Beato Michele Rua. La Consacrazione della nostra Pia Società al Sacro Cuore di Gesù

Lo scorso 24 ottobre, il Santo Padre ha voluto rinnovare la devozione al Sacro Cuore di Gesù attraverso la pubblicazione dell’enciclica Dilexit nos, in cui ha illustrato le ragioni di questa scelta:

“Alcuni si domandano se esso abbia un significato tuttora valido. Ma quando siamo tentati di navigare in superficie, di vivere di corsa senza sapere alla fine perché, di diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato a cui non interessa il senso della nostra esistenza, abbiamo bisogno di recuperare l’importanza del cuore.”

Anche noi desideriamo sottolineare il valore di questa devozione, profondamente radicata nella tradizione salesiana. Don Bosco, ispirato dalla spiritualità di San Francesco di Sales, era profondamente consapevole della devozione al Sacro Cuore, promossa da una delle figlie di San Francesco, la visitandina Santa Margherita Maria Alacoque. Questa devozione è stata per lui una fonte continua di ispirazione, e ci proponiamo di approfondirla in una serie di articoli futuri. Basti, per ora, ricordare lo stemma salesiano, nel quale Don Bosco volle inserire il Sacro Cuore, e la basilica romana dedicata al Sacro Cuore di Gesù, che egli stesso si impegnò a far costruire a Roma, spendendo tempo, energie e risorse.

Il suo successore, il Beato Michele Rua, proseguì sulla scia del fondatore, coltivando la devozione e consacrando la Congregazione Salesiana al Sacro Cuore di Gesù.

In questo mese di novembre desideriamo ricordare la sua lettera circolare, scritta 124 anni fa, il 21 novembre 1900, per preparare questa consacrazione, che presentiamo qui integralmente.

«La Consacrazione della nostra Pia Società al Sacro Cuore di Gesù

Car.mi Confratelli e Figliuoli,

            Da lungo tempo e da molte parti mi fu chiesto con grande insistenza di consacrare la nostra Pia Società al Sacro Cuore di Gesù, con atto solenne e perentorio. Specialmente insistettero in questo assunto le nostre Case di Noviziato e di Studentato, congiunte in lega santa, e la cara memoria di quell’indimenticabile nostro Confratello che fu Don Andrea Beltrami. Dopo un lungo ritardo, consigliatomi dalla prudenza, credo opportuno esaudire queste suppliche ora, che il secolo decimonono volge al termine, e si avanza, lieto di molte speranze, il secolo ventesimo.
            Già in molte circostanze ho raccomandato a miei figliuoli e Confratelli salesiani, ed alle nostre Suore, le Figlie di Maria Ausiliatrice, la divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, e, sicuro che essa avrebbe apportato grandi beni spirituali a ciascuno di noi, l’anno scorso ho indetto, che ogni salesiano a Lui facesse la consacrazione di sé stesso. Queste raccomandazioni furono ben accolte da tutti; si eseguirono scrupolosamente le mie ingiunzioni, ed i beni da me aspettati vennero abbondantemente.
            Ora intendo che ciascuno si consacri di nuovo, in modo tutto particolare, a codesto Cuore Sacratissimo; anzi desidero che ciascun Direttore Gli consacra interamente la Casa cui presiede, ed inviti i giovani a far essi pure questa santa offerta di sé stessi, li istruisca sul grand’atto che sono per compiere, e dia loro comodità affinché vi si possano preparare convenientemente.
            Si può dire ai Cristiani riguardo al Cuore di Gesù quanto San Giovanni Battista diceva ai Giudei parlando del divin Salvatore: “Vi è uno in mezzo di voi, che voi non conoscete”. E possiamo pur ripetere a questo riguardo le parole di Gesù alla Samaritana: “Oh se conoscessi il dono di Dio!” Quale amore e confidenza maggiore verranno a sentire verso Gesù i nostri soci ed i nostri giovani se saranno in questa divozione ben istruiti!
            Il Signore ha concesso grazie a ciascuno di noi, ne ha concesso alle singole Case; ma più ancora fu largo de’ suoi favori colla Congregazione che ci è madre. La nostra Pia Società fu ed è continuamente beneficata in modo specialissimo dalla bontà di Gesù, che vede quanto si abbisogni di grazie affatto straordinarie per iscuotere la tiepidezza, per rinnovarci nel fervore e per eseguire il gran compito che Iddio ci affidò: è giusto quindi che la Pia nostra Società sia tutta e interamente consacrata a quel Cuore Sacratissimo. Tutti insieme presentiamoci a Gesù, e gli saremo cari come chi gli offre non solo ogni fiore del suo giardino, ma il giardino stesso; non solo i vari frutti dell’albero, ma l’albero stesso. Poiché se riesce accetta a Dio la consacrazione dei singoli individui, più accetta deve tornargli quella di un’intera comunità, essendo questa come una legione, una falange, un esercito che a Lui si offre.
            E parmi sia veramente questo il tempo voluto dalla divina Providenza per compiere l’atto solenne. La circostanza ci si presenta molto propizia ed opportuna. Mi par bello e, direi, sublime, nell’istante che divide due secoli, presentarci a Gesù, anime espiatrici per i misfatti dell’uno, e apostoli per conquistar l’altro al suo amore. Oh come Gesù benedetto poserà allora benigno lo sguardo sopra le varie nostre case, divenute come altrettanti altari su cui offriamo a Lui la contrizione dei nostri cuori e le migliori nostre energie fisiche e morali; come benedirà la nostra Società, che questi olocausti sparsi per il mondo intero raccoglie in un solo e grandioso, per prostrarsi ai piedi di Gesù ed esclamare a nome de’ suoi figlioli: “Oh Gesù! grazie, grazie; perdono, perdono; aiuto, aiuto!” E per dirgli: “Noi, Gesù, siamo già vostri per diritto, avendoci Voi comperati col vostro preziosissimo Sangue, ma vogliamo anche essere vostri per elezione e consacrazione spontanea, assoluta : le nostre Case son già vostre per diritto, essendo Voi padrone d’ogni cosa, ma noi vogliamo che esse siano vostre, e di Voi solo, anche per nostra spontanea volontà; a Voi le consacriamo: la nostra Pia Società già è vostra per diritto, poiché Voi l’avete ispirata, Voi l’avete fondata, Voi l’avete fatta uscire, per dir così, dal vostro Cuore medesimo; ebbene, noi vogliamo confermare questo vostro diritto; vogliamo che essa, mercé l’offerta che ve ne facciamo, diventi come, un tempio, in mezzo al quale possiam dire con verità, che abita signore, padrone e re il Salvatore nostro Gesù Cristo! Sì, Gesù, vincete ogni difficoltà, regnate, imperate in mezzo a noi: Voi ne avete diritto, Voi lo meritate, noi lo vogliamo”.
            Questi i voti, i sospiri, i propositi del nostro cuore: cerchiamo di ispirarci continuamente ad essi e di rinvigorirli nell’amor di Dio in questa circostanza specialissima.
            È giunto pertanto, o carissimi, il gran momento di rendere pubblica e solenne la consacrazione nostra e di tutta la nostra Pia Società al divin Cuore di Gesù: è giunto il momento di emettere l’atto esterno e perentorio, tanto disiderato, con cui dichiariamo, che noi e la Congregazione restiamo cosa sacra al Divin Cuore. Bisogna ormai stabilire alcune norme pratiche, le quali valgano a regolare questa grande funzione.
            Intendo prima di tutto che questa solenne Consacrazione sia preparata da un divoto triduo di preghiere e di predicazione, il quale opportunissimamente comincerà la sera dei Santi Innocenti, 28 dicembre, giorno in cui morì S. Francesco di Sales, nostro grande Titolare.
            Intendo in secondo luogo che l’atto della Consacrazione si emetta da tutti insieme giovani, ascritti, confratelli, superiori di ogni casa, nonché dal maggior numero di cooperatori che si possano radunare. Quelli tra i confratelli, che per qualche circostanza si trovassero fuori della propria comunità, e non vi potessero tornare, procurino di recarsi alla casa salesiana più vicina, e quivi si uniscano in questo atto agli altri confratelli. Quelli poi, che non potessero comodamente recarsi a qualche nostra casa, emettano egualmente questa consacrazione nel modo migliore, che le circostanze loro permetteranno.
            In terzo luogo stabilisco, che questa funzione si faccia in chiesa, nella notte del 31 dicembre al primo gennaio, proprio nel momento solenne che divide i due secoli. Voi sapete che il Santo Padre, anche per questo anno, dispose che alla mezzanotte del 31 dicembre si possa celebrare solennemente la S. Messa, col Santissimo esposto. Ora nel caso nostro converrà che, radunati in chiesa mezz’ora prima, si faccia l’esposizione del SS. Sacramento, e dopo almeno un quarto d’ora di adorazione, si rinnovino da tutti i voti battesimali, dai confratelli anche i voti religiosi e quindi si faccia la consacrazione di sé stessi, della propria casa, e di tutto il consorzio umano al Sacro Cuore di Gesù, con il formulario prescritto dal S. Padre l’anno scorso. In quel momento medesimo io col Capitolo Superiore, con un formulario apposito, faremo la Consacrazione di tutta la Congregazione.
            Dopo ciò si celebri in ogni casa la Santa Messa, facendovi seguire la Benedizione col SS. Sacramento, previo il canto del Te Deum, e di quelle altre pratiche, che dal S. Padre o dai singoli Vescovi fossero ordinate per quella circostanza.
            Negli Oratorii festivi, e dove, per qualsiasi circostanza, non fosse possibile o conveniente fare detta funzione alla mezzanotte, essa potrà farsi nel mattino seguente, all’ora più opportuna, avendo il Santo Padre concesso di tenere esposto il Santissimo Sacramento dalla mezzanotte al mezzogiorno del primo gennaio, conferendo di più indulgenza plenaria a chi in questo frattempo vi facesse un’ora di adorazione.
            Non vorrei poi che questa Consacrazione fosse un atto sterile: essa dev’essere fonte di grandi beni a noi e al prossimo. L’atto della Consacrazione è breve, ma il frutto deve essere imperituro. E per ottenere questo, credo conveniente raccomandarvi alcune pratiche speciali, approvate e commendate dalla Chiesa, e dalla medesima arricchite di molte indulgenze, le quali, mentre terran viva la memoria di questo grande atto, serviranno pure ad eccitare sempre più questa divozione in noi, nei giovani e nei fedeli alle nostre cure affidati.
            Propongo pertanto, che la festa del Sacro Cuore di Gesù sia ovunque solennizzata come una delle feste primarie dell’anno.
            In tutte le Case si ricordi il primo venerdì del mese con una speciale funzione, e sia raccomandato ad ogni confratello e giovane di fare in quel giorno la Comunione Riparatrice.
            Ogni confratello sia ascritto all’associazione detta Pratica dei Nove Uffizi, e cerchi veramente di eseguire l’uffizio che gli tocca.
            Ogni casa sia associata alla Confraternita della Guardia d’onore, e ne esponga il quadrante; ed ogni confratello e giovane fissi il tempo speciale, in cui intende di fare la sua ora di guardia, com’è prescritto da detta Confraternita.
            Nelle case di noviziato e studentato chi può faccia l’Ora Santa, secondo le norme stabilite per praticare detta divozione.
            Siccome poi nulla può meglio contribuire a fare con profitto l’atto di Consacrazione sopra ordinato, ed a praticar bene la divozione al Sacro Cuore, quanto il conoscere in che essa consista, ne ho compilato, e vi espongo qui in seguito una istruzione adeguata. In questo modo spero che la divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù verrà maggiormente apprezzata e desiderata da tutti noi ed anche dai nostri buoni alunni.

            Intimamente persuaso che questo atto solenne che stiamo per compiere, abbia ad essere accetto al Cuore Sacratissimo di Gesù, e che abbia a produrre gran bene alla nostra Pia Società, mentre vi saluto e vi benedico, vi prego ancora di unirvi con me a ringraziare questo Divin Cuore pei grandi benefizi che già ne impartì, ed a pregarlo che il nuovo secolo, mentre sarà per noi di conforto e di aiuto, abbia ancora ad essere davvero il secolo del trionfo di Gesù Redentore, in modo che Egli, il nostro caro Gesù, venga a regnare nella mente e nel cuore di tutti gli uomini del mondo, e possa presto ripetersi in tutta l’estensione del suo significato il Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat.

Vostro aff.mo in Corde Jesu
Sac. MICHELE RUA

ISTRUZIONE SULLA DIVOZIONE AL SS. CUORE DI GESÙ’
            Gesù, Redentor nostro pietosissimo, essendo venuto in terra per salvare tutti gli uomini, collocò nella sua Chiesa una dovizia inestimabile di beni, che dovessero valere a tanto fine. E tuttavia non contento a questa provvidenza così universale e generosa, ogni qualvolta si fe’ sentire una speciale necessità, volle fornire agli uomini aiuti anche più efficaci. A tal fine furono, certo per ispirazione del Signore, istituite man mano tante divote solennità; a tal fine il Signore fe’ sorgere tanti santuari in ogni parte del mondo, ed a tal fine ancora si istituì nella Chiesa, a misura dei bisogni, tanta santità di pratiche religiose.

N. 22, Torino, 21 novembre 1900,
Festa della Presentazione di Maria al Tempio
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Halloween: una festa da celebrare?

I saggi ci dicono che per capire un evento bisogna sapere qual è la sua origine e qual è il suo fine. È anche il caso del fenomeno ormai diffuso di Halloween, che più che una festa da celebrare è una manifestazione su cui riflettere. Questo per evitare di celebrare una cultura della morte che non ha nulla a che vedere con il cristianesimo.

Halloween, come si presenta oggi, è una festa che ha le sue origini commerciali negli Stati Uniti e si è estesa negli ultimi tre decenni in tutto il mondo. Si celebra nella notte tra il 31 ottobre e il 1º novembre e ha alcuni simboli propri:
• I costumi: vestirsi con abiti spaventosi per rappresentare personaggi fantastici o creature mostruose.
• Le zucche intagliate: la tradizione di intagliare zucche, inserendo una luce all’interno per creare lanterne (Jack-o’-lantern).
• Dolcetto o scherzetto: usanza che consiste nel bussare alle porte delle case e chiedere dolci in cambio della promessa di non fare scherzi (“Trick or treat?” – “Dolcetto o scherzetto?”).

Sembra una delle feste commerciali coltivate apposta da alcuni interessati per accrescere i loro incassi. Infatti, nel 2023 solo negli Stati Uniti sono stati spesi 12,2 miliardi di dollari (secondo la National Retail Federation) e nel Regno Unito circa 700 milioni di sterline (secondo gli analisti di mercato). Queste cifre spiegano anche l’ampia diffusione mediatica, con vere e proprie strategie per coltivare l’evento, trasformandolo in un fenomeno di massa e presentandolo come un semplice divertimento occasionale, un gioco collettivo.

Origine
Se andiamo a cercare gli inizi di Halloween — perché ogni cosa contingente ha il suo inizio e la sua fine — scopriamo che risale alle credenze pagane politeiste del mondo celtico.
L’antico popolo dei Celti, un popolo di nomadi che si è sparso per tutta l’Europa, è riuscito a conservare meglio la sua cultura, la sua lingua e le sue credenze nelle isole britanniche, per di più in Irlanda, nella zona dove l’Impero Romano non era mai arrivato. Una delle loro festività pagane, chiamata Samhain, veniva celebrata tra gli ultimi giorni di ottobre e i primi di novembre ed era il “capodanno” che apriva il ciclo annuale. Poiché in quel periodo la durata del giorno diminuiva e quella della notte aumentava, si pensava che il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti diventasse sottile, permettendo alle anime dei defunti di tornare sulla terra (anche in forma di animali) e permettendo inoltre l’ingresso agli spiriti maligni. Per questo usavano maschere spaventose per confondere o allontanare gli spiriti, per non essere toccati dalla loro influenza maligna. La celebrazione era obbligatoria per tutti, iniziava la sera e consisteva in riti magici, fuochi rituali, sacrifici di animali e, probabilmente, anche sacrifici umani. In quelle notti i loro sacerdoti druidi andavano ad ogni casa per ricevere qualcosa da parte della popolazione per i loro sacrifici, sotto la pena di maledizioni.

L’usanza di intagliare una rapa a forma di faccia mostruosa, collocare una luce all’interno e metterla sulla soglia delle case, col tempo ha originato una leggenda che spiega meglio il significato. Si tratta della leggenda del fabbro irlandese Jack il Tirchio (Stingy Jack), un uomo che inganna il diavolo più volte e, alla sua morte, non è ricevuto in paradiso né all’inferno. Essendo nel buio e costretto a cercare un luogo per il suo riposo eterno, chiese e ricevette dal demonio un tizzone ardente, che infilò all’interno di una rapa che aveva con sé, creando una lanterna, la Jack-o’-lantern. Ma non trovò il riposo e continua a vagare ancora oggi. La leggenda vuole simboleggiare le anime dannate che vagano per la terra e che non trovano pace. Così si spiega l’usanza di mettere una brutta rapa davanti alla casa, per incutere timore e cacciare le anime vagabonde che in quella notte si potrebbero avvicinare.

Anche il mondo romano aveva una festa simile, chiamata Lemuria o Lemuralia, dedicata a tenere lontano gli spiriti dei morti dalle case; si celebrava il 9, 11 e 13 maggio. Gli spiriti si chiamavano “lemuri” (il termine “lemure” deriva dal latino larva, che significava “fantasma” o “maschera”). Si pensava che queste celebrazioni fossero associate alla figura di Romolo, fondatore di Roma, che si dice avesse istituito i riti per placare lo spirito del fratello Remo, da lui ucciso; però sembra che la festività sia stata istituita nel primo secolo dopo Cristo.

Questo tipo di celebrazioni pagane, che si trovano anche in altre culture, riflette la coscienza che la vita continua anche dopo la morte, anche se questa consapevolezza è mescolata con tanti errori e superstizioni. La Chiesa non ha voluto negare questo seme di verità che, in una forma o nell’altra, si trovava nell’animo dei pagani, ma ha cercato di correggerlo.

Nella Chiesa, il culto dei martiri c’è stato fin dall’inizio. Verso il IV secolo d.C., si celebrava la commemorazione dei martiri nella prima domenica dopo Pentecoste. Nel 609 d.C., papa Bonifacio IV spostò questa commemorazione alla festa di Tutti i Santi, proprio il 13 maggio. Nel 732 d.C. papa Gregorio III spostò di nuovo la festa di Tutti i Santi (in inglese antico “All Hallows”) al 1º novembre, e il giorno precedente divenne noto come All Hallows’ Eve (Vigilia di Tutti i Santi), da cui deriva la forma abbreviata Halloween.
Dalla vicinanza immediata delle date si può intuire che lo spostamento della commemorazione da parte della Chiesa era dovuto al desiderio di correggere il culto degli antenati. L’ultimo spostamento indica che la festa pagana celtica Samhain era rimasta anche nel mondo cristiano.

Diffusione
Questa celebrazione pagana — una festa principalmente religiosa — conservata nei sotterranei della cultura irlandese anche dopo la cristianizzazione della società, è riapparsa con la migrazione massiccia degli irlandesi negli Stati Uniti, in seguito alla grande carestia che ha colpito il paese negli anni 1845-1846.
Gli immigrati, per conservare l’identità culturale, hanno iniziato a celebrare varie loro feste come momenti di incontro e di svago, tra le quali anche la All Hallows. Forse più che una festa religiosa, era una festa priva di riferimenti religiosi, legata a celebrare l’abbondanza dei raccolti.
Questo ha favorito la ripresa dell’antico uso celtico della lanterna, e si cominciò a utilizzare non più la rapa ma la zucca per le sue dimensioni più grandi e la morbidezza che favoriva l’intaglio.

Nella prima metà del ’900, lo spirito pragmatico degli americani — cogliendo l’opportunità di guadagno — estese questa festa a livello nazionale, e iniziarono a comparire nei mercati, su scala industriale, abiti e costumi per Halloween: fantasmi, scheletri, streghe, vampiri, zombie, ecc.

Dopo 1950, la festa iniziò a diffondersi anche nelle scuole e nelle case. Apparve l’usanza dei ragazzi che vanno in giro a bussare alle case chiedendo in regalo dei dolcetti con l’espressione: “Trick or treat?

Spinti da interessi commerciali, si arriva in questo modo a una vera festa nazionale con connotazioni laiche, priva di elementi religiosi, che sarà esportata in tutto il mondo specialmente negli ultimi decenni.

Riflessione
Se guardiamo bene, sono rimasti gli elementi che si trovavano nei riti celtici della festa pagana Samhain. Si tratta di vestiti, lanterne, minacce di maledizioni.

I vestiti sono mostruosi e spaventosi: fantasmi, pagliacci inquietanti, streghe, zombie, licantropi, vampiri, teste trapassate da pugnali, cadaveri deturpati, diavoli.
Le zucche orrende intagliate a mo’ di testa tagliata con una luce macabra all’interno.
Ragazzi che girano per le case chiedendo “Trick or treat?” (“Dolcetto o scherzetto?”). Tradotto letteralmente significa “scherzetto o dolcetto”, che ricorda il “maledizione o sacrificio” dei sacerdoti druidi.

Ci chiediamo prima di tutto se questi elementi possono essere considerati degni di essere coltivati. E da quando lo spaventoso, il macabro, l’oscurità, l’orrido, la morte senza speranza definiscono la dignità umana? Sono infatti smisuratamente oltraggiosi.

E ci chiediamo poi se tutto questo non contribuisca a coltivare una dimensione occultistica, esoterica, visto che sono gli stessi elementi utilizzati dal mondo oscuro della stregoneria e del satanismo. E se la moda dark e gothic, come tutte le altre decorazioni di zucche macabramente intagliate, ragnatele, pipistrelli e scheletri, non fomentino l’avvicinamento all’occulto.

È un caso che in concomitanza con questa festa avvengano regolarmente fatti tragici?
È un caso che si verifichino regolarmente in questi giorni delle desacralizzazioni, delle offese gravi alla religione cristiana e perfino dei sacrilegi?
È un caso che per i satanisti la festa principale, che segna l’inizio dell’anno satanico, sia Halloween?
Non produce, specialmente per i giovani, una familiarizzazione con una mentalità magica e occulta, lontana e contraria alla fede e alla cultura cristiana, specialmente in questo tempo in cui la prassi cristiana è indebolita dalla secolarizzazione e dal relativismo?

Vediamo alcune testimonianze.

Una signora inglese, Doreen Irvine, ex sacerdotessa satanista convertita al cristianesimo, avverte nel suo libro From Witchcraft to Christ (Dalla magia nera a Cristo) che la tattica usata per avvicinare all’occultismo consiste proprio nel proporre l’occulto con forme attraenti, con misteri che incitano, facendo passare tutto come un’esperienza naturale, anche simpatica.

Il fondatore della Chiesa di Satana, Anton LaVey, dichiarava apertamente la sua gioia che i battezzati partecipino alla festa di Halloween: «Sono contento che i genitori cristiani permettano ai loro figli di adorare il diavolo almeno una notte all’anno. Benvenuti ad Halloween».

Don Aldo Buonaiuto, del Servizio Anti-sette dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, in un suo scritto, Halloween. Lo scherzetto del diavolo, ci avverte che «i cultori di Satana considerano donate a lui le “energie” di tutti coloro che, sia pure per gioco, stanno evocando il mondo delle tenebre nei riti perversi praticati in suo onore, lungo tutto il mese di ottobre e in particolare nella notte tra il 31 ottobre e il 1º novembre».

Padre Francesco Bamonte, esorcista e vicepresidente dell’Associazione Internazionale Esorcisti (ex presidente della stessa per due mandati consecutivi), avverte:

“La mia esperienza, insieme a quella di altri sacerdoti esorcisti, mostra come la ricorrenza di Halloween, incluso il periodo di tempo che la prepara, rappresenti di fatto, per molti giovani, un momento privilegiato di contatto con realtà settarie o comunque legate al mondo dell’occultismo, con conseguenze anche gravi non solo sul piano spirituale, ma anche su quello dell’integrità psicofisica. Anzitutto va detto che questa festa imprime quanto meno la bruttezza. E imprimendo nei bambini la bruttezza, il gusto dell’orrido, del deforme, del mostruoso messi sullo stesso piano del bello, li orienta in qualche modo al male e alla disperazione. In cielo, dove regna la sola bontà, tutto è bello. All’inferno, dove si respira solo odio, tutto è brutto.” […]
“Sulla base del mio ministero di esorcista posso affermare che la ricorrenza di Halloween è, nel calendario dei maghi, degli operatori dell’occulto e dei cultori di Satana, una delle “festività” più importanti; di conseguenza per loro è motivo di grandissima soddisfazione che la mente e il cuore di tanti bambini, adolescenti, giovani e di non pochi adulti vengano indirizzati al macabro, al demoniaco, alla stregoneria, tramite la rappresentazione di bare, teschi, scheletri, vampiri, fantasmi, aderendo così alla visione beffarda e sinistra del momento più importante e decisivo dell’esistenza di un essere umano: la fine della sua vita terrena.” […]
“Noi sacerdoti esorcisti non ci stanchiamo di mettere in guardia contro questa ricorrenza, che non solo attraverso condotte immorali o pericolose, ma anche con la leggerezza del divertimento considerato innocuo (e purtroppo ospitato sempre più spesso anche in spazi parrocchiali) può sia preparare il terreno a una futura azione di disturbo, anche pesante, da parte del demonio, sia permettere al Maligno di intaccare e deturpare le anime dei più giovani.”

Sono soprattutto i giovani che subiscono l’impatto diffuso del fenomeno Halloween. Senza criteri di discernimento seri, rischiano di essere attratti dalla bruttezza e non dalla bellezza, dall’oscurità e non dalla luce, dalla cattiveria e non dalla bontà.

Bisogna riflettere se continuare a celebrare la festa delle tenebre, Halloween, o la festa della luce, Tutti i Santi

Per approfondire il tema, raccomandiamo il libro Il fascino oscuro di Halloween. Domande e risposte di Padre Francesco Bamonte.




Il cammino educativo di don Bosco (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Il mercato delle braccia giovani
            Il tempo storico, in cui don Bosco visse, non fu tra i più felici. Nei quartieri di Torino, il santo educatore scopre un vero “mercato delle braccia giovani”: la città si riempiva sempre di più di minori sfruttati in modo disumano.
            Don Bosco stesso ricorda che i primi ragazzi che poté avvicinare erano “scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori ed altri, che provenivano da paesi lontani”. Erano impiegati ovunque, indifesi, non protetti da alcuna legge. Erano “venditori ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri fanciulli che vivacchiavano alla giornata”. Li vedeva arrampicarsi sui palchi dei muratori, cercare un posto di garzone nelle botteghe, aggirarsi lanciando il richiamo dello spazzacamino. Li vedeva giocare ai soldi agli angoli delle strade: se tentava di avvicinarli, si allontanavano diffidenti e sprezzanti. Non erano i ragazzi dei Becchi, che cercavano racconti o giochi di prestigio. Erano i “lupi” dei suoi sogni; erano i primi effetti di una rivoluzione che avrebbe sconvolto il mondo, la rivoluzione industriale.
            Arrivano a centinaia dai piccoli centri nella città, alla ricerca di lavoro. Non trovano che luoghi squallidi, nei quali si ammassa tutta la famiglia, senz’aria, senza luce, fetidi per l’umidità e gli scoli di fogna. Nelle fabbriche e nelle botteghe nessuna misura igienica, nessun regolamento, tranne quello imposto dal padrone.
            La fuga dalla povertà della campagna verso la città comportava anche l’accettazione di misere paghe o l’adattamento a un rischioso tenore di vita, pur di avere qualcosa da guadagnare. Solo nel 1886 arrivò una prima legge, grazie anche allo zelo del prete degli artigiani, che in qualche modo regolava il lavoro minorile. Nei cantieri in costruzione, don Bosco vede “fanciulli dagli otto ai dodici anni, lontano dal proprio paese, servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti malsicuri, al sole, al vento, salire le ripide scale a pioli carichi di calce, di mattoni, senza altro aiuto educativo che villani rabuffi o percosse”.
            Don Bosco tira rapidamente i conti. Quei ragazzi hanno bisogno di una scuola e di un lavoro che aprano loro un avvenire più sicuro: hanno bisogno di essere prima di tutto ragazzi, vivere l’esuberanza dell’età, senza intristire sui marciapiedi e affollare le prigioni. La realtà sociale dei nostri tempi sembra una risonanza di quella di ieri: altre immigrazioni, altri volti bussano come un fiume in piena alle porte delle nostre coscienze.
            Don Bosco è stato un educatore dotato di intuizione, di senso pratico, restio verso soluzioni a tavolino, metodologie astruse e progetti astratti. La pagina educativa è scritta dal santo con la sua vita, prima che con la sua penna. È il modo più convincente per rendere credibile un sistema educativo. Per far fronte alle ingiustizie, allo sfruttamento morale e materiale di minorenni crea scuole, organizza laboratori di artigianato di ogni tipo, inventa e promuove iniziative contrattuali a tutela del ragazzo, stimola le coscienze con proposte qualificate di formazione al lavoro. Alla vuota politica di palazzo e alle strumentali manifestazioni di piazza risponde con strutture efficienti di accoglienza, servizi sociali innovativi, oggetto di stima e ammirazione anche dei più accaniti anticlericali del tempo. E la storia di oggi non è poi tanto diversa da quella di ieri; oltretutto, la storia indossa l’abito che i suoi sarti confezionano con le proprie mani e le proprie idee.
            Don Bosco ha creduto nel ragazzo, ha scommesso sulle sue capacità, poche o molte, visibili o nascoste che fossero. Amico di tanti ragazzi di strada, ha saputo leggere nel loro cuore le potenzialità di bene nascoste. Egli riusciva a scavare dentro la vita di ognuno e tirare fuori risorse preziose per confezionare l’abito a misura della dignità dei suoi giovani amici. Una pedagogia che non tocchi l’essenza della persona e non sappia coniugare, al di fuori di ogni logica storica e culturale, i valori eterni di ogni creatura, rischia di intervenire su persone astratte o soltanto in superficie.
            L’impatto nel territorio del suo tempo fu determinante. Si è guardato attorno, ovunque: ha visto ed ha creato l’impossibile per realizzare le sue sante utopie. È venuto a contatto con le realtà estreme della devianza minorile. È entrato nelle carceri: ha saputo guardare dentro questa piaga con coraggio e con spirito sacerdotale. È stata l’esperienza, che lo ha segnato profondamente. Si è accostato ai mali della città con viva e commossa partecipazione: aveva coscienza dell’esistenza di tanti ragazzi che aspettavano qualcuno che si prendesse cura di loro. Ha visto con il cuore e la mente i loro traumi umani, ha anche pianto, ma non si è fermato alle sbarre; è riuscito ad urlare con la forza del suo cuore, a quanti incontrava, che quella del carcere non è la casa da ricevere in regalo dalla vita, ma che esiste un’altra possibilità di vivere la vita. Lo ha gridato con scelte concrete a quelle voci che provenivano dalle celle malsane, e con gesti di vicinanza alla moltitudine di ragazzi seminati per le strade, accecati dall’ignoranza e congelati dall’indifferenza della gente. È stato l’assillo di tutta la vita: impedire che tanti finissero dietro le sbarre o appesi alla forca. Non è neppure pensabile che il suo Sistema preventivo non avesse collegamenti con questa amara e sconvolgente esperienza giovanile. Anche volendo, non avrebbe mai potuto dimenticare quell’ultima notte passata accanto a un giovane condannato all’impiccagione, o l’accompagnamento di condannati a morte e lo svenimento in vista del patibolo. Com’è pensabile che il suo cuore non avesse una reazione, nel passare tra la gente forse compiaciuta, forse commiserante, e vedere una giovane vita spegnersi per una logica umana, che regola i conti con chi è finito in un burrone e non si china a tendere la mano per tirarlo fuori? Il contadino dei Becchi, dal cuore grande come la sabbia del mare, è stato una mano sempre tesa verso la gioventù povera e abbandonata.

Preziosa eredità
            Ogni uomo lascia sempre una traccia del suo passaggio sulla terra. Don Bosco ha lasciato alla storia l’incarnazione di un metodo educativo che è anche una spiritualità, frutto di una sapienza educativa sperimentata nella fatica quotidiana, accanto ai ragazzi. Di questa preziosa eredità si è scritto tanto!
            L’ambito educativo oggi è quanto mai complesso, perché si muove in un tessuto culturale disarticolato. Esiste un pluralismo metodologico di interventi operativi assai vasto, sia a livello sociale che a livello politico.
            L’educatore si trova di fronte a situazioni difficili da decifrare e spesso contraddittorie, con modelli ora permissivi, ora autoritari. Cosa fare? Guai all’educatore incerto, frenato dal dubbio! Chi educa non può vivere indeciso e perplesso, facendo il pendolare tra il “così o il cosà”. Educare in una società frammentaria non è semplice. Con una consistente classe di emarginati, divisa in tanti frammenti, non è facile far luce; prevale il soggettivo, l’interesse e l’attenzione al proprio “io”, al proprio interesse, la tendenza a rifugiarsi in ideali effimeri e transitori. Dagli anni in cui prevaleva la tendenza al protagonismo, si è passati al rifiuto o al disinteresse per la vita pubblica, per la politica: poca partecipazione, scarsa voglia di coinvolgimento.
            All’assenza di un centro propositore di punti di riferimento stabili, si aggiunge l’assenza di un fondamento di certezze, che dia ai giovani la voglia di vivere e l’amore al servizio per gli altri.
            Eppure, in tutto questo mondo dalle egemonie provvisorie, privo di una cultura unitaria, con elementi eterogenei ed isolati, emergono nuovi bisogni: una migliore qualità della vita, relazioni umane più costruttive, l’affermarsi di una solidarietà centrata sul volontariato. Affiorano esigenze di spazi aperti nuovi per il dialogo e l’incontro: sono i giovani a decidere come, dove e cosa dirsi.
            Nell’epoca della bioetica, del telecomando, della ricerca di cose belle e semplici della terra, si è alla ricerca di un volto nuovo della pedagogia. È la pedagogia che si veste di accoglienza, di disponibilità, di spirito di famiglia, che genera fiducia, gioia, ottimismo, simpatia, che apre orizzonti propositivi di speranza, che ricerca i mezzi e i modi per operare la novità della vita. È la pedagogia del cuore umano, l’eredità più preziosa che ha lasciato don Bosco alla società.
            Su questo tessuto, aperto e sensibile alla prevenzione, si deve costruire con coraggio e volontà un futuro migliore per i ragazzi disturbati di oggi. È possibile sempre e comunque rendere presente l’intervento pedagogico di don Bosco, perché fondato sull’essenza naturale di ogni essere umano. Sono i criteri della ragione, della religione e dell’amorevolezza: il trinomio sul quale tanti giovani sono stati formati “come onesti cittadini e buoni cristiani”.
            Non è un metodo di studio, lo ripetiamo, ma uno stile di vita, l’adesione a uno spirito, che racchiude valori nati e maturati con l’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore. La straordinaria predilezione per i giovani, il profondo rispetto per la loro persona e la loro libertà, la preoccupazione di mettere insieme le esigenze materiali con quelle dello spirito, la pazienza di vivere i ritmi della crescita o del cambiamento del ragazzo soggetto attivo, non passivo, di ogni processo educativo, sono la sintesi di questa “preziosa eredità”.
            E c’è un altro aspetto. C’è un conto aperto con la società: i giovani del futuro reclamano un don Bosco “universale”, oltre i margini della sua famiglia apostolica. Quanti dei nostri ragazzi non hanno mai sentito parlare di don Bosco!
            Urge rilanciare il suo messaggio, ancora vivo: a disattendere questo processo naturale di riattualizzazione, si rischia anche di far morire i segni positivi presenti nella cultura di oggi che, anche se con sensibilità diverse e con finalità e motivazioni contrapposte, ha a cuore la promozione umana del ragazzo.
            La pedagogia di don Bosco, prima di essere tradotta in documenti riflessi, in scritti sistematici ha preso il volto di quei moltissimi giovani da lui educati. Ogni pagina del suo sistema educativo ha un nome, un fatto, una conquista, forse anche fallimenti. Il segreto della sua santità? I giovani! “Io per voi studio, per voi lavoro, per voi sono disposto a dare la vita”.
            A giovani senza amore, don Bosco ha ridonato l’amore. A giovani senza famiglia, perché inesistente o da essi fisicamente e spiritualmente lontana, don Bosco ha cercato di costruire o ricostruire l’ambiente e il clima della famiglia. Uomo dotato di una profonda disponibilità al miglioramento mediante il continuo cambio, don Bosco si lasciava guidare dalla certezza che tutti i giovani, praticamente, potevano diventare migliori. Il germe della bontà, la possibilità di riuscita era in ogni giovane; bisognava solo trovare la strada: “Si è preso a cuore la sorte di migliaia di piccoli vagabondi, ladroncelli per abbandono o miseria, ragazzini e ragazzi affamati e senza casa”.
            Quelli che la società metteva ai margini, per don Bosco erano al primo posto; erano l’oggetto della sua fede. I giovani respinti dalla società rappresentavano addirittura la sua gloria; era la sfida in un momento storico in cui le attenzioni e le cure educative da parte della società e di organismi erano dirette ai fanciulli per bene, a modo, anzi il più a modo possibile.
            Don Bosco ha intuito la forza dell’amore dell’educatore. Egli non si è per nulla preoccupato di adeguarsi e conformarsi ai sistemi, metodi e concezioni pedagogiche in uso al suo tempo. Era apertamente nemico di una educazione che accentuava soprattutto l’autorità, che predicava un rapporto freddo e distaccato tra educatori ed educandi. La violenza puniva momentaneamente il vizio, ma non guariva il vizioso. E così non accettava e non ammetteva mai punizioni “esemplari”, che avrebbero dovuto avere un effetto di prevenzione, incutendo paura, ansia e angoscia.
            Aveva capito che nessuna educazione era possibile senza guadagnare il cuore del giovane; il suo era un metodo educativo che portava al consenso, alla partecipazione del ragazzo. Era convinto che nessun tentativo pedagogico portava frutto, finché non avesse trovato fondamento nell’intera disposizione dell’ascolto.
            C’è una caratteristica che riguarda la sfera, nella quale si compie l’educazione ed è tipica della pedagogia di Don Bosco: la creazione e la conservazione di una “allegria”, per cui ogni giorno diventa una festa. Fu un’allegria che sussiste solo, e non potrebbe essere diversamente, in virtù di un’attività creativa, che esclude ogni noia, ogni senso di stanchezza per non sapere come occupare il tempo. Don Bosco possedeva in questo campo un’inventiva e un’abilità che gli permettevano, con straordinaria abilità, non solo di intrattenere, ma di attirare a sé i giovani attraverso giochi, recite, canti, passeggiate: la sfera dell’allegria rappresentava per la sua pedagogia un passaggio obbligato.
            I giovani, naturalmente, devono scoprire dov’è il loro errore, per questo hanno bisogno dell’aiuto dell’educatore, anche attraverso la disapprovazione, ma non è affatto necessario che questa sia accompagnata dalla violenza. La disapprovazione è un appello alla coscienza. L’educatore deve essere la guida ai valori, non alla propria persona. Nell’intervento educativo, un legame troppo forte dell’educando nei confronti della persona dell’educatore può minacciare il favorevole effetto della sua attività educativa; può facilmente sorgere un mito, generato da emotività, al punto da farne un ideale assolutizzato e assolutizzante. I giovani non devono essere disposti a fare la nostra volontà: devono imparare a fare ciò che è giusto e significativo per la loro crescita umana ed esistenziale. L’educatore lavora per il futuro, ma non può lavorare sul futuro; deve accettare, dunque, di essere continuamente esposto alla revisione della sua opera, delle sue metodologie e soprattutto deve essere continuamente preoccupato di scoprire sempre più profondamente la realtà dell’educando, per intervenire al momento opportuno.
            Don Bosco diceva: “non basta che il primo cerchio, cioè la famiglia, sia sano, bisogna che sia sano anche quel secondo cerchio, inevitabile, che è formato dagli amici del fanciullo. Cominciate a dirgli che vi è una grande differenza tra compagni e amici. I compagni non se li può scegliere; li ritrova nel banco della scuola e nel luogo di lavoro o di adunanze. Gli amici, invece, li può e li deve scegliere… Non ostacolate la naturale vivacità del fanciullo e non chiamatelo cattivo perché non sta fermo”.
            Però questo non basta; il gioco e il moto potranno occupare una buona parte, ma non tutta la vita del ragazzo. Il cuore ha bisogno di nutrimento suo, ha bisogno di amare.
             “Un giorno, dopo una serie di considerazioni su don Bosco, invitai i ragazzi del nostro centro ad esprimere con un disegno, con una parola, con un gesto l’immagine che si erano fatta del Santo.
            Alcuni riprodussero la figura del prete circondato da ragazzi. Un altro disegnò una sbarra: all’interno era abbozzato il volto di un ragazzo, mentre dall’esterno una mano tentava di forzare un catenaccio. Un altro ancora, dopo un lungo silenzio, abbozzò due mani che si stringevano. Un terzo disegnò cuori a volontà, dalle forme più svariate e al centro un mezzo busto di don Bosco, con tante e tante mani che toccavano questi cuori. Un ultimo scrisse una sola parola: padre! La maggior parte di questi ragazzi non conosce Don Bosco”.
             “Da tempo sognavo di accompagnarli a Torino: non sempre le circostanze ci erano state favorevoli. E dopo vari tentativi a vuoto eravamo riusciti a formare un gruppo di otto ragazzi, tutti con provvedimenti penali a carico. Due ragazzi avevano avuto il permesso di uscire dal carcere per quattro giorni, tre erano agli arresti domiciliari, gli altri erano soggetti a prescrizioni varie.
            Vorrei avere una penna da artista per descrivere le emozioni che leggevo nei loro occhi nell’ascoltare il racconto dei loro coetanei aiutati da don Bosco. Si aggiravano per quei luoghi benedetti come se rivivessero le loro storie. Nelle camerette del Santo seguirono la s. Messa con un raccoglimento commovente. Li rivedo stanchi, appoggiare la testa all’urna di Don Bosco, fissare il suo corpo, bisbigliare preghiere. Cosa abbiano detto, cosa don Bosco abbia detto a quei ragazzi non lo saprò mai. Con loro ho goduto la gioia della mia stessa vocazione”.
            In Don Bosco riscontriamo una sapienza somma nel centrare la vita concreta di ogni ragazzo o giovane che incontrava: la loro vita diventava la sua vita, le loro sofferenze diventavano le sue sofferenze. Non si dava pace fino a quando non li avesse aiutati. I ragazzi che venivano a contatto con don Bosco, avvertivano di essere suoi amici, sentivano di averlo a fianco, ne percepivano la presenza, ne gustavano l’affetto. Questo li rendeva sicuri, meno soli: per chi vive emarginato è il sostegno maggiore che possa ricevere.
            In un sussidiario delle scuole elementari, ingiallito e consunto dagli anni, ho letto alcune frasi, scritte a inchiostro, a fondo del racconto del giocoliere dei Becchi. Chi le aveva scritto era la prima volta che sentiva parlare di Giovannino Bosco: “Solo Dio, la sua Parola, è regola immortale e guida dei nostri comportamenti e delle nostre azioni. Dio c’è nonostante le guerre. La terra nonostante gli odi continua a darci il pane per vivere”.

don Alfonso Alfano, sdb




Il cammino educativo di don Bosco (1/2)

Sulle strade del cuore
            Don Bosco ha pianto alla vista dei ragazzi finiti in carcere. Ieri come oggi, il calendario del male è implacabile: per fortuna lo è anche quello del bene. E sempre di più. Sento che le radici di ieri sono le stesse di oggi. Come ieri, altri ragazzi, anche oggi, trovano casa sulla strada e nelle prigioni. Credo che la memoria del prete di tanti ragazzi che non avevano parrocchia è il termometro insostituibile per misurare la temperatura del nostro intervento educativo.
            Don Bosco vive in un momento di povertà sociale impressionante. Si era all’avvio del processo di aggregazioni giovanili nelle grandi metropoli industriali. La stessa autorità di polizia denunciava questa pericolosità: erano tanti “i figlioletti che allevati senza principi di Religione, d’Onore e d’Umanità, finivano per marcire totalmente nell’odio”, si legge nelle cronache del tempo. Era proprio la crescente povertà, che spingeva una grande moltitudine di adulti e giovani a vivere di espedienti, e in particolare di furto e di elemosine.
            Il degrado urbano fece esplodere le tensioni sociali, che viaggiavano di pari passo con quelle politiche; ragazzi discoli e gioventù traviata, verso la metà del secolo dicianovesimo, richiamano l’attenzione pubblica, scuotendo la sensibilità governativa.
            Al fenomeno sociale si aggiunge un evidente pauperismo educativo. Lo sfascio della famiglia destava preoccupazioni soprattutto nella Chiesa; il prevalere del sistema repressivo è alla base del crescente disagio giovanile; ne risente il rapporto genitori e figli, educandi ed educatori. Don Bosco dovrà confrontarsi con un sistema fatto di “cattivi tratti”, proponendo quello dell’amorevolezza.
            Una vita ai limiti del lecito e dell’illecito di tanti genitori, la necessità di procacciarsi il necessario per la sopravvivenza, porterà una moltitudine di ragazzi allo sradicamento dalla famiglia, al distacco dal proprio territorio. La città si affolla sempre di più di ragazzi e giovani alla caccia di un posto di lavoro; per molti che vengono da lontano manca anche un angolo per dormire.
            Non è raro incontrare una signora, come Maria G., mendicare servendosi di bambini sistemati ad arte nei punti strategici della città o davanti alle porte delle chiese; spesso, gli stessi genitori affidavano i propri figli a mendicanti, che se ne servivano per suscitare la pietà altrui e riceverne un maggiore guadagno. Sembra la fotocopia di un sistema collaudato in una grande città del Sud: il noleggio di bambini altrui, per impietosire il passante e rendere più redditizio l’accattonaggio.
            Il furto era comunque la vera fonte di guadagno: è un fenomeno che, nella Torino dell’ottocento, cresce e diventa inarrestabile. Il 2 febbraio del 1845 comparvero di fronte al commissario di polizia del Vicariato nove monelli di età compresa tra gli undici e i quattordici anni, accusati di aver derubato dalla bottega di un libraio numerosi volumi … e vari oggetti di cancelleria, facendo uso di grimaldello. La nuova leva di “borsajuoli” attirava continue lagnanze della gente. Erano quasi sempre fanciulli abbandonati, privi di genitori, di parenti e di mezzi di sussistenza, poverissimi, da tutti scacciati ed abbandonati che finivano a rubare.
            Il quadro della devianza minorile era impressionante: la delinquenza e lo stato di abbandono di tanti ragazzi si allargava a macchia d’olio. Il numero crescente di “discoli”, di “temerari borsajuoli” nelle strade e nelle piazze era comunque solo un aspetto di una diffusa congiuntura. La fragilità della famiglia, il forte disagio economico, la costante e forte immigrazione dalle campagne verso la città, alimenta una situazione precaria, che le forze politiche si sentono impotenti ad affrontare. Il disagio cresce, quando la criminalità si organizza e penetra nelle strutture pubbliche. Incominciano le prime manifestazioni di violenza di bande organizzate, che agiscono con azioni improvvise e ripetute, a scopo intimidatorio, destinate a creare un clima di tensione sociale, politico e religioso.
            Ne sono espressione le bande, dette le “cocche”, che si diffusero in vario numero, prendendo nomi diversi dai quartieri dove avevano il punto di riferimento. Avevano il solo scopo “di inquietare i passeggeri, di maltrattarli se si fossero lagnati, di commettere atti osceni verso le donne, e di attaccare qualche militare o preposto isolato”. In realtà non si trattava di associazioni a delinquere, ma più di aggregazioni, formate non solo da torinesi, ma anche da immigrati: giovani dai sedici ai trent’anni che erano soliti ritrovarsi in spontanee riunioni, specie nelle ore serali, dando sfogo alle proprie tensioni e alle frustrazioni della giornata. È in questa situazione della metà del secolo XIX che si inserisce l’attività di don Bosco. Non erano i ragazzi poveri, amici e compagni d’infanzia della sua terra dei Becchi in Castelnuovo, non erano i baldi giovani di Chieri, ma “i lupi, le zuffe, i discoli” dei suoi sogni.
            È in questo mondo di conflitti politici, in questa vigna, dove abbondante è la semina della zizzania, tra questo mercato delle braccia giovani, assoldati alla depravazione, tra questi ragazzi senza amore e malnutriti nel corpo e nell’anima, che è chiamato a lavorare don Bosco. Il giovane prete ascolta, andrà sulle strade: vede, si commuove, ma, concreto quale era, si rimbocca le maniche; quei ragazzi hanno bisogno di una scuola, di educazione, di catechismo, di formazione al lavoro. Non c’è tempo da perdere. Sono giovani: hanno bisogno di dare senso alla loro vita, hanno diritto ad avere tempo e mezzi per studiare, apprendere un mestiere, ma anche tempo e spazi per stare allegri, per giocare.

Andate, guardatevi intorno!
            Sedentari per professione o per scelta, computerizzati nel pensiero e nelle azioni, rischiamo di perdere l’originalità dello “stare”, della condivisione, della crescita “insieme”.
Don Bosco non è vissuto nell’epoca dei preparati in provetta: ha lasciato all’umanità la pedagogia della “compagnia”, il piacere spirituale e fisico di vivere accanto al ragazzo, piccolo tra piccoli, povero tra poveri, fragile tra fragili.
            Un prete suo amico e guida spirituale, Don Cafasso, conosce Don Bosco, conosce il suo zelo per le anime, intuisce la sua passione per quella moltitudine di ragazzi; lo esorta ad andare per le strade. “Andate, guardatevi intorno”. Fin dalle prime domeniche il prete, che veniva dalla terra, il prete che non aveva conosciuto suo padre, andò in giro per vedere la miseria delle periferie della cittadina. Ne rimane sconvolto. “Incontrò un gran numero di giovani di ogni età testimonia il suo successore, don Rua che andavano vagando per le vie e le piazze, specialmente nei dintorni della città, giocando, rissando, bestemmiando e facendo anche peggio”.
            Entra nei cantieri, parla con gli operai, contatta i datori di lavoro; prova emozioni che lo segneranno per tutta la vita nell’incontrare questi ragazzi. E talvolta ritrova questi poveri “muratorini” sdraiati per terra in un angolo di chiesa, stanchi, assenti, assonnati, incapaci di sintonizzarsi con sermoni senza senso per la loro vita vagabonda. Forse era quello l’unico posto dove potevano trovare un po’ di caldo, dopo una giornata di fatica, prima di avventurarsi alla ricerca di qualche posto, ove trascorrere la notte. Entra nelle botteghe, gira per i mercati, visita gli angoli delle strade, dove sono tanti i ragazzi dediti all’accattonaggio. Ovunque ragazzi malvestiti e denutriti; assiste a scene di malcostume e di trasgressioni: protagonisti, ancora ragazzi.
            Dopo alcuni anni, dalla strada passa alle carceri. “Per venti anni continuati ed assiduamente io frequentai le Regie prigioni di Torino ed in particolare le senatorie; dopo ci andava ancora, ma non più regolarmente…” (MB XV, 705)
            Quante incomprensioni all’inizio! Quanti insulti! Una “tonaca” stonava in quel posto, identificata magari con qualche malvisto superiore. Si avvicinò a quei “lupi”, rabbiosi e diffidenti; ascoltò le loro storie, ma soprattutto fece sue le loro sofferenze.
            Comprese il dramma di quei ragazzi: abili sfruttatori li avevano spinti dentro quelle celle. E divenne loro amico. Il suo modo di fare, semplice e umano, restituiva a ciascuno di loro dignità e rispetto.
            Bisognava fare qualcosa e presto; occorreva inventare un sistema diverso, per stare accanto a chi era finito fuori strada. “Allorché il tempo glielo permetteva, spendeva intere giornate nelle carceri. Ogni sabato si recava colle saccocce piene, ora di tabacco, ora di pagnotte, ma collo scopo di coltivare specialmente i giovinetti … assisterli, renderli amici, e così eccitarli a venire all’oratorio, quando loro toccasse la buona sorte di uscire dal luogo di perdizione”. (MB II, 173)
            Nella “Generala”, una Casa di Correzione inaugurata a Torino il 12 aprile del 1845, come si legge nei regolamenti della Casa di pena, venivano “raccolti e governati col metodo del lavoro in comune, del silenzio e della segregazione notturna in apposite celle i giovani condannati ad una pena correzionale per avere agito senza discernimento commettendo il reato ed i giovani sostenuti in carcere per amore paterno”. In questo contesto s’inquadrerebbe la straordinaria escursione a Stupinigi organizzata dal solo Don Bosco, col consenso del Ministro dell’Interno, Urbano Rattazzi, senza guardie, basata soltanto sulla reciproca fiducia, su di un impegno di coscienza e sul fascino dell’educatore. Volle sapere il “motivo per cui lo Stato non ha sopra quei giovani l’influenza” del sacerdote. “La forza che noi abbiamo è una forza morale: a differenza dello Stato, il quale non sa che comandare e punire, noi parliamo principalmente al cuore della gioventù, e la nostra parola è la parola di Dio”.
            Conoscendo il sistema di vita adottato all’interno della Generala, assume un valore incredibile la sfida lanciata dal giovane prete piemontese: chiedere una giornata di “Libera uscita” per tutti quei giovanissimi reclusi. Era una pazzia e tale fu considerata la richiesta di don Bosco. Ottenne l’autorizzazione nella primavera del 1855. Il tutto fu organizzato dal solo don Bosco, con l’aiuto dei ragazzi stessi. Il consenso avuto dal Ministro Rattazzi certamente è un segno di stima e di fiducia per il giovane prete. L’esperienza di condurre fuori di quella Casa di Correzione dei ragazzi in piena libertà e riuscire a riportarli tutti in carcere, nonostante quanto ordinariamente avvenisse all’interno della struttura carceraria, ha dello straordinario. È il trionfo dell’appello alla fiducia e alla coscienza, è il collaudo di un’idea, di un’esperienza, che lo guiderà in tutta la sua vita a scommettere sulle risorse nascoste nel cuore di tanti giovani votati a una emarginazione irreversibile.

Avanti e in maniche di camicia
            Ancora oggi, in un contesto culturale e sociale diverso, le intuizioni di Don Bosco non hanno per nulla la muffa di cose “sorpassate”, ma restano tuttora propositive. Sorprende soprattutto, nella dinamica di recupero di ragazzi e giovani entrati nel circuito penale, lo spirito di inventiva nel creare per loro occasioni concrete di lavoro.
            Oggi siamo tormentati dall’offrire possibilità di occupazioni per i nostri minori a rischio. Chi opera nel sociale sa quanto sia duro superare meccanismi e ingranaggi burocratici per la realizzazione, ad esempio, di semplici borse di lavoro per minorenni. Con formule e strutture agili si realizzò con Don Bosco un tipo di “affidamento” dei ragazzi a datori di lavoro, sotto la tutela educativa del garante.
            I primi anni di vita sacerdotale e apostolica di Don Bosco sono all’insegna della continua ricerca della via giusta per togliere ragazzi e giovani dal pericolo della strada. Erano chiari nella sua mente i progetti, come connaturato nella sua mente e nel suo animo era il metodo educativo. “Non con le percosse, ma con la mansuetudine”. Era anche convinto che non era impresa facile trasformare lupi in agnelli. Ma aveva dalla sua parte la Divina Provvidenza.
            E davanti ai problemi immediati non si tirò mai indietro. Non era il tipo per stare a “dissertare” sulla condizione sociologica del minore, non era neppure il sacerdote dei compromessi politici o comunque formali; era santamente cocciuto nei propositi di bene, ma era fortemente tenace e concreto nel realizzarli. Aveva un grande zelo per la salvezza della gioventù e non c’erano ostacoli che potessero condizionare questa santa passione, che segnava ogni passo e scandiva ogni ora della sua giornata.
             “L’incontrare nelle carceri turbe di giovinetti ed eziandio di fanciulli sull’età di dodici ai diciotto anni, tutti sani, robusti e d’ingenio svegliato; vederli là inoperosi e rosicchiati dagli insetti, stentando di pane spirituale e temporale, espiare in quei luoghi di pena coi rimorsi le colpe di una precoce depravazione, fa inorridire il giovane prete. Egli vede in quegli infelici personificato l’obbrobrio della patria, il disonore della famiglia, l’infamia di se stessi; vede soprattutto anime redente e francate dal sangue di un Dio gemere invece nel vizio, e nel più evidente pericolo di andare eternamente perdute. Chissà se avessero avuto un AMICO, che si fosse preso amorevolmente cura di loro, li avesse assistiti e istruiti nella religione nei giorni di festa, chi sa se non si sarebbero tenuti lontani dal male e dalla rovina, e se non avrebbero evitato di venire e di ritornare in questi luoghi di pena? Certo che almeno il numero di questi piccoli prigionieri sarebbe grandemente diminuito.” (MB II, 63)
            Si rimboccò le maniche e si diede anima e corpo alla prevenzione di questi mali; diede tutto il suo contributo, la sua esperienza, ma soprattutto le sue intuizioni nell’avvio di iniziative proprie o di altre associazioni. Era l’uscita dal carcere che preoccupava sia il governo che le “società” private. Proprio nel 1846 si costituisce una struttura associativa autorizzata dal governo, che sembra, almeno negli intenti e in alcune modalità, quanto oggi avviene nell’ordinamento penale minorile italiano. Si chiamerà “Società Reale per il patrocinio dei giovani liberati dalla Casa di Educazione Correzionale”. Aveva per scopo il sostegno ai giovani che uscivano dalla Generala.
            Una lettura attenta dello Statuto ci riporta nella sostanza ad alcuni provvedimenti penali, previsti oggi come misure alternative al carcere.
            I Soci della predetta Società erano divisi in “operanti”, che assumevano l’ufficio di tutori, “paganti”, e “paganti operanti”. Don Bosco fu “socio operante” Don Bosco ne accettò vari, ma con risultati sconfortanti. Forse furono questi insuccessi a fargli decidere di chiedere alle autorità di mandare i ragazzi preventivamente.
            Non importa qui affrontare il rapporto D. Bosco, case di correzione e servizi collaterali, quanto invece ricordare l’attenzione che il Santo offre a questa fascia di minori. Don Bosco conosceva il cuore dei giovani della Generala, ma soprattutto aveva in animo ben altro che restare indifferente davanti al degrado morale e umano di quei poveri e sfortunati reclusi. Continuò la sua missione: non li abbandonò: “Fin da quando il Governo aperse quel Penitenziario, e ne affidò la direzione alla Società di S. Pietro in Vincoli, Don Bosco ottenne di potersi recare di quando in quando in mezzo a quei poveri giovani […]. Egli col permesso del Direttore delle carceri li istruiva nel catechismo, faceva loro delle prediche, li confessava, e molte volte si intratteneva con essi amichevolmente in ricreazione, come praticava coi suoi figlioli dell’Oratorio” (BS 1882, n. 11 pag. 180).
            L’interesse di Don Bosco per i giovani in difficoltà si concentrò con il tempo nell’Oratorio, vera espressione di una pedagogia preventiva e di recupero, essendo un servizio sociale aperto e polifunzionale. Un contatto diretto con giovani rissosi, violenti, ai limiti della delinquenza Don Bosco lo ha intorno agli anni 1846-50. Sono gli scontri incontri con le cocche, bande o gruppi di quartiere in permanente conflitto. Si racconta di un quattordicenne, figlio di padre ubriacone e anticlericale che, capitato per caso nell’Oratorio nel 1846, si getta a capofitto nelle varie attività ricreative, ma si rifiuta di partecipare alle funzioni religiose, perché secondo gli insegnamenti paterni, non intende divenire “muffito e cretino”. Don Bosco lo affascina con la tolleranza e la pazienza, da fargli cambiare comportamento in breve tempo.
            Don Bosco fu anche interessato ad assumere la gestione di istituti di carattere rieducativo e correzionale. Proposte in questo senso erano venute da varie parti. Ci furono tentativi e contatti, ma bozze e proposte di convenzioni non approdarono a nulla. Tutto questo è sufficiente per far capire quanto Don Bosco avesse comunque a cuore il problema dei discoli. E se resistenze ci furono, venivano sempre dalla difficoltà a far uso del sistema preventivo. Laddove riscontrava un “misto” di sistema repressivo e preventivo, era categorico il rifiuto, come era chiaro anche nel rifiutare ogni denominazione o struttura che riportasse all’idea del “riformatorio”. A leggere attentamente questi tentativi, emerge il fatto che Don Bosco non rifiutava mai l’aiuto al ragazzo in difficoltà, ma era contrario alla gestione di istituti, case di correzione o a dirigere opere dal compromesso educativo evidente.
            È quanto mai interessante il colloquio avvenuto tra Don Bosco e Crispi a Roma nel febbraio del 1878. Crispi chiese a Don Bosco notizie sull’andamento della sua opera e in particolare parlò dei sistemi educativi. Lamentò i disordini che avvenivano nelle carceri dei corrigendi. Fu una conversazione in cui il Ministro restò affascinato dall’analisi di Don Bosco; gli chiese non solo consigli, ma anche un programma per queste case di correzione (MB XIII, 483).
            Le risposte e le proposte di Don Bosco trovarono simpatia, ma non disponibilità: era forte la frattura tra il mondo religioso e quello politico. Don Bosco espose il suo parere, indicando varie categorie di ragazzi: discoli, dissipati e buoni. Per il Santo educatore c’è speranza di ben riuscire per tutti, anche per i discoli, come si era solito allora indicare quelli che oggi diciamo ragazzi a rischio.
            “Che non diventino peggiori”. “…Col tempo lasciano che i buoni principi acquistati giungano più tardi a produrre il loro effetto … molti si riducono a far senno”. È una risposta esplicita e forse la più interessante.
            Dopo aver fatto cenno alla distinzione tra i due sistemi educativi, egli determina quali ragazzi debbono dirsi ne’ pericoli: quelli che vanno in altre città o paesi in cerca di lavoro quelli di cui i genitori non possono o non vogliono prendersi cura i vagabondi che cadono nelle mani della pubblica sicurezza”. Indica i provvedimenti necessari e possibili: “I giardini di ricreazione festiva l’assistenza lungo la settimana di quelli collocati al lavoro ospizi e case di preservazione con arti e mestieri e con colonie agricole”.
            Propone non una gestione governativa diretta delle istituzioni educative, ma un adeguato sostegno in edifici, attrezzature e sussidi finanziari e presenta una versione del Sistema Preventivo che ne conserva gli elementi essenziali, senza l’esplicito riferimento religioso. Oltre tutto una pedagogia del cuore non avrebbe potuto ignorare i problemi sociali, psicologici e religiosi.
            Don Bosco attribuisce il loro traviamento all’assenza di Dio, all’incertezza dei principi morali, alla corruzione del cuore, all’annebbiamento della mente, all’incapacità e incuria degli adulti, soprattutto dei genitori, all’influsso corrosivo della società e all’intenzionale azione negativa dei “compagni cattivi” o alla mancanza di responsabilità degli educatori.
            Don Bosco gioca molto sul positivo: la voglia di vivere, l’affezione al lavoro, la riscoperta della gioia, la solidarietà sociale, lo spirito di famiglia, il sano divertimento.

(continua)

            don Alfonso Alfano, sdb




Canillitas. Minorenni lavoratori nella Repubblica Dominicana (video)

Il lavoro minorile non è una realtà del passato, purtroppo. Nel mondo ci sono ancora circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e quasi la metà di loro sono impiegati in varie forme di lavoro a rischio; alcuni di loro iniziano a lavorare a 5 anni! Questo fatto li allontana dall’istruzione e ha gravi conseguenze negative sullo sviluppo cognitivo, volitivo, emotivo e sociale, incidendo sulla salute e sulla qualità della loro vita.

Prima di parlare del lavoro minorile, bisogna riconoscere che non tutti i lavori svolti dai minori si possono classificare come tali. La partecipazione dei ragazzi a certe attività familiari, scolastiche o sociali che non ostacolano la loro scolarizzazione, non solo non danneggia la loro salute e il loro sviluppo, ma risulta proficua. Tali attività fanno parte dell’educazione integrale, aiutano i ragazzi ad apprendere delle abilità molto utili nella loro vita e li preparano alle responsabilità.

La definizione di lavoro minorile fatta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro è l’attività lavorativa che priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che è dannosa per il loro sviluppo fisico e psicologico. Si tratta di lavori in strada, nelle fabbriche, nelle miniere, con lunghe ore di lavoro che tante volte privano anche del riposo necessario. Sono lavori che fisicamente, mentalmente, socialmente o moralmente sono rischiosi o dannosi per i ragazzi, e che interferiscono con la loro scolarizzazione privandoli dell’opportunità di andare a scuola, costringendoli ad abbandonare la scuola prima del tempo o obbligandoli a cercare di conciliare la frequenza scolastica con lunghe ore di duro lavoro.
È una definizione di lavoro minorile non condivisa da tutti i paesi. Però ci sono dei parametri che la possono definire: l’età, la difficoltà o pericolosità del lavoro, il numero di ore lavorate, le condizioni in cui viene svolto il lavoro e anche il livello di sviluppo del paese. Quanto all’età, è comunemente accettato che non si deve lavorare sotto i 12 anni: le norme internazionali parlano di età minima per l’ammissione al lavoro, cioè non inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo.

Le statistiche recenti parlano di circa 160 milioni di ragazzi che lavorano, e questa cifra nella realtà può essere sensibilmente più alta, dato che è difficile calcolare la situazione reale. Concretamente, un ragazzo su 10 nel mondo è vittima del lavoro minorile. E bisogna tener presente che questa statistica comprende anche lavori degradanti – se si possono chiamare lavori – come il reclutamento forzato nei conflitti armati, la schiavitù o lo sfruttamento sessuale. Ed è preoccupante il fatto che le statistiche indichino che oggi ci sono 8 milioni i ragazzi in più che lavorano rispetto al 2016, e che questo aumento si riscontri soprattutto nei ragazzi tra i 5 e gli 11 anni. Le organizzazioni internazionali avvertono che se la tendenza continuerà così, il numero di bambini impiegati nel lavoro minorile potrebbe aumentare di 46 milioni nei prossimi anni, se non verranno adottate adeguate misure di protezione sociale.

La causa del lavoro minorile è soprattutto la povertà, ma lo sono anche il mancato accesso all’istruzione e la vulnerabilità nel caso dei ragazzi orfani o abbandonati.
Questi lavori nella stragrande maggioranza dei casi comportano anche delle conseguenze fisiche (malattie e patologie croniche, mutilazioni), psicologiche (da abusati, i ragazzi diventano abusatori, dopo aver vissuto in ambienti ostili e violenti diventano a loro volta ostili e violenti, sviluppano bassa autostima e mancanza di speranza per il futuro) e sociali (corruzione dei costumi, alcool, droga, prostituzione, infrazioni).

Non è un fenomeno nuovo, è accaduto anche ai tempi di don Bosco quando tanti ragazzi, spinti dalla povertà, cercavano nelle grandi città espedienti per la sopravvivenza. La risposta del santo è stata quella di accoglierli, assicurare loro vito e alloggio, alfabetizzare, istruire, trovare un lavoro degno e fare sentire a quei ragazzi abbandonati che erano parte di una famiglia.
Anche oggi questi ragazzi mostrano grande insicurezza e sfiducia, sono malnutriti e con gravi carenze emotive. Anche oggi bisogna cercarli, incontrarli, offrendo loro gradualmente ciò che amano per dare loro finalmente ciò di cui hanno bisogno: una casa, un’istruzione, un ambiente familiare e in prospettiva nel futuro un degno lavoro.
Si cerca di conoscere la situazione particolare di ognuno di loro, si va alla ricerca dei famigliari per reinserire i ragazzi in famiglia quando possibile, si propone di abbandonare il lavoro minorile, di socializzare, di frequentare la scuola, accompagnandoli in modo che possano realizzare il loro sogno e il progetto di vita grazie all’istruzione, e di diventare testimoni per altri ragazzi che si trovano nella loro stessa situazione.

In 70 paesi del mondo i salesiani sono attivi nel campo del lavoro minorile. Presentiamo uno di loro, quello della Repubblica Dominicana.

Canillitas erano denominati i ragazzi venditori ambulanti di giornali, che per la povertà avevano pantaloni rimasti corti, lasciando scoperte le loro “canillas”, ossia le gambe. Simili a questi, i ragazzi di oggi devono muovere le gambe per strada ogni giorno per guadagnarsi da vivere, perciò il progetto a loro favore si è chiamato Canillitas con Don Bosco.
Si tratta di un progetto nato come progetto salesiano oratoriano, che poi è arrivato a essere un’attività permanente: il Centro Canillitas con Don Bosco di Santo Domingo.

Il progetto è partito nell’8 dicembre 1985 con tre giovani dell’ambiente salesiano che si sono dedicati a tempo pieno, rinunciando alle loro occupazioni. Avevano chiare le quattro tappe del percorso da seguire: Ricerca, Accoglienza, Socializzazione e Accompagnamento. Hanno iniziato a cercare ragazzi sulle strade e nei parchi di Santo Domingo, a contattarli, a conquistare la loro fiducia e a stabilire legami di amicizia. Dopo due mesi li hanno invitati a passare una domenica insieme e sono stati sorpresi quando più di 300 minori si presentarono all’incontro. Fu un pomeriggio di festa con giochi, musica e merende che ha spinto i ragazzi a chiedere spontaneamente quando potevano tornare. La risposta non poteva essere altra che: “domenica prossima”.
Il loro numero crebbe costantemente, dopo aver capito che l’accoglienza, gli spazi e le attività erano a misura loro. Al campo organizzato nell’estate hanno partecipato un centinaio dei più fedeli. Qui i ragazzi hanno ricevuto una tessera di canillitas nel campo, per dare un’identità e un senso di appartenenza, anche perché tanti di loro non conoscevano neanche la loro data di nascita.
Con la crescita dei numeri dei ragazzi è arrivata anche la crescita delle spese. Questo ha condotto a dover ricercare dei finanziamenti e implicitamente a far conoscere il progetto con questi ragazzi.

Il 2 maggio 1986, la comunità salesiana ha presentato il progetto ai superiori salesiani dell’Ispettoria Salesiana delle Antille, progetto che ottenne un sostegno unanime. Così, il programma Canillitas con Don Bosco fu ufficialmente lanciato e continua anche oggi dopo quasi 38 anni di esistenza. E non solo continua ma è cresciuto e si è ampliato, essendo un modello per altre iniziative. È così che è nato anche il programma Canillitas con Laura Vicuña, sviluppato dalle Figlie di Maria Ausiliatrice per le ragazze lavoratrici, i programmi Chiriperos con Don Bosco, per aiutare i giovani che – per guadagnarsi da vivere – facevano qualsiasi “lavoretto” (come portare l’acqua, buttare la spazzatura, fare commissioni…), e il programma Apprendisti con Don Bosco che si occupa dei minori che lavoravano nelle numerose officine meccaniche, sfruttati da certi imprenditori. Per questi ultimi, i salesiani hanno costruito un’officina con l’aiuto di alcuni bravi industriali e della Prima Donna della Repubblica, in modo da essere liberi di imparare un mestiere e non essere in balia delle ingiustizie.
In seguito a questo successo, tutte queste iniziative e altre sono confluite nella Rete dei Ragazzi e delle Ragazze con Don Bosco, attualmente composta da 11 centri con programmi adeguati alle fasce d’età dei ragazzi, diventati un esempio nella lotta al lavoro minorile nel paese caraibico. Di questa rete fanno parte: Canillitas con Don Bosco, Chiriperos con Don Bosco, Aprendices con Don Bosco, Hogar Escuela de Niñas Doña Chucha, Hogar de Niñas Nuestra Señora de la Altagracia, Hogar Escuela Santo Domingo Savio, Quédate con Nosotros, Don Bosco Amigo, Amigos y Amigas de Domingo Savio, Mano a Mano con Don Bosco e Sur Joven.
La rete ha svolto programmi incentrati sullo sviluppo di abilità nei ragazzi e nei giovani, favorendo la loro formazione e crescita integrale. Ha accompagnato direttamente circa 93.000 ragazzi, adolescenti e giovani, ha raggiunto più di 70.000 famiglie e, indirettamente, ha avuto più di 150.000 beneficiari, lavorando ogni anno con una media di oltre 2500 beneficiari. Tutto ciò è stato realizzato avendo come base il Sistema Preventivo di Don Bosco che ha portato i ragazzi e i giovani a recuperare la propria autostima, a essere protagonisti della propria vita per diventare “onesti cittadini e buoni cristiani”.

Questo lavoro ha avuto anche un impatto socio-politico. Ha contribuito alla crescita della sensibilità sociale verso questi poveri ragazzi che facevano quello che potevano per sopravvivere. L’eco del programma salesiano nei mass-media della Repubblica Dominicana ha dato la possibilità a un gruppo di Canillitas di partecipare a una sessione del Congresso Nazionale del paese e alla redazione del Codice del Sistema di Protezione e dei Diritti Fondamentali dei Ragazzi e degli Adolescenti della Repubblica Dominicana (Legge 136-03), promulgato il 7 agosto 2003.
In seguito, sono stati firmati diversi accordi con l’Istituto di Formazione Tecnico Professionale, con il Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza e con la Scuola della Magistratura.
Grazie al sostegno di molti imprenditori e della società civile sono state avviate collaborazioni e interrelazioni con l’UNICEF, con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con il governo nazionale, con la Coalizione delle ONG per l’infanzia della Repubblica Dominicana e si è perfino arrivati a partecipare alla Conferenza delle Americhe alla Casa Bianca nel 2007, con il ricevimento del presidente George Bush e del Segretario di Stato Condoleezza Rice.

Il lavoro salesiano ha contribuito alla riduzione del lavoro minorile e all’aumento del tasso di istruzione nel paese. Il salesiano missionario promotore, don Juan Linares, è stato nominato Uomo dell’Anno della Repubblica Dominicana nel 2011, e per 10 anni è stato membro del consiglio di amministrazione del Consiglio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’organo di governo del Sistema Nazionale per la Protezione dei Diritti dei Ragazzi e degli Adolescenti.

Recentemente è stato realizzato un documentario, “Canillitas”, che vuole informare, denunciare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul lavoro minorile. Il breve documentario riflette la vita quotidiana di sei ragazzi lavoratori nella Repubblica Dominicana, nonché il lavoro dei missionari salesiani per cambiare questa realtà, grazie all’istruzione.

Presentiamo la scheda del film.

Titolo: Canillitas
Anno di produzione: 2022
Durata: 21 minuti
Genere: Documentario
Pubblico adatto: Tutti
Paese: Spagna
Regia: Raúl de la Fuente, Premio Goya 2014 per “Minerita” e nel 2019 per “Un día más con vida”
Produzione: Kanaki Films
Versioni e sottotitoli: spagnolo, inglese, francese, italiano, portoghese, tedesco e polacco

Versione online:



(Articolo realizzato con il materiale inviato da Missiones Salesianas di Madrid, Spagna.)




Il Dio “misconosciuto” di san Francesco di Sales

Un episodio curioso
            Nella vita di Francesco di Sales, giovane studente a Parigi, c’è un episodio curioso che ha avuto grandi ripercussioni in tutto il resto della sua vita e nel suo pensiero. Era il giorno del carnevale. Mentre tutti pensavano a divertirsi, il diciasettenne sembrava preoccupato, persino triste. Non sapendo se fosse malato o semplicemente malinconico, il suo precettore suggerì di andare a vedere gli spettacoli della festa. Di fronte a questa proposta, il giovane formulò improvvisamente questa preghiera biblica: “Distogli i miei occhi dal vedere le cose vane”. Poi aggiunse: “Signore, fammi vedere”. Vedere che cosa? Rispose: “La sacra teologia; è lei che mi insegnerà ciò che Dio vuole che la mia anima impari”.

            Fino ad allora Francesco aveva studiato con grande profitto e anche successo gli autori pagani dell’antichità. Gli piacevano e poi riusciva molto bene negli studi. Il suo cuore però era insoddisfatto, cercava qualcosa o meglio qualcuno che potesse soddisfare il suo desiderio. Con il permesso del suo precettore, cominciò in quel periodo a frequentare le lezioni tenute dal grande professore di Sacra Scrittura Gilberto Genebrardo, che commentava proprio in quel tempo un libro della Bibbia che racconta la storia d’amore di due innamorati: il Cantico dei Cantici.

            L’amore che viene descritto in questo libro è l’amore tra un uomo e una donna. Tuttavia, l’amore celebrato nel Cantico dei Cantici può essere anche compreso come l’amore spirituale dell’anima umana con Dio, spiegava Genebrardo ai suoi allievi, ed è questa interpretazione tutta spirituale che incantò il giovane studente, il quale esultava con le parole della sposa: “Ho trovato Colui che il mio cuore ama”.

            Il Cantico dei Cantici diventò da allora in poi il libro preferito di san Francesco di Sales. Secondo il padre Lajeunie, il futuro dottore della Chiesa aveva trovato in questo libro sacro “l’ispirazione della sua vita, il tema del suo capolavoro (il Trattato dell’amor di Dio), e la migliore fonte del suo ottimismo”. Per Francesco, assicura anche padre Ravier, è stata come una rivelazione, e da allora “non ha più potuto concepire la vita spirituale che come una storia d’amore, la più bella delle storie d’amore”.

            Non c’è quindi da meravigliarsi se Francesco di Sales è diventato il “dottore dell’amore” e se il tema dell’amore è stato al centro della commemorazione fatta in occasione del quarto centenario della sua morte (1622-2022). Già nel 1967, in occasione del quarto centenario della sua nascita, san Paolo VI l’aveva definito “dottore dell’amore divino e della dolcezza evangelica”. Cinquantacinque anni dopo, in occasione dell’anniversario della sua nascita al cielo, papa Francesco con la sua Lettera apostolica Totum amoris est, ci offre nuovi tratti della vita e della dottrina del santo vescovo e ci ripropone autorevolmente il vero volto di Dio spesso ignorato o misconosciuto.

Il Dio misconosciuto
            Ai tempi di Francesco di Sales, il re di Francia Enrico IV, grande ammiratore delle capacità e delle virtù del vescovo di Ginevra, si rammaricava un giorno con lui per l’immagine distorta che i suoi contemporanei avevano di Dio. Secondo un testimone, il re “vedeva parecchi suoi sudditi vivere ogni sorta di libertà, dicendo che la bontà e la grandezza di Dio non si curava da vicino delle azioni degli uomini, ciò che egli biasimava decisamente. Vedeva poi altri, in gran numero, che avevano una bassa opinione di Dio col credere che egli fosse sempre pronto a sorprenderli, attendendo soltanto l’ora in cui fossero caduti in qualche leggera mancanza per condannarli eternamente, ciò che egli non approvava”.

            Francesco di Sales, da parte sua, era ben consapevole di offrire un’immagine di Dio diversa da quelle molto diffuse ai suoi giorni. In una sua predica, si paragonava all’apostolo Paolo mentre annunciava agli Ateniesi il Dio ignoto: “Non è che io voglia parlarvi di un Dio sconosciuto – precisava – poiché, grazie alla sua bontà, lo conosciamo – ma, senza dubbio, potrei parlare di un Dio misconosciuto. Io, dunque, non vi farò conoscere, bensì vi farò scoprire, quel Dio tanto amabile, che è morto per noi”.

            Il Dio di san Francesco di Sales non è un Dio carabiniere né un Dio lontano, come lo credevano molti del suo tempo, e non è il Dio della “predestinazione”, che da sempre ha predestinato gli uni al paradiso e gli altri all’inferno, come sostenevano molti tra i suoi contemporanei, ma un Dio che vuole la salvezza di tutti. Non è un Dio lontano, solitario e indifferente, ma un Dio provvidente e “portato alla comunicazione”, un Dio attraente come lo Sposo del Cantico dei Cantici al quale la sposa rivolge queste parole: “Traimi indietro a te e correremo noi all’odore dei tuoi profumi”.

            Se Dio attira l’uomo, è affinché l’uomo diventi cooperatore di Dio. Questo Dio rispetta la libertà e la capacità d’iniziativa dell’uomo, come ricorda papa Francesco. Con un Dio dal volto amante come quello proposto da Francesco di Sales, la comunicazione diventa un “cuore a cuore”, il cui scopo è l’unione con lui. È un’amicizia, perché l’amicizia è comunicazione di beni, scambio e reciprocità.

Il Dio del cuore umano
            Nell’Antico Testamento, Dio è chiamato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. L’alleanza stabilita da Dio con i patriarchi significa veramente il legame profondo, irremissibile, tra il Signore e il suo popolo. Nel Nuovo Testamento, l’alleanza stabilita in Gesù Cristo riunisce tutti gli uomini, tutta l’umanità. D’ora innanzi ognuno può invocare Dio con questa preghiera di san Francesco di Sales: “O mio Dio, tu sei il mio Dio, il Dio del mio cuore, il Dio della mia anima, il Dio del mio spirito”.

            Queste espressioni significano che per san Francesco di Sales il nostro Dio è non soltanto il Dio dal cuore umano nella persona del Dio fatto uomo, ma anche il Dio del cuore umano. È vero, il Figlio di Maria ricevendo da lei la sua umanità, ha ricevuto allo stesso tempo un cuore d’uomo, forte e dolce. Ma con l’espressione “Dio del cuore umano”, il dottore dell’amore intende dire che il volto del nostro Dio corrisponde ai desideri, alle attese più profonde del cuore umano. L’uomo trova nel cuore di Gesù il compimento inatteso di un amore che non osava nemmeno pensare o immaginare.

            Il giovane Francesco l’ha sentito bene quando ha scoperto la storia d’amore consegnata nel Cantico dei Cantici. La sposa e lo Sposo, l’anima umana e Gesù si scoprono fatti l’uno per l’altro. Non è possibile che il loro incontro sia stato casuale. Dio li ha fatti l’uno per l’altro in tal modo che la sposa può dire: “Tu sei mio e io sono tua”. Tutto quello che san Francesco di Sales ha detto e scritto vibra di questa storia meravigliosa di appartenenza reciproca.

            Nel Salmo 72 san Francesco di Sales leggeva queste parole che lo hanno colpito: “Dio del mio cuore, mia parte è Dio per sempre”. L’espressione “Dio del mio cuore” gli piaceva molto. Secondo il dottore dell’amore, “se l’uomo pensa con un po’ di attenzione alla divinità, immediatamente sente una qual dolce emozione nel cuore, il che prova che Dio è il Dio del cuore umano”. A santa Giovanna di Chantal, con la quale fonderà l’ordine della Visitazione, raccomandava di dire spesso: “Tu sei il Dio del mio cuore e l’eredità che desidero eternamente”.

            Se abbiamo degli affetti sregolati oppure se i nostri affetti in questo mondo sono troppo forti, anche se buoni e legittimi, occorre tagliarli per poter dire a Nostro Signore come Davide: “Tu sei il Dio del mio cuore e mia parte di eredità eterna. Perché è per questa intenzione che Nostro Signore viene a noi, affinché siamo tutti in lui e a lui”.

            Il cuore di Gesù è il luogo del vero riposo. È la dimora “più spaziosa e più cara al mio cuore”, confidava san Francesco di Sales che aveva fatto questo proposito: “Stabilirò la mia dimora nella fornace d’amore, nel divin cuore trafitto per me. Presso questo focolare ardente, sentirò rianimarsi in mezzo alle mie viscere la fiamma d’amore finora così languida. Ah! Signore, il vostro cuore è la vera Gerusalemme; permettetemi di sceglierlo per sempre come il luogo del mio riposo.”

            Non c’è da dunque meravigliarsi se i tesori del Cuore di Gesù siano stati rivelati ad una figlia spirituale di san Francesco di Sales, Margherita Maria Alacoque, la religiosa della Visitazione di Paray-le-Monial. Gesù le disse: “Ecco questo Cuore che ha tanto amato gli uomini, fino a consumarsi interamente per loro”.

            Due secoli dopo san Francesco di Sales, suo discepolo e imitatore, don Bosco, diceva che “l’educazione è cosa di cuore”: tutto il lavoro parte da qui, e se il cuore non c’è, il lavoro è difficile e l’esito è incerto. Diceva inoltre: “Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati”. Amati da Dio e dai loro educatori. Da questo assunto che Don Bosco ha tramandato alla Famiglia Salesiana, prende avvio l’azione educativa salesiana.




Giuseppe Buzzetti, da immigrante a primo coadiutore salesiano

È uno dei tanti piccoli immigrati nella Torino dell’800. Ebbe la fortuna di incontrare presto Don Bosco e divenne il suo primo «vero» salesiano laico.

            Don Giovanni Bosco, giovanissimo prete, era arrivato a Torino nel novembre del 1841. Guardandosi intorno, e scendendo nelle carceri a fianco di Don Cafasso, si era reso conto della drammatica situazione in cui si trovavano i ragazzi della città. Aveva pregato il Signore di aiutarlo a «fare qualcosa» per loro.
            Nella mattinata dell’8 dicembre, festa di Maria Immacolata, aveva incontrato Bartolomeo Garelli, un muratorino di Asti. Nella sacrestia annessa alla chiesa di S. Francesco d’Assisi gli aveva fatto la prima le-zione di catechismo, e se l’era fatto amico.
            Nel pomeriggio di quella stessa festa, durante la celebrazione serale, Don Bosco vide tre muratorini che dormivano, uno stretto all’altro, sul gradino di un altare. La chiesa era affollata di gente, e sul pulpito un predicatore tesseva la sua laboriosa predica. Don Bosco si avvicinò ai tre in punta di piedi, scosse il primo, e sottovoce gli domandò:
            Come ti chiami?
            — Carlo Buzzetti — rispose confuso il ragazzo che dal prete si aspettava uno scappellotto —. Mi scusi, ma ho cercato di stare attento alla predica. Però non capivo niente, e mi sono addormentato.
            Invece di uno scappellotto, Carlo vide un sorriso buono sulla faccia di quel prete, che sottovoce continuò:
            — E questi chi sono?
            — Mio fratello e mio cugino — disse Carlo scuotendo i due piccoli dormienti —. Facciamo i muratori tutta la settimana e siamo stanchi.
            — Venite con me — sussurrò ancora Don Bosco. E li precedette in sacrestia.
            «Erano Carlo e Giovanni Buzzetti, e Giovanni Gariboldi» ricordava con commozione Don Bosco ai suoi primi Salesiani. Piccoli muratori lombardi che per trenta, quarant’anni gli sarebbero stati accanto, che tutti a Valdocco conoscevano.
            «Allora erano semplici garzoni, ora sono capomastri, costruttori stimati e rispettati».

Giuseppe, il fratellino
            I Buzzetti erano di Caronno Ghiringhello (ora Caronno Varesino), una famiglia numerosa che viveva lavorando la terra. Ma nella famiglia di Antonio e Giuseppina erano nati sette figli, troppe braccia per una terra piccolina. Appena varcata la fanciullezza, papà Antonio aveva pensato di mandare i due figli più grandi a Torino, dove c’era una colonia di muratori lombardi che guadagnavano bene, e tornavano con un bel gruzzolo di risparmi.

La famiglia Buzzetti al completo. Al centro in seconda fila Giuseppe (con la barba). Alla sua sinistra il fratello Carlo; alla destra gli altri tre fratelli.

            Carlo e Giovanni raccontarono a Don Bosco che erano partiti su dei carri da Caronno, in comitiva con altri compaesani più attempati e pratici del lungo cammino (un centinaio di chilometri). Un po’ sul carro un po’ a piedi, avevano camminato portandosi un fardello dei loro poveri indumenti, e avevano dormito presso qualche cascinale. «Ora sta per arrivare la stagione morta per noi muratori — disse Carlo —. A giorni riprenderemo la strada per il nostro paese. Ritorneremo in primavera, e porteremo con noi il nostro terzo fratello, Giuseppe.
            In quei pochi giorni che rimanevano, Don Bosco se li fece amici. Carlo e Giovanni tornarono tre giorni dopo, domenica, alla testa di una squadra di cugini e compaesani. Don Bosco disse la Messa e fece una predichina vivace tutta per loro. Poi fecero colazione insieme, seduti al sole nel cortiletto dietro la sacrestia. Parlarono delle famiglie lontane che presto avrebbero rivisto, del lavoro, dei primi risparmi che potevano portare a casa. Con Don Bosco si trovavano bene, sembrava che fossero amici da sempre.
            Nella primavera del 1842 da Caronno tornano a Torino i fratelli Buzzetti, accompagnati dal fratellino che ha appena compiuto 10 anni (è nato il 12 febbraio 1832). Giuseppe è un fanciullo pallido, tutto spaurito. Don Bosco lo guarda con tenerezza, gli parla da amico. Giuseppe gli si affeziona come un cucciolo. Non si staccherà mai più da lui. Anche quando i fratelli, finita una nuova stagione di lavoro, torneranno a Caronno, lui (anche perché la lunga strada lo sfinisce) rimarrà con il «suo» Don Bosco. Dalla primavera del 1842 all’alba del 31 gennaio 1888, quando Don Bosco morirà, Giuseppe gli sarà sempre accanto, testimone calmo e tranquillo di tutta la vicenda umana e divina del prete «che gli vuole bene». Molti avvenimenti della vita di Don Bosco sarebbero ormai classificati «leggende», nel nostro tempo diffidente e smitizzatore, se non fossero stati visti dagli occhi semplici del muratorino di Caronno, che era sempre lì, a due passi dal «suo» Don Bosco.

«Verresti a stare con me?»
            Don Bosco passa di cantiere in cantiere a incontrare i suoi ragazzi e a controllare che le condizioni di lavoro loro imposte non siano disumane. Vede con pena Giuseppe che porta mattoni e calcina dall’alba al tramonto. C’è tanta bontà e tanta intelligenza in quegli occhi. Fra qualche anno lo chiamerà con sé e gli proporrà di condividere la sua vita. Michele Rua, quello che diventerà il secondo Don Bosco, è ancora un bimbette di quattro anni. Ma colui che sarà il suo braccio forte, il suo primo, vero «coadiutore» nella costruzione dell’Opera Salesiana, è già arrivato. È Giuseppe Buzzetti.
            L’Oratorio trasborda dalla sacrestia di S. Francesco all’Ospedaletto della Marchesa Barolo, da un cimitero a un mulino, da una casupola a un prato. Finisce sotto una tettoia di Valdocco. Intanto, Don Bosco racconta ai suoi ragazzi che avranno un oratorio grandioso, laboratori e cortili, chiese e scuole. Più di uno dice che Don Bosco è impazzito. Giuseppe Buzzetti gli sta accanto. Lo ascolta, si illumina al suo sorriso, non pensa nemmeno che Don Bosco possa sbagliarsi.
            Nel maggio del 1847 la Provvidenza e una pioggia infinita porta a Don Bosco il primo ragazzo che ha bisogno di essere ospitato «giorno e notte». Nello stesso anno ne arrivano altri sei: orfani rimasti soli da un giorno all’altro, giovanissimi immigrati in cerca del primo lavoro. Per loro Don Bosco trasforma due camere vicine in un piccolo dormitorio, piazza i letti, appende alla parete un cartello con sopra scritto «Dio ti vede». Per gestire quella prima microscopica comunità (nutrita dall’orto e dalle pentole di mamma Margherita), Don Bosco ha bisogno di un giovane aiutante di cui fidarsi a occhi chiusi, un ragazzo che rimanga con lui per sempre, e sia il primo di quei chierici e preti che la Madonna in sogno gli ha promesso tante volte. Quel ragazzo sarà Giuseppe Buzzetti.
            Raccontalo stesso Giuseppe: «Era una domenica sera, e me ne stavo a osservare la ricreazione dei miei compagni. Quel giorno avevo fatto la Comunione con i miei fratelli, quindi ero proprio contento. Don Bosco faceva la ricreazione con noi, raccontandoci le più care cose del mondo. Intanto veniva notte, e mi preparavo a tornare a casa. Quando mi avvicinai a Don Bosco per salutarlo, mi disse:
            — Bravo, sono contento di poterti parlare. Dimmi, verresti a stare con me?
            — A stare con lei? Si spieghi.
            — Ho bisogno di raccogliere dei giovanetti che mi vogliano seguire nell’impresa dell’Oratorio. Tu saresti uno. Io comincerò a farti un po’ di scuola. E, se Dio vorrà, a suo tempo potresti essere sacerdote.
            Io guardai in faccia Don Bosco e mi pareva di sognare. Poi egli aggiunse:
            — Parlerò con tuo fratello Carlo, e faremo quanto sarà meglio nel Signore».

Invocatore di «miracoli»
            Carlo fu d’accordo, e Giuseppe venne ad abitare con Don Bosco e sua mamma Margherita. Don Bosco gli affidò il denaro e l’economia della casa, con fiducia totale. E in due anni lo preparò a vestire l’abito nero dei chierici. Era chiamato da tutti «il chierico Buzzetti». Fu lui a prendere da parte Michele Rua in un agosto asfissiante, e a fare a quel ragazzetto svogliato dal caldo una seria riflessione perché non si impegnava più nello studio.
            Anno dopo anno, Giuseppe Buzzetti prese dalle mani di Don Bosco e sviluppò la scuola di canto e la banda musicale, i laboratori (specialmente la tipografia di cui divenne il gestore totale), la sorveglianza dei lavori di costruzione, l’amministrazione dell’Opera che si ingrandiva sempre più, l’organizzazione delle lotterie che furono per anni l’ossigeno indispensabile per l’Oratorio.
            Fu il provocatore involontario di due celebri «moltiplicazioni» di Don Bosco. Nell’inverno del 1848, durante una festa solenne, al momento di distribuire la Comunione a trecento ragazzi, Don Bosco si accorse che nella pisside c’erano otto o nove ostie soltanto. Giuseppe, che serviva Messa, si era dimenticato di preparare un’altra pisside piena di ostie da consacrare. Quando Don Bosco si mise a distribuire l’Eucarestia, Giuseppe si mise a sudare perché vedeva (mentre reggeva il piattello) crescere le ostie sotto le mani di Don Bosco, finché bastarono per tutti. L’anno dopo, nel giorno dei morti, Don Bosco tornò dalla visita al cimitero con la turba dei giovani affamati a cui aveva promesso le castagne cotte. Mamma Margherita, a cui Giuseppe aveva riferito male le parole di Don Bosco, ne aveva preparato solo una piccola pentola. Giuseppe, nella baraonda generale, cercò di far capire a Don Bosco che di castagne c’era solo quella piccola quantità. Ma Don Bosco iniziò a distribuirle alla grande, a piene mestolate. Anche quella volta Giuseppe cominciò a sudare freddo, perché la pentola non si svuotava mai. Alla fine tutti avevano le mani piene di castagne calde, e Giuseppe guardava sbalordito la «pentola magica» da cui Don Bosco continuava a pescare allegramente…
            Poi ci fu il tempo in cui parecchie persone volevano far fuori Don Bosco, e Giuseppe (che si era fatto crescere un’imponente barba rossa) divenne il suo custode e difensore. «Noi lo vedevamo quasi con invidia — racconta Giovanni Battista Francesia — uscire dall’Oratorio per andare ad incontrare Don Bosco che da Torino doveva tornare a Valdocco. C’era bisogno di una mano forte e di un cuore a tutta prova, e Buzzetti era proprio la persona indicata». Quando mancava Giuseppe con la sua barba rossa, spuntava un cane misterioso dal pelo grigio, che Mamma Margherita, Michele Rua, Battistin Francesia guardavano con rispetto e paura, e che, Giuseppe, dovette difendere dai sassi di altri ragazzi spaventati…

I giorni della malinconia
            Il 25 novembre 1856 morì Mamma Margherita. Fu un giorno amaro per Don Bosco e per tutti i suoi. E fu anche il giorno che segnò la fine dell’«Oratorio familiare» che Giuseppe aveva visto e aiutato a crescere. I ragazzi erano diventati tanti, e ogni mese crescevano di numero. Non bastava più una mamma, occorrevano maestri, professori, superiori. Giuseppe, poco alla volta, cedette l’amministrazione a don Alasonatti, la scuola di canto e la banda a don Caglierò, la tipografia al cavalier Oreglia di Santo Stefano. Si era tolto la veste nera dei chierici ormai da tempo, perché le troppe occupazioni non gli avevano mai permesso di continuare seriamente gli studi. Ora si vedeva impegnato in lavori sempre più umili: assisteva in refettorio, apparecchiava le tavole, spediva le Letture Cattoliche, andava in città a cercar lavoro per i laboratori.
            E un giorno la malinconia e lo scoraggiamento ebbero il sopravvento, e decise di lasciare l’Oratorio. Parlò con i suoi fratelli (che avevano posti di responsabilità nell’edilizia torinese), trovò un posto di lavoro e andò a congedarsi da Don Bosco. Con la schiettezza di sempre gli disse che ormai stava diventando l’ultima ruota del carro, che doveva obbedire a quelli che aveva visto arrivare bambini, a cui aveva insegnato a soffiarsi il naso. Manifestò la sua tristezza nel dover partire da quella casa che aveva contribuito a far venir su dai giorni della tettoia. Per Don Bosco fu un colpo tremendo. Ma non compiacque sé stesso. Non gli disse: «Povero me! Mi lasci in un bel pasticcio!» Pensò invece a lui, al suo amico più caro, con cui aveva condiviso tante ore liete e dolorose.
            «Hai già trovato un posto? Ti daranno una paga buona? Ti occorrerà denaro per i primi tempi». Accennò ai cassetti della sua scrivania: «Tu li conosci meglio di me questi cassetti. Prendi tutto quello che ti occorre, e se non basta dimmi ciò che hai bisogno e te lo procurerò. Non voglio, Giuseppe, che debba patire qualche privazione per me». Poi lo guardò con quell’amore che solo lui aveva per i suoi ragazzi: «Ci siamo sempre voluti bene. E spero che non mi dimenticherai mai». Allora Giuseppe scoppiò a piangere. Pianse a lungo, e disse: «Non voglio lasciare Don Bosco. Resterò qui per sempre».
            Quando Don Bosco, nel dicembre 1887, dovette arrendersi al male dell’ultima malattia, accanto al suo letto andò a mettersi Giuseppe Buzzetti. Aveva ormai 55 anni. La sua favolosa barba rossa era diventata tutta bianca. Don Bosco non poteva quasi più parlare, ma cercava lo stesso di scherzare facendogli il saluto militare. Quando riuscì a mormorare alcune parole gli disse: «Oh, il mio Caro! Sei sempre il mio caro».
            Il 30 gennaio fu l’ultimo giorno di vita di Don Bosco. Verso l’una pomeridiana accanto al suo letto c’erano Giuseppe e don Viglietti. Don Bosco spalancò gli occhi, tentò di sorridere. Poi alzò la mano sinistra e li salutò. Buzzetti scoppiò a piangere. Nella notte, verso l’alba, Don Bosco morì.
            Ora che il suo grande amico se n’era andato con Dio, Buzzetti sentiva la vita come svuotata. Aveva l’aria stanca. «Noi guardavamo Giuseppe — ricorda don Francesia — tanto affezionato a Don Bosco, come una di quelle cose preziose che ci ricordano tante e tante memorie». Passava molta parte della giornata in chiesa, presso il tabernacolo, davanti al quadro dell’Ausiliatrice.
            Gli fecero dolce violenza perché andasse nella casa salesiana di Lanzo, a respirare un’aria più buona. «Ci vado volentieri — disse alla fine —. Perché vi andava anche Don Bosco, e perché vi morì il caro don Alasonatti. Andrò lassù, e poi andrò a rivedere Don Bosco».
            Morì stringendo il rosario tra le mani. Aveva 59 anni. Era il 13 luglio 1891.




Santa Famiglia di Nazaret

Celebriamo ogni anno la Santa Famiglia di Nazaret nell’ultima domenica dell’anno. Ma ci dimentichiamo spesso che celebriamo con fasto gli eventi più poveri e delicati di questa Famiglia. Obbligati a dar alla luce in una grotta, perseguitati subito, dovendo emigrare tra tanti pericoli in un paese straniero per sopravvivere, e questo con un neonato e senza sostanze. Ma tutto fu evento di grazia, permesso da Dio Padre, e annunciato nelle Scritture.
Leggiamo il bel racconto che don Bosco stesso faceva ai suoi ragazzi del suo tempo.

Il tristo annunzio. – La strage degli innocenti. – La sacra famiglia parte per l’Egitto.
L’angelo del Signore disse a Giuseppe: Levati, prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e fermati colà fintantoché io t’avvisi. Matth. II, 13.
Si è sentito nell’alto voce di querela, di lutto e di gemito di Rachele che piange i suoi figli; e riguardo ad essi non ammette consolazione perché ei più non sono. Gerem. c. XXXI, v. 15.

            La tranquillità della santa famiglia [dopo la nascita di Gesù] non doveva essere di lunga durata. Appena Giuseppe era rientrato nella povera casa ai Nazareth, un angelo del Signore gli apparve in sogno e gli disse: “Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre e fuggi in Egitto, e rimani colà finché io non ti dica di ritornare. Imperciocché Erode cercherà il fanciullo per farlo morire.”
            E ciò non era che troppo vero. Il crudele Erode ingannato dai Magi e furioso di vedersi sfuggire una si bella occasione, per disfarsi di colui che egli considerava come un competitore al trono, aveva concepito l’infernale disegno di far massacrare tutti i bambini maschi di età inferiore a due anni. Quest’ ordine abbominevole fu eseguito.
            Un largo fiume di sangue scorse la Galilea. Allora si avverò quello che aveva predetto Geremia: “Una voce si è fatta intendere in Rama, voce mista di lacrime e di lamenti. È Rachele che piange i suoi figli e non vuol essere consolata; imperciocché essi non sono più.” Questi poveri innocenti, si crudelmente scannati, furono i primi martiri della divinità di Gesù Cristo.
            Giuseppe aveva riconosciuto la voce dell’Angelo; né si permise alcuna riflessione sulla precipitata partenza, a cui dovevano risolversi; sulle difficoltà d’un viaggio così lungo e così pericoloso. E sì che gli doveva rincrescere di abbandonare la sua povera casa, per andare attraverso ai deserti a cercare un asilo in un paese che egli non conosceva. Senza nemmeno aspettare il domani, nel momento che l’angelo disparve egli si alzò e corse a svegliare Maria. Maria preparò frettolosamente piccola provigione di panni e di viveri che dovevano portare con sé. Giuseppe intanto preparò la giumenta, e partirono senza rammarico dalla loro città per obbedire al comando di Dio. Ecco dunque un povero vecchio, che rende vane le orribili trame del tiranno di Galilea; è a lui che Iddio affida la custodia di Gesù e di Maria.

Viaggio disastroso – Una tradizione.
Allorquando vi perseguiteranno in questa città fuggite ad un’altra. Matth. X, 23.

            Due strade si presentavano al viaggiatore, che per la via di terra volesse recarsi in Egitto. L’una attraversava deserti popolati da bestie feroci, ed i sentieri ne erano malagevoli, lunghi e poco frequentati. L’altra si dirigeva attraverso a un paese poco frequentato, ma gli abitanti della contrada erano ostilissimi agli Ebrei. Giuseppe, che aveva soprattutto a temere gli uomini in questa fuga precipitosa, scelse la prima di queste due strade siccome la più nascosta.
            Partiti da Nazareth nel più fitto della notte, i cauti viaggiatori, il cui itinerario obbligava a passare dappresso Gerusalemme, batterono per qualche tempo i sentieri più tristi e tortuosi. Quando si doveva attraversare qualche grande strada, Giuseppe lasciando al riparo d’una roccia Gesù e sua Madre, andava in perlustrazione pel cammino, per accertarsi se l’uscita non ne fosse guardata dai soldati di Erode. Rassicurato da questa precauzione, ritornava a prendere il suo prezioso tesoro, e la santa famiglia continuava il suo viaggio, tra i burroni ed i colli. Di tratto in tratto si faceva una breve sosta sull’orlo d’un limpido ruscello, e dopo una frugale refezione si prendeva un po’ di riposo dalle fatiche del viaggio. Giunta la sera, era mestieri rassegnarsi a dormire a cielo scoperto. Giuseppe spogliandosi del suo mantello, ne copriva Gesù e Maria per preservarli dall’umidità della notte. Poi il domani sul far del giorno si ricominciava il faticoso viaggio. I santi viaggiatori, avendo oltrepassata la piccola città di Anata, si diressero dalla parte di Ramla per discendere nelle pianure della Siria, dove essi dovevano ormai esser liberi dalle insidie dei loro feroci persecutori. Contro alla loro abitudine avevano continuato a camminare malgrado fosse di già fatta la notte per essere più presto in salvo. Giuseppe andava quasi tastando il terreno avanti agli altri. Maria tutta tremante per questa corsa notturna figgeva i suoi sguardi irrequieti nella profondità dei valloni, e nelle sinuosità delle rocce. D’un tratto in uno svolto, una frotta d’uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di scellerati, i quali devastavano la contrada, la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Giuseppe aveva arrestato la cavalcatura di Maria, e pregava il Signore in silenzio; imperciocché era impossibile qualunque resistenza. Tutto al più si poteva sperare di ottener salva la vita. Il capo dei briganti si staccò da’ suoi compagni e si avanzò verso Giuseppe per osservare con chi avesse egli da trattare. La vista di questo vecchio senza armi, di questo bambinello che dormiva sopra il seno di sua madre, toccò il cuore sanguinario del bandito. Ben lungi dal voler far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, offrendo ospitalità a lui ed alla sua famiglia. Questo capo si chiamava Disma. La tradizione ci dice, che trent’ anni dopo egli fu preso dai soldati, e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù, ed è lo stesso che noi conosciamo sotto il nome del buon ladrone.

Arrivo in Egitto – Prodigi avvenuti al loro ingresso in questa terra – Villaggio di Matarie – Abitazione della sacra Famiglia.
Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggera ed entrerà in Egitto e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’ Egitto. Is. XIX, 1.

            Comparso appena il giorno, i fuggitivi, ringraziando i briganti diventati ospiti, ripresero il loro cammino pieno di pericoli. Si dice che Maria sul partire abbia detto queste parole al capo di quei banditi: “Ciò che tu hai fatto per questo bambino, ti sarà un giorno largamente ricompensato.” Dopo di avere attraversato Betlemme e Gaza, Giuseppe e Maria discesero nella Siria e avendo incontrato una carovana che partiva per l’Egitto si unirono ad essa. Da questo istante sino al termine del loro viaggio non videro più davanti a sé, che un immenso deserto di sabbia, la cui aridità non era interrotta che a ben rari intervalli da qualche oasi, ossia da alcuni tratti di terreno fertile e verdeggiante. Le loro fatiche si raddoppiarono durante questa corsa attraverso a queste pianure infuocate da ardente sole. I viveri erano poco abbondanti, e l’acqua ben sovente mancava. Quante notti Giuseppe, che era vecchio e povero, si vide risospinto, quando tentava di avvicinarsi alla fonte, cui la carovana si era arrestata per dissetarsi!
            Finalmente dopo due mesi di penosissimo cammino i viaggiatori entrarono in Egitto. Al dire di Sozomeno, dal momento che la santa Famiglia ebbe toccato questa terra antica, gli alberi abbassarono i loro rami per adorare il Figlio di Dio; le bestie feroci vi accorsero dimenticando il loro istinto; e gli uccelli cantarono in coro le lodi del Messia. Anzi se crediamo a quanto ci narrano autori degni di fede, tutti gli idoli della provincia, riconoscendo il vincitore del Paganesimo, caddero frantumati in mille pezzi. Così ebbero letterale compimento le parole del profeta Isaia quando disse; “Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggerà ed entrerà in Egitto, e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto.”
            Giuseppe e Maria, desiderosi d’arrivar presto al termine del loro viaggio, non fecero che attraversare Eliopoli, consacrata al culto del sole, per recarsi a Matari dove intendevano di riposarsi delle loro fatiche.
            Matari è un bel villaggio ombreggiato da sicomori, a due leghe circa dal Cairo, capitale dell’Egitto. Colà Giuseppe aveva intenzione di stabilire dimora. Ma non era ancora questo il termine delle sue pene. Gli era mestieri di cercarsi un alloggio. Gli Egiziani non erano per nulla ospitali; così la santa famiglia fu costretta a ripararsi per alcuni giorni nel tronco d’un antico e grosso albero. Alfine dopo lunghe ricerche Giuseppe trovò una modesta cameraccia, in cui collocò alla meglio Gesù e Maria.
            Questa casa, che si fa vedere ancora in Egitto, era una specie di grotta, di venti piedi di lunghezza sopra quindici di larghezza. Non vi erano nemmeno finestre; la luce vi doveva penetrare per la porta. Le mura erano d’una specie d’argilla nera e schifosa, la cui vecchiezza portava l’impronta della miseria. A destra era una piccola cisterna, dalla quale Giuseppe attingeva l’acqua pel servizio della famiglia.

Dolori. – Consolazione e termine dell’esilio.
Con lui son io nella tribolazione. Psal. XC. 15.

            Entrato appena in questa nuova abitazione ripigliò Giuseppe il suo lavoro ordinario. Cominciò a mobiliare la sua casa; un tavolino, qualche sedia, una panca, tutto quanto opera delle sue mani. Poscia andò di porta in porta in cerca di lavoro per guadagnar il sostentamento alla piccola famiglia. Egli senza dubbio ebbe a provare ben molti rifiuti, e a tollerare ben molti umilianti disprezzi! Egli era povero, e sconosciuto; e ciò bastava perché venisse rifiutata l’opera sua. A sua volta Maria, mentre aveva mille cure pel Figlio, si diede coraggiosamente al lavoro, occupando in esso una parte della notte per supplire ai guadagni piccoli ed insufficienti del suo sposo. Tuttavia in mezzo alle sue pene quante consolazioni per Giuseppe! Era per Gesù che lavorava, e il pane che il divino fanciullo mangiava era egli che l’aveva acquistato col sudore della sua fronte. E poi quando rientrava in sulla sera affaticato e oppresso dal caldo, Gesù sorrideva al suo arrivo, e lo accarezzava colle sue piccole mani. Ben sovente col prezzo di privazioni, che s’imponeva, Giuseppe riusciva ad ottenere qualche risparmio qual gioia provava allora nel poterlo impiegare nell’ addolcire la condizione del divino fanciullo! Ora erano alcuni datteri, ora alcuni giocattoli adatti alla sua età, che il pio falegname recava al Salvatore degli uomini. Oh quanto erano dolci allora le emozioni del buon vecchio nel contemplare il viso raggiante di Gesù! Quando arrivava il Sabato, giorno di riposo e consacrato al Signore, Giuseppe prendendo per le mani il fanciullo, ne guidava i primi passi con una sollecitudine veramente paterna.
            Frattanto il tiranno che regnava sopra Israele moriva. Iddio, il cui braccio onnipossente punisce sempre il colpevole, gli aveva mandato una malattia crudele, che lo condusse rapidamente al sepolcro. Tradito dal suo proprio figlio, roso vivo dai vermi, Erode era morto, portando con se l’odio de’ Giudei, e la maledizione de’ posteri.

Il nuovo annunzio. – Ritorno in Giudea. – Una tradizione riferita da s. Bonaventura.
Dall’Egitto richiamai il mio figliuolo. Oseae XI, 1.

            Da sette anni stava Giuseppe in Egitto, quando l’Angelo del Signore, messaggero ordinario dei voleri del Cielo gli apparve di nuovo durante il sonno e gli disse: “Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre, e ritorna al paese d’Israele, imperciocché coloro che cercavano il fanciullo per farlo morire, non esistono più.” Sempre pronto alla voce di Dio, Giuseppe vendette la sua casa ed i suoi mobili, ed ordinò il tutto per la partenza. Invano gli Egiziani rapiti dalla bontà di Giuseppe e dalla dolcezza di Maria fecero le più vive istanze per ritenerlo. Invano gli promisero l’abbondanza d’ogni cosa necessaria per la vita, Giuseppe fu irremovibile. I ricordi della sua infanzia, gli amici, che egli aveva nella Giudea, la pura atmosfera della sua patria, assai più parlavano al suo cuore, che non la bellezza dell’Egitto. D’altronde Iddio aveva parlato, e null’altro abbisognava per decidere Giuseppe a far ritorno alla terra de’ suoi antenati.
            Alcuni storici sono d’opinione che la santa famiglia abbia fatto per mare una parte del viaggio, perché vi s’impiegava minor tempo, ed aveva un desiderio grandissimo di rivedere presto la sua patria. Appena sbarcati ad Ascalonia, Giuseppe intese che Archelao era succeduto nel trono a suo padre Erode. Indi per Giuseppe era una nuova sorgente di inquietudini. L’angelo non gli aveva detto in quale parte della Giudea dovesse egli stabilirsi. Doveva ciò fare a Gerusalemme, o nella Galilea, o nella Samaria? Giuseppe pieno d’ansietà pregò il Signore che gli mandasse durante la notte il suo celeste messaggero. L’angelo gli ordinò di fuggire Archelao e di ritirarsi in Galilea. Giuseppe allora più non ebbe a temere, e prese tranquillamente la strada di Nazareth, che aveva sette anni prima abbandonata.
            Non dispiaccia ai nostri devoti lettori di sentir sopra questo punto di storia il serafico dottor s. Bonaventura: “Erano in atto di partirsi: e Giuseppe andò innanzi cogli uomini, e la madre veniva da lungi colle donne (venuti queste e quelli come amici della santa famiglia ad accompagnarli un tratto). E quando furono fuor della porta, Giuseppe rattiene gli uomini e non si lascia più accompagnare. Allora alcuno di quelli buoni uomini, avendo compassione della povertà di costoro, chiamò il fanciullo e gli dettero alquanti denari per le spese. Si vergogno il Fanciullo di riceverli; ma, per amore della povertà, apparecchiò la mano e ricevé la pecunia vergognosamente e lo ringrazio. E così fecero più persone. Lo chiamarono ancora quelle onorabili matrone e fecero lo stesso; non si vergognava meno la madre che il fanciullo, ma tuttavia umilmente li ringraziò.”
            Preso dunque commiato da quella cordiale compagnia rinnovati i ringraziamenti ed i saluti, la santa famiglia rivolse i suoi passi verso la Giudea.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (5/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Conclusione
            Nell’epilogo della vita di Francesco Besucco don Bosco esplicita il nocciolo del suo messaggio:

             “Vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l’abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimente certo che se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. […] Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno. […] Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell’osservanza dei suoi precetti nei giorni della vita, perché possiamo poi un giorno andare a godere in cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia”.[1]

            È su questo punto, di fatto, che confluiscono i discorsi di don Bosco. Tutto il resto appare funzionale: la sua arte educativa, il suo accompagnamento affettuoso e creativo, i consigli offerti e il programma di vita, la devozione mariana e i sacramenti, tutto è orientato all’oggetto primo dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, al grande affare della salvezza eterna.[2]
            Dunque, nella pratica educativa del Santo torinese, l’esercizio mensile della buona morte prosegue una ricca tradizione spirituale, adattandola alla sensibilità dei suoi giovani e con una marcata preoccupazione educativa. Infatti, la revisione mensile della propria vita, il rendiconto sincero al confessore-direttore spirituale, l’incoraggiamento a porsi in uno stato di costante conversione, la riconferma del dono di sé a Dio e la formulazione sistematica di proponimenti concreti, orientati alla perfezione cristiana, ne sono i momenti centrali e costitutivi. Anche le litanie della buona morte non avevano altro scopo che alimentare la confidenza in Dio e offrire uno stimolo immediato per accostarsi ai sacramenti con speciale consapevolezza. Erano anche – come dimostrano le fonti narrative – efficace strumento psicologico per rendere familiare il pensiero della morte, non in modo angosciante, ma come incentivo a valorizzare costruttivamente e gioiosamente ogni momento della vita in vista della “beata speranza”. L’accento, infatti, era posto sul vissuto virtuoso e gioioso, sul “servite Domino in laetitia”.


[1] Bosco, Il pastorello delle Alpi, 179-181.

[2] Così si conclude la Vita di Domenico Savio: “E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo incontro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia”, Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (4/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

3. La morte come momento dell’incontro gaudioso con Dio
            Come tutte le considerazioni e le istruzioni contenute nel Giovane provveduto, anche la meditazione sulla morte è connotata da una spiccata preoccupazione didascalica.[1] Il pensiero della morte come momento che fissa tutta l’eternità deve stimolare il proposito sincero di una vita buona e virtuosa feconda di frutti:

             “Considera che il punto di morte è quel momento da cui dipende la tua eterna salute, o la tua eterna dannazione. […] Capisci ciò che ti dico? Voglio dire che da quel momento dipende l’andare per sempre in paradiso o all’inferno; o sempre contento, o sempre afflitto; o sempre figlio di Dio, o sempre schiavo del demonio; o sempre godere cogli angeli e coi santi in cielo, o gemere ed ardere per sempre coi dannati nell’inferno.
            Temi grandemente per l’anima tua e pensa che dal ben vivere dipende una buona morte ed un’eternità di gloria; perciò non perdere tempo onde fare una buona confessione, promettendo al Signore di perdonare ai tuoi nemici, di riparare lo scandalo dato, di essere più obbediente, di non perdere più tempo, di santificare le feste, di adempiere i doveri del tuo stato. Intanto posto innanzi al tuo Signore digli di cuore così: mio Signore, sino da questo punto io mi converto a voi; io vi amo, vi voglio servire e servirvi fino alla morte. Vergine santissima, madre mia, aiutatemi in quel punto. Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia”.[2]

            Tuttavia il discorso più completo e anche il più espressivo delle visioni e dei quadri culturali di don Bosco sul tema della morte lo troviamo nel suo primo testo narrativo, composto in memoria di Luigi Comollo (1844). Vi racconta la morte dell’amico “nell’atto che si pronunciavano i nomi di Gesù, e di Maria, sempre sereno, e ridente in volto, movendo egli un dolce sorriso a guisa di chi resta sorpreso alla vista di un maraviglioso, e giocondo oggetto, senza fare alcun movimento”.[3] Ma il placido trapasso così succintamente esposto era stato preceduto dalla descrizione dettagliata di una tormentata malattia finale: “Un’anima sì pura e di sì belle virtù adorna, qual era quella del Comollo, direbbesi nulla dover paventare all’avvicinarsi l’ora della morte. Eppure ne provò anch’egli grande apprensione”.[4] Luigi aveva trascorso l’ultima settimana di vita “sempre tristo, e melanconico, assorto nel pensiero dei Giudizi divini”. La sera del sesto giorno, “l’assalì un accesso di febbre convulsiva sì gagliardo, che gli tolse l’uso della ragione. Sulle prime faceva un lamento clamoroso come se fosse stato atterrito da qualche spaventevole oggetto; da lì a mezzora, tornato alquanto in sé, e guardando fisso gli astanti, proruppe in tale esclamazione, Ahi Giudizio! Quindi cominciò a dibattersi con forze tali, che cinque, o sei che eravamo astanti appena lo potevamo trattenere in letto”.[5] Dopo tre ore di delirio, “ritornò in piena cognizione di se stesso” e confidò all’amico Bosco il motivo delle sue agitazioni: gli era parso di trovarsi di fronte all’inferno spalancato, insidiato da “un’innumerevole turba di mostri”, ma era stato soccorso da una squadra “di forti guerrieri” e poi, condotto per mano da “una Donna” (“che io giudico essere la comune nostra Madre”), si era trovato “in un deliziosissimo giardino”, per questo ora si sentiva tranquillo. Così, “quanto grande era prima lo spavento, e il timore di comparire innanzi a Dio, altrettanto più allegro mostravasi di poi e desideroso che giungesse un tal momento; non più tristezza, o malinconia in volto, ma un aspetto tutto ridente, e gioviale, in guisa che sempre voleva cantare salmi, inni o laudi spirituali”.[6]
            Tensione e angoscia si risolvono in una gaudiosa esperienza spirituale: è la visione cristiana della morte sostenuta dalla certezza della vittoria sul nemico infernale per la potenza della grazia di Cristo, che schiude le porte dell’eternità beata, e per l’assistenza materna di Maria. In questa luce va interpretato il racconto del Comollo. Il “profondo abisso a guisa di fornace” presso il quale viene a trovarsi, la “turba di mostri di forma spaventevole” che tentano di precipitarlo nella voragine, i “forti guerrieri” che lo liberano “da tale frangente”, la lunga scala di accesso al “giardino maraviglioso” difesa “da tanti serpenti pronti a divorare chiunque vi ascendesse”, la Donna “vestita nella più gran pompa” che lo prende per mano, lo guida e lo difende: tutto va riportato a quell’immaginario religioso che racchiude sotto forma di simboli e metafore una solida teologia della salvezza, la convinzione della destinazione personale all’eternità felice e la visione della vita come viaggio verso la beatitudine, insidiato da nemici infernali ma sostenuto dal soccorso onnipotente della divina grazia e dal patrocinio di Maria. Il gusto romantico, che impregna di intensa emotività e drammaticità il dato di fede, si serve spontaneamente del simbolismo popolare tradizionale, tuttavia l’orizzonte è quello di una visione ampiamente ottimista e storicamente operativa della fede.
            Più oltre don Bosco riporta un ampio discorso di Luigi. È quasi un testamento in cui emergono principalmente due tematiche tra loro connesse. La prima è l’importanza di coltivare nel corso della vita il pensiero della morte e del giudizio. Gli argomenti sono quelli della predicazione e della pubblicistica devota corrente: “Non sai ancora se brevi, o lunghi saranno i giorni di tua vita; ma, checché ne sia sull’incertezza dell’ora, n’è certa la venuta; perciò fa in maniera che tutto il tuo vivere altro non sia che una preparazione alla morte, al Giudizio”. La maggior parte degli uomini non ci pensa seriamente “perciò allorché s’appressa il momento rimangono confusi, e chi muore in confusione per lo più va eternamente confuso! Felici quelli che passando i loro giorni in opere sante e pie si trovano apparecchiati per quel momento”.[7]
            Il secondo tema è il legame tra devozione mariana e buona morte. “Per tutto il tempo che militiamo in questo mondo di lacrime, non abbiamo patrocinio più possente che quello di Maria SS. […]. Oh! se gli uomini potessero essere persuasi qual contento arrechi in punto di morte essere stati divoti di Maria, tutti a gara cercherebbero nuovi modi con cui offerirle speciali onori. Sarà pur dessa, che col suo figlio tra le braccia formerà la nostra difesa contro il nemico dell’anima nostra all’ora estrema; s’armi pure contro di noi l’inferno, con Maria in nostra difesa, nostra sarà la vittoria”. Naturalmente tale devozione dev’essere corretta: “Guardati però bene dall’essere di quei tali, che per recitare a Maria qualche preghiera, per offerirle qualche mortificazione credono essere da lei protetti, mentre conducono una vita tutta libera, e scostumata. […] Sii tu sempre dei veri divoti di Maria coll’imitare le di lei virtù e proverai i dolci effetti di sua bontà, ed amore”.[8] Sono ragioni prossime a quelle presentate da Louis-Marie Grignion de Montfort (1673-1716) nel terzo capitolo del Traité de la vraie dévotion à la sainte Vierge (che tuttavia né il Comollo né Giovanni Bosco potevano conoscere).[9] Tutta la mariologia classica, veicolata dalla predicazione e dai libri ascetici, insisteva su tali aspetti: li troviamo in sant’Alfonso (Glorie di Maria);[10] prima di lui negli scritti dei gesuiti Jean Crasset e Alessandro Diaotallevi,[11] dall’opera del quale parrebbe che Comollo abbia tratto ispirazione per l’invocazione elevata prima della morte “con voce franca”:

             “Vergine santa Madre Benigna, cara madre del mio amato Gesù, voi che fra tutte le creature sola foste degna di portarlo nel Vergineo ed immacolato Seno, Deh per quel amore con cui l’allattaste, lo stringeste amorosamente fra le vostre braccia, per quel che soffriste allorché gli foste compagna nella sua povertà, allorché lo vedeste fra gli strapazzi, sputi, flagelli, e finalmente spasimare morendo in Croce; Deh per tutto questo ottenetemi il dono della fortezza, viva fede, ferma speranza, infiammata carità, con sincero dolore dei miei peccati, ed ai favori che mi avete ottenuti in tutto il tempo di mia vita, aggiungete la grazia che io possa fare una santa morte. Sì cara Madre pietosa assistetemi in questo punto che sto per presentare l’anima mia al Divin giudizio, presentatela Voi medesima nelle braccia del Vostro Divin Figlio; che se tanto mi promettete, ecco io con animo ardito, e franco appoggiato alla vostra clemenza, e bontà, presento per mezzo delle vostre mani, quest’anima mia a quella Maestà Suprema, la cui misericordia conseguire spero”.[12]

            Questo testo mostra la solidità dell’impianto teologico sottostante al sentimento religioso di cui è impregnato il racconto, e svela una devozione mariana “regolata”, una spiritualità austera e concretissima.
            I Cenni sulla vita di Luigi Comollo, con tutta la loro tensione drammatica, rappresentano la sensibilità di Giovanni Bosco seminarista e allievo del Convitto ecclesiastico. Negli anni successivi, col crescere dell’esperienza educativa e pastorale tra adolescenti e ragazzi, il Santo preferirà mettere in evidenza soltanto il lato gaudioso e rasserenante della morte cristiana. Lo vediamo soprattutto nelle biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, ma ne troviamo esempi già nel Giovane provveduto dove, narrando la santa morte di Luigi Gonzaga, si afferma: “Le cose che ci possono turbare in punto di morte sono specialmente i peccati della vita passata e il timore dei castighi divini per l’altra vita”, ma se lo imitiamo conducendo una vita virtuosa, “veramente angelica”, potremo accogliere con gaudio l’annuncio della morte come lui, cantare il Te Deum pieni di “allegrezza” – “Oh che gioia, ce ne andiamo: Laetantes imus” – e “nel bacio di Gesù crocifisso placidamente spirò. Che bel morire!”.[13]
            Tutte e tre le Vite concludono con l’invito a tenersi preparati per fare una buona morte. Nella pedagogia di don Bosco, come se è accennato, il tema veniva declinato con accenti particolari, in funzione della conversione del cuore “franca e risoluta”[14] e del dono totale di sé a Dio, che genera un vissuto ardente, fecondo di frutti spirituali, di impegno etico ed insieme gaudioso. È questa la prospettiva nella quale, in queste biografie, don Bosco presenta l’esercizio della buona morte:[15] è uno strumento eccellente per educare alla visione cristiana della morte, per stimolare un’efficace e periodica revisione del proprio stile di vita e delle proprie azioni, per incoraggiare un atteggiamento di costante apertura e cooperazione all’azione della grazia, fruttuoso di opere, per disporre positivamente l’animo all’incontro col Signore. Non a caso i capitoli conclusivi raffigurano le ultime ore dei tre protagonisti come un’attesa fervente e tranquilla dell’incontro. Don Bosco ci riporta i dialoghi sereni, le “commissioni” affidate ai morenti[16], gli addii. L’istante della morte poi è descritto quasi come un’estasi beata.
            Domenico Savio negli ultimi momenti di vita si fa leggere dal padre le preghiere della buona morte:

             “Ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma infine di ciascuna parte voleva dire da solo: «Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me». Giunto alle parole: «Quando finalmente l’anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi». «Ebbene, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore!». Poscia parve prendere di nuovo un po’ di sonno a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ridente: «Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi… Oh! che bella cosa io vedo mai…». Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento”.[17]

            Michele Magone spira “placidamente”, “colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra”, dopo aver baciato il crocifisso e invocato: “Gesù, Giuseppe e Maria io metto nelle vostre mani l’anima mia”.[18]
            I momenti conclusivi della vita di Francesco sono connotati da fenomeni straordinari e ardori incontenibili: “Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell’infermeria”; “elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così: Lodate Maria […]. Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona, che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così: O Gesù d’amor acceso […]. Sembrava divenuto un angiolo cogli angioli del paradiso”.[19]

(continua)


[1] Cf. Bosco, Il giovane provveduto, 36-39 (considerazione per il martedì: La morte).

[2] Ibid., 38-39.

[3] [Giovanni Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto  nel Seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù. Scritti da un suo collega, Torino, Tipografia Speirani e Ferrero, 1844, 70-71.

[4] Ibid., 49.

[5] Ibid., 52-53.

[6] Ibid., 53-57.

[7] Ibid., 61.

[8] Ibid., 62-63.

[9] L’opera di Grignion de Monfort venne scoperta solo nel 1842 e pubblicata a Torino per la prima volta quindici anni più tardi: Trattato della vera divozione a Maria Vergine del ven. servo di Dio L. Maria Grignion de Montfort. Versione dal francese del C. L., Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1857.

[10] Seconda parte, capo IV (Vari ossequi di divozione verso la divina Madre colle loro pratiche), dove l’Autore afferma che per ottenere la protezione di Maria “vi bisognano due cose: la prima che le offeriamo i nostri ossequi coll’anima monda da’ peccati […]. La seconda condizione è che perseveriamo nella sua divozione” (Le glorie di Maria di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Torino, Giacinto Marietti, 1830, 272).

[11] Jean Crasset, La vera devozione verso Maria Vergine stabilita e difesa. Venezia, nella stamperia Baglioni, 1762, 2 voll.; Alessandro Diotallevi, Trattenimenti spirituali per chi desidera d’avanzarsi nella servitù e nell’amore della Santissima Vergine, dove si ragiona sopra le sue feste e sopra gli Evangelii delle domeniche dell’anno applicandoli alla medesima Vergine con rari avvenimenti, Venezia, presso Antonio Zatta,

1788, 3 voll.

[12] [Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo, 68-69; cf. Diotallevi, Trattenimenti spirituali…, vol. II, pp. 108-109 (Trattenimento XXVI: Colloquio dove l’anima supplica la B. Vergine che voglia esserle Avvocata nella gran causa della sua salute).

[13] Bosco, Il giovane provveduto, 70-71.

[14] Cf. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 24.

[15] Ad esempio, cf. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 106-107: “Il mattino di sua partenza fece coi suoi compagni l’esercizio della buona morte con tale trasporto di divozione nel confessarsi e nel comunicarsi, che io, che ne fui testimonio, non so come esprimerlo. Bisogna, egli diceva, che faccia bene questo esercizio, perché spero che sarà per me veramente quello della mia buona morte”.

[16] “Ma prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione […]. Quando sarai in paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che niuno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa abbia a perdersi”, Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 82.

[17] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 118-119.

[18] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 83. Don Zattini vedendo quella morte serena non trattenne la commozione e “profferì queste gravi parole: O morte! tu non sei un flagello per le anime innocenti; per costoro tu sei la più grande benefattrice che loro apri la porta al godimento dei beni che non si perderanno mai più. Oh perché io non posso essere in tua vece, o amato Michele?” (ibiId., 84).

[19] Giovanni Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1864, 169-170.