceva:
            – Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano? Non vedete che distruggono tutto il buon seme, fanno svanire le speranze di questi buoni contadini? Che cosa raccoglieremo poi? Perché state così muti? perché non gridate, perché non le fate andar via?
            Ma i chierici si stringevano nelle spalle, mi guardavano e non dicevano niente. Alcuni non si volsero neppure: non badavano prima a quel campo, né ci badarono dopo che io ebbi gridato.
            – Stolti che siete! io continuava. Le galline hanno già tutte il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così? – E intanto io batteva le mani, trovandomi in un vero imbroglio, poiché a nulla valevano le mie parole. Allora alcuni si misero a fugar le galline, ma io ripeteva tra me: – Eh sì! Ora che tutto il grano fu mangiato, si scacciano le galline.
            In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di contadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (I cani muti non sanno abbaiare, Is 56,10).
            Allora io mi rivolsi a quel buon vecchio e tra stupefatto e sdegnato gli dissi:
            – Orsù, datemi una spiegazione di quanto vedo; io ne capisco nulla. Che cosa è quel seme che si getta per terra?
            – Oh bella! Semen est verbum Dei (Il seme è la parola di Dio, Lc 8,11).
            – Ma che cosa vuol dir questo, mentre vedo che là le galline se lo mangiano?
            Il vecchio, cambiando tono di voce, proseguì:
            – Oh! se vuole una più compiuta spiegazione, io gliela do. Il campo è la vigna del Signore, di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici, che specialmente colla predicazione seminano la parola di Dio. Questa parola produrrebbe molto frutto in quel cuore, terreno ben preparato. Ma che? Vengono gli uccelli del cielo e la portano via.
            – Che cosa indicano questi uccelli?
            – Vuole che le dica che cosa indicano? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica che porterebbe effetto, si va coi compagni. Uno fa la chiosa ad un gesto, alla voce, ad una parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica. Un altro accusa il predicatore stesso di qualche difetto o fisico o intellettuale; un terzo ride sul suo italiano, e tutto il frutto della predica è portato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura, della quale il bene resta tutto impedito da una mormorazione. Le mormorazioni sono tanto più cattive, in quanto che esse generalmente sono segrete, nascoste, e colà vivono e crescono, ove punto noi non ce lo aspettiamo. Il grano sebbene sia in un campo non molto coltivato, tuttavia nasce, cresce, viene su abbastanza alto e produce frutto. Quando in un campo di fresco seminato viene un temporale, allora il campo resta pestato e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta. Se anche la semenza non sarà tanto bella, pure crescerà: porterà poco frutto, ma pure ne porterà. Invece quando le galline o gli uccelli si beccano la semente, non c’è più verso: il campo non rende né punto né poco; non porta più frutto di sorta. Così se alle prediche, alle esortazioni, ai buoni propositi terrà dietro qualche altra cosa come distrazione, tentazione, ecc. farà meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simili, qui non c’è poco che tenga, ma c’è subito il tutto che vien portato via. E a chi tocca battere le mani, insistere, gridare, sorvegliare, perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa!
            – Ma che cosa facevano mai questi chierici? io gli chiesi. Non potevano essi impedire tanto male?
            – Non impedirono nulla, egli proseguì. Taluni stavano ad osservare come statue mute, altri non ci badavano, non ci pensavano, non vedevano e se ne stavano colle braccia conserte, altri non avevano il coraggio d’impedire questo male; alcuni, pochi però, si univano anch’essi ai mormoratori, prendevano parte alle loro maldicenze, facevano il mestiere di distruggitori della parola di Dio. Tu che sei prete insisti su questo; predica, esorta, parla, non aver paura di dir mai troppo; e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente chi potrebbe o dovrebbe, questo è al tutto rendersi complice del male degli altri.
            Io tutto compreso da queste parole, voleva ancora guardare, osservare questa e quella cosa, rimproverare i chierici, infiammarli a compiere il proprio dovere. Ed essi già si movevano e cercavano di mettere in fuga le galline. Ma io, avendo fatti alcuni passi, inciampai in un rastrello, destinato a spianar la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai. Ora lasciamo da parte ogni cosa e veniamo alla morale. D. Barberis! Che cosa ne dici di questo sogno?
            – Dico, rispose D. Barberis, che è una buona bastonata, e bazza a chi tocca.
            – Eh certo, riprese D. Bosco, è una lezione la quale bisogna che ci faccia del bene; e tenetelo a mente, o miei cari giovani, di evitare fra voi in ogni modo la mormorazione, come un male straordinario, fuggendola come si fugge dalla peste, e non solo evitarla voi, ma a tutto potere cercare di farla evitare agli altri. Alcune volte santi consigli, opere ottime non fanno il bene, che reca l’impedire una mormorazione e qualunque parola che possa nuocere ad altri. Armiamoci di coraggio e combattiamola francamente. Non v’è peggior disgrazia di quella di far perdere la parola di Dio. E basta un motto, basta uno scherzo.

            Vi ho contato un sogno avvenutomi già sono varie notti, ma in questa notte scorsa ne ho avuto un altro, che eziandio desidero narrarvi. L’ora non è ancora troppo tarda; sono appena le nove e posso esporvelo. Procurerò tuttavia di non andare per le lunghe.
            Mi parve adunque di trovarmi in un luogo che ora non ricordo più quale fosse: non era io più a Castelnuovo, ma mi pare che neppure fossi all’Oratorio. Venne qualcuno con tutta premura a chiamarmi:
            – D. Bosco, venga! D. Bosco, venga!
            – Ma e che cosa c’è di tanta premura? io risposi.
            – È in corrente delle cose avvenute?
            – Io non intendo quello che tu vuoi dire; spiegati chiaramente, risposi ansioso.
            – Non sa, D. Bosco, che il tal giovane così buono, così pieno di brio, è gravemente infermo, anzi moribondo?
            – Io dubito che tu voglia prenderti gioco di me, gli dissi: perché appunto stamane parlai e passeggiai con lo stesso giovane, che ora mi annunzi moribondo.
            – Ah, D. Bosco, io non cerco d’ingannarla e mi credo in debito di narrarle la pura verità. Quel giovane ha sommamente bisogno di lei e desidera di vederla e di parlarle per l’ultima volta. Ma venga presto, perché altrimenti non è più in tempo.
            Io senza sapere il dove, andai in tutta fretta dietro a quel tale. Arrivo in un luogo e vedo gente mesta e piangente che mi dice: Faccia pure presto, che è agli estremi.
            – Ma che cosa è accaduto? – rispondo. Vengo introdotto in una camera, dove vedo un giovane coricato, tutto smorto nel viso, d’un colore quasi cadaverico, con una tosse e un rantolo che lo soffocava e appena a stento gli permetteva di parlare:
            – Ma non sei tu il tale dei tali? io gli dissi.
            – Sì, sono il tale!
            – Come stai?
            – Sto male
            – E come va che ora ti vedo in questo stato? Solamente ieri e stamattina non passeggiavi tranquillo sotto i portici?
            – Sì, rispose il giovane, ieri e stamattina passeggiavo sotto i portici; ma ora faccia presto, che io ho bisogno di confessarmi; vedo che mi resta più poco tempo.
            – Non affannarti, non affannarti; tu ti sei confessato da pochi giorni.
            – È vero e mi pare di non avere nessuna grossa pena sul mio cuore; ma tuttavia desidero ricevere la santa assoluzione prima di presentarmi al Divin Giudice.
            Io ascoltai la sua confessione. Ma intanto osservai che visibilmente peggiorava e un catarro era per soffocarlo. – Ma qui bisogna fare in fretta, dico fra me, se voglio che riceva ancora il santo viatico e l’olio santo. Anzi il viatico non potrà più riceverlo, sia perché ci vuole più tempo per i preparativi, sia perché la tosse potrebbe impedirgli d’inghiottire. Presto l’olio santo!
            Così dicendo, esco dalla camera e mando subito un uomo a prendere la borsa degli olii santi. I giovani che erano in sala mi domandavano:
            – Ma è veramente in pericolo? è proprio moribondo, come si va dicendo?
            – Purtroppo! io rispondeva. Non vedete che il respiro gli si fa ognor più grave e il catarro lo soffoca?
            – Ma sarà meglio portargli anche il viatico e così fortificato mandarlo nelle braccia di Maria!
            Ma mentre io mi affaccendava nel preparar l’occorrente, sento una voce: – è spirato!
            Rientro in camera e trovo l’infermo cogli occhi sbarrati; più non respira; è morto.
            – È morto? io domando a quei due che lo assistevano morto, mi rispondono: è morto!
            – Ma come va, tanto in fretta? Ditemi: non è desso il tale?
            – Sì, è il tale.
            – Non posso credere agli occhi miei! Solo ieri passeggiava con me sotto i portici.
            – Ieri passeggiava ed ora è morto, mi replicarono.
            – Per fortuna che era un giovane buono! esclamai. E diceva ai giovani che aveva attorno:
            – Vedete, vedete? Costui non ha nemmanco più potuto ricevere il viatico e l’estrema unzione. Ringraziamo però il Signore, che gli diede tempo di confessarsi. Questo giovane era buono, frequentava abbastanza i Sacramenti e speriamo che sia andato ad una vita felice, o almeno in purgatorio. Ma se fosse un po’ capitata ad altri la stessa sorte, che cosa ne sarebbe ora di certuni?
            Ciò detto, ci mettemmo tutti in ginocchio e recitammo un De profundis per l’anima del povero defunto.
            Intanto io andava in camera, quando mi vedo giungere Ferraris dalla libreria (coadiutore Giovanni Antonio Ferraris, libraio), il quale tutto affannato mi dice:
            – Sa, D. Bosco, che cosa è avvenuto?
            – Eh! purtroppo lo so! È morto il tale! rispondo.
            – Non è questo che voglio dire; vi sono due altri morti.
            – Come? chi?
            – Il tale ed il tale altro.
            – Ma quando? Non capisco.
            – Sì, due altri, i quali morirono prima che ella giungesse.
            – E perché allora non mi avete chiamato?
            – Mancò il tempo. Ma ella sa dirmi quando è morto questo qui?
            – È morto adesso! io risposi.
            – Sa ella in che giorno siamo e di qual mese? proseguì Ferraris.
            – Sì che lo so; siamo ai 22 di gennaio, secondo giorno della novena di S. Francesco di Sales.
            – No, disse Ferraris. Ella si sbaglia, signor Don Bosco; guardi bene. – Io alzo gli occhi al calendario e vedo: 26 di Maggio.
            – Ma questa è maiuscola! esclamai. Siamo di gennaio, e ben me ne accorgo dal come sono vestito, non si va vestiti così di maggio; di maggio non vi sarebbe il calorifero acceso.
            – Io non so che dirle, o che ragione darle, ma ora siamo ai 26 di maggio.
            – Ma se ieri solamente è morto quel nostro compagno ed eravamo in gennaio.
            – Si sbaglia, insisté Ferraris; eravamo in tempo pasquale.
            – Un’altra ne aggiungi ancor più grossa!
            – Tempo pasquale, sicuro: eravamo in tempo pasquale, e fu ben più fortunato di morire nella Pasqua, che gli altri due, i quali morirono nel mese di Maria.
            – Tu mi burli, io gli dissi. Spiegati meglio, altrimenti io non t’intendo.
            – Io non burlo niente affatto. La cosa è così. Se poi vuole saperne di più, e che io mi spieghi meglio, ecco! Stia attento!
            Aperse le braccia, poi batté le due mani una contro l’altra forte forte: ciac! Ed io mi sono svegliato. Allora esclamai: – Oh per fortuna! Non è una realtà, ma è un sogno. Quanto timore ho avuto!
            Ecco il sogno che ho fatto la notte scorsa. Voi dategli quell’importanza che volete. Io stesso non voglio dargli interamente fede. Oggi però ho voluto vedere se coloro che mi parvero morti in sogno, fossero ancora vivi e li vidi sani e vigorosi. Certamente che non conviene ch’io dica, e non dirò, chi siano costoro. Tuttavia terrò d’occhio quei due: se sarà necessario qualche consiglio per vivere bene, lo darò loro, e li preparerò, facendo le volte larghe senza che se ne accorgano; perché così, se accadesse loro di dover morire, la morte non li trovi impreparati. Ma nessuno vada dicendo: Sarà questi, sarà quegli. Ciascuno pensi a sé.
            E non datevi nessuna apprensione di questo. L’effetto che deve fare in voi è semplicemente quello che ci suggerì il Divin Salvatore nel Vangelo: Estote parati, quia, qua hora non putatis, filius hominis veniet (Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo, Lc 12,40). È questo un grande avvertimento, miei cari giovani, che ci dà il Signore. Stiamo apparecchiati sempre, perché nell’ora in cui meno ce lo aspettiamo, può venire la morte e colui che non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. Io mi terrò preparato il meglio che posso e voi fate lo stesso, affinché in qualunque ora piaccia al Signore di chiamarci, possiamo essere pronti a passare nella felice eternità. Buona notte.

            Le parole di Don Bosco si ascoltavano sempre con religioso silenzio; ma quando egli raccontava di queste cose straordinarie, fra le centinaia di ragazzi che gremivano il luogo, non si sentiva un colpo di tosse né il più lieve fruscio di piedi. L’impressione viva durava settimane e mesi e con l’impressione avvenivano mutazioni radicali nella condotta di certi discoli. Si faceva poi ressa intorno al confessionale di Don Bosco. Di supporre che egli inventasse quei racconti per spaventare e migliorare la vita dei giovani, non veniva in capo a nessuno, perché gli annunzi di morti prossime si avveravano sempre e certi stati di coscienza veduti nei sogni rispondevano a realtà.
            Ma il timore prodotto da sì lugubri predizioni non era un incubo opprimente? Non pare. Troppe si presentavano le possibilità e le supposizioni in una moltitudine di più che ottocento giovani, perché i singoli ne potessero essere preoccupati. Inoltre la persuasione realmente diffusa, che chi moriva nell’Oratorio, andava di certo in paradiso, e che Don Bosco preparava i designati senza spaventarli, contribuiva a scacciare dagli animi ogni timore. D’altra parte si sa bene quanto sia grande la volubilità giovanile: sul momento la fantasia dei giovani rimane colpita e scossa; ma poi quel ricordo si libera ben presto da qualsiasi paurosa apprensione. Tanto ci attestavano unanimi i superstiti di quei tempi.
            Andati che furono i giovani a dormire, alcuni confratelli che attorniavano il Beato, lo tempestavano di domande, per sapere se alcuno di loro fosse fra quei che dovevano morire. Il Servo di Dio, sorridendo secondo il suo solito e scuotendo il capo, ripeteva:
            – Già, già! Verrò a dirvi chi è, con pericolo di far morire qualcuno prima del tempo!
            Visto che lì non si spillava nulla, lo interrogarono se nel primo sogno vi fossero anche dei chierici a far la parte delle galline, che, si abbandonassero cioè alla mormorazione. Don Bosco, che passeggiava, si fermò, girò gli occhi su gl’interlocutori e fece un risolino come per dire: – Eh! qualcuno sì; tuttavia pochi, e non aggiungo altro. – Allora gli chiesero che dicesse almeno se essi erano fra i cani muti; il Beato si tenne sulle generali, osservando che bisognava stare attenti a evitare e a far evitare le mormorazioni e in genere tutti i disordini, massime i cattivi discorsi. – Guai al prete e al chierico, disse, il quale, incaricato della vigilanza, vede i disordini e non li impedisce! Desidero si sappia e si ritenga che con la parola “mormorazioni” io non intendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni motto, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola di Dio udita. In generale poi intendo di dire che è un gran male starsene quieti, allorché si conosce qualche disordine, non impedendolo o non cercando che lo impedisca chi di ragione.
            Uno più arditelo mosse al Servo di Dio un’interrogazione alquanto azzardata.
            – E Don Barberis per che cosa entra nel sogno? Lei ha detto che ce n’era anche per lui, e Don Barberis stesso sembrava che si aspettasse una buona bastonata per sé. – Don Barberis era presente. Sulle prime Don Bosco accennava a non voler rispondere. Ma poi, essendo rimasti ai suoi fianchi solo alcuni preti e mostrandosi Don Barberis contento che egli palesasse il segreto, il Beato disse:
            – Eh! Don Barberis non predica abbastanza su questo punto; su quest’argomento non insiste quanto bisogna. Don Barberis confermò che né l’anno innanzi né durante l’anno in corso si era mai fermato di proposito: su quelle materie nelle sue conferenze agli ascritti; ebbe perciò molto piacere dell’osservazione e se la legò all’orecchio per l’avvenire.
            Ciò detto, salirono le scale e tutti, baciata la mano a Don Bosco, si allontanarono e andarono a riposo. Tutti, meno Don Barberis, che secondo il consueto lo accompagnò fino all’uscio della sua stanza. Don Bosco, vedendo che era ancora presto e accorgendosi che non avrebbe potuto prender sonno, perché fortemente impressionato dalle cose esposte, contro la sua costante abitudine fece entrare Don Barberis nella camera, dicendo:
            – Giacché abbiamo ancora tempo, possiamo fare due passi su e giù per la stanza.
            Così continuò a discorrere per una mezz’ora. Disse fra l’altro:
            – Io nel sogno ho veduto tutti ed ho veduto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che avvisati si misero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo confessando, esortando in pubblico ed in privato, finché vedo che producono del bene. Da principio non faceva gran caso di questi sogni; ma mi accorsi che per lo più valgono a produrre l’effetto di più prediche, anzi per alcuni sono più efficaci che un corso di esercizi spirituali; perciò me ne servo. E perché no? Si legge nella Sacra Scrittura: Probate spiritus (mettete alla prova gli spiriti, 1Gv 4,1); quod bonum est tenete (tenete ciò che è buono, 1Tes 5,21). Vedo che giovano, vedo che piacciono, e perché tenerli segreti? Anzi osservo che contribuiscono ad affezionare molti alla Congregazione.
            – Ho provato io stesso, interruppe Don Barberis, di quanta utilità fossero questi sogni e quanto salutari. Anche narrati altrove, fanno del bene. Dove Don Bosco è conosciuto, si può dire che sono sogni fatti da lui; dove non è conosciuto, si possono presentare come similitudini. Oh, se sì potesse fame una raccolta, esponendoli in forma di similitudini! Sarebbero ricercati e letti da piccoli e da grandi, da giovani e da vecchi, con vantaggio delle anime loro.
            – Già, già! Farebbero del bene, ne sono intimamente convinto.
            – Ma forse, lamentò Don Barberis, nessuno li ha raccolti per iscritto.
            – Io, riprese Don Bosco, non ho tempo, e di molti non mi ricordo più.
            – Quelli dei quali io mi ricordo, replicò Don Barberis, sono i sogni che si riferivano ai progressi della Congregazione, all’estendersi del manto della Madonna…
            – Ah, sì! – esclamò il Beato. E accennò a parecchie visioni di questo genere. Presa quindi un’aria più grave e quasi conturbato proseguì:
            – Quando penso alla mia responsabilità nella posizione in cui io mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Congregazione!
(MB XII, 40-51)

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La decima collina (1864)

Il sogno della “Decima Collina”, narrato da don Bosco nell’ottobre 1864, è una delle pagine più suggestive della tradizione salesiana. In esso il santo si ritrova in una sterminata valle colma di giovani: alcuni già all’Oratorio, altri ancora da incontrare. Guidato da una voce misteriosa, deve condurli oltre una ripida scarpata e poi attraverso dieci colline, simbolo dei dieci comandamenti, verso una luce che prefigura il Paradiso. Il carro dell’Innocenza, le schiere penitenziali e la musica celestiale disegnano un affresco educativo: mostrano la fatica di preservare la purezza, il valore del pentimento e il ruolo insostituibile degli educatori. Con questa visione profetica don Bosco anticipa l’espansione mondiale della sua opera e l’impegno di accompagnare ogni giovane sul cammino della salvezza.

                D. Bosco aveva sognato nella notte precedente. Nello stesso tempo un giovane di nome C… E… di Casal Monferrato, fece egli pure lo stesso sogno, parendogli di trovarsi con D. Bosco e di parlargli. Levatosi ne era rimasto tanto colpito che andò a raccontare le cose sognate al suo professore, il quale lo esortò di recarsi a narrarle a D. Bosco. Il giovane andò subito e s’imbatté con lui stesso che scendeva le scale, per cercarlo e narrargli la stessa cosa.
                Parve adunque a D. Bosco di trovarsi in una grandissima valle tutta piena di migliaia e migliaia di giovanetti, ma così numerosi che esso non credeva potersene trovare tanti in tutto il mondo. Fra questi giovani egli distingueva tutti quelli che furono, e quelli che sono nella casa. Tutti gli altri erano coloro che forse verranno poi. Frammisti ai giovani si vedevano i preti ed i chierici della casa.
                Una ripa altissima chiudeva da un lato quella valle. Mentre D. Bosco pensava che cosa avrebbe dovuto fare di tanti giovani, una voce gli disse:
                – Vedi quella ripa? Ebbene; bisogna che tu e i tuoi giovani ne guadagniate la cima.
                Allora D. Bosco diede ordine a tutte quelle, turbe di giovani di muoversi verso il punto indicato. I giovani si mossero e a gran corsa si slanciarono arrampicandosi su per la ripa. I preti della casa correvano anche essi all’insù spingendo avanti i giovani, rialzavano quelli che cadevano e portavano sulle spalle coloro che stanchi non potevano camminare. D. Rua colle maniche della veste rivoltate lavorava più di tutti e, prendendo i giovani a due per due, addirittura gli slanciava per aria sulla ripa, sulla quale cadendo essi restavano in piedi e poi scorrazzavano allegramente qua e là. D. Cagliero e D. Francesia correvano su e giù per le file gridando:
                – Coraggio, avanti; avanti, coraggio.
                In poco d’ora quelle schiere giovanili raggiunsero la cima della ripa; D. Bosco pure era salito e disse:
                – Ed ora che cosa faremo?
                E la voce soggiunse:
                – Tu devi valicare coi tuoi giovani queste dieci colline che vedi distendersi innanzi a te l’una dopo l’altra.
                – Ma come faranno a reggere ad un viaggio così lungo tanti giovanetti che sono così piccoli e delicati?
                – Chi non potrà andare coi suoi piedi, sarà portato; – gli fu risposto.
                Ed ecco infatti spuntare ad una estremità del colle e salire un magnifico carro. Impossibile ne è la descrizione tanto era bello, ma pure qualche cosa si può dire. Era triangolare e aveva tre ruote che si movevano per tutti i versi. Dai tre angoli partivano tre aste che venivano a congiungersi in un punto solo sopra il carro stesso, formando come un pinnacolo di pergolato. Su questo punto di congiunzione si innalzava un magnifico stendardo sul quale era scritto a caratteri cubitali: Innocentia. Una fascia poi che correva tutto intorno al carro, formava sponda e portava l’iscrizione: Adjutorio Dei Altissimi Patris et Filii et Spiritus Sancti (al riparo di Dio Altissimo, Padre e Figlio e Spirito Santo).
                Il carro, che splendeva tutto per oro e pietre preziose, si avanzò e venne a collocarsi in mezzo ai giovani. Dato il comando, molti fanciulletti vi salirono sopra. Il numero era di 500. Cinquecento appena in mezzo a tante migliaia di giovani erano ancora innocenti.
                Collocati questi sul carro D. Bosco pensava per quale via avrebbe dovuto incamminarsi, quando vide aprirsi innanzi a lui una strada larga e comoda, ma tutta sparsa di spine. Apparvero quindi all’improvviso sei giovani, già morti nell’Oratorio, vestiti di bianco, i quali inalberavano un’altra bellissima bandiera sulla quale era scritto: Poenitentia. Costoro si andarono a posare alla testa di tutte quelle falangi di giovani che dovevano mettersi in viaggio pedestri. Allora fu dato il segnale della partenza. Molti preti si slanciano al timone del carro, il quale tratto da essi incomincia a muoversi. I sei vestiti di bianco lo seguono. Dietro a loro tutto il resto della moltitudine. Con magnifica ed inesprimibile musica si intona dai giovanetti che erano sul carro il Laudate pueri Dominum (Lodate Dio voi piccoli, Ps 113,1).
                D. Bosco camminava inebbriato da quella musica celeste, quando si ricordò di voltarsi indietro, per vedere se tutti i giovani lo avevano seguito. Ma oh doloroso spettacolo! Molti erano rimasti nella valle, molti erano ritornati indietro. Don Bosco agitato da inesprimibile dolore decise di rifare il cammino già fatto per tentar di persuadere quei giovani sconsigliati, e di aiutarli a seguirlo. Ma gli venne assolutamente vietato.
                – Ma quei poverini si perdono: – esclamò egli.
                E gli venne, risposto:
                – Peggio per loro: essi furono chiamati come gli altri e non vollero seguirti. La strada da farsi l’hanno veduta e ciò basta.
                D. Bosco voleva replicare; pregò, scongiurò: tutto fa inutile:
                – L’obbedienza è anche per te! – gli fu detto. E dovette continuare il cammino.
                Non erasi ancor lenito questo dolore, quando un altro tristo accidente sopravvenne. Molti giovanetti di quelli che si trovavano sul carro a poco a poco erano caduti per terra. Di 500 appena 150 rimanevano sotto il vessillo dell’innocenza.
                Il cuore di D. Bosco scoppiava per l’insopportabile affanno. Esso sperava fosse quello un sogno, faceva tutti gli sforzi per svegliarsi, ma pur troppo si accorgeva che era una terribile realtà. Batteva le mani ed udiva il suono di esse: gemeva, ed udiva che il suo gemito risuonare per la stanza; voleva dissipare quel terribile fantasma, ma non poteva.
                – Ah miei cari giovani! egli esclamava a questo punto, narrando il sogno. Io ho conosciuto e veduto coloro che rimasero nella valle, quelli che tornarono indietro o caddero dal carro! Vi ho conosciuti tutti. Ma non dubitate; io farò ogni sforzo possibile per salvarvi. Molti di voi invitati da me a confessarsi non risposero alla chiamata! Per carità salvate le anime vostre.
                Molti dei giovanetti caduti dal carro si erano di mano in mano andati a porre tra le file di coloro che camminavano dietro la seconda bandiera. Intanto la musica del carro continuava così dolce che a poco a poco vinse il dolore di D. Bosco. Sette colline erano già valicate e giunte quelle schiere sulla ottava, entrarono in un meraviglioso paese, dove si fermarono a prendere un po’ di riposo. Le case erano di una ricchezza e bellezza indescrivibile.
                D. Bosco parlando ai giovani di questa regione soggiunse:
                – Vi dirò con Santa Teresa ciò che essa affermò delle cose del paradiso: sono cose che col parlarne si avviliscono, perché sono così belle che è inutile sforzarsi a descriverle. Quindi osserverò solamente che gli stipiti di quelle case parevano di oro, di cristallo, di diamante tutt’insieme, sicché sorprendevano, appagavano la vista infondevano allegrezza. I campi erano ripieni d’alberi sui quali si vedevano contemporaneamente fiori, bottoni, frutta matura e frutta verde. Era un incanto magnifico.
                I giovani si sparsero pel paese chi di qua e chi di là, chi per una cosa, chi per l’altra, poiché grande era la loro curiosità e il desiderio di avere di quella frutta.
                È in questo villaggio che quel giovane di Casale si imbatté in D. Bosco e tenne con lui un lungo dialogo. D. Bosco e il giovane si ricordavano perfettamente le domande fatte e le risposte avute. Singolare combinazione di due sogni.
                D. Bosco ebbe qui un’altra strana sorpresa. I suoi giovani gli apparvero ad un tratto come divenuti vecchi; senza denti, pieni di rughe in volto, coi capelli bianchi, curvi, zoppicanti, appoggiati al bastone. D. Bosco si meravigliava di questa metamorfosi, ma la voce gli disse:
                – Tu ti meravigli; ma hai da sapere che non sono già poche ore dacché sei partito dalla valle, ma sono anni ed anni. È quella musica che ti ha fatto parer corto il cammino. In prova, guarda la tua fisionomia e ti persuaderai se io dico il vero. – E a D. Bosco venne presentato uno specchio. Egli si specchiò e vide che il suo aspetto era d’uomo attempato, col volto rugoso, e coi denti guasti e pochi.
                La comitiva frattanto si rimise in cammino e i giovani a quando a quando chiedevano di fermarsi per vedere quelle nuove cose. Ma D. Bosco diceva loro:
                – Avanti, avanti: noi non abbisogniamo di nulla; non abbiamo fame, noti abbiam sete, dunque avanti.
                (In fondo lontano, sulla decima collina spuntava una luce che andava sempre crescendo come se uscisse da una stupenda porta). Ricominciò allora il canto, ma così bello che solo in Paradiso si può udire l’eguale e gustarlo. Non era musica di istrumenti, né pareva di voci umane. Era una musica impossibile a descriversi; e tanta fu la piena del giubilo che inondò l’anima di D. Bosco che svegliatosi si trovò nel suo letto.
                D. Bosco così spiegò il suo sogno:
                – La valle è il mondo. La ripa gli ostacoli per staccarsi da esso. – Il carro lo capite. – Le squadre dei giovani a piedi sono i giovani che perduta l’innocenza, si pentirono dei loro falli.
                D. Bosco aggiunse ancora che le 10 colline raffiguravano i 10 comandamenti della legge di Dio, l’osservanza dei quali conduce alla vita eterna.
                Quindi annunziò che, se facesse di bisogno era pronto a dire confidenzialmente a certi giovani che cosa facevano in quel sogno; se restarono nella valle o se caddero dal carro.
                Disceso dalla bigoncia, l’alunno Ferraris Antonio si avvicinò a lui, e gli raccontò, essendo noi presenti che intendemmo perfettamente le sue parole, come la sera precedente avesse egli sognato di trovarsi in compagnia di sua madre, la quale gli aveva domandato se a Pasqua sarebbe tornato a casa per passarvi i giorni di vacanza: esso averle risposto che prima di Pasqua sarebbe andato in paradiso. Quindi in confidenza sottovoce disse alcune altre parole nell’orecchio a D. Bosco. Ferraris Antonio morì il 16 marzo 1865.
                Noi abbiamo subito scritto il sogno, e la stessa sera 22 ottobre 1864 sul fine aggiungevamo la seguente postilla. “Io tengo per certo che D. Bosco colle sue spiegazioni cercò di coprire ciò che il sogno ha di più sorprendente, almeno per qualche circostanza. Quella dei dieci comandamenti non mi appaga. L’ottava collina sulla quale D. Bosco fa una sosta, ed egli si vede nello specchio così attempato, io credo che indichi il fine della sua vita dover succedere oltre i settanta anni. Vedremo l’avvenire”.
                Questo avvenire è dunque ora tempo passato, e noi ci siamo confermati nella nostra opinione. Il sogno indicava a Don Bosco la durata del suo vivere. Confrontiamo con questo, quello della Ruota, che noi non potemmo conoscere se non qualche anno dopo. I giri della Ruota procedono per decenni: e così pure sembra che’ abbracci simile spazio di tempo il procedere di collina in collina. Ognuna della dieci colline rappresenta dieci anni, sicché vengono a significare cento anni il massimo della vita di un uomo. Ora noi vediamo D. Bosco ancor fanciullo, nel primo decennio, incominciare la sua missione tra i compagni dei Becchi e così dar principio al suo viaggio; percorre interamente le sette colline cioè sette decenni quindi la sua età giunge a settant’anni: sale l’ottava collina e qui fa una sosta: vede case e campi meravigliosamente belli, ovvero la sua Pia Società resa grande e fruttifera dalla bontà infinita di Dio. È ancor lunga la via da percorrere sulla ottava collina e si rimette in viaggio; ma non giunge alla nona, perché si risveglia. Così egli non campò l’ottavo decennio, morendo a 72 anni e 5 mesi.
                Che ne dice il lettore? Aggiungeremo che la sera dopo Don Bosco avendo interrogato noi stessi qual fosse il nostro pensiero intorno al sogno, gli abbiamo risposto, che non riguardava solamente i giovani, ma sebbene indicava la dilatazione della Pia Società in tutto il mondo.
                – Ma che? replicò uno dei nostri confratelli; abbiamo già i collegi di Mirabello e di Lanzo e se ne aprirà qualche altro in Piemonte. Che cosa vuoi di più?
                – No; sono ben altri i destini che ci annunzia il sogno.
                E D. Bosco approvava, sorridendo, la nostra persuasione.
(MB VII, 796-802)




Gli agnellini e la tempesta estiva (1878)

Il racconto onirico che segue, narrato da Don Bosco la sera del 24 ottobre 1878, è molto più di un semplice divertimento serale per i giovani dell’Oratorio. Attraverso la delicata immagine degli agnellini sorpresi da una violenta tempesta estiva, il santo educatore disegna un’allegoria vivace delle vacanze scolastiche: tempo apparentemente spensierato, ma carico di pericoli spirituali. Il prato invitante rappresenta il mondo esterno, la grandine simboleggia le tentazioni, mentre il giardino protetto allude alla sicurezza offerta dalla vita di grazia, dai sacramenti e dalla comunità educativa. In questo sogno, che si fa catechesi, Don Bosco ricorda ai suoi ragazzi — e a noi — l’urgenza di vigilare, ricorrere all’aiuto divino e sostenersi vicendevolmente per tornare integri alla vita quotidiana.

                Della partenza per le vacanze e del ritorno, nessuna notizia quest’anno, se non fosse un sogno intorno agli effetti che le vacanze sogliono produrre. Don Bosco lo raccontò la sera del 24 ottobre. Appena, esordendo, ne diede l’annunzio, si videro manifestazioni universali di contentezza.

                Io sono contento di rivedere il mio esercito di armati contra diabolum (contro il diavolo). Questa espressione, quantunque latina, è capita anche da Cottino. Tante cose avrei a dirvi, essendo la prima volta che vi parlo dopo le vacanze; ma per ora vi voglio raccontare un sogno. Voi sapete che i sogni si fanno dormendo e che non bisogna prestarvi fede; ma se non c’è nessun male a non credere, talvolta non vi è male neppure a credere e possono anzi servirci di istruzione, come, per esempio, questo.
                Io era a Lanzo alla prima muta d’esercizi e dormiva, quando, come dissi, feci un sogno. Io mi trovava in un luogo ove non potei conoscere quale regione fosse, ma era vicino ad un paese nel quale si estendeva un giardino, e vicino a questo giardino un vastissimo prato. Era in compagnia di alcuni amici che mi invitarono ad entrare nel giardino. Entro e vedo una gran quantità di agnellini che saltavano, correvano, facevano capriole secondo il loro costume. Quando ecco si apre una porta che mette nel prato e quegli agnellini corrono fuori per andare a pascolare.
                Molti però non si curano di uscire, ma si fermano nel giardino; e andavano qua e là brucando qualche filo d’erba e così si pascevano, quantunque non vi fosse erba in quell’abbondanza come fuori nel prato, ov’era accorso il più gran numero. – Voglio vedere che cosa fanno questi agnellini di fuori, – io dissi. Andammo nel prato e li vedemmo pascolare tranquillamente. Ed ecco quasi subito s’oscura il cielo, seguono lampi e tuoni e si approssima un temporale.
                – Che cosa sarà di questi agnellini, se prendono la tempesta? andava io dicendo. Ritiriamoli in salvo. – E li andava chiamando. Poi io da una parte e quei miei compagni sparsi in diversi punti, cercavamo di spingerli verso l’uscio del giardino. Sennonché essi non volevano saperne di entrare; caccia di qua, scappa di là, eh sì! gli agnellini avevano le gambe migliori delle nostre. Frattanto incominciarono a cadere spesse gocciole, poi veniva la pioggia ed io non riusciva a poter raccogliere quel gregge. Una o due pecorelle entrarono bensì nel giardino, ma tutte le altre, ed erano in gran quantità, continuarono a star nel prato. – Ebbene, io dissi, se non vogliono venire, peggio per loro! Intanto noi ritiriamoci – E andammo nel giardino.
                Colà vi era una fontana su cui stava scritto a caratteri cubitali: Fons signatus, fontana sigillata. Essa era coperta, ed ecco che si apre; l’acqua sale in alto e si divide e forma un arcobaleno, ma a guisa di volta come questo porticato.
                Frattanto si vedevano più frequenti i lampi, seguivano più rumorosi i tuoni e si mise a cader la grandine. Noi con tutti gli agnellini che erano nel giardino, ci ricoverammo e ci stringemmo là sotto quella volta meravigliosa e non vi penetrava l’acqua e la grandine.
                – Ma che cosa è questo? io andava chiedendo agli amici. Che cosa sarà mai dei poveretti che stanno fuori?
                – Vedrai! mi rispondevano. Osserva sulla fronte di questi agnelli; che cosa vi trovi? – Osservai e vidi che sulla fronte di ciascheduno di quegli animali stava scritto il nome di un giovane dell’Oratorio.
                – Che cosa è questo? – chiesi.
                – Vedrai, vedrai!
                Intanto io non poteva più trattenermi e volli uscire per vedere che cosa facessero quei poveri agnelli che erano rimasti fuori. – Raccoglierò quelli che furono uccisi e li spedirò all’Oratorio, – pensava io. Uscito di sotto a quell’arco, anch’io prendeva la pioggia; ed ho vedute quelle povere bestiole, stramazzate a terra, che muovendo le zampe cercavano di alzarsi e venire verso il giardino: ma non potevano camminare. Apersi l’uscio, alzai la voce; ma i loro sforzi erano inutili. La pioggia e la grandine le aveva così malconce e continuava a maltrattarle, che facevano pietà: una veniva percossa sulla testa, un’altra sulla mascella, questa in un occhio, quella in una zampa, altre in altre parti del corpo.
                Dopo alcun tempo era cessata la tempesta.
                – Osserva, mi disse quegli che mi stava a fianco; osserva sulla fronte di questi agnelli.
                Osservai e lessi in ciascuna fronte il nome di un giovane dell’Oratorio. – Mah! diss’io; conosco il giovane che ha questo nome e non mi pare un agnellino.
                – Vedrai, vedrai, mi fu risposto. – Quindi mi venne presentato un vaso d’oro con un coperchio d’argento, dicendomi:
                – Tocca con la tua mano intinta di questo unguento, le ferite di queste bestiole e subito subito guariranno.
                Io mi metto a chiamarle:
                – Brrr, brrr! – Ed esse non si muovono. Ripeto la chiamata; niente: cerco di avvicinarmi a una ed essa si strascina via. – Non vuole? Peggio per lei! esclamo. Vado ad un’altra. E vado, ma anche questa mi scappa. A quante io mi avvicinava per ungerle e guarirle, altrettante mi fuggivano. Io le seguiva, ma ripeteva inutilmente questo giuoco. Alfine ne raggiunsi una che, poverina, aveva gli occhi fuori delle orbite, e così malconci che metteva compassione. Io glieli toccai colla mano ed essa guarì e saltellando se ne andò nel giardino.
                Allora molte altre pecorelle, visto ciò, non ebbero più ripugnanza e si lasciarono toccare e guarire ed entrarono nel giardino. Ma ne restavano fuori molte e generalmente le più piagate, né mi fu possibile avvicinarle.
                – Se non vogliono guarire, peggio per loro! Ma non so come potrò farle rientrare in giardino.
                – Lascia fare, mi disse uno degli amici che erano con me; verranno, verranno.
                – Vedremo! – io dissi; e riposi l’aureo vaso là dove prima era e ritornai al giardino. Questo erasi tutto mutato e vi lessi sull’ingresso: Oratorio. Appena entrato, ecco che quegli agnelli che non volevano venire, si avvicinano, entrano di soppiatto e corrono a rimpiattarsi qua e là; e neppur allora potei avvicinarmi ad alcuno. Vi furono anche parecchi che non ricevendo volentieri l’unguento, questo si convertì per loro in veleno e invece di guarirli inaspriva le loro piaghe.
                – Guarda! Vedi quello stendardo? – mi disse un amico.
                Mi volsi e vidi sventolare un grande stendardo e vi si leggeva sopra a grossi caratteri questa parola: Vacanze.
                – Sì, lo vedo, risposi.
                – Ecco, questo è l’effetto delle vacanze, mi spiegò uno che mi accompagnava, essendo io fuori di me pel dolore di quello spettacolo. I tuoi giovani escono dall’Oratorio per andare in vacanza, con buona volontà di pascolarsi della parola di Dio e di conservarsi buoni: ma poi sopravviene il temporale, che sono le tentazioni; poi la pioggia, che sono gli assalti del demonio; quindi cade la grandine ed è quando i miseri cadono nella colpa. Alcuni risanano ancora con la confessione, ma altri non usano bene di questo sacramento, o non ne usano punto. Abbilo a mente e non stancarti mai di ripeterlo ai tuoi giovani, che le vacanze sono una gran tempesta per le loro anime.
                Osservava io quegli agnelli e scorgeva in alcuni ferite mortali; andava cercando modo di guarirli, quando D. Scappini, che aveva fatto rumore alzandosi nella camera vicina, mi svegliò.
                Questo è il sogno e quantunque sogno ha tuttavia un significato che non farà male a chi vi presterà fede. Posso anche dire che io notai alcuni nomi fra i molti degli agnelli del sogno, e confrontandoli coi giovani, vidi che questi si regolavano appunto come accadde nel sogno. Comunque sia la cosa, noi dobbiamo in questa novena dei Santi corrispondere alla bontà di Dio che ci vuole usar misericordia e con una buona confessione purgare le ferite della nostra coscienza. Dobbiamo poi metterci tutti d’accordo per combattere il demonio e coll’aiuto di Dio usciremo vincitori da questa pugna e andremo a ricevere il premio della vittoria in Paradiso.

                Questo sogno dovette influire non poco sul buon avviamento del nuovo anno scolastico; infatti nella novena dell’Immacolata le cose procedevano già così bene, che Don Bosco manifestò la propria soddisfazione dicendo:
                – I giovani sono ora al punto, dove negli anni scorsi arrivavano appena in febbraio. – Nella festa dell’Immacolata essi videro rinnovarsi la bella funzione di congedo alla quarta spedizione di Missionari.
(MB XIII 761-764)




Don Bosco assiste a un conciliabolo di demoni (1884)

Le pagine che seguono ci conducono nel cuore dell’esperienza mistica di San Giovanni Bosco, attraverso due vividi sogni avuti fra settembre e dicembre 1884. Nel primo, il Santo attraversa la pianura verso Castelnuovo con un misterioso personaggio e riflette sulla scarsità di preti, ammonendo che soltanto lavoro indefesso, umiltà e moralità possono far fiorire autentiche vocazioni. Nel secondo ciclo onirico, Bosco assiste a un concilio infernale: mostruosi demoni complottano di annientare la nascente Congregazione Salesiana, diffondendo gola, brama di ricchezze, libertà senza obbedienza e orgoglio intellettuale. Tra presagi di morte, minacce interne e segni di Provvidenza, questi sogni diventano uno specchio drammatico delle lotte spirituali che attendono ogni educatore e la Chiesa intera, offrendo insieme avvertimenti severi e speranze luminose.

            Ricchi di ammaestramenti sono due sogni fatti in settembre e in dicembre.

            Il primo, avuto nella notte dal 29 al 30 settembre, è una lezione per i preti. Gli parve di andare verso Castelnuovo attraverso una pianura; gli camminava a fianco un venerando sacerdote, del quale disse di non ricordare più il nome. Cadde il discorso sui preti. – Lavoro, lavoro, lavoro! dicevano. Ecco quale dovrebbe essere l’obiettivo e la gloria dei preti. Non stancarsi mai di lavorare, Così, quante anime si salverebbero! Quante cose vi sarebbero da fare per la gloria di Dio! Oh se il missionario facesse davvero il missionario, se il parroco facesse davvero il parroco, quanti prodigi di santità splenderebbero da ogni parte! Ma purtroppo molti hanno paura di lavorare e preferiscono le proprie comodità…
            Ragionando a questo modo fra loro, giunsero ad un luogo detto Filippelli. Allora Don Bosco prese a lamentare l’odierna scarsità di preti.
            – É vero, rincalzò l’altro, i preti scarseggiano; ma se tutti i preti facessero il prete, ve ne sarebbero abbastanza, Quanti preti invece vi sono che non fan nulla per il ministero! Gli unì non fanno altro che il prete di famiglia, altri per timidità se ne stanno oziosi, mentre se si mettessero nel ministero, se prendessero l’esame di confessione, riempirebbero un gran vuoto nelle file della Chiesa… Iddio le vocazioni le proporziona alla necessità. Quando venne la leva dei chierici, tutti erano spaventati, come se nessuno più si dovesse far prete; ma, quando le fantasie si calmarono, si vede che le vocazioni invece di scemare andavano crescendo.
            – E adesso, interrogò Don Bosco, che cosa bisogna fare per promuovere le vocazioni in mezzo ai giovanetti?
            – Nient’altro, rispose il compagno di viaggio, che coltivare gelosamente fra essi la moralità. La moralità è il semenzaio delle vocazioni.
            – E che cosa debbono fare specialmente i preti per ottenere che la loro vocazione rechi frutto?
            – Presbyter discat domum suam regere et sanctificare. (il sacerdote deve imparare a governare e santificare la sua casa). Ognuno sia esempio di santità nella propria famiglia e nella propria parrocchia. Non disordini di gola, non ingolfarsi nelle cure temporali… Sia anzitutto modello in casa e poi sarà il primo fuori.
            A un certo punto del cammino quel sacerdote chiese a Don Bosco ove andasse; Don Bosco indicò Castelnuovo. Egli allora, lasciatolo proseguire, rimase con un gruppo di persone che lo precedevano. Fatti pochi passi, Don Bosco si svegliò. In questo sogno possiamo vedere una rimembranza delle antiche passeggiate attraverso quei luoghi.

Predice la morte di salesiani
            Il secondo sogno si riferisce alla Congregazione e mette in guardia contro pericoli che potrebbero minacciarne l’esistenza. Veramente, più che un sogno, è un argomento che si svolge in una successione di sogni.
            Nella notte del io dicembre il chierico Viglietti fu svegliato di soprassalto da strazianti grida, che partivano dalla camera di Don Bosco. Balzò subito di letto e stette ad ascoltare. Don Bosco, con voce soffocata dal singhiozzo gridava:
            – Ohimè! ohimè! aiuto! aiuto!
            Viglietti senza più entrò e:
            – Oh Don Bosco, disse, si sente male?
            – Oh Viglietti! rispose svegliandosi. No, non sto male; ma non poteva proprio più respirare, sai. Ma basta: ritorna tranquillo a letto e dormi.
            Al mattino, quando Viglietti secondo il solito gli portò dopo la Messa il caffè:
            – Oh Viglietti! prese a dire, non ne posso proprio più, ho lo stomaco tutto rotto dalle grida di questa notte. Sono quattro notti consecutive che faccio sogni, i quali mi costringono a gridare e mi stancano all’eccesso. Quattro notti fa io vedeva una lunga schiera di Salesiani che andavano tutti uno dietro all’altro, portando ciascuno un’asta, in cima alla quale stava un cartello e sul cartello un numero stampato. Si leggeva in uno 73, in un altro 30, in un terzo 62 e così via. Dopo che furono passati molti, in cielo apparve la luna, nella quale di mano in mano che compariva un Salesiano, si vedeva una cifra non mai maggiore di 12, e dietro venivano tanti punti neri. Tutti i Salesiani da me visti andarono a sedersi ciascuno sopra una tomba preparata.
            Ed ecco la spiegazione datagli di quello spettacolo. Il numero che stava sui cartelli era il numero degli anni di vita destinato a ciascuno; l’apparire della luna in varie forme e fasi, indicava il mese ultimo di vita; i punti neri erano i giorni del mese, in cui sarebbero morti. Più e più ne vedeva talvolta riuniti in gruppi: erano quelli che dovevano morire insieme, in un medesimo giorno. Se avesse voluto narrare minutamente tutte le cose e le circostanze accessorie, assicurò che avrebbe impiegato almeno una decina di giorni interi.

Assiste a un conciliabolo di demoni
            Tre notti fa, continuò, sognai di nuovo. Ti racconterò in breve. Mi parve di essere in una gran sala, dove diavoli in gran numero tenevano congresso e trattavano del modo di sterminare la Congregazione Salesiana. Sembravano leoni, tigri, serpenti e altre bestie; ma la loro figura era come indeterminata e si avvicinava piuttosto alla figura umana. Parevano ombre, che ora si abbassavano e ora si alzavano, si accorciavano, si stendevano, come farebbero molti corpi che dietro avessero un lume trasportato or da una parte or dall’altra, ora abbassato al suolo e ora sollevato. Ma quella fantasmagoria metteva spavento.
            Or ecco uno dei demoni avanzarsi e aprire la seduta. Per distruggere la Pia Società propose un mezzo: la gola. Fece vedere le conseguenze di questo vizio: inerzia per il bene, corruzione dei costumi, scandalo, nessuno spirito di sacrificio, nessuna cura dei giovani… Ma un altro diavolo gli rispose:
            – Il tuo mezzo non è generale ed efficace, né si possono assalire con esso tutti i membri insieme, perché la mensa dei religiosi sarà sempre parca e il vino misurato: la regola fissa il loro vitto ordinario: i Superiori invigilano per impedire che succedano disordini. Chi eccedesse talvolta nel mangiare e nel bere, invece di scandalizzare, farebbe piuttosto ribrezzo. No, non è questa l’arma per combattere i Salesiani; procurerò io un altro mezzo, che sarà più efficace e ci farà ottenere meglio il nostro intento: l’amore alle ricchezze. In una Congregazione religiosa, quando c’entra l’amore alle ricchezze, c’entra insieme l’amore alle comodità, si cerca ogni via per avere un peculio, si rompe il vincolo della carità, pensando ognuno a sé stesso, si trascurano i poveri per occuparsi solo di quelli che hanno fortuna, si ruba alla Congregazione…
            Colui voleva continuare, ma sorse un terzo demonio.
            – Ma che gola! esclamò. Ma che ricchezze! Fra i Salesiani l’amore delle ricchezze può vincere pochi. Sono tutti poveri i Salesiani; hanno poche occasioni di procurarsi un peculio. In generale poi essi sono così costituiti e sono così immensi i loro bisogni per i tanti giovani e per le tante case, che qualunque somma anche grossa verrebbe consumata. Non è possibile che tesoreggino. Ma ho un mezzo io, infallibile, per guadagnare a noi la Società Salesiana, e questo è la libertà. Indurre quindi i Salesiani a sprezzare le Regole, a rifiutare certi uffizi come pesanti e poco onorifici, spingerli a fare scismi dai loro Superiori con opinioni diverse, ad andare a casa col pretesto d’inviti e simili.
            Mentre i demoni parlamentavano, Don Bosco pensava: – Io sto bene attento, sapete, a quello che andate dicendo. Parlate, parlate pure, che così potrò sventare le vostre trame.
            Intanto saltava su un quarto demonio e:
            – Ma che! gridò. Armi spezzate le vostre! I Superiori sapranno frenare questa libertà, scacceranno via dalle case chi osasse dimostrarsi ribelle alle Regole. Qualcheduno forse sarà trascinato dall’amore di libertà, ma la gran maggioranza si manterrà nel dovere. Io, ho un mezzo adattato per guastar tutto fin dalle fondamenta; un mezzo tale che a stento i Salesiani se ne potranno guardare: sarà proprio un guasto in radice. Ascoltatemi con attenzione. Persuaderli che l’essere dotto è quello che deve formare la loro gloria principale. Quindi indurli a studiare molto per sé, per acquistare fama, e non per praticare quello che imparano, non per usufruire della scienza a vantaggio del prossimo. Perciò boria nelle maniere verso gl’ignoranti e i poveri, poltroneria nel sacro ministero. Non più oratorii festivi, non più catechismi ai fanciulli, non più scuolette basse per istruii e i poveri ragazzi abbandonati, non più le lunghe ore di confessionale. Terranno solo la predicazione, ma rara e misurata e questa sterile, perché fatta a sfogo di superbia col fine di avere le lodi degli uomini e non di salvare anime.
            La proposta di costui fu accolta con applausi generali. Allora Don Bosco intravide il giorno in cui i Salesiani potrebbero darsi a credere che il bene della Congregazione e il suo onore dovesse unicamente consistere nel sapere, e paventò che non solo così praticassero, ma anche predicassero a gran voce doversi così praticare.
            Anche stavolta Don Bosco se ne stava in un angolo della sala ad ascoltare e a vedere tutto, quando uno dei demoni lo scoperse e gridando lo indicò agli altri. A quel grido, tutti si avventarono contro di lui urlando:
            – La faremo finita! Era una ridda infernale di spettri, che lo urtavano, lo afferravano per le braccia e per la persona, ed egli a gridare: Lasciatemi! Aiuto! – Finalmente si svegliò con lo stomaco tutto sconquassato dal molto gridare.

Leoni, tigri e mostri vestiti da agnelli
            La notte seguente s’avvide che il demonio aveva assalito i Salesiani nel punto più essenziale, spingendoli alla trasgressione delle Regole. Fra essi gli si parava innanzi, distintamente chi le osservava e chi non le osservava.
            Nella notte ultima poi il sogno era stato spaventevole. Don Bosco vedeva un grosso gregge di agnelli e di pecore che raffiguravano altrettanti Salesiani. Egli si avvicinò cercando di accarezzare gli agnelli; ma s’accorse che la loro lana invece di essere lana d’agnelli, faceva solo da copertura, nascondendo leoni, tigri, cani arrabbiati, porci, pantere, orsi, e ognuno aveva ai fianchi un mostro brutto e feroce. In mezzo al gregge stavano alcuni radunati a consiglio. Don Bosco inosservato si avvicinò ad essi per udire che cosa dicessero: concertavano il modo di distruggere la Congregazione Salesiana. Uno diceva:
            – Bisogna scannarli i Salesiani.
            E un altro sghignazzando soggiungeva:
            – Bisogna strangolarli.
            Ma sul più bello tino di loro vide Don Bosco là vicino che ascoltava. Diede l’allarme e tutti a una voce gridarono che bisognava cominciare da Don Bosco. Ciò detto, gli si avventarono contro come per strozzarlo. In quel punto egli mandò il grido che svegliò Viglietti. Un’altra cosa oltre le violenze diaboliche opprimeva allora il suo spirito: aveva veduto su quel gregge spiegarsi una grande insegna, che portava scritto: BESTIIS COMPARATI SUNT (sono paragonati alle bestie). Raccontato questo, chinò il capo e piangeva.
            Viglietti gli prese la mano e stringendosela al cuore:
            – Ah! Don Bosco, gli disse, noi però con l’aiuto di Dio le saremo sempre fedeli e buoni figliuoli, non è vero?
            – Caro Viglietti, rispose, sta’ buono e preparati a vedere gli avvenimenti. Questi sogni io te li ho appena accennati; che se ti dovessi narrare particolareggiatamente ogni cosa, ne avrei per molto tempo ancora. Quante cose vidi! Ci sono alcuni nelle nostre case che non arriveranno più a far la novena del Santo Natale. Oh se potessi parlare ai giovani, se mi reggessero le forze per intrattenermi con essi, se potessi girare per le case, fare quello che facevo una volta, rivelare a ciascuno lo stato della sua coscienza, come l’ho visto nel sogno e dire a certi tali: Rompi il ghiaccio, fa’ una volta una buona confessione! Essi mi risponderebbero: Ma io mi sono confessato bene! Invece io potrei replicare, dicendo loro quello che hanno taciuto le in modo che non oserebbero più aprir bocca. Anche certi Salesiani, se potessi far giungere loro una mia parola, vedrebbero il bisogno che hanno di aggiustare le proprie partite rifacendo le confessioni. Vidi chi osservava le Regole e chi no. Vidi molti giovani che andranno a S. Benigno, si faranno Salesiani e poi defezioneranno. Defezioneranno anche certuni che ora sono già Salesiani. Vi saranno di quelli che vorranno soprattutto la scienza che gonfia, che procaccia foro le lodi degli uomini e che li rende sprezzanti dei consigli di chi essi credono da meno di loro per sapere…
            A questi affliggenti pensieri s’intrecciavano provvidenziali consolazioni, che gli rallegravano il cuore. La sera del 3 dicembre giungeva all’Oratorio il Vescovo di Para, cioè del paese centrale nel sogno sulle Missioni. E giorno dopo diceva a Viglietti:
            – Come è grande la Provvidenza! Senti, e poi di’ se non siamo protetti da Dio. Don Albera mi scriveva di non poter più andare avanti e abbisognargli subito mille franchi; nel giorno stesso una signora di Marsiglia, che sospirava di rivedere tiri suo fratello religioso a Parigi, contenta d’aver ottenuta la grazia dalla Madonna, portò mille franchi a Don Albera. Don Ronchail versa in gravi strettezze ed ha assolutamente bisogno di quattromila franchi; una signora scrive oggi stesso a Don Bosco che mette a sua disposizione quattromila franchi. Don Dalmazzo non sa più ove dare del capo per aver danaro; oggi una signora dona per la chiesa del Sacro Cuore una somma considerevolissima. – E poi il 7 dicembre vi fu la gioia per la consacrazione di monsignor Cagliero. Tutti questi fatti erano tanto più incoraggianti, perché segni visibili della mano di Dio nell’Opera del suo Servo.
(MB XVII 383-389)




San Francesco di Sales lo ammaestra. Futuro sulle vocazioni (1879)

Nel sogno profetico che Don Bosco racconta il 9 maggio 1879, San Francesco di Sales appare come premuroso maestro e consegna al Fondatore un libretto carico di avvertimenti per novizi, professi, direttori e superiori. La visione è dominata da due battaglie epiche: giovani e guerrieri prima, poi uomini armati e mostri, mentre lo stendardo di «Maria Auxilium Christianorum» garantisce la vittoria a chi lo segue. I sopravvissuti partono per Oriente, Nord e Mezzogiorno, prefigurando l’espansione missionaria salesiana. Le parole del Santo insistono su obbedienza, castità, carità educativa, amore al lavoro e temperanza, colonne indispensabili perché la Congregazione cresca, resista alle prove e lasci ai figli un’eredità di santità operosa. Si chiude con una bara, severo richiamo a vigilanza e preghiera.

            Checché sia di questo sogno [cura del mal d’occhi con sugo di cicoria], il Beato un altro ne ebbe dei soliti, che raccontò il 9 maggio. Assistette in esso alle lotte accanite che si sarebbero dovute affrontare dai chiamati alla Congregazione, ricevendo una serie di utili avvisi per tutti i suoi ed alcuni salutari consigli per l’avvenire.

            Grande e lunga battaglia di giovanetti contro guerrieri di vario aspetto, diverse forme, con armi strane. In fine rimasero pochissimi superstiti.
            Altra più accanita ed orribile battaglia avvenne tra mostri di forma gigantesca contro ad uomini di alta statura bene armati e bene esercitati. Essi avevano uno stendardo assai alto e largo, nel centro del quale stavano dipinte in oro queste parole: Maria Auxilium Christianorum (Maria Aiuto dei Cristiani). La pugna fu lunga e sanguinosa. Ma quelli che seguivano lo stendardo, furono come invulnerabili e rimasero padroni di una vastissima pianura. A costoro si congiunsero i giovanetti superstiti alla antecedente battaglia e tra tutti formarono una specie d’esercito aventi ognuno per arma nella destra il Santissimo Crocifisso, nella sinistra un piccolo stendardo di Maria Ausiliatrice modellato come si è detto sopra.
            I novelli soldati fecero molte manovre in quella vasta pianura, poi si divisero e partirono gli uni all’Oriente, alcuni pochi al Nord, molti al Mezzodì.
            Scomparsi questi, si rinnovarono le stesse battaglie, le stesse manovre e partenze per le stesse direzioni.
            Ho conosciuto alcuni delle prime zuffe: quelli che seguirono erano a me sconosciuti: ma essi davano a divedere che conoscevano me e mi facevano molte domande.
            Succedette poco dopo una pioggia di fiammelle splendenti che sembravano di fuoco di vario colore. Tuonò e poi si rasserenò il cielo e mi trovai in un giardino amenissimo. Un uomo che aveva la fisionomia di S. Francesco di Sales, mi offrì un libretto senza dirmi parola. Chiesi chi fosse.
            – Leggi nel libro – rispose.
            Aprii il libro, ma stentava a leggere. Potei però rilevare queste precise parole:
Ai Novizi: – Ubbidienza in ogni cosa. Coll’ubbidienza meriteranno le benedizioni del Signore e la benevolenza degli uomini. Colla diligenza combatteranno e vinceranno le insidie degli spirituali nemici.
Ai professi: – Custodire gelosamente la virtù della castità. Amare il buon nome dei confratelli e promuovere il decoro della Congregazione.
Ai Direttori: – Ogni cura, ogni fatica per osservare e far osservare le regole con cui ognuno si è consacrato a Dio.
Al Superiore: – Olocausto assoluto per guadagnare sé e i suoi soggetti a Dio.
            Molte altre cose erano stampate in quel libro, ma non potei più leggere, perché la carta apparve azzurra come l’inchiostro.
            – Chi siete voi? – ho di nuovo domandato a quell’uomo, che con sereno sguardo mi stava rimirando.
            – Il mio nome è noto a tutti i buoni e sono mandato per comunicarti alcune cose future.
            – Quali?
            – Quelle esposte e quelle che chiederai.
            – Che debbo fare per promuovere le vocazioni?
            – I Salesiani avranno molte vocazioni colla loro esemplare condotta, trattando con somma carità gli allievi, ed insistendo sulla frequente Comunione.
            – Che si deve osservare nell’accettazione dei novizi?
            – Escludere i pigri ed i golosi.
            – Nell’accettare ai voti?
            – Vegliare se vi sia garanzia sulla castità.
            – Come si potrà meglio conservare il buono spirito nelle nostre case?
            – Scrivere, visitare, ricevere e trattare con benevolenza; e ciò con molta frequenza da parte dei Superiori.
            – Come dobbiamo regolarci nelle Missioni?
            – Mandare individui sicuri nella moralità; richiamare coloro che ne lasciassero travedere grave dubbio; studiare e coltivare le vocazioni indigene.
            – Cammina bene la nostra Congregazione?
– Qui iustus est justificetur adhuc (Chi è giusto sarà ancora giustificato). Non progredi est regredi (Non andare avanti significa tornare indietro). Qui perseveraverit, salvus erit (Chi persevera sarà salvato).
            – Si dilaterà molto?
            – Finché i Superiori faranno la parte loro, crescerà e niuno potrà arrestarne la propagazione.
            – Durerà molto tempo?
            – La Congregazione vostra durerà fino a che i soci ameranno il lavoro e la temperanza. Mancando una di queste due colonne, il vostro edifizio ruina schiacciando Superiori ed inferiori e i loro seguaci.
            In quel momento apparvero quattro individui portanti una bara mortuaria. Camminavano verso di me.
            – Per chi è questo? – io dissi.
            – Per te!
            – Presto?
            – Non domandarlo: pensa solo che sei mortale.
            – Che cosa mi volete significare con questa bara?
            – Che devi far praticare in vita quello che desideri che i tuoi figli debbano praticare dopo di te. Questa è l’eredità, il testamento che devi lasciare ai tuoi figli; ma devi prepararlo e lasciarlo ben compiuto e ben praticato.
            – Ci sovrastano fiori o spine?
            – Sovrastano molte rose, molte consolazioni, ma sono imminenti spine pungentissime che cagioneranno in tutti profondissima amarezza e cordoglio. Bisogna pregare molto.
            – A Roma dobbiamo andare?
            – Si, ma adagio, con la massima prudenza e con raffinate cautele.
            – Sarà imminente il fine della mia vita mortale?
            – Non ti curare di questo. Hai le regole, hai i libri, fa’ quello che insegni agli altri. Vigila.

            Volevo fare altre domande, ma scoppiò cupo il tuono con lampi e fulmini, mentre alcuni uomini, o dirò meglio orridi mostri, si avventarono contro di me per sbranarmi. In quell’istante una tetra oscurità mi tolse la vista di tutto. Mi credevo morto e mi son posto a gridare come frenetico. Mi svegliai e mi trovai ancor vivo, ed erano le quattro e tre quarti del mattino.
            Se c’è qualche cosa che possa essere vantaggioso, accettiamolo.
            In ogni cosa poi sia onore e gloria a Dio per tutti i secoli dei secoli.
(MB XIV, 123-125)

Foto nel frontespizio. San Francesco di Sales. Anonimo. Sacrestia del Duomo di Chieri




Doni dei giovani a Maria (1865)

Nel sogno narrato da Don Bosco nella Cronaca dell’Oratorio, datato 30 maggio, la devozione mariana diventa un vivido giudizio simbolico sui giovani dell’Oratorio: un corteo di ragazzi si presenta, ciascuno con un dono, davanti a un altare splendidamente ornato per la Vergine. Un angelo, custode della comunità, accoglie o respinge le offerte, svelandone il significato morale – fiori profumati o appassiti, spine di disobbedienza, animali che incarnano vizi gravi come impurità, furto e scandalo. Nel cuore della visione risuona il messaggio educativo di Don Bosco: umiltà, obbedienza e castità sono i tre pilastri per meritare la corona di rose di Maria.

Il Servo di Dio si consolava colla divozione a Maria SS., onorata nel mese di Maggio da tutta la comunità in modo speciale. Dei suoi discorsetti serali, la Cronaca ci ha conservato solamente quello del giorno 30 del mese, il quale però è sommamente prezioso.

30 maggio

            Vidi un grande altare dedicato a Maria ed ornato magnificamente. Vidi tutti i giovani dell’Oratorio i quali in processione si avanzavano verso di esso. Cantavano le lodi della Vergine Celeste, ma non tutti allo stesso modo benché cantassero la stessa canzone. Molti cantavano veramente bene e con precisione di battuta e di questi quale più forte e quale più piano. Altri cantavano con voci pessime e roche, altri stonavano, altri venivano innanzi silenziosi e si staccavano dalla fila, altri sbadigliavano e parevano annoiati; altri si urtavano e se la ridevano fra di loro. Tutti poi portavano dei doni da offrire a Maria. Tutti avevano un mazzo di fiori, quale più grosso e quale più piccolo e diversi gli uni dagli altri. Chi aveva un mazzo di rose, chi di garofani, chi di violette, ecc. Altri poi portavano alla Vergine dei doni proprio strani. Chi portava una testa di porcello, chi un gatto, chi un piatto di rospi, chi un coniglio, chi un agnello od altre offerte.
            Un bel giovane stava davanti all’altare, il quale a considerarlo attentamente si vedeva che dietro le spalle aveva le ali. Era forse l’Angelo Custode dell’Oratorio, il quale di mano in mano che i giovani offrivano i loro doni, li riceveva e li poneva sull’altare.
            I primi offrirono magnifici mazzi di fiori e l’angelo senza dir nulla li posò sull’altare. Molti altri porsero i loro mazzi. Esso li guardò; sciolse il mazzo, ne fece togliere alcuni fiori guasti che cacciò via, e ricomposto il mazzo, lo posò sull’altare. Ad altri che avevano nel loro mazzo fiori belli ma senza odore, come sarebbero le dalie, le camelie, ecc. l’Angelo fece togliere via anche questi, perché Maria vuol la realtà e non l’apparenza. E così rifatto il mazzo, l’Angelo l’offerse alla Vergine. Molti tra i fiori avevano delle spine, poche o molte, ed altri dei chiodi, e l’Angelo tolse questi e quelle.
            Venne finalmente colui che portava il porcello e l’Angelo gli disse: – Hai tu coraggio di venir ad offrire questo dono a Maria? Sai che cosa significa il porco? Significa il brutto vizio dell’impurità, Maria che è tutta pura non può sopportare questo peccato. Ritirati adunque, che non sei degno di stare davanti a lei.
            Vennero gli altri che avevano un gatto e l’Angelo disse loro:
            – Anche voi osate portare a Maria questi doni? Sapete che cosa significa il gatto? Esso è figura del furto e voi l’offrite alla Vergine? Sono ladri coloro che prendono danari, roba, libri ai compagni, coloro che rubano commestibili all’Oratorio, che stracciano le vesti per dispetto, che sciupano i denari dei parenti non studiando. – E li fece ritirare anch’essi in disparte.
            Vennero coloro che avevano i piatti di rospi e l’Angelo guardandoli sdegnato:
            – I rospi simboleggiano i vergognosi peccati di scandalo e voi venite ad offrirli alla Vergine? Andate indietro; ritiratevi cogli altri indegni. – E si ritirarono confusi.
            Alcuni s’avanzavano con un coltello piantato nel cuore. Quel coltello significava i sacrilegi. E l’Angelo disse loro:
            – Non vedete che avete la morte nell’anima? che se siete in vita è una speciale misericordia di Dio? altrimenti sareste perduti. Per carità fatevelo cavare quel coltello! – Ed anche costoro furono respinti.
            A poco a poco tutti gli altri giovani si avvicinarono. Chi offrì agnelli, chi conigli, chi pesci, chi noci, chi uva, ecc., ecc. L’Angelo accettò tutto e mise tutto sull’altare. E dopo aver così divisi i giovani, i buoni dai cattivi, fece schierare tutti coloro i cui doni erano stati accetti a Maria, davanti all’altare; e coloro che erano stati messi da parte furono con mio dolore molto più numerosi di quello che credeva.
            Allora da una parte e dall’altra dell’altare comparvero due altri angioli, i quali sorreggevano due ricchissime ceste piene di magnifiche corone, composte di rose stupende. Queste rose non erano propriamente rose terrene, sebbene come artificiali, simbolo dell’immortalità.
            E l’Angelo Custode prese quelle corone una per una e ne incorono tutti i giovani che erano schierati innanzi all’altare. Fra queste corone ve ne erano delle più grandi e delle più piccole, ma tutte di una bellezza ammirabile. Notate anche che non v’erano i soli attuali giovani della casa, ma sebbene molti altri che io non aveva mai visti. Or bene accadde una cosa mirabile! Vi erano dei giovani così brutti di fisonomia che quasi mettevano schifo e ribrezzo; a costoro toccarono le più belle corone, segno che ad un esteriore così brutto suppliva il dono, la virtù della castità, in grado eminente. Molti altri avevano, pure la stessa virtù, ma in grado meno eminente. Molti si distinguevano per altre virtù, come l’obbedienza, l’umiltà, l’amor di Dio, e tutti in proporzione dell’eminenza di queste virtù avevano proporzionate corone. E l’Angelo disse loro:
            – Maria oggi ha voluto che voi foste incoronati di così belle rose. Ricordatevi però di continuare in modo che non vi vengano tolte. Tre sono i mezzi per conservarle. Praticate: 1° L’umiltà; 2° l’ubbidienza; 3° la castità: tre virtù le quali vi renderanno sempre accetti a Maria e un giorno vi faranno degni di ricevere una corona infinitamente più bella di questa.
            Allora i giovani incominciarono a intonare davanti all’altare l’Ave, Maris stella (Ave stella del mare).
            E, cantata la prima strofa, in processione come erano venuti, si mossero per partire, mettendosi a cantare la canzone: Lodate, Maria! con voci così forti che io ne restai sbalordito e meravigliato. Li seguii ancora per qualche tratto e poi tornai indietro per vedere i giovani che l’Angelo aveva messi da parte: ma più non li vidi.
            Miei cari! Io so quali furono quelli incoronati e quali quelli scacciati dall’Angelo. Lo dirò ai singoli, acciocché procurino di portare alla Vergine doni che essa si degni di accettare.
            Intanto alcune osservazioni. -La prima: Tutti portavano fiori alla Vergine, e dei fiori ve ne erano di tutte le qualità, ma osservai che tutti chi più, chi meno, in mezzo ai fiori avevano delle spine. Pensai e ripensai che cosa significassero quelle spine e trovai che realmente significavano la disobbedienza. Tener danari senza licenza e senza volerli consegnare al Prefetto; domandar permesso di andare in un sito e poi andare in un altro; andare a scuola più tardi e quando è già qualche tempo che gli altri vi si trovano; fare insalate e altre merende clandestine; andare nelle camerate altrui quando assolutamente è proibito, qualunque motivo o pretesto possiate avere; alzarsi tardi alla levata; lasciare le pratiche di pietà prescritte; ciarlare quando è tempo di far silenzio; comprar libri senza farli vedere; mandar lettere senza licenza, per mezzo di terza persona, acciocché non siano viste e riceverne collo stesso mezzo; far contratti, compre e vendite, l’un l’altro; ecco che cosa significano le spine. Molti di voi domanderanno: è dunque peccato trasgredire le regole della casa? Pensai già seriamente a questa questione e vi rispondo assolutamente di sì. Non vi dico sia grave o leggero: bisogna regolarsi dalle circostanze, ma peccato lo è. Qualcheduno mi dirà; ma nella legge di Dio non vi è che noi dobbiamo obbedire alle regole della casa! Ascoltate: vi è nei comandamenti: – Onora il padre e la madre! – Sapete che cosa vogliono dire quelle parole padre e madre? Comprendono anche chi ne fa le veci. Non sta anche scritto nella S. Scrittura: Oboedite praepositis vestris? (obbedite ai vostri superiori, Eb 13,17) Se voi dovete obbedire, è naturale che essi abbiano a comandare. Ecco l’origine delle regole d’un Oratorio, ed ecco se siano obbligatorie sì o no.
            Seconda osservazione. – Alcuni avevano in mezzo ai loro fiori dei chiodi, chiodi che avevano servito ad inchiodare il buon Gesù. E come? Si incomincia sempre dalle cose piccole e poi si viene alle grandi. Quel tale voleva aver danari per secondare i suoi ghiribizzi; quindi, per spenderli a modo suo, non volle consegnarli; poi incominciò a vendere i suoi libri di scuola e finì col rubacchiare danari e roba ai compagni. Quell’altro voleva solleticare la gola, quindi bottiglie, ecc. poi si permise licenze, insomma cadde in peccato mortale. Ecco come si trovarono in quei mazzi i chiodi, ecco come il buon Gesù venne crocifisso. Lo dice l’Apostolo che i peccati tornano a porre in croce il Salvatore: Rursus crucifigentes filium Dei (crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio, Eb 6,6).
            Terza osservazione. – Molti giovani avevano tra i fiori freschi e odorosi dei loro mazzi anche dei fiori guasti e marci o dei fiori belli senza odore. Quelli significavano le opere buone ma fatte in peccato mortale, opere che a nulla giovano per accrescere i meriti loro: i fiori poi senza odore sono le opere buone ma fatte per fini umani, per ambizione, solamente per piacere ai maestri e ai superiori. Quindi l’Angelo li rimproverava che osassero portare a Maria simili offerte e li rimandava indietro ad accomodare il loro mazzo. Essi si ritiravano, lo disfacevano, toglievano i fiori guasti e poi, ordinati di nuovo i fiori, li legavano come prima e li riportavano all’Angelo il quale allora li accettava e li poneva sulla mensa. Questi poi nel ritornare non seguivano più alcun ordine, ma appena erano pronti, chi prima chi dopo, ciascuno riportava il suo mazzo e si andava a collocare con quelli che dovevano ricevere la corona.
            Io vidi in questo sogno tutto ciò che fu e che sarà dei miei giovani. A molti l’ho già detto, agli altri lo dirò. Voi intanto procurate che questa Vergine Celeste da voi riceva sempre doni che non abbiano mai ad essere rifiutati.
(MB VIII, 129-132)

Foto di apertura: Carlo Acutis durante una visita al Santuario mariano di Fátima.




Via all’inferno proponimenti inefficaci (1873)

San Giovanni Bosco riferisce in una “buona notte” il frutto di una lunga supplica alla Madonna Ausiliatrice: comprendere la causa principale della dannazione eterna. La risposta, ricevuta in ripetuti sogni, è sconvolgente nella sua semplicità: la mancanza di un fermo, concreto proponimento al termine della Confessione. Senza una decisione sincera di cambiare vita, anche il sacramento diventa sterile e i peccati si ripetono.

            Un monito solenne: – Perché tanti vanno alla perdizione?… Perché non fanno buoni propositi quando si confessano.

            La sera del 31 maggio 1873, dopo le preghiere, nel dare la “buona notte” agli alunni, il Santo faceva quest’importante dichiarazione, dicendola «il risultato delle sue povere preghiere», e «che veniva dal Signore!».

            In tutto il tempo della novena di Maria Ausiliatrice, anzi in tutto il mese di maggio, nella Messa e nelle altre mie preghiere ho sempre domandato, al Signore ed alla Madonna, la grazia che mi facessero un po’ conoscere che cosa mai fosse che manda più gente all’Inferno. Adesso non dico se questo venga o no dal Signore; solamente posso dire che quasi tutte le notti sognava che questa era la mancanza di fermo proponimento nelle Confessioni. Quindi mi pareva veder dei giovani che uscivano di chiesa venendo da confessarsi, ed avevano due corna.
            – Come va questo? diceva tra me stesso.
            – Eh! questo proviene dall’inefficacia dei proponimenti fatti nella Confessione! E questo è il motivo per cui tanti vanno a confessarsi anche sovente, ma non si emendano mai, confessano sempre le medesime cose. Ci sono di quelli (adesso faccio dei casi ipotetici, non mi servo di nulla di confessione, perché c’è il segreto), ci sono di quelli che al principio dell’anno avevano un voto scadente e adesso hanno il medesimo voto. Altri mormoravano in principio dell’anno e continuano sempre nelle medesime mancanze.
            Io ho creduto bene di dirvi questo, perché questo si è il risultato delle povere preghiere di Don Bosco; e viene dal Signore.

            Di questo sogno non tracciò in pubblico altri dettagli, ma senza dubbio se ne servi privatamente per incoraggiare ed ammonire; e per noi anche quel poco che disse, e la forma colla quale lo disse, resta un grave ammonimento da ricordar di frequente ai giovinetti.
(MB X, 56)




La purezza e mezzi per conservarla (1884)

In questo sogno di Don Bosco appare un giardino paradisiaco: un declivio verde, alberi festonati e, al centro, un immenso tappeto candido ornato di iscrizioni bibliche che esaltano la purezza. Sul bordo siedono due fanciulle dodicenni, vestite di bianco con cinture rosse e corone floreali: personificano Innocenza e Penitenza. Con voce soave dialogano sul valore dell’innocenza battesimale, sui pericoli che la minacciano e sui sacrifici necessari per custodirla: preghiera, mortificazione, obbedienza, purezza dei sensi.

            Gli parve di avere dinanzi un’immensa incantevole ripa verdeggiante, di dolce pendio e tutta spianata. Alle falde questo prato formava come uno scalino piuttosto basso, dal quale si saltava sulla stradicciola ove stava D. Bosco. Sembrava un Paradiso terrestre splendidamente illuminato da una luce più pura e più viva di quella del sole. Era tutto coperto di erbe verdeggianti smaltate da mille ragioni di fiori e ombreggiato da un numero grandissimo di alberi che avviticchiandosi coi rami a vicenda, li stendevano a guisa di ampli festoni.
            In mezzo al giardino fino alla proda di esso era steso un tappeto di un candore magico, ma così lucido, che abbagliava la vista; era largo più miglia. Presentava la magnificenza di uno stato reale. Come ornamento nella fascia che correva lungo l’orlo aveva varie iscrizioni e caratteri d’oro. Da un lato si leggeva: Beati immaculati in via, qui ambulant in lege Domini (Beato chi è integro nella sua via e cammina nella legge del Signore, Ps 118,1). Sull’altro lato: Non privabit bonis eos, qui ambulant in innocentia (Non rifiuta il bene a chi cammina nell’innocenza, Ps 83,13). Sul terzo lato: Non confundentur in tempore malo: in diebus famis saturabuntur (Non si vergogneranno nel tempo della sventura e nei giorni di carestia saranno saziati, Ps 37,19). Sul quarto: Novit Dominus dies immaculatorum et haereditas eorum in aeternum erit (Il Signore conosce i giorni degli uomini integri: la loro eredità durerà per sempre, Ps 37,18).
            Ai quattro angoli dello strato intorno ad un magnifico rosone stavano quattro altre iscrizioni: Cum simplicibus sermocinatio eius (La sua amicizia è per i giusti, Prov 3,32). – Proteget gradientes simpliciter (È scudo a coloro che agiscono con rettitudine, Prov 2,7) – Qui ambulant simpliciter, ambulant confidenter (Chi cammina nell’integrità va sicuro, Prov 10,9) – Voluntas eius in iis, qui simpliciter ambulant (Egli si compiace di chi ha una condotta integra, Prov 11,20).
            In mezzo poi allo strato questa ultima scritta: Qui ambulant simpliciter, salvus erit (Chi procede con rettitudine sarà salvato, Prov. 28,18).
            Nel mezzo della ripa sul bordo superiore del candido tappeto si innalzava un gonfalone bianchissimo sul quale si leggeva pure a caratteri d’oro: Fili mi, tu semper mecum es et omnia mea tua sunt (Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, Lc 15,31).
            Se D. Bosco era meravigliato alla vista di quel giardino, molto più attiravano la sua attenzione due vaghe fanciulle in sui dodici anni, sedute sul margine del tappeto ove la riva faceva scalino. Una celestiale modestia spirava da tutto il loro grazioso contegno. Dai loro occhi costantemente fissi in alto traspariva non solo un’ingenua semplicità di colomba, ma raggiava una vivezza d’amore purissimo, una gioia di felicità celestiale. La loro fronte aperta e serena sembrava la sede del candore e della schiettezza, sulle loro labbra serpeggiava un dolce incantevole sorriso. I loro lineamenti manifestavano un cuore tenero ed ardente. Le graziose movenze della persona loro davano una tale aria di sovrumana grandezza e nobiltà che faceva contrasto colla loro giovinezza.
            Una veste candidissima scendeva loro fino al piede, sulla quale non si scorgeva né macchia, né ruga, e neppure un granello di polvere. I fianchi avevano cinti con una cintura rossa fiammante con bordi d’oro. Su questa spiccava un fregio come nastro composto di gigli, di violette e di rose. Un nastro simile, come fosse un monile, portavano al collo, composto degli stessi fiori, ma di forma diversa. Come braccialetti avevano ai polsi una fascetta di margheritine bianche. Tutte queste cose e questi fiori avevano forma, colori, bellezze che riesce impossibile il descriverli. Tutte le pietre più preziose del mondo incastonate con l’arte più squisita parrebbero fango al confronto.
            Le scarpe candidissime erano bordate di nastro pur bianco filettato d’oro, che faceva un bel nodo nel mezzo. Bianco pure con piccoli fili d’oro era il cordoncino col quale erano legate.
            La loro lunga capigliatura era stretta da una corona, che cingeva la fronte, e così folta che faceva onda sotto la corona e ricadendo sulle spalle finiva inanellata a ricci.
            Esse avevano incominciato un dialogo: ora si alternavano parlando ora si interrogavano ed ora esclamavano. Ora ambedue sedevano; ora una sola stava seduta e l’altra in piedi; ed ora passeggiavano. Non uscivano però mai fuori da quel candido tappeto e non toccarono mai né erba né fiori. D. Bosco nel suo sogno stava come spettatore. Né esso rivolse parole a quelle fanciulle, né le fanciulle si sono accorte della sua presenza, e l’una diceva con soavissimo accento:
            – Che cosa è l’innocenza? Lo stato fortunato della grazia santificante conservato mercè la costante ed esatta osservanza della divina legge.
            E l’altra donzella con voce non meno dolce:
            – E la conservata purità dell’innocenza è fonte ed origine di ogni scienza e di ogni virtù.
            La prima:
            – Quale lustro, quale gloria, quale splendore di virtù vivere bene tra i cattivi, e tra i malvagi maligni conservare il candore dell’innocenza e la lenità dei costumi.
            La seconda si alzò in piedi e fermandosi vicino alla compagna:
            – Beato quel giovinetto che non va dietro ai consigli degli empi e non si mette nella via dei peccatori, ma suo diletto è la legge del Signore, che egli medita di giorno e di notte. Ed ei sarà come albero piantato lungo la corrente delle acque della grazia del Signore, il quale darà a suo tempo il frutto copioso di buone opere: per soffiar di vento non cadrà di lui foglia di sante intenzioni e di merito e tutto quello che farà avrà prospero effetto, ed ogni circostanza della vita coopererà per accrescere il suo premio. – Così dicendo accennava gli alberi del giardino carichi di frutti bellissimi che spandevano per l’aria un profumo delizioso, mentre torrentelli limpidissimi che ora scorrevano fra due sponde fiorite, ora cadevano da piccole cascatelle, ed ora formavano laghetti, bagnavano i loro fusti, con un mormorio che pareva il suono misterioso di musica lontana.
            La prima donzella replicò:
            – Esso è come un giglio tra le spine che Iddio coglie nel suo giardino per porlo come ornamento sovra il suo cuore; e può dire al suo Signore: Il mio Diletto appartiene a me ed io a lui: perché ei si pasce in mezzo ai gigli. – Così dicendo accennava ad un gran numero di gigli vaghissimi che alzavano il candido capo tra le erbe e gli altri fiori, mentre mostrava in lontananza un’altissima siepe verdeggiante che circondava tutto il giardino. Questa era fitta di spine e dietro si scorgevano vagolare come ombre mostri schifosi che tentavano penetrare nel giardino, ma erano impediti dalle spine di quella siepe.
            – É vero! Quanta verità è nelle tue parole! soggiunge la seconda. Beato quel giovanetto che sarà trovato senza colpa! Ma chi sarà costui e gli daremo lode? Perché egli ha fatto cose mirabili in vita sua. Egli fu trovato perfetto ed avrà gloria eterna. Egli poteva peccare e non peccò; far del male e non lo fece. Per questo i beni di lui sono stabiliti nel Signore e le sue opere buone saranno celebrate da tutte le congregazioni dei Santi.
            – E sulla terra quale gloria Dio ad essi riserva! Li chiamerà, loro farà un posto nel suo santuario, li farà ministri dei suoi misteri, e un nome sempiterno darà loro che mai perirà, concluse la prima.
            La seconda si alzò in piedi ed esclamò:
            – Chi può descrivere la bellezza di un innocente? Quest’anima è vestita splendidamente come una di noi, ornata della bianca stola del santo Battesimo. Il suo collo, le sue braccia risplendono di gemme divine, ha in dito l’anello dell’alleanza con Dio. Essa cammina leggiera nel suo viaggio per l’eternità. Gli si para innanzi una via tempestata di stelle… È tabernacolo vivente dello Spirito Santo. Col sangue di Gesù che scorre nelle sue vene e imporpora le sue guance e le sue labbra, colla Santissima Trinità nel cuore immacolato manda intorno a sé torrenti di luce che la vestono nel fulgore del sole. Dall’alto piovono nembi di fiori celesti che riempiono l’aria. Tutto intorno si spandono le soavi armonie degli angioli che fanno eco alla sua preghiera. Maria Santissima gli sta a fianco pronta a difenderla. Il cielo è aperto per lei. Essa è fatta spettacolo alle immense legioni dei Santi e degli Spiriti beati, che la invitano agitando la loro palme. Iddio tra gli inaccessibili fulgori del suo trono di gloria colla destra le addita il seggio che le ha preparato, mentre colla sinistra tiene la splendida corona che dovrà incoronarla per sempre. L’innocente è il desiderio, il gaudio, il plauso del paradiso. E sul suo volto è scolpita una gioia ineffabile. É figlio di Dio. Dio è il Padre suo. Il paradiso è la sua eredità. Esso è continuamente con Dio. Lo vede, lo ama, lo serve, lo possiede, lo gode, ha un raggio delle celesti delizie: è in possesso di tutti i tesori, di tutte le grazie, dì tutti i segreti, dì tutti i doni e di tutte le sue perfezioni e di tutto Dio stesso.
            – Ed è perciò che l’innocenza nei Santi dell’Antico Testamento nei Santi del Nuovo, e specialmente nei Martiri si presenta così gloriosa. Oh Innocenza quanto sei bella! Tentata cresci in perfezione, umiliata ti levi più sublime, combattuta esci trionfante, uccisa voli alla corona. Tu libera nella schiavitù, tranquilla e sicura nei pericoli, lieta tra le catene. I potenti t’inchinano, i principi ti accolgono, i grandi ti cercano. I buoni ti obbediscono, i malvagi t’invidiano, i rivali ti emulano, gli avversari soccombono. E tu riuscirai sempre vittoriosa, anche allorché gli uomini ti avessero condannata ingiustamente!
            Le due donzelle fecero un istante di pausa, come per prendere respiro dopo uno sfogo così affocato e quindi si presero per mano e si guardarono:
            – Oh se i giovani conoscessero qual prezioso tesoro è l’innocenza, come fin dal principio della loro vita custodirebbero gelosamente la stola del santo battesimo! Ma purtroppo non riflettono e non pensano che cosa voglia dire macchiarla. L’innocenza è un liquore preziosissimo.
            – Ma è chiuso in un vaso di fragile creta e se non vien portato con gran cautela si spezza con tutta facilità.
            – L’innocenza è una gemma preziosissima.
            – Ma se non se ne conosce il valore, si perde e con facilità si tramuta con oggetto vile.
            – L’innocenza è tino specchio d’oro che ritrae le sembianze di Dio.
            – Ma basta un po’ di aria umida per irrugginirlo e bisogna tenerlo involto in un velo.
            – L’innocenza è un giglio.
            – Ma il solo tocco di una ruvida mano lo sciupa.
            – L’innocenza è una candida veste. Omni tempore sint vestimenta tua candida (In ogni tempo siano candide le tue vesti, Sir 9,8).
            – Ma una macchia sola basta per deturparla, quindi bisogna camminare con grande precauzione.
            – L’innocenza e l’integrità resta violata se viene imbrattata da una sola macchia e perde il tesoro della sua grazia.
            – Basta un solo peccato mortale.
            – E perduta una volta è perduta per sempre.
            – Quale sventura tante innocenze che si perdono ogni giorno! Allorché un giovanetto cade in peccato, il paradiso si chiude: la Vergine Santissima e l’Angelo custode scompaiono, cessano le musiche, si ecclissa la luce. Dio non è più nel suo cuore, si dilegua la via stellata che esso percorreva, cade e resta in un punto solo come isola in mezzo al mare, un mare di fuoco che si estende fino all’estremo orizzonte dell’eternità, che si inabissa fino alla profondità del caos. Sulla sua testa nel cielo scurissime guizzano, minacciose, le folgori della divina giustizia. Satana si è slanciato vicino a lui, lo ha caricato di catene, gli ha posto un piede sul collo, e col ceffo orribile sollevato in alto ha gridato: Ho vinto. Il tuo figlio è mio schiavo. Non è più tuo… È finita per lui la gioia. Se la giustizia di Dio in quel momento gli sottrae quell’unico punto sul quale sta, è perduto per sempre.
            – Ei può risorgere! La misericordia di Dio è infinita. Una buona confessione gli ridonerà la grazia e il titolo di figlio di Dio.
            – Ma non più l’innocenza! E quali conseguenze gli rimarranno del primo peccato! Ei conosce il male che prima non conosceva; sentirà terribili le prave inclinazioni; sentirà il debito enorme che ha contratto colla divina giustizia, si sentirà più debole nei combattimenti spirituali. Proverà ciò che prima non provava: vergogna, mestizia, rimorso.
            – E pensare che prima era detto di lui: Lasciate che i fanciulli vengano a me. Essi saranno come gli angeli di Dio in cielo. Figliuolo, donami il tuo cuore.
            – Ah un delitto spaventoso commettono quei disgraziati dei quali è colpa se un fanciullo perde l’innocenza. Ha detto Gesù: Chi scandalizzerà alcuno di questi piccolini che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina asinaia e che fosse sommerso nel profondo del mare. Guai al mondo per causa degli scandali. Non è possibile impedire gli scandali, ma guai a colui per colpa del quale viene lo scandalo. Guardatevi dal disprezzare alcuni di questi piccoli, poiché io vi fo sapere che i loro angioli nei cieli vedono perpetuamente il volto del padre mio che è nei Cieli e chiedono vendetta.
            – Disgraziati costoro! Ma non meno infelici quelli che si lasciano rubare l’innocenza.
            E qui ambedue si misero a passeggiare; il tema del loro discorso era qual fosse il mezzo per conservar l’innocenza.
            Una diceva:
            – È un grande errore che hanno nella testa i giovanetti, che cioè la penitenza debba solamente praticarsi da chi è peccatore. La penitenza è necessaria eziandio per conservare l’innocenza. Se S. Luigi non avesse fatto penitenza, sarebbe senz’altro caduto in peccato mortale. Ciò si dovrebbe predicare, inculcare, insegnare continuamente ai giovanetti. Quanti di più conserverebbero l’innocenza, mentre ora sono così pochi!
            – Lo dice l’Apostolo. Portando noi sempre per ogni dove la mortificazione di Gesù Cristo nel nostro corpo, affinché la vita ancor di Gesù si manifesti nei corpi nostri.
            – E Gesù santo, immacolato, innocente passò la vita sua in privazioni e dolori.
            – Così Maria Santissima, così tutti i Santi.
            – E fu per dare esempio a tutti i giovani. Dice S. Paolo: Se vivrete secondo la carne, morrete; se poi collo spirito darete morte alle azioni della carne, vivrete.
            – Dunque senza penitenza non si può conservar l’innocenza!
            – Eppure molti vorrebbero conservar l’innocenza e vivere in libertà.
            – Stolti! Non è scritto: Fu rapito, perché la malizia non alterasse il suo spirito e la seduzione non inducesse l’anima di lui in errore? Per questo l’affascinamento della vanità oscura il bene e la vertigine della concupiscenza sovverte l’animo innocente. Dunque due nemici hanno gli innocenti: le storte massime e i discorsi iniqui dei cattivi, e la concupiscenza. Non dice il Signore che la morte in giovanetta età è premio per l’innocente per toglierlo dai combattimenti? “Perché egli piacque a Dio, fu amato da lui e perché viveva tra i peccatori, altrove fu trasportato. Consumato egli in breve tempo compié una lunga carriera. Poiché era cara a Dio l’anima di lui, per questo Egli si affrettò di trarlo di mezzo alle iniquità. Fu rapito perché la malizia non alterasse il suo spirito, e la seduzione non inducesse l’anima di lui in errore”.
            – Fortunati i fanciulli se abbracceranno la croce della penitenza e con fermo proponimento diranno con Giobbe: Donec deficiam, non recedam ab innocentia mea (Fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità, Gb 27,5).
            – Dunque mortificazione nel superare la noia che essi provano nella preghiera.
            – E sta scritto: Psallam et intelligam in via immaculata. Quando venies ad me? (Agirò con saggezza nella via dell’innocenza: quando a me verrai?, Ps 100,2). Petite et accipietis (Chiedete e vi sarà dato, Gv 16,24). Pater Noster! (Padre nostro!).
            – Mortificazione nell’intelletto coll’umiliarsi, obbedire ai Superiori e alle regole.
            – E sta pure scritto: Si mei non fuerint dominati, tunc immaculatus ero et emundabor a delicto maximo (Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro da grave peccato, Ps 18,13). E questo è la superbia. Iddio ai superbi resiste e agli umili dà la grazia. Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato. Obbedite ai vostri prepositi.
            – Mortificazione nel dir sempre la verità, nel palesare i propri difetti, e i pericoli nei quali può uno trovarsi. Allora avrà sempre consiglio, specialmente dal confessore.
            – Pro anima tua ne confundaris dicere verum: per amor dell’anima tua non vergognarti di dire la verità (Sir 4,24). Perché c’è un rossore che tira seco il peccato, e c’è un rossore che tira seco la gloria e la grazia.
            – Mortificazione nel cuore frenando i suoi moti inconsulti, amando tutti per amor di Dio e staccandosi risolutamente da chi ci accorgiamo insidiare alla nostra innocenza.
            – L’ha detto Gesù. Se la tua mano o il tuo piede ti serve di scandalo, troncali e gettali via da te: è meglio per te giungere alla vita con un piede o una mano di meno, che con tutte due le mani e con tutti due i piedi essere gettato nel fuoco eterno. E se l’occhio tuo ti serve dì scandalo, cavatelo e gettalo via da te; è meglio per te l’entrare alla vita con un solo occhio che con due occhi essere gettato nel fuoco dell’inferno.
            – Mortificazione nel sopportare coraggiosamente e francamente gli scherni del rispetto umano. Exacuerunt, ut gladium, linguas suas: intenderunt arcum, rem amaram, ut sagittent in occultis immaculatum (Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare, per colpire di nascosto l’innocente, Ps 63,4-5).
            – E vinceranno questo maligno che schernisce temendo essere scoperto dai Superiori, col pensare alle terribili parole di Gesù: Chi si vergognerà di me e delle mie parole, si vergognerà di lui il Figliuolo dell’uomo quando verrà colla maestà sua e del Padre e dei santi Angeli.
            – Mortificazione negli occhi, nel guardare, nel leggere, rifuggendo da ogni lettura cattiva o inopportuna.
            – Un punto essenziale. Ho fatto patto cogli occhi miei di non pensare neppure ad una vergine. E nei salmi: Rivolgi gli occhi perché non vedano la vanità.
            – Mortificazione dell’udito e non ascoltare discorsi cattivi, o sdolcinati, o empi.
            – Si legge nell’Ecclesiastico: Saepi aures tuas spinis, linguam nequam non audire (Sir 28,28). Fa siepe di spine alle tue orecchie e non ascoltare la mala lingua.
            – Mortificazione nel parlare: non lasciarsi vincere dalla curiosità.
            – Sta pur scritto: Metti una porta ed un chiavistello alla tua bocca. Bada di non peccar colla lingua, onde tu non vada per terra a vista dei nemici, che ti insidiano e non sia insanabile e mortale la tua caduta (Sir 28,25-26).
            – Mortificazione di gola: non mangiare, non bere troppo.
            – Il troppo mangiare, il troppo bere trasse il diluvio universale sul mondo e il fuoco sopra Sodoma e Gomorra, e mille castighi sul popolo Ebreo.
            – Mortificarsi insomma nel soffrire ciò che ci accade lungo il giorno, freddo, caldo, e non cercare le nostre soddisfazioni. Mortificate le vostre membra terrene (Col, 3,5).
            – Ricordarsi di ciò che Gesù ha imposto: Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam quotidie et sequatur me (Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua, Lc 9,23).
            – E Dio stesso colla sua provvida mano cinge di croci e spine i suoi innocenti, come fece con Giobbe, Giuseppe, Tobia ed altri Santi. Quia acceptus eras Deo, necesse fuit, ut tentatio probaret te (Perché tu fossi accettato da Dio, era necessario che la tentazione ti mettesse alla prova, Tb 12,13).
            – La via dell’innocente ha le sue prove, i suoi sacrifici, ma ha la forza nella Comunione, perché chi si comunica sovente ha la vita eterna, sta in Gesù e Gesù in lui. Ei vive della stessa vita di Gesù, sarà da lui risuscitato nell’ultimo giorno. È questo il frumento degli eletti, il vino che fa germogliare i vergini. Parasti in conspectu meo mensam adversus eos, qui tribulant me.  (Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, Ps 23,5). Cadent a latere tuo mille et decem millia a dextris tuis, ad te autem non appropinquabunt (Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire, Ps 91,7).
            – E la Vergine dolcissima da lui amata è la Madre sua. Ego mater pulchrae dilectionis et timoris et agnitionis et sanctae spei. In me gratia omnis (per conoscere) viae et veritatis; in me omnis spes vitae et virtutis. (Sono la madre dell’amore, del timore, della scienza e della santa speranza. In me c’è tutta la grazia della via e della verità, Sir 24,24-25). Ego diligentes me diligo (Io amo coloro che mi amano, Pr 8,17). Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt (Chi mi fa conoscere avrà la vita eterna, Sir 24,31). Terribilis, ut castrorum acies ordinata (terribile come un vessillo di guerra, Ct 6,4).
            Le due donzelle allora si volsero e salivano lentamente la ripa. E l’una esclamava:
            – La salute dei giusti vien dal Signore: ed egli è il lor protettore nel tempo della tribolazione. Il Signore li aiuterà e li libererà; ci li trarrà dalla mano dei peccatori e li salverà perché in lui hanno sperato (Sal 36,39-40).
            – E l’altra proseguiva:
            – Dio mi cinse di robustezza e la via che io batto rendete immacolata.
            Giunte le due donzelle in mezzo a quel magnifico tappeto, si volsero.
            – Sì, gridò una, l’innocenza coronata dalla penitenza è la regina di tutte le virtù.
            E l’altra esclamò pure:
            – Quanto è gloriosa e bella la casta generazione! La memoria di lei è immortale ed è nota dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. La gente la imita quando ella è presente, e la desidera quando ella è partita pel cielo, e coronata trionfa nell’eternità, vinto il premio dei casti combattimenti. E quale trionfo! E quale gaudio! E quale gloria nel presentare a Dio immacolata la stola del santo battesimo dopo tanti combattimenti tra gli applausi, i cantici, il fulgore degli eserciti celesti!
            Mentre che così parlavano del premio che sta preparato per l’innocenza conservata per la penitenza, Don Bosco vide comparire schiere di angioli che scendendo si posavano su quel candido tappeto. E si univano a quelle due donzelle tenendo esse il posto di mezzo. Erano una gran moltitudine. E cantavano: Benedictus Deus et Pater Domini Nostri Jesu Christi, qui benedixit nos in omni benedictione spirituali in coelestibus in Christo; qui elegit nos in ipso ante mundi constitutionem, ut essemus sancti et immaculati in conspectu eius in charitate et praedestinavit nos in adoptionem per Jesum Christum (Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, Ef 1,3-5). Le due fanciulle si posero allora a cantare un inno stupendo, ma con tali parole e tali note che solo quegli angeli che erano più vicini al centro potevano modulare. Gli altri pure cantavano, ma Don Bosco non poteva sentire le loro voci, benché facessero gesti e muovessero le labbra atteggiando la bocca al canto.
            Cantavano le fanciulle: Me propter innocentiam suscepisti et confirmasti me in conspectu tuo in aeternum. Benedictus Dominus Deus a saeculo et usque in saeculum; fiat fiat! (Per la mia integrità tu mi sostieni e mi fai stare alla tua presenza per sempre. Sia benedetto il Signore, Dio d’Israele, da sempre e per sempre, Sal 40,13-14).
            Intanto alle prime schiere di Angioli se ne aggiungevano altre e poi altre continuamente. Il loro vestito era vario di colori, di ornamenti, diverso gli uni dagli altri e specialmente da quello delle due donzelle. Ma la ricchezza e la magnificenza era divina. La bellezza di ciascuno di costoro era quale mente umana non potrà mai in nessun modo concepirne un’ombra per quanto lontana. Tutto lo spettacolo di questa scena non si può descrivere, ma a forza di aggiungere parola a parola si può in qualche modo spiegarne confusamente il concetto.
            Finito il cantico delle due fanciulle, si udirono cantare tutti insieme un cantico immenso e così armonioso che l’eguale non sì è udito e mai si udirà sulla terra. Essi cantavano:
Ei, qui potens est vos conservare sine peccato et constituere ante conspectum gloriae suae immaculatos in exultatione, in adventu Domini nostri Jesu Christi: Soli Deo Salvatori nostro, per Jesum Christum Dominum nostrum, gloria et magnificentia, imperium et potestas ante omne saeculum, et nunc et in omnia saecula saeculorum. Amen (A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e colmi di gioia, all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e per sempre. Amen, Gd 1,24-25).
            Mentre cantavano, sopraggiungevano sempre nuovi angeli e quando il cantico fu terminato, a poco a poco tutti insieme si sollevarono in alto e disparvero con tutta la visione. – E Don Bosco si svegliò.
(MB XVII, 722-730)




Il sogno delle 22 lune (1854)

Nel marzo del 1854 in giorno di festa, D. Bosco dopo i vespri radunò tutti gli alunni interni nella retro sagrestia dicendo di voler raccontar loro un sogno. Erano presenti fra gli altri i giovani Cagliero, Turchi, Anfossi, il Ch. Reviglio, il Ch. Buzzetti, dai quali abbiamo raccolta la nostra narrazione. Tutti erano persuasi che sotto il nome di sogno D. Bosco occultasse le manifestazioni che aveva dal cielo. Il sogno fu questo:

            – Io mi trovava con voi nel cortile e godeva nel mio cuore di vedervi vispi, allegri e contenti. Chi saltava, chi gridava, chi correva. Ad un tratto vedo che uno di voi esce da una porta della casa e si mette a passeggiare in mezzo ai compagni, con una specie di cilindro, ossia turbante, sul capo. Era questo trasparente, tutto illuminato nell’interno; e colla figura di una grossa luna, nel bel mezzo della quale era scritta la cifra 22. Io stupito cercai subito di avvicinarlo per dirgli che lasciasse quell’arnese da carnevale: ma ecco mentre l’aria si oscurava, come se fosse stato dato un segnale di campanello, il cortile si sgombra e scorgo tutti i giovani sotto i portici della casa, disposti in fila. Il loro aspetto manifestava un gran timore, e dieci o dodici di essi avevano il viso ricoperto di strana pallidezza. Io passai davanti a tutti questi per osservarli; e scorgo fra di loro quello che aveva la luna sul capo, più pallido degli altri; dai suoi omeri pendeva una coltre funebre. M’incammino verso di lui per chiedergli che cosa significasse quello strano spettacolo; ma una mano mi trattiene, e vedo uno sconosciuto di grave aspetto e nobile portamento, che mi dice:
            – Ascoltami, prima di avvicinarti a lui; egli ha ancora 22 lune di tempo, e prima che siano passate, morrà. Tienilo d’occhio e preparalo!
            Io voleva domandargli qualche spiegazione del suo parlare e della sua improvvisa comparsa, ma più non lo vidi.
            – Il giovane, miei cari figliuoli, io lo conosco ed è tra di voi!
            Un vivo terrore si impossessò di tutti i giovani, tanto più essendo la prima volta che D. Bosco annunziava in pubblico e con una certa solennità la morte di uno della casa. Il buon padre non poté a meno di notarlo e proseguì:
            – Io lo conosco ed è tra voi quel delle lune. Ma non voglio che vi spaventiate. È un sogno come vi ho detto, e sapete che non sempre si deve prestar fede ai sogni. Ad ogni modo, comunque sia la cosa, quello che è certo si è che dobbiamo essere sempre preparati come ci raccomanda il divin Salvatore nel santo Vangelo e non commettere peccati; ed allora la morte non ci farà più paura. Fatevi tutti buoni, non offendete il Signore, ed io intanto starò attento e terrò d’occhio quello del numero ventidue, il che vuol dire 22 lune, ossia 22 mesi: e spero che farà una buona morte.
            Questo annunzio, se spaventò sul principio i giovani, fece però in appresso grandissimo bene, perché stavano tutti attenti a mantenersi in grazia di Dio, col pensiero della morte, ed a contare intanto le lune che trascorrevano. D. Bosco a quando a quando li interrogava:
            – Quante lune vi sono ancora?
            E gli veniva risposto:
            – Venti, diciotto, quindici, ecc.
            Talora i giovani che badavano a tutte le sue parole, gli si accostavano per annunziargli le lune già passate, e cercavano far pronostici, indovinare; ma D. Bosco stava in silenzio. Il giovane Piano, entrato come studente nell’Oratorio nel mese di novembre 1854, sentiva parlare della nona luna e dai compagni e dai superiori venne a sapere ciò che D. Bosco aveva predetto. Ed egli pure, come tutti gli altri, stette in osservazione.
            Finì l’anno 1854, trascorsero molti mesi del 1855 e venne l’ottobre, cioè la luna ventesima. Cagliero, già chierico, era incaricato di sorvegliare tre stanzette vicine nell’antica casa Pinardi, che servivano di dormitorio ad una camerata di giovani. Fra questi era un certo Gurgo Secondo, Biellese da Pettinengo, in sui 17 anni, di belle e robuste forme, tipo di una florida sanità, che dava tutte le speranze di lunga vita, fino ad estrema vecchiezza. Suo padre l’aveva raccomandato a D. Bosco perché lo tenesse in pensione. Valente suonatore di pianoforte e di organo studiava da mane a sera la musica e guadagnava di bei soldi dando lezioni in Torino. D. Bosco lungo l’anno, a quando a quando, aveva interrogato il Ch. Cagliero sulla condotta dei suoi assistiti, con particolare premura. Nell’ottobre lo chiamò a sé e gli disse:
            – Dove dormi tu?
            – Nella stanzetta ultima, rispose il Ch. Cagliero, e di là assisto le altre due.
            – E non sarebbe meglio che trasportassi il tuo letto in quella di mezzo?
            – Come vuole; ma le faccio notare che le altre due stanze sono asciutte, mentre nella seconda una parete è formata dalla muraglia del campanile della chiesa, costrutto di fresco. Vi è quindi un po’ di umidità: si avvicina l’inverno e potrei prendermi qualche malanno. D’altronde di dove mi trovo adesso, posso benissimo assistere tutti i giovani del mio dormitorio.
            – Quanto ad assisterli lo so che puoi; ma è meglio, replicò D. Bosco, che te ne vada in quella di mezzo.
            Il Ch. Cagliero obbedì, ma dopo qualche tempo chiese licenza a D. Bosco di tramutare il suo letto nella stanza primiera. D. Bosco non acconsentì, ma gli disse:
            – Sta dove sei e riposa tranquillo che la tua sanità nulla avrà a soffrirne.
            Il Ch. Cagliero si acquietò e alcuni giorni dopo di bel nuovo fu chiamato da D. Bosco:
            – Quanti siete nella tua nuova stanza?
            Rispose:
            – Siamo tre: io, il giovane Gurgo Secondo, il Garovaglia; ed il pianoforte che fa quattro.
            – Bene, disse D. Bosco; va bene: siete tre suonatori, e Gurgo potrà darvi lezioni di pianoforte. Tu guarda di assisterlo bene. E null’altro aggiunse. Il chierico, punta da curiosità e venuto in sospetto, incominciò a fargli qualche domanda, ma D. Bosco lo interruppe dicendogli:
            – Il perché lo saprai a suo tempo.
            Il segreto era che in quella stanza stava il giovane delle 22 lune.
            Al principio di dicembre non vi era alcun ammalato nell’Oratorio, e D. Bosco, salito in cattedra alla sera dopo le orazioni, annunziò che uno dei giovani sarebbe morto prima del santo Natale. Per questa nuova predizione e perché le 22 lune ormai si compievano, in casa regnava una grande trepidazione, si ricordavano frequentemente le parole di D. Bosco e se ne temeva l’avveramento.
            D. Bosco in quei giorni aveva chiamato a sé ancora una volta il Ch. Cagliero, e gli domandò se Gurgo si portasse bene e se, date le lezioni di musica in città, ritornasse a casa per tempo. Cagliero gli rispose che tutto andava bene e che non vi erano novità né suoi compagni. Ottimamente; sono contento: invigila perché siano tutti buoni, e avvisami se accadessero degli inconvenienti. Cosi gli disse D. Bosco che più altro non aggiunse.
            Ed ecco verso la metà di dicembre essere il Gurgo assalito da una colica violenta e così pericolosa che, mandato a chiamare in fretta il medico, per suo consiglio gli si amministrarono i santi Sacramenti. Per otto giorni, e molto penosa, durò la malattia e volgeva in meglio, grazie alle cure del dottore Debernardi, sicché Gurgo poté levarsi da letto convalescente. Il male era come sparito e il medico ripeteva averla il giovane scappata bella. Intanto era stato avvisato il padre, poiché, non essendo ancora morto alcuno all’Oratorio, D. Bosco voleva impedire agli allievi un funereo spettacolo. La novena del Santo Natale era incominciata e Gurgo pressoché guarito contava d’andare al paese nelle feste natalizie. Tuttavia, quando si davano buone nuove di lui a D. Bosco, ci aveva l’aria di chi non voglia credere. Venne il padre, e trovato il figlio già in buono stato, chiesta e ottenuta licenza, andò a prendere il posto alla vettura per condurlo l’indomani a Novara, e poi a Pettinengo, perché si ristabilisse pienamente in salute. Era di domenica, 23 dicembre; Gurgo però quella stessa sera mostrò desiderio di mangiare un po’ di carne, cibo vietato dal medico. Il padre per rafforzarlo corse a comprarla e la fece cuocere in una macchinetta da caffè. Il giovane bevette il brodo e mangiò la carne, che certo doveva essere mezzo cruda e mezzo cotta e forse troppo – più del necessario. Il padre si ritirò; nella camera rimase l’infermiere e Cagliero. Ed ecco ad una certa ora della notte l’infermo comincia a lamentarsi per i dolori di ventre. La colica era tornata ad assalirlo nel modo più straziante. Gurgo chiamò per nome l’assistente:
            – Cagliero, Cagliero? Ho finito di farti scuola di pianoforte.
            – Abbi pazienza: coraggio! rispondeva Cagliero.
            – Io non vado più a casa: non parto più. Prega per me; se sapessi quanto male mi sento. Raccomandami alla Madonna.
            – Sì, pregherò: invoca anche tu Maria SS..
            Intanto Cagliero incominciò a pregare; ma vinto dal sonno si addormentò. Ed ecco all’improvviso l’infermiere lo scuote e accennandogli Gurgo corre subito a chiamare D. Alasonatti, che dormiva nella camera vicina. Questi venne, e dopo qualche istante Gurgo spirava. Fu una desolazione in tutta la casa. Cagliero al mattino incontrò Don Bosco che scendeva le scale per andare a dire la S. Messa ed era molto mesto, perché già gli era stata comunicata la dolorosa notizia.
            Intanto nella casa si faceva un gran parlare di questa morte. Si era alla vigesima seconda luna e questa non ancora compiuta; e Gurgo, morendo il 24 dicembre prima dell’aurora, compieva anche la seconda predizione, cioè che egli non avrebbe vista la festa del santo Natale.
            Dopo pranzo i giovani e i chierici circondavano silenziosi D. Bosco. A un tratto il Ch. Turchi Giovanni lo interrogò se Gurgo fosse quello delle lune.
            – Sì, rispose D. Bosco: era proprio lui; è appunto desso che io vidi nel sogno!
            Quindi soggiunse ancora:
– Avrete osservato, che io, tempo fa, lo aveva messo a dormire in una camerata speciale, raccomandando a taluno dei migliori assistenti, che là trasportasse il suo letto acciocché potesse continuamente vigilar su di lui. E l’assistente fu il Ch. Giovanni Cagliero. E improvvisamente voltosi a questo chierico gli disse: Un’altra volta non farai più tante osservazioni a quanto ti dirà D. Bosco. Adesso capisci perché io non voleva che tu lasciassi la camera ove era quel poveretto? Tu mi supplicavi; ma io non volli contentarti, appunto perché Gurgo avesse un custode. Se egli fosse ancor vivo, potrebbe dire le quante volte gli andava parlando così alla larga della morte e le cure che gli prodigai per disporlo ad un felice passaggio.
            “Io – scrisse Mons. Cagliero – intesi allora il motivo delle speciali raccomandazioni fattemi da D. Bosco, ed imparai a conoscere ed apprezzare vie meglio l’importanza, delle sue parole e dei suoi paterni avvisi”.
            “La sera, vigilia di Natale – narra Enria Pietro – mi ricordo ancora D. Bosco che saliva sulla cattedra girando gli occhi intorno come se cercasse qualcuno. E disse: il primo giovane che muore nell’Oratorio. Ha fatto le sue cose bene e speriamo che sia in paradiso. Raccomando a voi che siate sempre preparati…E non poté più parlare perché il suo cuore era troppo addolorato. La morte le aveva rapito un figlio”.
(MB V, 377-383)