L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (3/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

2. Le litanie della buona morte nel contesto della spiritualità giovanile promossa da don Bosco
            Un discorso a parte meritano le litanie della buona morte inserite nel Giovane provveduto, che costituivano soltanto un momento dell’esercizio, quello emotivamente più intenso. Il cuore della pratica mensile, infatti, era rappresentato dall’esame di coscienza, dalla confessione ben fatta, dalla comunione fervente, dalla decisione di darsi totalmente a Dio e dalla formulazione di proponimenti operativi di carattere morale e spirituale. Nei volumi di predicazione o nei manualetti dei secoli precedenti non troviamo testi analoghi alla sequenza litanica del Giovane provveduto, la cui composizione don Bosco attribuisce a “una donzella protestante convertita alla Religione Cattolica nell’età di anni 15, e morta di anni 18 in odore di santità”.[1] Egli l’aveva attinta da libri di pietà pubblicati in quegli anni in Piemonte.[2] La preghiera, “indulgenziata da Pio VII, ma circolante già alla fine del Settecento”,[3] poteva servire come strumento efficace di mozione degli affetti in forza della drammatizzazione immaginativa degli ultimi istanti di vita: collocava il fedele sul letto di morte invitandolo a passare in rassegna le varie parti del corpo e i sensi corrispondenti, considerati nello stato in cui si sarebbero trovati al momento dell’agonia, per scuoterlo, per stimolare la confidenza nella divina misericordia e spingerlo a propositi di conversione e perseveranza. Era un esercizio nel quale lo spirito romantico trovava gusto e che don Bosco riteneva particolarmente indicato sul piano emotivo e spirituale, come risulta da alcuni suoi testi narrativi. La formula ebbe grande fortuna nel corso dell’Ottocento: la troviamo riprodotta in varie raccolte di preghiere anche fuori dei confini piemontesi.[4] Ci pare interessante riportarla nella sua interezza:

            Gesù Signore, Dio di bontà, Padre di misericordia, io mi presento dinanzi a Voi con cuore umiliato e contrito: vi raccomando la mia ultima ora e ciò che dopo di essa mi attende.
            Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me.
            Quando le mie mani tremole e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore, misericordioso ecc.
            Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall’orror della morte imminente fisseranno in Voi gli sguardi languidi e moribondi, misericordiosoecc.
            Quando le mie labbra fredde e tremanti pronunzieranno per l’ultima volta il vostro Nome adorabile, misericordiosoecc.
            Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione ed il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine, misericordiosoecc.
            Quando le mie orecchie, presso a chiudersi per sempre a’ discorsi degli uomini, si apriranno per intendere la vostra voce, che pronunzierà l’irrevocabile sentenza, onde verrà fissata la mia sorte per tutta l’eternità, misericordiosoecc.
            Quando la mia immaginazione agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze, ed il mio spirito turbato dalla vista delle mie iniquità, dal timore della vostra giustizia, lotterà contra l’angelo delle tenebre, che vorrà togliermi la vista consolatrice delle vostre misericordie e precipitarmi in seno alla disperazione, misericordiosoecc.
            Quando il mio debole cuore oppresso dal dolor della malattia sarà sorpreso dagli orrori di morte, e spossato dagli sforzi che avrà fatto contro a’ nemici della mia salute, misericordioso ecc.
            Quando verserò le mie ultime lacrime, sintomi della mia distruzione, ricevetele in sacrificio di espiazione, acciocché io spiri come una vittima di penitenza, ed in quel terribile momento, misericordioso ecc.
            Quando i miei parenti ed amici, stretti a me d’intorno, s’inteneriranno sul dolente mio stato, e v’invocheranno per me, misericordioso ecc.
            Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi, ed il mondo intero sarà sparito da me, ed io gemerò nelle angosce della estrema agonia e negli affanni di morte, misericordioso ecc.
            Quando gli ultimi sospiri del cuore sforzeranno l’anima mia ad uscire dal corpo, accettateli come figli di una santa impazienza di venire a Voi, e Voi misericordioso ecc.
            Quando l’anima mia sull’estremità delle labbra uscirà per sempre da questo mondo e lascerà il mio corpo pallido, freddo e senza vita, accettate la distruzione del mio essere, come un omaggio che io vengo a rendere alla vostra divina maestà ed allora, misericordioso ecc.
            Quando finalmente l’anima mia comparirà dinanzi a Voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto; degnatevi ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi: misericordioso ecc.
Orazione: Oh Dio, che condannandoci alla morte, ce ne avete nascosto il momento e l’ora, fatte ch’io passando nella giustizia e nella santità tutti i giorni della vita, possa meritare di uscire di questo mondo nel vostro santo amore, per i meriti del Nostro Signor Gesù Cristo, che vive e regna con Voi nell’unità dello Spirito Santo. Così sia.[5]

            Il razionalismo settecentesco e il gusto barocco per il macabro e il funereo, presente ancora nell’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso Maria de’ Liguori,[6] è superato nell’Ottocento dalla sensibilità romantica che preferisce percorrere la via del sentimento, la quale, “per giungere all’intelletto, va prima direttamente al cuore, e facendo sentire al cuore la forza e la bellezza della religione, fissa l’attenzione dell’intelletto, e ne agevola il consentimento”, come scriveva mons. Angelo Antonio Scotti.[7] Dunque anche nella considerazione della morte si riteneva cosa ottima insistere sulle leve emotive e sugli affetti per suscitare una risposta generosa al dono assoluto di sé fatto dal divin Salvatore per la salvezza dell’umanità. Gli autori spirituali e i predicatori ritenevano importante e necessario descrivere “gli affanni e le oppressioni che sono inseparabili dagli sforzi che naturalmente l’anima deve fare nel rompere i legami del corpo”,[8] insieme alla raffigurazione della morte serena dei giusti. Volevano calare la fede nella concretezza dell’esistenza per stimolare la riforma dei costumi e il proposito d’una più genuina e fervente vita cristiana: “Certamente la speranza di meritare una buona agonia ed una santa morte è stata e sarà sempre la più potente molla per indurre gli uomini ad abbandonare il vizio; siccome lo spettacolo di un uomo malvagio, che tal muoia qual visse, è una grande lezione per tutti i mortali”.[9]
            La sequenza delle litanie della buona morte inserita nel Giovane provveduto va considerata, dunque, del tutto funzionale al buon esito del ritiro mensile e agli ideali di vita cristiana che il Santo proponeva ai giovani, oltre che particolarmente adatta alla sensibilità emotiva e culturale di quel preciso momento storico. Se oggi la lettura di quelle formule genera il senso d’inquietudine rievocato da Delumeau e offre una rappresentazione “nel complesso affliggente” della pedagogia religiosa di don Bosco,[10] questo avviene soprattutto perché esse sono estrapolate dai loro quadri di riferimento. Invece, come si rileva dalla pratica educativa dell’Oratorio e dalle testimonianze narrative lasciate da don Bosco, non solo l’animo di quei giovani trovava gusto e stimolo nel recitarle, ma esse contribuivano efficacemente a rendere l’esercizio della buona morte fecondo di frutti morali e spirituali. Per sondarne la primitiva fecondità educativa, dobbiamo ancorarle all’insieme della sostanziosa proposta di vita cristiana presentata da don Bosco e al vissuto fervido e operoso, stimolante dell’Oratorio.
            L’orizzonte globale di riferimento si può cogliere già nelle piccole meditazioni che introducono il Giovane provveduto, dove don Bosco intende soprattutto presentare “un metodo di vita breve e facile, ma sufficiente” perché i giovani lettori possano “diventare la consolazione dei parenti, l’onore della patria, buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del Cielo”.[11] Innanzitutto egli li incoraggia ad “alzare lo sguardo”, a contemplare la bellezza del creato e la dignità altissima dell’uomo, la più sublime delle creature, dotato di un’anima spirituale fatta per amare il Signore, per crescere nella virtù e nella santità, destinato al Paradiso, alla comunione eterna con Dio.[12] La considerazione dell’illimitato amore divino, rivelatoci nel sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità, e della particolare predilezione di Dio verso i ragazzi e i giovani, deve muoverli a corrispondere con generosità, a “indirizzare ogni azione” al raggiungimento del fine per il quale sono stati creati, con fermo proposito di far tutte quelle cose che possono piacere al Signore ed evitare “quelle che lo potrebbero disgustare”.[13] E poiché la salvezza di una persona “dipende ordinariamente dal tempo della gioventù”, è indispensabile iniziare da subito a servire il Signore: “Se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona la nostra morte e principio di una eterna felicità. Al contrario se i vizi prenderanno possesso di noi in gioventù, per lo più continueranno in ogni età nostra fino alla morte. Caparra troppo funesta di una infelicissima eternità”.[14]
            Don Bosco dunque invita gli adolescenti a darsi “per tempo a Dio”, a impegnarsi con gioia nel suo servizio, superando il pregiudizio che la vita cristiana sia triste e malinconica: “Non è vero, sarà malinconico colui che serve il demonio, il quale comunque si sforzi per mostrarsi contento, tuttavia avrà sempre il cuor che piange, dicendogli: tu sei infelice perché nemico d’Iddio […]. Coraggio adunque, miei cari, datevi per tempo alla virtù, e vi assicuro, che avrete sempre un cuore allegro e contento, e conoscerete quanto sia dolce servire al Signore”.[15]
            La vita cristiana consiste essenzialmente nel servire il Signore in “santa allegria”; è questa una delle idee più feconde e peculiari del patrimonio spirituale e pedagogico di don Bosco: “Se farai così, quante consolazioni proverai in punto di morte! Al contrario se non attendi a servire Dio, quanti rimorsi proverai alla fine de’ tuoi dì”.[16] Chi tramanda la conversione, chi consuma i propri giorni nell’ozio o in dissipazioni inutili e dannose, nei peccati o nei vizi, rischia di non avere più l’occasione, il tempo e la grazia per tornare a Dio con pericolo di eterna dannazione.[17] La morte infatti può sorprenderlo quando meno se l’aspetta: “Guai a chi si trova in disgrazia di Dio in quel momento”.[18] Ma la misericordia divina offre al peccatore pentito il sacramento della Penitenza, mezzo sicuro per riacquistare la grazia e con essa la pace del cuore. Celebrato regolarmente e con le dovute disposizioni, il sacramento non solo diventa strumento efficace di salvezza, ma anche momento educativo privilegiato in cui il confessore, “fedele amico dell’anima”, può dirigere con sicurezza il giovane sulla via della salvezza e della santità. La Confessione si prepara con un buon esame di coscienza, chiedendo luce al Signore: “Illuminatemi colla vostra grazia, affinché io conosca ora i miei peccati come li farete a me noti quando presenterommi al vostro giudizio. Fate, o mio Dio, che li detesti con vero dolore”.[19] La regolare celebrazione del sacramento garantisce la serenità necessaria per trascorrere una vita veramente felice: “A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte”.[20]
            L’amicizia con Dio riacquistata con la Confessione trova il suo vertice nella Comunione eucaristica, momento privilegiato nel quale il giovane offre tutto se stesso perché Dio possa “prendere possesso” del suo cuore e diventarne il padrone incontrastato. Nell’atto in cui si apre senza riserve all’azione santificatrice e trasfigurante della grazia, egli sperimenta la gioia ineffabile che accompagna un’esperienza spirituale genuina ed è portato a desiderare ardentemente la comunione eterna con Dio: “Se voglio qualche cosa di grande, vo a ricevere l’ostia santa in cui trovasi corpus quod pro nobis traditum est, cioè quello stesso corpo, sangue, anima e divinità, che Gesù Cristo offerse al suo eterno Padre per noi sopra la croce. Che cosa mi manca per essere felice? nulla in questo mondo: mi manca solo di poter godere, svelato in cielo colui, che ora con occhio di fede miro e adoro sull’altare”.[21]
            Nonostante il forte accento emotivo che connota il sentimento religioso ottocentesco, la spiritualità proposta da don Bosco è assai concreta. Infatti egli presenta la conversione come un processo di appropriazione delle promesse battesimali, che inizia nel momento in cui il giovane, in “maniera franca e risoluta”, decide di corrispondere alla divina chiamata,[22] di staccare il cuore dall’affetto al peccato per poter amare Dio sopra ogni cosa e lasciarsi docilmente plasmare dalla grazia. La conversione si traduce quindi in un vissuto operoso e ardente, animato dalla carità, in una positiva e gioiosa tensione alla perfezione, cominciando dalle piccole cose quotidiane. Il fervore della carità ispira una mortificazione “positiva” dei sensi, centrata sul superamento di sé, sulla riforma di vita, sul puntuale compimento dei doveri, sulla cordialità e sul servizio verso il prossimo. Tale mortificazione non ha nulla di afflittivo, perché è generosa aderenza al vissuto con i suoi imprevisti e le sue difficoltà, è capacità di sopportazione nelle contrarietà quotidiane, è tenuta nelle fatiche, è sobrietà e temperanza, è fortezza d’animo. Ogni occasione dunque può diventare espressione dell’amor di Dio, un amore che spinge la persona a vivere e operare “alla sua presenza”, a far tutto e tutto sopportare per amor suo.
            La carità anima in modo particolare la preghiera, poiché, attraverso le piccole pratiche, le giaculatorie, le visite e le devozioni, alimenta il desiderio di comunione affettuosa, si traduce nell’offerta incondizionata di sé, in gioioso adeguamento alla divina volontà, in desiderio dell’unione mistica e in anelito all’eterna comunione del Paradiso.
            Don Bosco sintetizza la sua proposta in formule semplificatrici, ma non ne abbassa il livello e ricorda costantemente ai giovani che è necessario decidersi risolutamente: “Di quante cose adunque abbiamo bisogno per farci santi? Di una cosa sola: Bisogna volerlo. Sì; purché voi vogliate, potete essere santi: non vi manca altro che il volere”. Lo dimostrano gli esempi di santi “che hanno vissuto in condizione bassa, e tra i travagli d’una vita attiva”, ma si sono santificati, semplicemente “facendo bene tutto ciò, che dovevano fare. Essi adempievano tutti i loro doveri verso Dio, tutto soffrendo pel suo amore, a lui offerendo le loro pene, i loro travagli: questa è la grande scienza della salute eterna e della santità”.[23]
            L’esperienza di Michele Magone, allievo dell’Oratorio di Valdocco, è illuminante. “Abbandonato a se stesso – scrive don Bosco – era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male”; il Signore lo invitò a seguirlo; “ascoltò egli l’amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corrispondervi”.[24] Decisivo è il momento nel quale il ragazzo, dopo aver preso coscienza della propria situazione e superato, con l’aiuto dell’educatore, il profondo senso di angoscia e di colpa che lo tormentava, sente che “è tempo di romperla col demonio” e decide di “darsi a Dio” attraverso una buona confessione e un fermo proposito.[25] Don Bosco racconta le emozioni e le riflessioni dell’adolescente nella notte successiva alla confessione: riportato in grazia di Dio e rassicurato sulla sua eterna salvezza,[26] sperimenta una gioia incontenibile.

             “È difficile, soleva dire, di esprimere gli affetti che occuparono il mio povero cuore in quella notte memoranda. La passai quasi intieramente senza prendere sonno. Rimaneva qualche momento assopito, e tosto l’immaginazione facevami vedere l’inferno aperto pieno di demoni. Cacciava tosto questa tetra immagine riflettendo che i miei peccati erano stati tutti perdonati, e in quel momento sembravami di vedere una grande quantità di angeli che mi facessero vedere il paradiso, e mi dicessero: – Vedi che grande felicità ti è riserbata, se sarai costante nei tuoi proponimenti!
            Giunto poi alla metà del tempo stabilito per il riposo, io era così pieno di contentezza, di commozione e di affetti diversi, che per dare qualche sfogo all’animo mio mi alzai, mi posi ginocchioni, e dissi più volte queste parole: Oh quanto mai sono disgraziati quelli che cadono in peccato! ma quanto più sono infelici coloro che vivono nel peccato. Io credo che se costoro gustassero anche un solo momento la grande consolazione che provasi da chi si trova in grazia di Dio, tutti andrebbero a confessarsi per placare l’ira di Dio, dare tregua ai rimorsi della coscienza, e godere della pace del cuore. O peccato, peccato! che terribile flagello sei tu a coloro che ti lasciano entrare nel loro cuore! Mio Dio, per l’avvenire non voglio mai più offendervi; anzi vi voglio amare con tutte le forze dell’anima mia; che se per mia disgrazia cadessi anche in un piccolo peccato andrò tosto a confessarmi”.[27]

            Troviamo qui le chiavi interpretative dell’orizzonte di senso in cui don Bosco colloca la funzione pedagogica e spirituale dell’esercizio della buona morte.

(continua)


[1] Bosco, Il giovane provveduto, 140.

[2] Troviamo la stessa formula, con varianti minime, in un opuscoletto anonimo intitolato Mezzi da praticarsi e risoluzioni da farsi dopo una buona confessione per mantenersi nella grazia di Dio riacquistata, Vigevano, s.e., 1842, 33-36. Cf. anche Il cristiano in chiesa, ovvero affettuose orazioni per la Messa, per la Confessione e Comunione e per l’adorazione del Santissimo Sacramento. Operetta spirituale del P. Fulgenzio M. Riccardi di Torino, Min. Oss., Torino, G.B. Paravia 1845, dove l’attribuzione della sequenza è, nella dicitura, simile a quella i don Bosco: “Litanie per ottenere una buona morte composte da una Damigella nata tra i Protestanti, convertitasi alla Religione Cattolica all’età di quindici anni, e morta di diciotto in istima universale di santità” (ibid., 165).

[3] Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS, 1981, 340. Cf. anche Michel Bazart, Don Bosco et l’exercice de la bonne mort, in «Chahiers Salésiens» N. 4, Avril 1981, 7-24.

[4] Ad esempio, la si trova, con qualche rielaborazione stilistica e piccole amplificazioni, sotto il titolo di “Gemiti e suppliche per la buona morte”, in Giuseppe Riva, Manuale di Filotea. Ventunesima edizione nuovamente riveduta ed aumentata, Milano, Serafino Majocchi, 1874, 926-927.

[5] Bosco, Il giovane provveduto, 138-142.

[6] Si veda per esempio la prima considerazione “Ritratto d’un uomo da poco tempo morto”, in Alfonso Maria de Liguori, Opere ascetiche, vol. 8, Apparecchio alla morte, Torino, Giacinto Marietti, 1825, 10-19.

[7] Angelo Antonio Scotti, Osservazioni sulle false dottrine e sulle funeste conseguenze dell’opera del Lauvergne intitolata “De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé”. Dissertazione letta nell’Accademia di Religione Cattolica in Roma il dì 4 luglio 1844, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1844, 3. Scotti polemizza con l’autore francese, medico e scienziato, che ritiene falsa l’affermazione che solo i veri cattolici muoiono serenamente: anche gli atei o gli adepti di altre religioni o addirittura gli individui immorali e pessimi possono morire serenamente, mentre capita non di rado che uomini santi, persone di grande virtù e asceti, specialmente tra i cattolici, subiscano agonie strazianti e disperate, poiché tutto dipende dal tipo di malattia, dalla lucidità cerebrale, dallo stato di debilitazione fisiologica o psichica e dalle angosce indotte dal fanatismo religioso, cf. Hubert Lauvergne, De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé sour le rapport humanitaire, physiologique et religieux, 2 vol., Paris, Librairie de J.-B. Baillière et C. Gosselin, 1842.

[8] Giovanni Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1859, 116.

[9] Scotti, Osservazioni sulle false dottrine, 14-15.

[10] Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II, 341.

[11] Bosco, Il giovane provveduto, 7.

[12] Cf. ibid., 10.

[13] Ibid., 10-11.

[14] Ibid., 6.

[15] Ibid., 13.

[16] Ibid., 32.

[17] Cf. ibid., 32-34.

[18] Ibid., 38.

[19] Ibid., 93.

[20] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.

[21] Ibid., 69.

[22] Giovanni Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1861, 4-5.

[23] Giovanni Bosco, Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino. Torino, P. De-Agostini, 1853, 6-7

[24] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 5.

[25] Ibid., 20-21.

[26] “Terminata [la Confessione] prima di partire dal confessore gli disse: «Vi sembra che i miei peccati mi siano tutti perdonati? se io morissi in questa notte sarei salvo?». – Va’ pure tranquillo, gli fu risposto. Il Signore che nella sua grande misericordia ti aspettò finora perché avessi tempo a fare una buona confessione, ti ha certamente perdonati tutti i peccati; e se nei suoi adorabili decreti egli volesse chiamarti in questa notte all’eternità tu sarai salvo” (ibid., 21).

[27] Ibid., 21-22.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (2/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

1. L’esercizio della buona morte nelle istituzioni salesiane e la secolare tradizione delle “Praeparationes ad mortem

            Fin dagli inizi dell’Oratorio stabilito in Valdocco (1846-47), don Bosco propose ai giovani l’esercizio mensile della buona morte come mezzo ascetico mirato a stimolare – attraverso una visione cristiana della morte – un costante atteggiamento di conversione e di superamento dei limiti personali e assicurare, con una confessione e una comunione ben fatte, le condizioni spirituali e psicologiche favorevoli per un fecondo cammino di vita cristiana e di costruzione delle virtù, in docile cooperazione con l’azione della grazia di Dio. La pratica in quel tempo si faceva nella maggior parte delle parrocchie, delle istituzioni religiose ed educative. Era per il popolo l’equivalente del ritiro mensile. Negli Oratori salesiani si teneva l’ultima domenica di ogni mese, e consisteva, come leggiamo nel Regolamento, “in un’accurata preparazione, per ben confessarsi e comunicarsi, e raggiustare le cose spirituali e temporali, come se ci trovassimo al fine di vita”.[1]
            L’esercizio diverrà pratica comune in tutte le istituzioni educative salesiane. Nei collegi e negli internati si eseguiva l’ultimo giorno del mese, in comune tra educatori e ragazzi.[2] Le stesse Costituzioni salesiane, fin dalla prima stesura, ne stabilivano la normatività: “L’ultimo di ciascun mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui lasciando, per quanto sarà possibile, gli affari temporali, ognuno si raccoglierà in se stesso, farà l’esercizio della buona morte, disponendo le cose spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’eternità”.[3]
            Lo svolgimento era semplice. I ragazzi, raccolti in cappella, pronunciavano comunitariamente le formule proposte nel Giovane provveduto, che fornivano il significato spirituale e teologico essenziale della pratica. Innanzitutto si recitava la preghiera di papa Benedetto XIII “per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa” e ottenere, per i meriti della passione di Cristo, di non essere tolti “tantosto da questo mondo”, in modo da avere ancora un congruo “spazio di penitenza” e prepararsi a “un transito felice ed in grazia […], affinché io vi ami [Signore Gesù] con tutto il cuore, vi loda, e benedica in eterno”. Poi si leggeva l’orazione a san Giuseppe per implorare “un intero perdono” dei propri peccati, la grazia di imitare le sue virtù, di camminare “sempre per la via che conduce al Cielo” ed essere difeso “da’ nemici dell’anima in quell’ultimo punto di vita; di modo che consolato dalla dolce speranza di volare […] a possedere l’eterna gloria in Paradiso spiri pronunziando i SS. nomi di Gesù, di Giuseppe e di Maria”. Infine un lettore enunciava le litanie della buona morte ad ognuna delle quali si rispondeva con la giaculatoria “Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me”.[4] All’esercizio devoto seguiva la confessione personale e la comunione “generale”. Per l’occasione erano invitati confessori “straordinari”, affinché tutti avessero opportunità e piena libertà di sistemare le cose di coscienza.
            I religiosi salesiani, oltre alle orazioni recitate in comune cogli allievi, facevano un esame di coscienza più articolato. Il 18 settembre 1876, don Bosco spiegò ai discepoli il modo di renderlo fruttuoso:

             “Gioverà tanto fare un confronto tra mese e mese: ho fatto del profitto in questo mese? oppure vi fu in me regresso? Poi venire ai particolari: in questa virtù, in quest’altra, come mi sono diportato?
            E specialmente si dia una rivista a ciò che forma soggetto di voti ed alle pratiche di pietà: riguardo all’obbedienza come mi sono diportato? ho progredito? L’ho fatta proprio bene, per esempio, quell’assistenza che mi si diede da fare? come l’ho fatta? In quella scuola come mi sono impegnato? Riguardo alla povertà, sia negli abiti, nei cibi, nelle celle, ho niente che non sia da povero? ho desiderato golosità? mi son lamentato quando mi mancava qualche cosa? Poi venire alla castità: non ho dato in me luogo a pensieri cattivi? mi son distaccato sempre più dall’amore dei parenti? mi son mortificato nella gola, negli sguardi, ecc.?
            E così far passare le pratiche di pietà e notare specialmente se vi fu tiepidezza ordinaria, se si siano fatte le pratiche senza slancio.
            Questo esame, o più lungo o più corto, si faccia sempre. Siccome vi sono vari che hanno occupazioni da cui non possono esimersi in nessun giorno del mese, queste occupazioni sarà lecito tenerle, ma ciascuno in detto giorno faccia proprio [in modo] di eseguire queste considerazioni e di fare buoni propositi speciali”.[5]

            L’obiettivo, dunque, era quello di stimolare un monitoraggio regolare della propria vita in funzione perfettiva. Questo ruolo primario di stimolo e sostegno alla crescita virtuosa spiega perché don Bosco, nell’introduzione alle Costituzioni, sia giunto ad affermare che la pratica mensile della buona morte, insieme agli esercizi spirituali annuali, costituisce “la parte fondamentale delle pratiche di pietà, quella che in certo modo tutte le abbraccia”, e abbia concluso dicendo: “Credo che si possa dire assicurata la salvezza di un religioso, se ogni mese si accosta ai SS. Sacramenti, e aggiusta le partite di sua coscienza, come dovesse di fatto da questa vita partire per l’eternità”.[6]
            Col tempo l’esercizio mensile venne ulteriormente perfezionato, come leggiamo in una nota inserita nelle Costituzioni promulgate da don Michele Rua dopo il X Capitolo Generale:

             “a. L’esercizio della buona morte si faccia in comune, ed oltre a quello che prescrivono le nostre Costituzioni si tengano presenti queste regole: I) Oltre la meditazione solita del mattino, si faccia ancora una mezz’ora di meditazione alla sera, e questa versi su qualche novissimo; II) Si faccia come una rivista mensile della coscienza, e la confessione di quel giorno sia più accurata del solito, come se di fatto fosse l’ultima della vita, e si riceva la S. Comunione come per viatico; III) Finita la messa e le preghiere solite, si recitino le preghiere indicate nel manuale di pietà; IV) Si pensi almeno per mezz’ora al progresso od al regresso che si è fatto nella virtù nel mese passato, specialmente per ciò che riguarda i proponimenti fatti negli esercizi spirituali, l’osservanza delle Regole, e si prendano ferme risoluzioni di vita migliore; V) Si rileggano in quel giorno tutte, o almeno in parte, le Costituzioni della Pia Società; VI) Sarà anche bene di scegliere un santo protettore del mese che si sta per cominciare.
            b. Se taluno per le sue occupazioni non può fare l’esercizio della buona morte in comune, né attendere a tutte le accennate opere di pietà, col permesso del Direttore compia quelle soltanto che sono compatibili col suo impiego, rimandando le altre ad un giorno più comodo”.[7]

            Queste indicazioni rivelano la sostanziale continuità e sintonia con la secolare tradizione della preparatio ad mortem ampiamente documentata dalla produzione libraria fin dagli inizi del XVI secolo. Gli evangelici appelli all’attesa vigilante e operativa (cf. Mt 24,44; Lc 12,40), al tenersi preparati in vista del giudizio che fisserà la sorte eterna tra i “benedetti” o i “maledetti” (Mt 25,31-46), uniti al monito quaresimale “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”, nel corso dei secoli hanno costantemente alimentato le considerazioni dei maestri di spirito e dei predicatori, hanno ispirato le rappresentazioni artistiche, si sono tradotti in rituali, pratiche devote e penitenziali, hanno suggerito propositi e amorosi aneliti alla comunione eterna con Dio. Hanno anche suscitato timori, ansie, talvolta angosce, in base alle sensibilità spirituali e alle visioni teologiche delle varie epoche.
            Le dotte riflessioni sapienziali del De praeparatione ad mortem di Erasmo e di altri umanisti,[8] permeate di genuino spirito evangelico ma tanto erudite da sembrare esercizi retorici, tra Seicento e primo Settecento avevano lasciato progressivamente spazio alle esortazioni morali dei predicatori e alle considerazioni meditative degli spirituali. Un opuscolo del cardinale Giovanni Bona affermava che la migliore preparazione alla morte è quella remota, attuata attraverso una vita virtuosa in cui quotidianamente ci si esercita a morire a se stessi e fuggire ogni forma di peccato, a vivere secondo la legge di Dio in comunione orante con lui;[9] esortava a pregare costantemente per ottenere la grazia di una morte felice; suggeriva di dedicare un giorno al mese di preparazione prossima alla morte nel silenzio e nella meditazione, purificando l’anima con una “diligentissima e dolorosa confessione”, dopo un accurato esame del proprio stato, e accostandosi alla comunione per modum Viatici, con intensa devozione;[10] invitava poi a concludere la giornata immaginandosi sul letto di morte, nel momento estremo:

             “Rinnoverai più intensi atti di amore, di ringraziamento e di desiderio di vedere Dio; chiederai perdono di tutto; dirai: «Signore Gesù Cristo, in quest’ora della mia morte, poni la tua passione e la tua morte tra il tuo giudizio e l’anima mia. Padre, nelle tue mani affido il mio spirito. Aiutatemi santi di Dio, accorrete o angeli per sostenere la mia anima e offrirla al cospetto dell’Altissimo» […]. Poi immaginerai che la tua anima sia condotta all’orrendo giudizio di Dio e che, per le preghiere dei santi, ti sia prolungata la vita in modo da poter fare penitenza: quindi proponendo con forza di vivere più santamente, in futuro ti considererai e ti comporterai come morto al mondo e vivente solo per Dio e per la penitenza”.[11]

            Giovanni Bona chiudeva la sua Praeparatio ad mortem con un’aspirazione devota incentrata sul desiderio del Paradiso permeata da intenso afflato mistico.[12] Il cardinale cistercense era stato allievo dei gesuiti. Da essi aveva attinto l’idea della giornata mensile di preparazione alla morte.
            La meditazione sulla morte faceva parte integrale degli esercizi spirituali e delle missioni popolari: certa è la morte, incerto è il momento del suo arrivo, bisogna tenersi pronti perché quando essa verrà Satana moltiplicherà i suoi assalti per rovinarci eternamente: “Che conseguenza adunque ne viene? […] Fare adesso in vita abiti buoni. Non contentarmi solamente di vivere in grazia di Dio, né di star un sol momento in peccato; ma fare abitualmente, con l’esercizio continuo d’opere buone, una tal vita, che nell’ultimo momento non abbi il Demonio con qualche tentazione a farmi perdere per tutta l’Eternità”.[13]
            A partire dal Seicento e per tutto il Settecento i predicatori calcarono l’importanza del tema, modulando le loro riflessioni secondo le sensibilità proprie del gusto barocco, con forte accentuazione degli aspetti drammatici, senza però sviare l’attenzione degli uditori dalla sostanza: l’accettazione serena della morte, l’appello alla conversione del cuore, la costante vigilanza, il fervore nelle opere virtuose, l’offerta di sé a Dio e l’anelito alla comunione eterna d’amore con lui. Progressivamente l’esercizio della buona morte assunse un’importanza sempre più ampia, fino a diventare una delle pratiche ascetiche principali del cattolicesimo. Il modello di svolgimento è offerto, ad esempio, in un opuscolo seicentesco di un anonimo gesuita:

             “Scegliete un giorno d’ogni mese de’ più liberi da ogni altro affare, nel qual dovrete con particolar diligenza impiegarvi nell’Orazione, Confessione, Communione e visita del Santissimo Sacramento.
            L’Orazione di questo giorno dovrà in due volte arrivare a due ore: e la materia di essa potrà esser questa ch’accenneremo. Nella prim’ora concepite quanto più vivamente potrete lo stato, nel quale vi troverete già moribondo […]. Considerate quello, che moribondo vorreste aver fatto, prima verso Dio, secondo verso voi stesso, terzo verso il prossimo, mescolando in questa meditazione diversi affetti ferventi, e di pentimento, e di propositi, e di domande al Signore, per impetrar da lui virtù d’emendarvi. La seconda Orazione avrà per materia i motivi più forti che si ritrovino, per accettar volentieri da Dio la morte […]. Gli affetti di questa Meditazione saranno d’offerta della vita propria al Signore, di protesta, che se potessimo allungarla, oltre il suo divinissimo beneplacito, non lo faremmo; di domanda, per offerir questo sacrificio con quello spirito d’amore, che richiede il rispetto dovuto alla sua amorevolissima Provvidenza, e disposizione.
            La Confessione dovrà esser fatta da voi con più particolare diligenza, e come se fosse l’ultima volta, che vi andaste a mondar nel sangue preziosissimo di Gesù Cristo […].
            Anche la Comunione dovrà farsi con più straordinaria preparazione, e come se vi comunicaste per Viatico, adorando quel Signore, che sperate di dover adorare per tutta l’Eternità; ringraziandolo della vita, che vi ha concessa, chiedendogli perdono d’averla sì malamente impiegata; offerendovi pronto a terminarla, perché egli così vuole, e domandandogli finalmente grazia, che v’assista in questo gran passo, affinché l’anima vostra appoggiata al suo Diletto, da questo Deserto passi sicura al Regno”.[14]

            L’impegno per la diffusione dell’esercizio della buona morte non limitava le considerazioni dei predicatori e dei direttori di spirito al tema dei novissimi, quasi a voler fondare l’edificio spirituale unicamente sul timore dell’eternità dannata. Questi autori conoscevano i danni psicologici e spirituali che l’affanno e l’angoscia per la propria salvezza producevano sugli animi più sensibili. Le raccolte di meditazioni prodotte tra la fine del Seicento e metà Settecento, non solo insistevano sulla misericordia di Dio e sull’abbandono in lui, per condurre il fedele allo stato permanente di serenità spirituale che è proprio di chi ha integrato la coscienza della propria finitudine temporale in una solida visione di fede, ma spaziavano su tutti i temi della dottrina e della pratica cristiana, della morale privata e pubblica: verità della fede e soggetti evangelici, vizi e virtù, sacramenti e preghiera, opere di carità spirituale e materiale, ascetica e mistica. La considerazione del destino eterno dell’uomo si allargava alla proposta di un vissuto cristiano esemplare e ardente, che si traducesse in cammini spirituali orientati alla santificazione personale e all’affinamento del vissuto quotidiano e sociale, sullo sfondo di una teologia sostanziosa e di un’antropologia cristiana raffinata.
            Un esempio tra i più eloquenti è fornito dai tre volumi del gesuita Giuseppe Antonio Bordoni, che raccolgono le meditazioni proposte ogni settimana per oltre vent’anni ai confratelli della Compagnia della buona morte, da lui istituita nella chiesa dei Santi Martiri di Torino (1719). L’opera fu molto apprezzata per la solidità teologica, la forma priva di orpelli retorici, la ricchezza di esempi concreti ed ebbe decine di ristampe fino alle soglie del Novecento.[15] All’ambiente religioso torinese sono legati anche i Discorsi sacri e morali per l’esercizio della buona morte – più segnati dal gusto del tempo ma altrettanto solidi – predicati, nella seconda metà del Settecento, dal sacerdote Giorgio Maria Rulfo direttore spirituale della Compagnia dell’Umiltà formata da signore della nobiltà sabauda.[16]
            La pratica proposta da san Giovanni Bosco agli allievi dell’Oratorio e delle istituzioni educative salesiane aveva, dunque, una solida tradizione spirituale di riferimento.

(continua)


[1] Giovanni Bosco, Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 44.

[2] Cf. Giovanni Bosco, Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 63 (parte II, capo II, art. 4): “[…] Una volta al mese si farà da tutti l’esercizio della buona morte, preparandovisi con qualche sermoncino od altro esercizio di pietà”.

[3] [Giovanni Bosco], Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales secondo il Decreto di approvazione del 3 aprile 1874, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 81 (cap. XIII, art. 6). Lo stesso stabilivano le Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice, con una dicitura molto simile: “La prima Domenica o il primo Giovedì del mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui, lasciando per quanto   è possibile gli affari temporali, ognuna si raccoglierà in se stessa, farà l’Esercizio della buona morte, disponendo le cose sue spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’Eternità. Si faccia qualche lettura acconcia al bisogno, e ove si possa la Superiora procuri dal Direttore una predica od una conferenza sull’argomento”, Regole o Costituzioni per le Figlie di Maria SS. Ausiliatrice aggregate alla Società salesiana (ed. 1885), Titolo XVII, art. 5, in Giovanni Bosco, Costituzioni per l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872-1885). Testi critici a cura di Cecilia Romero, Roma, LAS, 1983, 325.

[4] Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri degli esercizi di cristiana pietà per la recita dell’uffizio della Beata Vergine e de principali vespri dell’anno coll’aggiunta di una scelta di laudi sacre ecc., Torino, Tipografia Paravia e Comp. 1847, 138-142.

[5] Archivio Salesiano Centrale, A0000409 Prediche di don Bosco – Esercizi Lanzo 1876, quaderno XX, ms di Giulio Barberis, pp. 10-11.

[6] Giovanni Bosco, Ai Soci Salesiani, in Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales (ed. 1877), 38.

[7] Costituzioni della Società di san Francesco di Sales precedute dall’introduzione scritta dal Fondatore sac. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia Salesiana, 1907, 227- 231.

[8] Des. Erasmi Roterodami liber cum primis pius, de praeparatione ad mortem, nunc primum et conscriptus et aeditus…, Basileae, in officina Frobeniana per Hieronymum Frobenium & Nicolaum Episcopium 1533, 3-80 (Quomodo se quisque debeat praeparare ad mortem). Cf. anche Pro salutari hominis ad felicem mortem praeparatione, hinc inde ex Scriptura sacra, et sanctis, doctis, et christianissimis doctoribus, ad cujusdam petitionem, et aliorum etiam utilitatem, a Sacrarum literarum professore Ludovico Bero conscripta et nunc primum edita, Basileae, per Joan. Oporinum, 1549.

[9] Giovanni Bona, De praeparatione ad mortem…, Roma, in Typographia S. Michaelis ad Ripam per Hieronimum Maynardi, 1736, 11-13.

[10] Ibid., 67-73.

[11] Ibid., 74-75.

[12] Ibid., 126-132: “Affectus animae suspirantis ad Paradisum”.

[13] Carlo Ambrogio Cattaneo, Esercizi spirituali di sant’Ignazio, Trento, per Gianbatista Monauni, 1744, 74.

[14] Esercizio di preparazione alla morte proposto da un religioso della Compagnia di Gesù per indirizzo di chi desidera far bene un tal passo, Roma, per gl’Eredi del Corbelletti [1650], ff. 3v-6v.

[15] Giuseppe Antonio Bordoni, Discorsi per l’esercizio della buona morte, Venezia, nella stamperia di Andrea Poletti, 1749-1751, 3 vol.; l’ultima edizione è quella torinese di Pietro Marietti in 6 volumi (1904-1905).

[16] Giorgio Maria Rulfo, Discorsi sacri, e morali per l’esercizio della buona morte, Torino, presso i librai B.A. Re e G. Rameletti, 1783-1784, 5 vol.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (1/5)

La celebrazione annuale della memoria di tutti i defunti ci mette davanti agli occhi una realtà che nessuno può negare: il fine della nostra vita terrena. Per tanti, parlare della morte sembra una cosa macabra, da evitare assolutamente. Ma non era così per san Giovanni Bosco; per tutta la sua vita aveva coltivato l’Esercizio della Buona Morte fissando a questo scopo l’ultimo giorno del mese. Chi sa che non sia questo il motivo che il Signore lo ha preso con sé nell’ultimo giorno di gennaio del 1888 trovandolo preparato…

            Jean Delumeau, nell’introduzione della sua opera su La paura in Occidente, racconta l’angoscia da lui provata all’età di dodici anni quando, novello alunno interno di un collegio salesiano, ascoltò per la prima volta le “inquietanti sequenze” delle litanie della buona morte, seguite da un Pater ed Ave “per quello tra noi che sarà il primo a morire”. A partire da quell’esperienza, dai suoi antichi timori, dai suoi difficili sforzi per abituarsi alla paura, dalle sue meditazioni d’adolescente sui fini ultimi, dalla personale paziente ricerca della serenità e della gioia nell’accettazione, lo storico francese ha elaborato un progetto di indagine storiografica focalizzato sul ruolo della “colpevolizzazione” e sulla “pastorale della paura” nella storia dell’Occidente e ha tratto la chiave interpretativa “di un panorama storico assai ampio: per la Chiesa – scrive – la sofferenza e l’annientamento (provvisorio) del corpo sono da temere meno che il peccato e l’inferno. L’uomo non può nulla contro la morte, ma – coll’aiuto di Dio – gli è possibile evitare le pene eterne. Da quel momento un nuovo tipo di paura – teologica – si sostituiva a un’altra che era anteriore, viscerale e spontanea: si trattava di una medicazione eroica, ma sempre di una medicazione, giacché introduceva uno sfogo là dove non c’era che vuoto; di questo genere fu la lezione che i religiosi incaricati della mia educazione cercarono d’insegnarmi”[1].
            Anche Umberto Eco ricordava con ironica simpatia l’esercizio della buona morte che gli veniva proposto nell’Oratorio di Nizza Monferrato:

             “Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull’inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal Giovane provveduto di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un’immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte – se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l’Esercizio della Buona Morte […]. Puro sadismo, si dirà. Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. […] Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita – e con cui l’uomo saggio viene a patti per tutta la vita”[2].

            Nelle case salesiane la pratica mensile della buona morte, con la recita delle litanie inserite da don Bosco nel Giovane provveduto, rimase in uso dal 1847 fino alle soglie del Concilio.[3] Delumeau narra che tutte le volte che gli capitava di leggere quelle litanie ai suoi studenti del Collège de France constatava quanto ne rimanessero sbalorditi: “È la prova – scrive – d’un cambiamento rapido e profondo di mentalità da una generazione all’altra. Essendo rapidamente invecchiata dopo essere stata a lungo attuale, questa preghiera per una buona morte è diventata documento di storia nella misura in cui riflette una lunga tradizione di pedagogia religiosa”.[4] Lo studioso delle mentalità, infatti, ci insegna come i fenomeni storici, per evitare forvianti anacronismi, devono sempre essere affrontati in relazione alla loro coerenza interna e con rispetto dell’alterità culturale, alla quale si deve ricondurre ogni rappresentazione mentale collettiva, ogni credenza e pratica culturale o cultuale delle società antiche. Fuori di quei quadri antropologici, di quell’insieme di conoscenze e di valori, di modi di pensare e di sentire, di abitudini e modelli di comportamento diffusi in un determinato contesto culturale, che plasmano la mentalità collettiva, è impossibile attuare un approccio critico corretto.
            Per quanto ci riguarda, il racconto di Delumeau è documento di come l’anacronismo non insidia soltanto lo storico. Anche il pastore e l’educatore rischiano di perpetuare pratiche e formule fuori degli universi culturali e spirituali che le generarono: così esse, oltre ad apparire per lo meno strane alle giovani generazioni, possono risultare persino controproducenti, essendo venuti meno l’orizzonte di senso globale e le “attrezzature mentali” e spirituali che le rendevano significative. Questa è stata la sorte della preghiera della buona morte riproposta, per oltre un secolo, agli allievi delle opere salesiane in tutto il mondo, poi – intorno al 1965 – del tutto abbandonata, senza alcuna forma di sostituzione che ne salvaguardasse gli aspetti positivi. L’abbandono non era dovuto soltanto alla sua obsolescenza. Era anche un sintomo di quel processo in atto di eclisse della morte nella cultura occidentale, una sorta di “interdetto” e di “proibizione” oggi fortemente denunciato dagli studiosi e dai pastori.[5]
            Il nostro contributo intende indagare il significato e il valore educativo dell’esercizio della buona morte nella pratica di don Bosco e delle prime generazioni salesiane, mettendolo in relazione con una feconda tradizione secolare, per poi individuarne la peculiarità spirituale attraverso le testimonianze narrative lasciate dal Santo.

(continua)


[1] Jean Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino, SEI, 1979, 42-44.

[2] Umberto Eco, “La bustina di Minerva: Dov’è andata la morte?”, in L’Espresso, 29 novembre 2012.

[3] Le “Preghiere per la buona morte” sono ancora riportate, con poche varianti sostanziali, nel riveduto manuale di preghiera per le istituzioni educative salesiane d’Italia, che sostituiva definitivamente il Giovane Provveduto, usato fino a quel momento: Centro Compagnie Gioventù Salesiana, In preghiera. Manuale di pietà ispirato al Giovane Provveduto di san Giovanni Bosco, Torino, Opere Don Bosco, 1959, 360-362.

[4] Delumeau, La paura in Occidente, 43.

[5] Cf. Philippe Ariés, Storia della morte in Occidente, Milano, BUR, 2009; Jean-Marie R. Tillard, La morte: enigma o mistero? Magnano (BI), Edizioni Qiqajon, 1998.




Secondo Congresso dei Coadiutori dell’Africa

Il secondo Congresso Regionale dei Salesiani Coadiutori della Regione Africa-Madagascar si è svolto dal 24 al 29 maggio 2023 a Yaoundé, in Camerun, nella Visitatoria “Nostra Signora dell’Africa” dell’Africa Tropicale Equatoriale (ATE). Il motto del Congresso: “Camminando con Raffaele e Tobia, pedalando con Artemide” ha guidato le giornate di approfondimento del carisma, puntando a promuovere l’identità vocazionale del salesiano coadiutore e ad offrire una visione che aiuti la formazione permanente. Presentiamo l’intervento del Consigliere Regionale, don Alphonse Owoudou.


Introduzione
Il Capitolo Generale 28° ci ha posto una sfida di identità sotto forma di domanda: “Che tipo di Salesiani per i giovani di oggi?”. Questa domanda potrebbe essere rivolta a noi durante questo Congresso dei Fratelli Salesiani: Quali Salesiani per i giovani dell’Africa e del Madagascar di oggi? Le varie riflessioni che hanno alimentato questi giorni ci danno motivo di ridisegnare costantemente il ritratto di ciascuno dei nostri confratelli laici consacrati, ed è questo il contributo che daremo contemplando un libro della Bibbia, il libro di Tobith, una leggenda estremamente profetica, pedagogica e pastorale. Vedremo, attraverso una prospettiva analogica e un po’ ermeneutica, come e in che misura, come don Bosco e in particolare come sant’Artemide Zatti, il Coadiutore è chiamato a diventare un genitore spirituale e un accompagnatore competente per i giovani, per non dire un vero e proprio “sacramento della presenza salesiana”.

1.Camminare con Raffaello e il giovane Tobia
La leggenda di Raffaele e Tobia è un’affascinante storia biblica che riguarda un giovane di nome Tobia e il suo angelo custode, Raffaele. Vorrei riassumere la vita di Tobith dandogli la parola: “Io, Tobith, camminavo nella verità e facevo ciò che era giusto. Facevo l’elemosina alla mia famiglia e ai prigionieri assiri a Ninive e visitavo spesso Gerusalemme per le feste, portando offerte e decime. Quando crebbi, mi sposai ed ebbi un figlio di nome Tobia. Deportato da Sennacherib, mi astenni dal mangiare il loro cibo e Dio mi concesse misericordia davanti a lui. Tramite mio nipote Ahikar, ottenni di tornare a Ninive dove aiutai gli orfani, le vedove e gli stranieri secondo la legge di Mosè”.

Accusato da uno dei cittadini, Tobith viene purtroppo rovinato e persino accecato dagli escrementi di un uccello che gli cadono sul viso. Ricordiamo anche il litigio con la moglie (cap. 2), che aveva portato una pecora: il marito cieco pensava che l’avesse rubata, cosa che fece arrabbiare la moglie, la quale insultò il marito cieco. Tobith aveva un figlio, al quale aveva dato il suo stesso nome. L’arcangelo Raffaele apparve a questo ragazzo in forma umana e gli offrì il suo aiuto. Raffaele accompagna Tobia in una missione difficile, un viaggio pericoloso per raccogliere denaro per la sua famiglia (cap. 4). Durante il viaggio, Raffaele aiuta Tobia a sconfiggere un demone che ha ucciso i mariti delle sue future mogli e cura la cecità di Tobia. Alla fine del viaggio, Tobia sposa Sara, la figlia di un parente lontano, e Raffaele rivela la sua vera identità di angelo di Dio.

Il salesiano laico Artemide Zatti era un religioso e un uomo vicino ai suoi fratelli e sorelle, soprattutto a quelli che soffrivano. Ha dedicato la sua vita ad aiutare i malati e i poveri in Argentina. Zatti era un giovane proveniente da una famiglia povera che iniziò a lavorare all’età di quattro anni per aiutare la famiglia. In seguito emigrò in Argentina con la sua famiglia alla ricerca di una vita migliore. Colpito dalla tubercolosi, guarì e si unì all’ordine salesiano.
Zatti lavorò come farmacista e gestì anche un ospedale, dove fu descritto come molto devoto ai malati e ai poveri. Era anche coinvolto in attività religiose ed era considerato un potenziale candidato alla canonizzazione. Zatti era noto per la sua compassione e dedizione ai pazienti, per la sua competenza medica, per il suo lavoro volto all’espansione dell’ospedale e per la sua eredità duratura. La sua bicicletta, che usava per girare la città visitando i poveri malati, divenne un simbolo della sua vita dedicata agli altri. Zatti rifiutava i regali per sé, preferendo continuare a usare la sua bicicletta, che considerava un mezzo di trasporto sufficiente per adempiere alla sua missione di curare i malati e servire gli altri.

2. I due tweet di papa Francesco e una bicicletta
1. Il fratello salesiano Artemide Zatti, pieno di gratitudine per ciò che aveva ricevuto, ha voluto dire “grazie” facendosi carico delle ferite degli altri: guarito dalla tubercolosi, ha dedicato tutta la sua vita a prendersi cura dei malati con amore e tenerezza.
2. La fede cristiana ci chiede sempre di camminare insieme agli altri, di uscire da noi stessi verso Dio e i nostri fratelli e sorelle. E di saper ringraziare, superando l’insoddisfazione e l’indifferenza che imbruttiscono il nostro cuore.

Papa Francesco, parlando di Zatti, insiste sul “camminare insieme”, ossia condividere e unirsi attraverso l’amore per aiutare coloro che soffrono. Zatti ha dedicato tutta la sua vita a servire i più svantaggiati, utilizzando la sua bicicletta come mezzo di trasporto per recarsi nei quartieri poveri della città e aiutare i malati. La sua bicicletta divenne così un potente simbolo dei valori che condivideva: umiltà, generosità e semplicità.
Infatti, Zatti non mostrava particolare interesse nel possedere un’auto o persino un motorino quando i suoi amici volevano regalargliene uno. La bicicletta era tutto ciò di cui aveva bisogno per raggiungere il suo nobile obiettivo: aiutare le persone più bisognose di sostegno. La scelta del mezzo di trasporto rifletteva anche un’altra caratteristica intrinseca della sua personalità: l’amore incondizionato che distribuiva senza restrizioni o condizioni a coloro che non avevano la fortuna di ricevere altrettanto, semplicemente perché le loro circostanze sociali o finanziarie non glielo permettevano.
Ogni gesto di Zatti risuonava profondamente con tutti, invitando tutti a seguire il suo esempio. Camminare insieme significa essere disponibili psicologicamente e fisicamente, in modo che ogni persona possa sentirsi sostenuta da chi la circonda, ma soprattutto servire gli altri con gentilezza e compassione, come lui stesso si è preso cura di loro per tanti anni. Queste azioni sono un riflesso concreto del messaggio delineato da papa Francesco sul “camminare insieme”: raggiungere coloro che soffrono per prevedere collettivamente un miglioramento generale del benessere della comunità attraverso un atteggiamento generale di maggiore solidarietà e calore verso gli altri nella nostra vita quotidiana.

3. La nostra missione di accompagnamento e sinodalità

Questa storia tratta dal Libro di Tobith è un esempio eccellente dell’importanza e del ruolo cruciale che l’accompagnamento, la sinodalità e la solidarietà svolgono nella nostra missione comune di servizio agli altri.
Raffaele accompagnò Tobia durante tutto il suo viaggio, compresi gli incidenti, adattandosi a ogni situazione e prendendosi il tempo per rispondere alle sue domande, assistere i suoi compagni e aiutare coloro che stavano soffrendo. Il suo ruolo era quello di incoraggiare, incitare e spingere Tobia ad affrontare le sfide che gli si paravano davanti, affinché potesse raggiungere la sua destinazione. Ma ha fatto di più: gli ha anche fornito un aiuto pratico nelle situazioni in cui era impotente contro le forze invisibili che lo controllavano.

Inoltre, Raffaele non ha lavorato da solo durante il viaggio; ha lavorato fianco a fianco con Tobia per trovare soluzioni adatte alle circostanze. Ha capito che per essere efficace, doveva ascoltare le richieste del giovane, rispettare il suo stile di leadership personale e creare un sistema di cooperazione tra loro per raggiungere l’obiettivo finale che condividevano: sconfiggere Asmodeus e guarire suo padre.
Raffaele e Tobia ci insegnano che per fornire un coaching reale, utile, conveniente e soddisfacente, dobbiamo essere attenti alle esigenze degli altri, uscire dalla nostra zona di comfort se necessario, ascoltare attivamente ciò che hanno da dire, mostrare empatia, ma soprattutto lavorare insieme in modo che ognuno di noi possa contribuire, in base alle proprie capacità specifiche, al raggiungimento degli obiettivi comuni che tutti condividiamo. Questo apprendimento è più che mai attuale, perché senza la collaborazione tra persone con obiettivi comuni, la missione sarà compromessa.

4. Una vocazione “medica” e pastorale
Raffaele, che significa “Dio guarisce”, è conosciuto come uno degli arcangeli della Bibbia, spesso associato alla guarigione e alla protezione. Allo stesso modo, Zatti era considerato un guaritore e un protettore dei malati e dei poveri della sua comunità. Ma questa terapia si svolgeva su diversi livelli. L’amore di Zatti per la povertà, il suo distacco dalle cose materiali e la sua disponibilità ad accettare e persino a mendicare ciò che riteneva necessario per il benessere dei suoi pazienti, sono alcuni dei tratti che lo fanno assomigliare a Gesù, che in realtà era un rabbino e guaritore laico. Era sempre disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte e con qualsiasi tempo, e viaggiava sui vecchi carretti di legno dei contadini se lo incontravano mentre si recava a casa di un paziente. Era anche umile e aveva una bassa opinione di sé, nonostante gli sforzi dei suoi benefattori per elevarlo ai suoi stessi occhi e agli occhi del mondo. La forte vita interiore del Santo Coadiutore, piena di amore per Dio e di fiducia totale nella bontà della divina provvidenza, la sua confessione regolare e il suo amore per il Santissimo Sacramento lo rendevano simile a don Bosco. Spesso leggeva brani della vita dei santi ai malati e, alla fine della giornata, dava loro un piccolo biglietto per la sera. Il buon umore di Zatti si basava anche sulle solide fondamenta della sua vita spirituale e consacrata, e mostrava sempre allegria e buona volontà nell’adempimento dei suoi doveri verso i malati e gli sfortunati. Era anche un pacificatore, aiutando a risolvere i conflitti tra i membri del suo staff e i medici di Viedma e della Patagonia. Queste caratteristiche del nostro santo Coadiutore vengono qui evidenziate perché sono anche un potente antidoto contro i nemici dei nostri tre voti, contro l’indifferenza e la pigrizia pastorale, contro l’attuale allontanamento tra i destinatari e noi stessi, e la strada reale che ci porta lontano dal carrierismo, che si traveste da clericalismo nel mondo religioso.
Alla scuola dell’angelo Raffaele e Zatti, scopriamo che anche noi, salesiani di don Bosco, siamo portatori della Buona Novella, che spesso consiste, come Gesù annunciò nella sinagoga (Luca 4), nel guarire e restaurare. Questa funzione “medica” è una parte importante della nostra missione di servire i giovani e i poveri. E se la “malattia”, come la povertà, può assumere diversi volti, noi Salesiani in generale, e i Salesiani Coadiutori in particolare, siamo noti per le nostre varie lotte contro i mali e le varie forme di precarietà, da cui deriva il nostro immenso lavoro nelle scuole, negli orfanotrofi, negli ospedali, negli oratori e nelle officine e laboratori dei nostri centri di formazione professionale e istituti tecnici. Inoltre, nella nostra Regione, come nella Congregazione, diverse Ispettorie, opere e membri della Famiglia Salesiana sono coinvolti in attività direttamente collegate alla salute, tra cui ospedali, cliniche e centri di assistenza agli anziani. La salute è vista come un aspetto importante del benessere dei giovani e dei poveri, e cerchiamo, con don Variara, con Zatti e altri, di rispondere alle loro esigenze in modo totale e olistico.
Oggi, abbiamo bisogno di una generazione di Salesiani sufficientemente radicati nel cielo, come Raffaele, e profondamente legati alle sfide della terra, come Azarias (il soprannome dell’angelo Raffaele), per preoccuparsi di conciliare il bene temporale con quello dell’eternità, lottando contro tutte le forme di malattia e in difesa della salute, soprattutto quelle che colpiscono i più vulnerabili della nostra società. Abbiamo bisogno di angeli e compagni che possano alleviare le nostre malattie fisiche, mentali ed emotive, così come i problemi di salute legati alla povertà, come la malnutrizione e l’accesso limitato all’assistenza sanitaria. Continuiamo a lavorare per soddisfare queste esigenze in modo efficace e olistico, fornendo un’assistenza sanitaria di qualità e lavorando per migliorare la vita delle persone più vulnerabili.

5. Metafora del rapporto educativo e pastorale
Azarias illustra la perfetta relazione educativa tra il coadiutore salesiano e i Tobia o giovani di oggi. Soprattutto se sappiamo che il soprannome Azarias significa in realtà assistente, ausiliario, coadiutore. Quindi, nello stesso modo in cui un angelo accompagnava un ragazzo verso la maturità, il coadiutore può e deve incoraggiare i giovani a crescere e maturare nelle relazioni con i loro coetanei, nelle cosiddette relazioni paritarie, ma anche nelle relazioni e nei doveri verso la famiglia e i genitori, e il mondo degli adulti in generale, nelle cosiddette relazioni asimmetriche. Ci incoraggia a rileggere questa meravigliosa storia tratta dal Libro di Tobith e a fare nostri i saggi consigli dell’anziano Tobith al figlio e la lezione di vita e di religione che Azarias dà alla famiglia riconciliata, prima di tornare a Dio, cioè a colui che lo ha mandato. Questo è un dettaglio importante: andare e tornare da Dio, Colui che ci ha mandato, come quegli andirivieni sulla scala di Giacobbe, dove gli angeli fanno la spola tra cielo e terra, come per insegnare agli angeli di oggi l’unione con Dio e la predilezione per i poveri della terra.
Sant’Artemide Zatti ci mostra come possiamo assimilare perfettamente questo ruolo nella nostra vita quotidiana: dedicando la sua vita ad aiutare i più giovani e i più poveri, ha fatto molto di più che dispensare semplicemente insegnamenti morali. Ha guidato i giovani verso la crescita personale, riconoscendo le loro capacità interiori e mostrando loro come esprimerle. Ha anche dato l’esempio mostrando compassione per i malati e i poveri; dimostrando con le sue azioni che è possibile cambiare il mondo intorno a noi attraverso l’amore, il dono di sé e il sacrificio.
Il Fratello Salesiano può essere statisticamente una minoranza (in Africa il 9% nelle province più ricche). Eppure si trova in una posizione privilegiata per cogliere questo modello ammirevole, volando verso le periferie della missione con e come l’angelo custode, percorrendo i sentieri della dimensione terrena e secolare della vita, e “pedalando” con Zatti al capezzale dei bisognosi, in tutta umiltà e senza l’arroganza dei grandi mezzi e dell’arsenale di alcuni pastori di oggi. In questo modo, possono imitare la Guida celeste fornita da Dio nella storia di Tobia: motivare l’obbedienza gentile verso il padre anziano e cieco, avviarlo di fronte alle avversità del viaggio, nonché prendere coraggiosamente una decisione importante per il suo futuro, confidare in Dio nei momenti decisivi, in poche parole un coraggio impressionante e un’empatia profonda che permetteranno al ragazzo una crescita armoniosa che lo condurrà verso un’autonomia riflessiva, anche se i suoi genitori, anticipando nella loro ansia la parabola del figliol prodigo, lo aspettavano ogni giorno con preoccupazione. Ma il testo dice che il giovane Tobia conosceva il cuore di suo padre e la tenerezza preoccupata di sua madre.

Conclusione
“Io sono Raffaele, uno dei sette angeli presenti davanti alla gloria del Signore. Non abbiate paura! La pace sia con voi e benedite Dio per sempre. Non abbiate paura di ciò che avete visto, perché era solo un’apparenza. Benedite il Signore, festeggiatelo e scrivete ciò che vi è accaduto”.

Alla fine della storia, Raffaele si definisce come un sacramento della presenza di Dio con Tobia. Esattamente quello che fece e fu Gesù, quello che illustrò il nostro fondatore don Bosco e quello che ci raccomanda il Rettor Maggiore nella terza priorità di questo sessennio. Essere un segno dell’altrove, “come se anche noi potessimo vedere l’invisibile”. L’invisibile in ambienti che sono comunque molto visibili, nelle scuole, nella catechesi, nei laboratori o, come diceva don Rinaldi, nell’agricoltura, dove alcuni Confratelli sanno come coltivare e far fruttare la terra e la creazione. Il coadiutore salesiano è una delle due forme di vocazione consacrata salesiana, l’altra è il sacerdote salesiano. Secondo la CG21, non sono solo i singoli a diffondere il messaggio di don Bosco, ma le sue comunità composte da sacerdoti e laici, fraternamente e profondamente uniti tra loro, chiamati a “vivere e lavorare insieme” (C 49).

La presenza significativa e complementare di chierici e laici salesiani nella comunità è un elemento essenziale della sua fisionomia e della sua pienezza apostolica. Quest’anno, alla luce della Strenna del Rettor Maggiore, siamo nella posizione ideale per ribadire che il coadiutore salesiano non è un laico come gli altri fedeli laici della Chiesa. È un religioso consacrato. Naturalmente, la sua vocazione conserva fortunatamente un legame reale con il concetto di laicità e lo esalta solo nelle sue espressioni più belle. In questo senso, questo secondo Congresso Regionale può legittimamente considerare ciascuno dei nostri Confratelli salesiani come quell’angelo, quell’arcangelo descritto nel libro di Tobith, che sta incessantemente davanti al volto di Dio e che percorre le strade del mondo, volando in aiuto di coloro che sono nel bisogno o in cammino, e portandoli alla lode e al ringraziamento. Ogni Confratello è quindi invitato a contemplare Raffaele che, in una mirabile kenosi, rinuncia al suo rango angelico e scende a percorrere le strade polverose per accompagnare Tobia nel cammino di iniziazione all’età adulta. Questa metafora invita il Fratello salesiano ad accompagnare i giovani di oggi verso la piena cittadinanza come cittadini e credenti, come voleva il nostro fondatore: amore per i genitori (Raffaele esorta Tobia ad obbedire a suo padre), impegno sociale (Raffaele aiuta Tobia e supervisiona le operazioni miracolose per i malati, castità e amore per sposare Sara, e lealtà per diventare l’erede di suo padre e di suo suocero Raguel) e servizio divino (Raffaele si proclama inviato direttamente da Dio e dà consigli per onorare e lodare Dio e amare il prossimo).
Come i messaggeri biblici (angeli) e gli apostoli nella storia della Chiesa, i Confratelli salesiani sono chiamati a essere disponibili, a servire l’unità e l’identità salesiana e la pienezza apostolica, partecipando attivamente alla vita e al governo della Congregazione. Accanto ai loro confratelli diaconi e sacerdoti, accompagnano i giovani – e altri confratelli – nella loro consacrazione e nei loro impegni educativi, integrando e celebrando la diversità all’interno della comunità salesiana. I Confratelli, ben dotati, formati e identificati, sono dei pilastri per i giovani nei loro percorsi di vita, spesso complicati e difficili, proprio come l’Arcangelo Raffaele, alias Azarias, è stato un pilastro, un riferimento sociale e spirituale per Tobia, che ha potuto così compiere la sua missione di figlio e futuro padre. Il lungo cammino di iniziazione dei nostri giovani dall’Africa all’età adulta è già fruttuoso e lo sarà ancora di più se saranno accompagnati da figure significative e persone fidate come Azarias, veri angeli custodi, compagni di Emmaus, capaci – come nelle nostre case di formazione e nelle nostre istituzioni – di educare, formare e accompagnare. Oltre a servire l’unità, l’identità salesiana e la pienezza apostolica all’interno della Congregazione salesiana con tutti i loro talenti, i Confratelli salesiani svolgono un ruolo molto importante come guide e mentori per i giovani che stanno ancora cercando il loro posto nel mondo: una figura simile a Zatti o a Raffaele che può essere vista come un genitore spirituale.




La cicogna e i suoi doveri

La cicogna bianca (Ciconia ciconia) è un uccello grande, inconfondibile per il suo becco affusolato rosso, per il lungo collo, per le zampe lunghissime, per il candido piumaggio prevalentemente bianco, con penne nere sulle ali. È migratorio per natura, e il suo arrivo in primavera in molti paesi d’Europa è considerato di buon augurio.

Sin dall’arrivo, questi uccelli iniziano a farsi o rifarsi il nido, in posti alti, tantissime volte nello stesso posto.

Nel passato, quando non esistevano i pali di sostegno della rete elettrica, i posti più alti erano i camini coperti delle case, ed erano preferiti dalle cicogne quelli più caldi. E le case che si riscaldavano anche nella primavera erano quelle dove un neonato era bisognoso di un ambiente propizio. Di qui la leggenda della cicogna che porta i bambini, leggenda che è diventata un simbolo. Infatti anche oggi, sui biglietti di auguri alle neomamme, è presente una cicogna in volo, con un fagottino legato al becco.

Il Creatore ha dotato le cicogne di istinti superiori, facendo di loro nobili volatili. E sono così fedeli al compito assegnato loro per natura che meritano di essere messe tra le prime nel “libro della creazione”.

La prima cosa che colpisce è che sono tendenzialmente monogame: una volta formata la coppia, restano assieme per tutta la vita. Sicuramente ci saranno nella loro esistenza anche i battibecchi, però questi non portano mai alla separazione.

Quasi sempre tornano allo stesso nido, rifacendolo e arricchendolo. Non si stancano mai di ripararlo ogni anno e di migliorarlo, anche se questo richiede impegno e fatica. E il nido è sempre in alto, sui camini, sui pali elettrici o i campanili, perché vogliono proteggere la loro prole dagli animali selvatici.

Anche se nessuno ha insegnato loro, riescono a costruire stupendi nidi che possono superare due metri di diametro con rametti e anche con altri materiali che trovano alla loro portata di volo, perfino con materiali tessili e plastiche; non distruggono la natura, ma riciclano.

La femmina depone da tre fino a sei uova, non preoccupandosi di come potrà sostenere i suoi piccoli. Una volta deposte le uova, non trascura mai il suo dovere di covarle, anche se deve affrontare brutti periodi. Se i nidi sono vicini alle strade, il rumore continuo delle macchine, le vibrazioni provocate dai mezzi pesanti o le loro luci abbaglianti nella notte non le fa andare via. Quando fa un caldo torrido, quando il sole diventa scottante, la cicogna apre un po’ le sue ali o si muove ogni tanto per rinfrescarsi, ma non cerca di mettersi all’ombra. Quando fa freddo, specialmente di notte, fa di tutto per non lasciare troppo all’esterno le sue uova. Quando viene un forte vento non si lascia trascinare e fa di tutto per restare ferma. Quando piove, non si mette al riparo per difendersi dall’acqua. E quando viene anche una grandinata, resiste stoicamente correndo il rischio di perdere la vita, ma non smette di fare il suo dovere.

Ed è meraviglioso questo comportamento se ci ricordiamo gli istinti basici che il Creatore ha lasciato ad ogni essere vivente. Anche negli organismi più elementari, quelli unicellulari, troviamo quattro istinti fondamentali: nutrizione, escrezione, conservazione dell’individuo (autodifesa) e conservazione della specie (la riproduzione). E quando un organismo deve scegliere se dare priorità a uno di questi istinti, prevale sempre quello della conservazione dell’individuo, dell’autodifesa.

Nel caso della cicogna, il fatto che resti ferma a proteggere le uova anche nelle tempeste, anche quando si abbatte una grandinata che mette in pericolo la sua vita, mostra che l’istinto della conservazione della specie diventa più forte di quello della conservazione dell’individuo. È come se questo uccello avesse coscienza che il liquido di quelle uova non è un prodotto generato dal quale si può separare, ma che dentro l’uovo ci sia una vita che lei deve ad ogni costo proteggere.

La covata la porta avanti alternandosi con il maschio, che non disdegna di dare un cambio alla sua consorte per permetterle di procurarsi il cibo e fare un po’ di movimento. E questo per tutto il tempo, poco più di un mese, fino quando si schiudono le uova e le nuove creature vengono alla luce. Dopo questo periodo, i genitori continuano a darsi il cambio per assicurare ai piccoli un posto caldo, per nutrirli per altri due mesi fino a quando cominciano a lasciare il nido. E fino a tre settimane li nutrono con cibo rigurgitato perché i loro piccoli non sono in grado di nutrirsi diversamente. Si accontentano di quello che trovano: insetti, rane, pesci, roditori, lucertole, serpenti, crostacei, vermi ecc.; non hanno pretese per nutrirsi. E riuscendo a soddisfare questa necessità di alimentarsi, partecipano all’equilibrio naturale, riducendo i parassiti agricoli, come le cavallette.

Assicurano la sopravvivenza dei loro pulcini difendendoli dai passeri rapaci, come i falchi e le aquile, perché sanno che non sono capaci di riconoscere gli aggressori e neanche di difendere sé stessi, e lo fanno al loro posto.

I piccoli, una volta cresciute le ali, imparano a volare e a cercarsi il nutrimento, e a poco a poco abbandonano il loro nido, come se avessero consapevolezza che non c’è neanche spazio fisico per loro, avendo il nido dimensioni limitate. Non vivono pesando sui loro genitori, ma si danno da fare. Sono uccelli non possessivi; non marcano il loro territorio, ma convivono tranquillamente con gli altri.

In questo modo, le giovani cicogne cominciano a vivere come adulte, anche se non lo sono ancora, e non a fare le adulte. Infatti, per cominciare a riprodursi devono aspettare il loro tempo, fino ai 4 anni di età, quando unendosi in coppia con un altro uccello della stessa indole, ma dell’altro sesso, cominciano l’avventura della loro vita. Per questo dovranno imparare che per sopravvivere devono migrare anche per lunghissime distanze, facendo fatica, cercando le loro opportunità di vita in un luogo durante l’estate e in un altro durante l’inverno. E per farlo in sicurezza dovranno associarsi alle altre cicogne, che hanno la stessa natura e interesse.

Gli istinti di queste creature non sono sfuggiti all’osservazione umana. Fin dai tempi antichi la cicogna è stata il simbolo dell’amore tra i genitori e i figli. Ed è l’uccello che meglio rappresenta il legame antico tra l’uomo e la natura.

La cicogna bianca ha un carattere mite e per questo è amata dall’uomo ed è ben vista ovunque; l’Abbazia di Chiaravalle l’ha voluta perfino nel suo stemma accanto al baculo pastorale e la mitra.

Oggi è difficile vederla nella natura. Non capita spesso di vedere un nido di cicogne e ancor meno da vicino. Ma qualcuno ha avuto l’idea di usare la tecnologia per mostrare la vita di questi uccelli, posizionando una videocamera con trasmissione live accanto a un nido su una strada. Guardare per imparare. Il “libro della natura” ha tante cose da insegnarci…


cicogna