San Francesco di Sales. La volontà di Dio cercata e seguita (5/8)

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LA VOLONTÀ DI DIO CERCATA E SEGUITA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (5/8)

È questo il tema più gettonato negli scritti di San Francesco di Sales, il tema su cui torna più spesso.

La scoperta di Dio come Padre Provvidente e l’amore alla sua volontà va di pari passo nella vita di Francesco: egli ci ricorda che:
“tutti i giorni gli chiediamo: Sia fatta la tua volontà, ma, quando dobbiamo farla realmente, come riesce difficile! Ci offriamo a Dio così spesso e gli diciamo ogni volta: ‘Io sono vostro; eccovi il mio cuore!’ Ma, quando Egli vuole servirsi di noi, siamo così neghittosi! Come possiamo dire di essere suoi, se non vogliamo uniformarci alla sua santa volontà?”

“La volontà di Dio deve diventare l’unica cosa da cercare e volere, senza mai allontanarsene per nessun motivo! Camminate sotto la guida della Provvidenza di Dio, non pensando che al giorno presente e lasciando a Nostro Signore il cuore che gli avete dato, senza mai volerlo riprendere per nessuna cosa”.

Francesco di Sales insegna che seguire la volontà di Dio è la via migliore per arrivare a farsi santi e questa via è aperta a tutti. Scrive:
“Io intendo offrire i miei insegnamenti a quelli che vivono nelle città, in famiglia, a corte, e che, in forza del loro stato, sono costretti, dalle convenienze sociali, a vivere in mezzo agli altri. La devozione deve essere vissuta in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla nubile, dalla sposa; ma non basta, l’esercizio della devozione deve essere proporzionato alle forze, alle occupazioni e ai doveri dei singoli”.

Quella che Francesco di Sales chiama devozione, Papa Francesco la chiama santità e scrive parole che sembrano uscire direttamente dalla penna di Francesco di Sales:
“Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova”.

In una lettera Francesco scrive:
“Per l’amore di Dio, abbandonatevi interamente alla sua volontà e non crediate di poterlo servire in altro modo, perché non lo serviamo mai bene se non quando lo serviamo come vuole Lui”.

Questo richiede
“di non dover seminare nel campo del vicino, per quanto esso sia bello, finché il nostro non è ancora stato seminato del tutto. È sempre molto dannosa quella distrazione del cuore che porta ad avere il cuore in un posto e il dovere in un altro”.

Di tanto in tanto mi sento rivolgere questa domanda:
“Come faccio a capire qual è la volontà di Dio nei miei confronti?”.

Ho trovato una risposta nella vita del santo.

Per più di sei anni è durata l’attesa di Giovanna di Chantal prima di poter consacrare tutta sé stessa al Signore e fondare con Francesco quello che diventerà l’Ordine della Visitazione. Durante tutto questo periodo il Santo cerca di comprendere qual è la volontà di Dio al riguardo. Ce ne parla lui stesso in una lettera a Giovanna:
“Quel grande movimento di spirito che vi ha condotta come per forza e con grande consolazione; la lunga riflessione che mi sono imposto prima di darvi il mio assenso; il fatto che né voi né io ci siamo fidati solo di noi stessi; il fatto che abbiamo dato alle prime agitazioni della vostra coscienza tutto il tempo per calmarsi; le preghiere, non di un giorno o due, ma di parecchi mesi, che hanno preceduto la vostra scelta, sono segni infallibili che ci permettono di affermare senza ombra di dubbio che tale era la volontà di Dio”.

Preziosa questa testimonianza che mette in luce la prudenza di Francesco, che sa attendere con calma, senza rinunciare a tutti i mezzi a disposizione per decifrare la volontà di Dio a riguardo suo e della baronessa. Sono mezzi che valgono anche per te oggi: riflettere a lungo davanti al Signore, chiedere consiglio a persone sagge, non prendere decisioni affrettate, pregare tanto.
Ne dà la motivazione a Giovanna:
“Finché Dio vorrà che restiate nel mondo per amore di Lui, restateci volentieri e con gioia. Molti escono dal mondo senza però uscire da sé stessi e cercano in questo modo i loro gusti, la loro tranquillità e le loro soddisfazioni. Usciamo dal mondo per servire Dio, per seguire Dio e per amare Dio. Dato che non aspiriamo ad altro che al suo santo servizio, dovunque lo serviamo, ci troveremo sempre contenti”

Una volta compresa con sufficiente chiarezza quella che è la volontà di Dio, si richiede l’obbedienza, cioè metterla in pratica, viverla!
Alla baronessa di Chantal scrive queste righe a lettere maiuscole: saranno il programma di tutta la sua vita e direi il concentrato della spiritualità di Francesco:

OCCORRE FARE TUTTO PER AMORE E NULLA PER TIMORE; OCCORRE AMARE L’OBBEDIENZA PIU’ DI QUANTO SI TEME LA DISOBBEDIENZA

Obbedire è dire l’amore a Dio che mi chiama a vivere la sua volontà in concrete circostanze di vita.

L’obbedienza è la forma dell’amore
Ecco le conseguenze di questa consegna alla volontà di Dio che Francesco ricorda a tante persone con immagini splendide. Alla signora Brûlart, madre di famiglia, scrive:
“Tutto quello che noi facciamo riceve il suo valore dalla nostra conformità alla volontà di Dio. Bisogna amare quello che ama Dio. Ora egli ama la nostra vocazione. Dunque amiamola anche noi e non perdiamo il tempo pensando a quella degli altri”.

I progressi vanno sottolineati e incoraggiati.
“Mi avete detto una parola meravigliosa: che Dio mi metta nella salsa che vuole; non me ne importa, purché lo possa servire. Bisogna amare questa volontà di Dio e l’obbligo che essa suppone in noi, fosse anche quello di custodire i porci o di compiere gli atti più umili per tutta la vita, perché, in qualunque salsa ci metta il buon Dio, non deve importarci un bel nulla. Questo è il traguardo della perfezione”.

E ora alcune immagini: quella del giardino.
“Non seminate i vostri desideri nel giardino d’un altro, ma badate solo a coltivar bene il vostro. Non desiderate di non essere quello che siete, ma desiderate di essere nel migliore dei modi quello che siete. Questo è il grande segreto e il segreto meno compreso della vita spirituale. A che giova costruire castelli in Spagna, se dobbiamo vivere in Francia? Questa è una mia vecchia lezione, e voi la comprendete bene”.

L’immagine della barca.
“A noi pare che, cambiando barca, staremo meglio. Sì, staremo meglio se cambieremo noi stessi! Io sono nemico giurato di tutti quei desideri inutili, pericolosi e cattivi. Infatti, sebbene quello che desideriamo sia buono, il nostro desiderio è cattivo, poiché Dio non ci chiede quel bene, ma un altro al quale vuole che ci applichiamo.”

L’immagine del bambino.
Occorre affidare “il nostro proposito generale alla Provvidenza divina, abbandonandoci tra le sue braccia, come il bambinello, che per crescere mangia ogni giorno quello che gli dà suo padre, sicuro che lo fornirà sempre di cibo, in proporzione del suo appetito e delle sue necessità”.

Francesco insiste su questo punto che è fondamentale:
“Che importa a un’anima, veramente innamorata, che lo Sposo celeste sia servito in un modo o in un altro? Chi cerca unicamente la soddisfazione del suo Diletto è contento di tutto quello che lo rende contento!”.

Commuove leggere questo passo, scritto a seguito di una brutta malattia di Giovanna di Chantal:
“Voi, per me, siete più preziosa che me stesso; ma questo non mi impedisce d’uniformarmi pienamente alla volontà divina. Noi intendiamo servire Dio in questo mondo con tutto il nostro essere: se egli stima meglio che siamo uno in questo mondo e uno nell’altro o tutti e due nell’altro, sia fatta la sua santissima volontà”.

Per concludere ancora qualche altro flash dalle lettere:
“Noi vogliamo servire Dio, ma seguendo la nostra volontà e non la sua. Dio dichiarò di non gradire nessun sacrificio contrario all’ubbidienza. Dio mi comanda di servire le anime e io voglio restare in contemplazione: la vita contemplativa è buona, ma non quando è in opposizione all’ubbidienza. Non possiamo scegliere noi stessi i nostri doveri: dobbiamo vedere quello che vuole Dio; e, se Dio vuole che lo serva facendo una cosa, non devo volerlo servire facendone un’altra”
“Se siamo santi secondo la nostra volontà, non saremo mai santi come si deve: dobbiamo esserlo secondo la volontà di Dio!”

(continua)







Vera Grita, mistica dell’Eucarestia

            Nel centenario della nascita della Serva di Dio Vera Grita, Laica, Salesiana cooperatrice (Roma 28 gennaio 1923 – Pietra Ligure 22 dicembre 1969) viene presentato un profilo biografico e spirituale della sua testimonianza.

Roma, Modica, Savona
            Vera Grita nasce a Roma il 28 gennaio 1923, secondogenita di Amleto, fotografo di professione da generazioni, e di Maria Anna Zacco della Pirrera, di nobili origini. La famiglia, molto unita e affiatata, era composta anche dalla sorella maggiore Giuseppa (detta Pina) e dalle minori Liliana e Santa Rosa (detta Rosa). Il 14 dicembre dello stesso anno Vera ricevette il Battesimo nella parrocchia di San Gioacchino in Prati, sempre a Roma.

            Vera manifesta fin da bambina un carattere buono e mite che non verrà scalfito dagli eventi negativi che si abbattono su di lei: undicenne deve lasciare la famiglia e distaccarsi dagli affetti più cari insieme alla sorella minore Liliana, per raggiungere a Modica, in Sicilia, le zie paterne che si sono rese disponibili ad aiutare i genitori di Vera colpiti da dissesto finanziario per la crisi economica del 1929-1930. In questo periodo Vera manifesta la sua tenerezza verso la sorella più piccola standole vicino quando la sera quest’ultima piange per la nostalgia della mamma. Vera è attratta da un grande quadro del Sacro Cuore di Gesù, appeso nella sala dove con le zie ogni giorno recita le preghiere del mattino e il Rosario. Rimane spesso in silenzio davanti a quel dipinto e ripete di frequente che da grande vuole diventare suora. Il giorno della sua Prima Comunione (24 maggio 1934) non vuole togliersi l’abito bianco perché teme di non dimostrare abbastanza a Gesù la gioia di averlo nel cuore. A scuola ottiene buoni risultati ed è socievole con le compagne di classe.
            A diciassette anni, nel 1940, rientra in famiglia. La famiglia si è trasferita a Savona e Vera, l’anno successivo, ottiene il diploma presso l’Istituto Magistrale. Vera ha vent’anni quando deve affrontare un nuovo e doloroso distacco per la morte prematura del padre Amleto (1943) e rinuncia a proseguire gli studi universitari cui aspirava, per aiutare economicamente la famiglia.

Nel giorno della Prima Comunione

Il dramma della guerra
            Ma è la Seconda guerra mondiale con il bombardamento su Savona del 1944 che arrecherà a Vera un danno irreparabile: esso determinerà il corso successivo della sua vita. Vera viene travolta e calpestata dalla folla che, in fuga, cerca riparo in una galleria-rifugio.

Vera intorno ai 14-15 anni

La medicina chiama sindrome da schiacciamento le conseguenze fisiche che si verificano in seguito a bombardamenti, terremoti, crolli strutturali, a causa dei quali un arto o tutto il corpo sono schiacciati. Quello cui si assiste poi è un danno a livello muscolare che si ripercuote su tutto l’organismo, compromettendo soprattutto i reni. Per lo schiacciamento, Vera riporterà lesioni lombari e dorsali che creeranno danni irreparabili alla sua salute con febbri, mal di testa, pleuriti. Inizia con questo avvenimento drammatico la “Via Crucis” di Vera che durerà 25 anni, durante i quali alternerà al lavoro lunghi ricoveri ospedalieri. A 32 anni le viene diagnosticato il morbo di Addison che la consumerà debilitando il suo organismo: Vera arriverà a pesare soli 40 chili. A 36 anni Vera subisce un intervento di isterectomia totale (1959) che le causerà una menopausa precoce con conseguente acuirsi della astenia di cui già soffriva a causa del morbo di Addison.
            Nonostante le sue precarie condizioni fisiche, Vera sostiene e vince un concorso come insegnante nelle scuole elementari. Si dedicherà all’insegnamento durante gli ultimi dieci anni della sua vita terrena prestando servizio in sedi scolastiche dell’entroterra ligure difficili da raggiungere (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), destando stima e affetto tra le colleghe, nei genitori e negli scolari.

Salesiana cooperatrice
            A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipa alla Messa ed è assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 è suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizza la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si dona a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopone tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodisce nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagneranno lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.

            Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita risponde al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore è resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore da testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene.
            Muore il 22 dicembre 1969 a Pietra Ligure all’ospedale di Santa Corona in una cameretta dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scriverà don Giuseppe Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”. È uno di quei chicchi di grano che il Cielo ha lasciato cadere sulla Terra per portare frutto, a suo tempo, nel silenzio e nel nascondimento.

In pellegrinaggio a Lourdes

Vera di Gesù
            La vita di Vera Grita si è svolta nel breve arco di tempo di 46 anni segnati da eventi storici drammatici quali la grande crisi economica del 1929-1930 e la Seconda guerra mondiale e si conclude poi alle soglie di un altro evento storico significativo: la contestazione del 1968, che avrà ripercussioni profonde a livello culturale, sociale, politico, religioso ed ecclesiale.

Con alcuni famigliari

La vita di Vera inizia, si sviluppa e si conclude in mezzo a questi eventi storici dei quali ella subisce le conseguenze drammatiche sul piano familiare, affettivo e fisico. Al tempo stesso, la sua storia evidenzia come ella abbia attraversato questi eventi affrontandoli con la forza della fede in Gesù Cristo, testimoniando così una fedeltà eroica all’Amore crocifisso e risorto. Fedeltà che, al termine della sua vita terrena, il Signore ripagherà donandole il nome nuovo: Vera di Gesù. “Ti ho donato il mio Nome santo, e d’ora in poi ti chiamerai e sarai ‘Vera di Gesù’” (Messaggio del 3 dicembre 1968).
            Provata dalle diverse malattie che, nel tempo, delineano una situazione di generalizzata e irrecuperabile usura fisica, Vera vive nel mondo senza essere del mondo, mantenendo stabilità ed equilibrio interiori dovuti alla sua unione con Gesù Eucaristia ricevuto quotidianamente, e alla consapevolezza della sua Permanenza eucaristica nella sua anima. È pertanto la Santa Messa il centro della vita quotidiana e spirituale di Vera, dove, come piccola “goccia d’acqua”, ella si unisce al vino per essere inseparabilmente unita all’Amore infinito che continuamente si dona, salva e sostiene il mondo.
            Pochi mesi prima di morire Vera scrive al padre spirituale, don Gabriello Zucconi: “Le malattie che mi porto dentro da più di venti anni sono degenerate, divorata dalla febbre e dai dolori in tutte le ossa, io sono viva nella Santa Messa”. Ancora: “Rimane la fiamma della Santa Messa, la scintilla divina che mi anima, mi dà vita, poi il lavoro, i ragazzi, la famiglia, l’impossibilità di trovare in essa un posticino tranquillo ove isolarmi per pregare, ovvero la stanchezza fisica dopo la scuola”.

L’Opera dei Tabernacoli Viventi
            Nei lungi anni di sofferenza, consapevole della sua fragilità e limitatezza umana, Vera impara ad affidarsi a Dio e ad abbandonarsi totalmente alla sua volontà. Mantiene tale docilità anche quando il Signore le comunica l’Opera dei Tabernacoli Viventi, negli ultimi 2 anni e 4 mesi di vita terrena. L’amore per la volontà di Dio conduce Vera al dono totale di sé stessa: dapprima con i voti privati e il voto di “piccola vittima” per i sacerdoti (2 febbraio 1965); successivamente con l’offerta della vita (5 novembre 1968) per la nascita e lo sviluppo dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, sempre in piena obbedienza a chi la dirige spiritualmente.
            Il 19 settembre 1967 iniziò l’esperienza mistica che la invitava a vivere a fondo la gioia e la dignità di figlia di Dio, nella comunione con la Trinità e nell’intimità eucaristica con Gesù ricevuto nella S. Comunione e presente nel Tabernacolo. “Il vino e l’acqua siamo noi: Io e te, tu e Io. Siamo una cosa sola: Io scavo in te, scavo, scavo per costruirmi un tempio: lasciami lavorare, non pormi ostacoli […] la volontà del Padre mio è questa: che Io rimanga in te, e tu in Me. Insieme porteremo gran frutto”. Sono 186 i messaggi che costituiscono l’Opera dei Tabernacoli Viventi che Vera, lottando con il timore di essere vittima di un inganno, scrisse in obbedienza a don Zucconi.
            Il “Portami con te” esprime in modo semplice l’invito di Gesù fatto a Vera. Dove, portami con te? Dove vivi: Vera viene educata e preparata da Gesù a vivere in unione con Lui. Gesù vuole entrare nella vita di Vera, nella sua famiglia, nella scuola dove insegna. Un invito rivolto a tutti i cristiani. Gesù vuole uscire dalla Chiesa di pietra e vuole vivere nel nostro cuore con l’Eucaristia, con la grazia della permanenza eucaristica nell’anima. Vuole venire con noi dove andiamo, per vivere la nostra vita familiare, e vuole raggiungere vivendo in noi le persone che vivono lontane da lui.

Nella scia del carisma salesiano
            Nell’Opera dei Tabernacoli Viventi sono espliciti i riferimenti a Don Bosco e al suo “da mihi animas cetera tolle”, a vivere l’unione con Dio e la fiducia in Maria Ausiliatrice, per donare Dio attraverso un apostolato instancabile che cooperi alla salvezza dell’umanità. L’Opera, per volontà del Signore, viene affidata in prima istanza ai figli di Don Bosco per la sua realizzazione e diffusione nelle parrocchie, negli istituti religiosi e nella Chiesa: “Ho scelto i Salesiani poiché essi vivono con i giovani, ma la loro vita di apostolato dovrà essere più intensa, più attiva, più sentita”.

            La causa di Beatificazione della Serva di Dio Vera Grita è stata avviata il 22 dicembre 2019, 50° anniversario della sua morte, a Savona con la presentazione del Supplice libello al vescovo diocesano mons. Calogero Marino da parte del Postulatore don Pierluigi Cameroni. Attore della Causa è la Congregazione salesiana. L’Inchiesta diocesana è stata celebrata dal 10 aprile al 15 maggio 2022 presso la Curia di Savona. Il Dicastero delle Cause dei Santi ha dato la validità giuridica a tale Inchiesta il 16 dicembre 2022.
            Come ha scritto il Rettor Maggiore nella Strenna di quest’anno: “Vera Grita attesta anzitutto un orientamento eucaristico totalizzante, che si fa esplicito soprattutto negli ultimi anni della sua esistenza. Non ha pensato in termini di programmi, di iniziative apostoliche, di progetti: ha accolto il “progetto” fondamentale che è Gesù stesso, fino a farne vita della propria vita. Il mondo odierno attesta un grande bisogno di Eucaristia. Il suo cammino nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i “poveri”, i “fragili”, i “malati” che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza. Come Salesiana Cooperatrice, Vera Grita vive e lavora, insegna e incontra la gente con una spiccata sensibilità salesiana: dall’amorevolezza della sua presenza discreta ma efficace alla sua capacità di farsi amare da bambini e famiglie; dalla pedagogia della bontà che attua con il suo costante sorriso alla generosa prontezza con cui, incurante dei disagi, si volge di preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai lontani, ai dimenticati; dalla generosa passione per Dio e la Sua Gloria alla via della croce, lasciandosi togliere tutto nella sua condizione di malata”.

Nel giardino di Santa Corona nel 1966

Per conoscere di più:
Vera Grita, una mistica dell’Eucaristia.
Epistolario di Vera Grita e dei sacerdoti salesiani don Bocchi, don Borra e don Zucconi.
Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi. A cura di: Scrimieri Pedriali Maria Rita.
Vedi QUI.

Portami con te!
L’Opera dei Tabernacoli Viventi nei manoscritti originali di Vera Grita.
Autore: Centro studi Opera Tabernacoli Viventi.
Vedi QUI.




San Francesco di Sales. La fiducia in Dio Provvidenza (4/8)

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LA FIDUCIA IN DIO PROVVIDENZA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (4/8)

Entriamo nel cuore di Francesco di Sales per coglierne tutta la bellezza e la ricchezza.

“La nostra fede in Dio dipende dall’immagine che abbiamo di Dio!” dove per fede si intende la nostra relazione con Lui.

Francesco ci presenta nei suoi scritti il Dio in cui crede, ci consegna la sua immagine di Dio, un Dio scoperto come Padre che provvede e ama i suoi figli e di conseguenza la relazione che Francesco vive con lui è una relazione di fiducia totale e illimitata.

Gustiamo questi passaggi tratti dalle sue lettere, in cui fotografa il volto del Padre che è Provvidenza e si cura di noi.

“Figlia mia carissima, quanto il Signore vi pensa e con quanto amore vi guarda! Sì, Egli pensa a voi e non solo a voi, ma persino all’ultimo capello del vostro capo: è una verità di fede che non bisogna assolutamente mettere in dubbio”.

“Serviamo bene Dio e non diciamo mai: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Di dove verranno le nostre sorelle? Tocca al Padrone della casa prendersi questi fastidi, tocca alla Padrona della nostra casa ammobiliarla; e le nostre case appartengono a Dio e alla sua santa Madre”.

Gesù nel Vangelo ci invita a tradurre questa fiducia nel vivere bene il presente e Francesco lo ribadisce in questa lettera:
“Cercate di fare bene oggi, senza pensare al domani; domani poi cercherete di fare altrettanto; e non pensate a quello che farete in tutta la durata della vostra carica, ma compite il vostro dovere giorno per giorno senza darvi pensiero dell’avvenire, perché il vostro Padre celeste, che ha cura di guidarvi oggi, vi guiderà anche domani e posdomani, in proporzione della fiducia che, conoscendo la vostra debolezza, riporrete nella sua Provvidenza”.
“Egli vi ha custodita fino ad oggi. Tenetevi ben stretta alla mano della sua Provvidenza ed Egli vi assisterà in tutte le circostanze e, dove non potrete camminare, vi porterà. Non pensate punto a quello che vi capiterà domani, perché lo stesso Padre, che ha cura di voi oggi, avrà cura di voi anche domani e sempre. Cosa può temere un figlio nelle braccia di un padre così grande?”.

E il cuore di Francesco come è orientato in questo campo? In questo stralcio di lettera possiamo contemplare il suo cuore che è come un pulcino sotto la protezione della Provvidenza:
“Dio al quale appartengo disponga di me secondo il suo beneplacito: poco importa il luogo in cui dovrò terminare questo misero resto dei miei giorni mortali, purché li possa terminare nella sua grazia. Nascondiamo dolcemente la nostra piccolezza in quella grandezza e, come un pulcino che, sotto le ali della madre, vive sicuro e al caldo, riposiamo i nostri cuori sotto la dolce e amorosa Provvidenza di Nostro Signore”.

Se Francesco vive questa relazione di fiducia nei confronti di Dio, può offrire buoni consigli in merito ai destinatari delle sue lettere, forte della sua esperienza. Ascoltiamone alcuni.
“Siamo fedeli, umili, dolcemente e amabilmente risoluti di proseguire per la via sulla quale la Provvidenza celeste ci ha collocati”

La Madre Favre a Lione sente il peso della carica, che non è secondo i suoi gusti. Il segreto per superare questo stato d’animo?
“Gettate decisamente il vostro pensiero sulle spalle del Signore e Salvatore ed Egli vi porterà e vi fortificherà. Tenete fisso lo sguardo sulla volontà di Dio e sulla sua provvidenza”

La nostra fiducia in Dio, la convinzione di essere in buone mani è messa talora a dura prova, soprattutto quando il dolore, la malattia, la morte bussano alla porta della nostra vita o a quella di persone che ci sono care. Francesco lo sa e non per questo si tira indietro o si scoraggia.

“Confidare in Dio nella dolcezza e nella pace della prosperità è cosa che quasi tutti sanno fare; ma abbandonarsi a Lui interamente tra gli uragani e le tempeste è caratteristica dei suoi figli”

“I piccoli avvenimenti offrono le occasioni per le mortificazioni più umili e i migliori atti d’abbandono in Dio. Negli avvenimenti più dolorosi, occorre adorare profondamente la divina Provvidenza. Bisogna morire o amare. Vorrei che mi si strappasse il cuore o che, se questo mi resta, mi restasse solo per questo amore”.

Quante persone pregano per ottenere questa o quella grazia dal Signore e, quando questa non arriva o tarda ad arrivare, si scoraggiano e la loro fiducia in Lui vacilla. Splendido è questo ammonimento scritto ad una Signora di Parigi, pochi mesi prima della morte del santo:
“Dio ha nascosto nel segreto della sua Provvidenza il tempo in cui intende esaudirvi e il modo con cui vi esaudirà; e forse, vi esaudirà in modo eccellente non esaudendovi secondo i vostri disegni, ma secondo i suoi”

Nella Pentecoste del 1607 Francesco rivela a Giovanna il suo progetto: fondare con lei e per mezzo di lei un nuovo istituto. A seguito di questo incontro una lettera che dice con quale spirito occorre continuare il cammino, che durerà ancora quattro anni!
“Tenete il vostro cuore ben aperto e fatelo riposare spesso fra le braccia della Provvidenza divina. Coraggio, coraggio! Gesù è nostro: che i nostri cuori siano sempre suoi”.

Nel giro di pochi anni vari lutti colpiscono le famiglie di Francesco e di Giovanna.
Muore improvvisamente la sorellina di Francesco, Giovanna. Ecco come i santi sanno vivere questi eventi:
“Mia cara figlia, in mezzo al mio cuore di carne, che prova tanto dolore per questa morte, sento molto sensibilmente una certa soavità, una tranquillità e un dolce riposo del mio spirito nella Provvidenza divina, che infonde nella mia anima una grande gioia anche nei dispiaceri”

All’inizio del 1610 due nuovi lutti: la morte improvvisa di Carlotta, l’ultima figlia della baronessa, di circa dieci anni e la morte della mamma di Francesco, la signora di Boisy.
“Non bisogna dunque, carissima Figlia, adorare in tutto e per tutto la suprema Provvidenza i cui consigli sono santi, buoni e amabilissimi? Confessiamo, Figlia mia diletta, confessiamo che Dio è buono e che la sua misericordia dura per l’eternità. Ho provato una grande dolore per questa separazione, ma devo anche dire che è stato un dolore tranquillo, sebbene vivo. Piansi senza amarezza spirituale”.

E nella malattia?
Dopo aver superato una crisi di salute, assai grave, Francesco scrive questa preziosa testimonianza di come ha vissuto la malattia:
“Io non sono né guarito né malato; ma penso di potermi ristabilire del tutto assai presto. Figlia mia carissima, dobbiamo lasciare la nostra vita e tutto quello che siamo alla pura disposizione della divina Provvidenza, perché, in definitiva, non apparteniamo a noi stessi, ma a Colui che, per renderci suoi, ha voluto essere tutto nostro in un modo così amabile”.

La conclusione migliore a questa carrellata di messaggi che Francesco ci lancia attraverso le sue lettere mi pare sia quella che il Santo scrive nella Filotea. È un capolavoro di freschezza e di gioia.

“In tutte le tue occupazioni appoggiati completamente alla Provvidenza di Dio, che è la sola che possa dare compimento ai tuoi progetti.
Fa’ come i bambini che con una mano si aggrappano a quella del papà e con l’altra raccolgono le fragole e le more lungo le siepi; anche tu fai lo stesso: mentre con una mano raccogli e ti servi dei beni di questo mondo, con l’altra tieniti aggrappata al Padre celeste, volgendoti ogni tanto verso di Lui, per vedere se le tue occupazioni e i tuoi affari sono di suo gradimento.
Fa’ attenzione a non lasciare la sua mano e la sua protezione, pensando così di raccogliere e accumulare di più. Se il Padre celeste ti lascia non farai più nemmeno un passo, ma finirai subito a terra. Voglio dire, Filotea, che quando sarai in mezzo agli affari e alle occupazioni ordinarie, che non richiedono un’attenzione molto accurata e assidua, guarda Dio più delle occupazioni; quando gli affari sono così importanti che richiedono tutta la tua attenzione per riuscire bene, ogni tanto dà uno sguardo a Dio, come fanno coloro che navigano in mare i quali per raggiungere il porto previsto, guardano più il cielo che la nave. Così Dio lavorerà con te, in te e per te, e il tuo lavoro sarà accompagnato dalla gioia”.

(continua)







San Francesco di Sales. Da mihi animas (3/8)

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IL “DA MIHI ANIMAS” DI SAN FRANCESCO DI SALES (3/8)

Occorre anzitutto precisare cosa si intende per zelo pastorale:
“Zelo non significa solo impegno, darsi da fare: esprime un orientamento totalizzante, l’ansia e quasi il tormento di portare a salvezza ogni persona, a tutti i costi, con tutti i mezzi, attraverso una ricerca instancabile degli ultimi e dei più abbandonati pastoralmente.

Spesso, quando si sente parlare di zelo pastorale, si richiamano alla mente figure caratterizzate da grande attività, generose nello spendersi per gli altri, animate da una carità che a volte non hanno neppure “il tempo di mangiare”. Francesco è stato una di queste figure, completamente votato al bene delle anime della sua diocesi e non solo. Tuttavia con il suo esempio ci consegna un ulteriore messaggio: il suo vivere il da mihi animas scaturisce dalla cura che ha avuto della sua vita interiore, della sua preghiera, della sua consegna senza riserve a Dio.
Sono quindi le due facce del suo zelo che vogliamo far emergere dalla sua vita e dai suoi scritti.

Quando nasce Francesco si è concluso da poco il Concilio di Trento che, sul piano pastorale, ha richiamato i vescovi ad una cura più attenta e generosa della propria diocesi, cura fatta anzitutto di residenzialità, di presenza tra la gente, di istruzione del clero attraverso la creazione di seminari, le visite frequenti alle parrocchie, la formazione dei parroci, la diffusione del Catechismo come strumento di evangelizzazione per i più piccoli e non solo…; tutta una serie di misure per riportare i vescovi e i sacerdoti a prendere coscienza della loro identità di pastori in cura d’anime.

Francesco prende sul serio questi richiami al punto da diventare, insieme a san Carlo Borromeo, il modello del vescovo pastore, tutto dedito al suo popolo, come lui stesso ebbe a dire, ricordando la sua consacrazione episcopale:
“Quel giorno Dio mi ha tolto da me stesso per prendermi per sé e quindi darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro”.

Francesco, sacerdote per nove anni e vescovo per venti, visse all’insegna di questa donazione totale a Dio e ai fratelli. A fine 1593, pochi giorni dopo la sua ordinazione sacerdotale, pronuncia un celebre discorso, detto arringa per il contenuto e il vigore con cui fu pronunciato.

L’anno seguente si offre “missionario” nel Chiablese e parte munito di una robusta fune:
“La preghiera, l’elemosina e il digiuno sono le tre parti che compongono la fune che il nemico rompe con difficoltà. Con la grazia divina, cercheremo di legare con essa questo nemico”.
Predica nella chiesa di Sant’Ippolito, a Thonon, dopo il culto protestante.

Il suo apostolato nel Chiablese all’inizio è un apostolato di contatto con la gente: sorride, parla, saluta, si ferma e si informa… convinto che i muri della diffidenza si abbattono solo con relazioni di amicizia e di simpatia. Se riuscirà a farsi amare, tutto sarà più facile e più semplice.
“Sono stanco morto”, scrive al suo vescovo, ma non si arrende.

Ama recitare il Rosario ogni giorno, anche la sera tardi e quando teme di addormentarsi per la stanchezza lo recita in piedi o passeggiando.
L’esperienza missionaria di Francesco nel Chiablese si interrompe definitivamente verso la fine del 1601 per raggiungere Parigi, dove dovrà trattare dei problemi della diocesi e vi rimarrà nove lunghi mesi.

Per impegni politici e per amicizia con tante persone frequenta la corte e proprio in questo luogo Francesco scopre tanti uomini e donne desiderose di camminare verso il Signore.
Qui nasce l’idea di un testo che riassumesse in forma concisa e pratica i principi della vita interiore e ne facilitasse l’applicazione per tutte le classi sociali. E così da questo anno il Santo inizia a mettere insieme i primi materiali che più tardi concorreranno alla composizione della Filotea.

Al ritorno da Parigi apprende la notizia della morte del suo caro vescovo. Si prepara alla sua consacrazione episcopale con due settimane di silenzio e di preghiera.
Da subito avverte il peso del nuovo incarico:
“Non si può credere quanto io mi senta assillato e oppresso da questa grande e difficile carica”.

In sintesi, lo zelo di Francesco nei vent’anni che vivrà come vescovo si manifesta soprattutto in questi ambiti:

Visita le parrocchie e i monasteri per conoscere la sua diocesi: ne scopre a poco a poco difetti e limiti anche gravi, come pure la bellezza, la generosità e il buon cuore di tante, tante persone. Per visitare le parrocchie rimane fuori Annecy per lungo tempo:
“Partirò di qui fra dieci giorni e continuerò la visita pastorale per cinque mesi interi fra le alte montagne, dove la gente mi attende con molto affetto”; “Tutte le sere quando mi ritiro, non riesco più a muovere il corpo né lo spirito, tanto mi sento stanco in tutte le membra. Però, ogni mattina, mi ritrovo più arzillo che mai”.
Soprattutto ascolta i suoi preti e li incoraggia a vivere con fedeltà la loro vocazione.

L’apostolato della penna: l’Opera omnia di Francesco consta di 27 poderosi volumi… Ci si domanda come un uomo abbia potuto scrivere tanto. Quanta fatica, quanto tempo rubato al sonno, al riposo!
Tutte le pagine uscite dalla sua penna sono la conseguenza della sua passione per le anime, della grande volontà di portare il Signore a tutti quelli che incontrava, nessuno escluso.

La fondazione dell’Ordine della Visitazione
Nel 1610 nasce una nuova realtà: tre donne (la baronessa de Chantal, Jacqueline Favre e Charlotte de Bréchard) danno vita ad una nuova forma di vita religiosa, fatta esclusivamente di preghiera e di carità. Si ispirano al quadro evangelico della Visitazione della Vergine Maria alla cugina Elisabetta.

L’altro aspetto del suo zelo è la cura della sua vita spirituale.
Il cardinal Carlo Borromeo in una lettera al clero scriveva:
“Eserciti la cura d’anime? Non trascurare per questo la cura di te stesso e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso”.

Ritorna a casa sfinito e bisognoso di “riassestare il mio povero spirito. Mi propongo di fare una revisione completa di me stesso e di rimettere tutti i pezzi del mio cuore al loro posto”.
“Al ritorno dalla visita, quando ho voluto rivedere bene la mia anima, mi ha fatto compassione: l’ho trovata così dimagrita e disfatta che pareva la morte. Sfido! Per quattro o cinque mesi non aveva quasi avuto un momento per respirare. Le starò vicino per il prossimo inverno e cercherò di trattarla bene”.

S. Francesco di Sales e s. Francisca de Chantal. Vetrata, Chiesa di San Maurizio di Thorens, Francia

Nella Filotea scriverà:
“Un orologio, per buono che sia, bisogna caricarlo e dargli la corda almeno due volte al giorno, al mattino e alla sera, e inoltre, almeno una volta all’anno, bisogna smontarlo completamente, per togliere la ruggine accumulata, raddrizzare i pezzi storti e sostituire quelli troppo consunti.

La stessa cosa deve fare chi ha seriamente cura del proprio cuore; lo deve ricaricare in Dio, sera e mattina, per mezzo degli esercizi indicati sopra; deve inoltre ripetutamente riflettere sul proprio stato, raddrizzarlo e ripararlo; e, infine, deve smontarlo almeno una volta all’anno, e controllare accuratamente tutti i pezzi, ossia tutti i suoi sentimenti e le sue passioni, per riparare tutti i difetti che vi scopre”.

Sta per iniziare la quaresima e ad un amico scrive questo significativo biglietto:
“Consacrerò questa Quaresima a osservare l’obbligo della residenza nella mia cattedrale e a riassettare un poco la mia anima, che è tutta come scucita per i grandi strapazzi a cui è stata sottoposta. È come un orologio scassato: bisogna smontarlo, pezzo per pezzo, e, dopo averlo ben ripulito e oliato, rimontarlo per fargli segnare le ore al tempo giusto”.

L’attività di Francesco va di pari passo con la cura della sua vita interiore; è questo un grande messaggio per noi oggi, per evitare di diventare tralci secchi e quindi inutili!

Per concludere.
“Ho sacrificato la mia vita e la mia anima a Dio e alla sua Chiesa: che importa se devo scomodarmi, quando si tratta di procurare qualche vantaggio alla salute delle anime?”.

(continua)







San Francesco di Sales. Amicizia (2/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

L’AMICIZIA IN SAN FRANCESCO DI SALES (2/8)

Dopo aver incontrato Francesco di Sales attraverso il racconto della sua vita, guardiamo alla bellezza del suo cuore e presentiamo alcune virtù con l’obiettivo di far nascere in tanti il desiderio di approfondire la ricca personalità di questo santo.

La prima fotografia, quella che affascina da subito chi si avvicina a Francesco di Sales, è l’amicizia! È il biglietto da visita con cui egli si presenta.

C’è un episodio di Francesco ventenne che pochi conoscono: dopo dieci anni di studio a Parigi è arrivato il momento di ritornare in Savoia, a casa, ad Annecy. Quattro suoi compagni lo accompagnano fino a Lione e si salutano in lacrime.

Questo fatto ci aiuta a comprendere e a gustare quanto Francesco scrive verso la fine della sua vita, consegnandoci una rara fotografia del suo cuore:
“Penso che nel mondo non vi siano anime che amino più cordialmente e più teneramente e, per dire tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore. E tuttavia, amo le anime indipendenti, vigorose, perché la tenerezza troppo grande sconvolge il cuore, lo rende inquieto e lo distrae dalla meditazione amorosa di Dio. Quello che non è Dio, non è nulla per noi”.

E ad una signora parla della sua sete di amicizia:
“Vi devo dire in confidenza queste poche parole: non vi è al mondo un uomo che abbia un cuore più tenero e più assetato di amicizia che il mio o che senta più dolorosamente di me le separazioni”.

Antoine FAVRE – Ritratto, collezione privata
Fonte: Wikipedia

Tra le centinaia di destinatari delle sue lettere, ne ho scelti tre, scrivendo ai quali Francesco mette in risalto le caratteristiche dell’amicizia salesiana, quale l’ha vissuta e che propone a noi oggi.
Il primo grande amico che incontriamo è il suo concittadino Antoine Favre. Francesco, laureato brillantemente in giurisprudenza, ha una gran voglia di incontrare e di guadagnarsi la stima di questo luminare.

In una delle prime lettere troviamo un’espressione, che suona come una sorta di giuramento:
“Questo dono (l’amicizia), tanto apprezzabile anche per la sua rarità, è veramente impagabile e per me tanto più caro in quanto che non avrebbe mai potuto toccarmi per i miei meriti personali. Vivrà sempre nel mio petto l’ardente desiderio di coltivare diligentemente tutte le amicizie!”

La prima caratteristica dell’amicizia è la comunicazione, il dare notizie, il condividere stati d’animo.

A inizio dicembre 1593 nasce a Francesco l’ultima sorellina, Giovanna, e ne dà prontamente notizia all’amico:
“Vengo a sapere che mia carissima madre, che è nel suo quarantaduesimo anno d’età, darà presto alla luce il suo tredicesimo figlio. Corro da lei, sapendo che suole rallegrarsi moltissimo per la mia presenza”.

Siamo a pochi giorni dall’ordinazione sacerdotale e Francesco confida all’amico:
“Voi siete l’unico uomo ch’io stimo capace di comprendere pienamente il turbamento del mio spirito; è infatti tremendo presiedere la celebrazione della Messa ed è cosa molto difficile celebrarla con la dovuta dignità”.

Dopo neppure un anno dalla ordinazione troviamo Francesco “missionario” nel Chiablese; comunica la sua fatica e la sua amarezza all’amico:
“Oggi comincio a predicare l’Avvento a quattro o cinque umili persone: tutti gli altri ignorano maliziosamente che cosa voglia dire Avvento”.
Qualche mese dopo con gioia gli dà notizia dei suoi primi successi apostolici:
“Finalmente cominciano a biondeggiare le prime spighe!”

Un altro grande amico di Francesco fu Giovenale Ancina. I due si incontrano a Roma (1599); saranno entrambi consacrati vescovi alcuni anni dopo. Francesco gli scrive varie lettere; in questa prega l’amico, vescovo di Saluzzo, di tenerlo “strettamente unito seco nel suo cuore e anche si degni spesso darmi gli avvisi e i ricordi che lo Spirito Santo gli ispirerà”.

Tra gli amici incontrati a Parigi spicca quella con il celebre padre Pietro de Bérulle, incontrato al circolo di Madame Acarie. A lui Francesco scrive pochi giorni dopo la sua consacrazione episcopale:
“Io sono vescovo consacrato dall’8 di questo mese, giorno di Nostra Signora. Questo mi spinge a scongiurarvi d’aiutarmi tanto più cordialmente con le vostre preghiere. Non c’è rimedio: avremo sempre bisogno di lavarci i piedi, poiché camminiamo nella polvere. Il nostro buon Dio ci conceda la grazia di vivere e di morire nel suo servizio”.

Un altro grande amico di Francesco fu Vincenzo de’ Paoli. Tra loro nacque un’amicizia che continuò oltre la morte del fondatore della Visitazione, in quanto che Vincenzo prese a cuore l’Ordine e ne divenne il punto di riferimento fino alla fine dei suoi giorni (1660). Vincenzo rimase sempre riconoscente al santo vescovo dal quale aveva ricevuto salutari rimproveri sul suo carattere irruente e suscettibile. Ne fece tesoro e poco per volta si corresse e pensando al suo amico non esitava a definirlo “la persona che più di ogni altro aveva rappresentato al vivo l’immagine del Salvatore”.

Leggendo queste lettere scopriamo alcune qualità che devono reggere una vera amicizia: la comunicazione, la preghiera e il servizio (perdono, correzione …).

Ci imbattiamo ora in tanti uomini e donne, cui Francesco indirizza lettere di amicizia spirituale. Alcuni esempi:

Alla signora de la Fléchère scrive:
“Abbiate pazienza con tutti, ma principalmente con voi stessa. Voglio dire che non vi dovete punto turbare per le vostre imperfezioni e avere sempre il coraggio di riprendervi prontamente”.

San Vincenzo de’ Paoli – Fondatore della Congregazione della Missione (lazzaristi)
Ritratto, Simon François de Tours; Fonte: Wikipedia

Alla signora di Charmoisy scrive:
“Dovete stare attenta a cominciare con dolcezza, e di quando in quando dare uno sguardo al vostro cuore per vedere se si è conservato dolce. Se non si è conservato così, raddolcirlo prima di fare qualsiasi cosa”

Queste lettere sono un trattato di amicizia, non perché si parli di amicizia, ma perché chi scrive vive una relazione di amicizia, sapendo creare un clima e uno stile in modo che questa si percepisca e porti frutti di vita buona.

La stessa cosa vale per la corrispondenza con le sue Figlie, le Visitandine.

Alla Madre Favre che sente il peso della sua carica scrive:
“Occorre armarsi di una coraggiosa umiltà e rigettare tutte le tentazioni di scoraggiamento nella santa fiducia che abbiamo in Dio. Siccome questa carica vi è stata imposta per volontà di coloro ai quali dovete obbedire, Dio si metterà alla vostra destra e la porterà con voi, o meglio, la porterà Lui, ma la porterete anche voi”

Alla Madre di Bréchard scrive:
“Chi sa conservare la dolcezza fra i dolori e le infermità e la pace fra il disordine delle sue molteplici occupazioni è quasi perfetto. Questa costanza d’umore, questa dolcezza e soavità di cuore è più rara che la perfetta castità, ma ne è tanto più desiderabile. Da questa, come dall’olio della lampada, dipende la fiamma del buon esempio, perché non vi è altra cosa che edifichi tanto come la bontà caritatevole”.

Santa Giovanna Francesca FRÉMIOT DE CHANTAL, cofondatrice dell’Ordine della Visitazione di Santa Maria
Autore sconosciuto, Monastero della Visitazione di Maria Santissima a Toledo, Ohio (USA); Fonte: Wikipedia

Tra le varie Madri fondatrici un posto particolare spetta alla Fondatrice, Giovanna di Chantal alla quale fin dall’inizio Francesco scrive:
“Credete fermamente che io ho una viva e straordinaria volontà di servire il vostro spirito con tutta la capacità delle mie forze. Mettete a profitto il mio affetto e usate di tutto quello che Dio mi ha dato per il servizio del vostro spirito. Eccomi qui tutto vostro”

E lo dichiara a Giovanna:
“Amo questo amore. Esso è forte, ampio, senza misura né riserva, ma dolce, forte, purissimo e tranquillissimo; in una parola è un amore che vive solo in Dio. Dio che vede tutte le pieghe del mio cuore, sa che in questo non v’è nulla che non sia per Lui e secondo Lui, senza il quale non voglio essere nulla per nessuno”.

Questo Dio che Francesco e Giovanna intendono servire è sempre presente, è la garanzia, perché questo amore resti sempre una consacrazione a Lui solo:
“Vorrei potervi esprimere il sentimento che oggi, mentre mi comunicavo, ho avuto della nostra cara unità, perché è stato un sentimento grande, perfetto, dolce, potente e tale da potersi quasi dire un voto, una consacrazione”.
“Chi mai avrebbe potuto fondere due spiriti in modo così perfetto, che non fossero più che un solo spirito indivisibile e inseparabile, se non Colui che è unità per essenza? […]. Mille e mille volte ogni giorno il mio cuore si trova vicino a voi con mille e mille auguri che presenta a Dio per vostra consolazione”.
“La santa unità che Dio ha operata è più forte che tutte le separazioni, e la distanza dei luoghi non le può nuocere minimamente. Dunque Dio ci benedica sempre con il suo santo amore. Egli ci ha fatti un cuore unico nello spirito e nella vita”.

Termino con un augurio, quello che Francesco scrive ad una delle prime Visitandine, Jacqueline Favre:
“Come sta il povero cuore tanto amato? È sempre coraggioso e vigilante per evitare le sorprese della tristezza? Vi prego: non tormentatelo, neppure quando vi ha giocato qualche piccolo brutto tiro, ma riprendetelo dolcemente e riconducetelo sulla sua strada. Questo cuore diventerà un grande cuore, fatto secondo il cuore di Dio”.

(continua)







Artemide ZATTI – Santo

VITA E OPERE

            San Artemide Zatti nacque a Boretto (Reggio Emilia) il 12 ottobre 1880. Sperimentò presto la durezza del sacrificio, tanto che a nove anni già si guadagnava la giornata da bracciante. Costretta dalla povertà, la famiglia Zatti, agli inizi del 1897 (Artemide aveva quindi 17 anni), emigrò in Argentina e si stabilì a Bahía Blanca.

            Il giovane Artemide cominciò subito a lavorare, prima in un albergo e poi in una fabbrica di mattoni. Prese a frequentare la parrocchia retta dai Salesiani. A quel tempo era parroco il salesiano don Carlo Cavalli, uomo pio e di una bontà straordinaria. Artemide trovò in lui il suo direttore spirituale e il parroco trovò in Artemide un collaboratore eccellente. Non tardò ad orientarsi verso la vita salesiana. Aveva 20 anni quando partì per l’aspirantato di Bernal. Quelli furono anni molto duri per Artemide, che era più avanti dei suoi compagni per età ma più indietro di loro per i pochi studi fatti. Vinse però tutte le difficoltà, grazie alla sua volontà tenace, alla sua acuta intelligenza e ad una solida pietà.

            Assistendo un giovane sacerdote tubercolotico, egli ne contrasse purtroppo la malattia. L’interessamento paterno di don Cavalli – che lo seguiva da lontano – fece sì che si scegliesse per lui la Casa salesiana di Viedma dove c’era un clima più adatto e soprattutto un ospedale missionario con un bravo infermiere salesiano che in pratica fungeva da “medico”: Padre Evasio Garrone. Questi si rese subito conto del grave stato di salute del giovane e nello stesso tempo intuì le sue virtù non comuni. Invitò Artemide a pregare Maria Ausiliatrice per ottenere la guarigione, ma suggerì anche di fare una promessa: “Se Lei ti guarisce, tu ti dedicherai per tutta la tua vita a questi infermi”. Artemide fece volentieri questa promessa e misteriosamente guarì. Accettò con umiltà e docilità la non piccola sofferenza di rinunziare al sacerdozio (a causa della malattia contratta). Dalla sua bocca né allora né in seguito, uscì mai un lamento per questa meta non raggiunta.

            Emise come confratello laico la sua prima Professione l’11 gennaio 1908 e quella Perpetua il 18 febbraio 1911. Coerentemente alla promessa fatta alla Madonna, egli si consacrò subito e totalmente all’ospedale, occupandosi in un primo tempo della farmacia annessa dopo aver conseguito il titolo di “idoneo in farmacia”. Quando nel 1913 morì padre Garrone, tutta la responsabilità dell’ospedale cadde sulle sue spalle. Ne divenne infatti vicedirettore, amministratore, esperto infermiere stimato da tutti gli ammalati e dagli stessi sanitari che gli lasciavano man mano sempre più libertà d’azione. L’ospedale fu per tutta la sua vita il luogo dove esercitò, giorno dopo giorno, la sua virtù fino al grado eroico.

            Il suo servizio, non si limitava all’ospedale ma si estendeva a tutta la città anzi alle due località situate sulle rive del fiume Negro: Viedma e Patagones. Usciva abitualmente con il suo camice bianco e il borsello delle medicine più comuni. Una mano al manubrio e l’altra col rosario. Preferiva le famiglie povere, ma era chiamato anche dai ricchi. In caso di necessità si muoveva ad ogni ora del giorno e della notte, con qualunque tempo. Non si fermava al centro della città, ma andava anche nei tuguri della periferia. Faceva tutto gratuitamente, e se riceveva qualcosa, andava per l’ospedale.

            San Artemide Zatti amò i suoi ammalati in modo davvero commovente, vedeva in loro Gesù stesso. Fu sempre ossequiente verso i medici e i titolari dell’ospedale. Ma la situazione non era sempre facile, sia per il carattere di alcuni di loro sia per i contrasti che potevano sorgere tra i dirigenti legali e lui che lo era di fatto. Egli però li seppe conquistare tutti e col suo equilibrio riusciva a risolvere anche le situazioni più delicate. Solo un profondo dominio di sé poté rendergli possibile la vittoria sull’affanno e sulla facile irregolarità di orario.

            Egli fu un edificante testimone della fedeltà alla vita comune. Meravigliava tutti come potesse questo santo religioso, così indaffarato nei suoi molteplici impegni all’ospedale, essere nello stesso tempo il rappresentante esemplare della regolarità. Era lui a suonare la campana, era lui a precedere tutti gli altri confratelli negli appuntamenti comunitari. Fedele allo spirito salesiano e al motto – “lavoro e temperanza” – lasciato in eredità da Don Bosco ai suoi figli, egli svolse un’attività prodigiosa con abituale prontezza d’animo, con spirito di sacrificio specie durante il servizio notturno, con distacco assoluto da ogni soddisfazione personale, senza mai prendersi vacanze e riposo. Da buon salesiano seppe fare dell’allegria, una componente della sua santità. Appariva sempre simpaticamente sorridente: così lo ritraggono tutte le foto pervenuteci. Fu un uomo di facile rapporto umano, con una visibile carica di simpatia, sempre lieto di potersi intrattenere con l’umile gente. Ma fu soprattutto un uomo di Dio. Lo irraggiava. Uno dei medici dell’ospedale ha detto: “Quando vedevo il Sig. Zatti la mia incredulità vacillava”. E un altro: “Credo in Dio da quando ho conosciuto il Sig. Zatti”.

            Nel 1950 il santo cadde da una scala e fu in occasione di questo incidente che si manifestarono i sintomi di un cancro che egli stesso lucidamente diagnosticò. Continuò tuttavia ad attendere alla sua missione ancora per un anno, finché dopo sofferenze eroicamente accettate, si spense il 15 marzo 1951 in piena coscienza, circondato dall’affetto e gratitudine di una popolazione che da quel momento cominciò a invocarlo come intercessore presso Dio. Al suo funerale accorsero tutti gli abitanti di Viedma e Patagones in un corteo senza precedenti.

            La fama di santità si estese rapidamente e la sua tomba cominciò ad essere molto venerata. Ancora oggi, quando la gente va al cimitero per i funerali, passa sempre a visitare la tomba di Artemide Zatti. Beatificato da S. Giovanni Paolo II il 14 aprile 2002, san Artemide Zatti fu il primo salesiano coadiutore non martire ad essere elevato agli onori degli altari.

MESSAGGIO

            La cronaca del collegio salesiano di Viedma ricorda che, secondo l’usanza, il 15 marzo 1951 al mattino il campanone annuncia il volo al cielo del confratello coadiutore Artemide Zatti con queste parole profetiche: «Un fratello in meno in casa e un santo in più in cielo».

            La canonizzazione di Artemide è un dono di grazia che il Signore ci dona attraverso questo fratello, salesiano coadiutore, che ha vissuto la sua vita nello spirito di famiglia tipico del carisma salesiano, incarnando la fraternità verso i confratelli e la comunità, e la prossimità verso i poveri e gli ammalati e verso chiunque incontrava sulla sua strada.

            Le tappe e le stagioni della vita di Artemide Zatti: l’infanzia e la prima giovinezza in Italia a Boretto; l’emigrazione della famiglia e la permanenza a Bahía Bianca (Argentina); l’aspirantato salesiano a Bernal; la malattia e il trasferimento a Viedma, che sarà la patria del cuore; la formazione e la professione religiosa come Salesiano coadiutore; la missione per 40 anni nell’Ospedale San José prima e presso la Quinta San Isidro poi; gli ultimi anni e la morte vissuta come incontro con il Signore della vita, mettono in evidenza l’esercizio eroico delle virtù e l’azione purificatrice e trasformante dello Spirito Santo, artefice di ogni santità.

            Sant’Artemide Zatti risulta modello, intercessore e compagno di vita cristiana, vicino a ciascuno. Infatti, la sua avventura ce lo presenta come persona che ha sperimentato la fatica quotidiana dell’esistenza con i suoi successi e i suoi fallimenti. Basta ricordare il distacco dal paese natale per emigrare in Argentina; la malattia della tubercolosi che irrompe come un uragano nella sua giovane esistenza frantumando ogni sogno e ogni prospettiva di futuro; il vedere demolire l’ospedale che aveva costruito con tanti sacrifici e che era diventato santuario dell’amore misericordioso di Dio. Ma Zatti trova sempre nel Signore la forza di rialzarsi e proseguire il cammino.

            La testimonianza di Artemide Zatti ci illumina, ci attrae e ci mette anche in discussione, perché è “Parola di Dio” incarnata nella storia e vicina a noi. Egli ha trasformato la vita in dono, operando con generosità e intelligenza, superando difficoltà di ogni genere con la sua incrollabile fiducia nella Provvidenza divina. La lezione di fede, speranza e carità che ci lascia diventa, se opportunamente conosciuta e motivata, un’opera coraggiosa di salvaguardia e di promozione dei più autentici valori umani e cristiani.

            Attraverso la parabola della vita di Artemide Zatti risalta anzitutto la sua esperienza dell’amore incondizionato e gratuito di Dio. In primo luogo, non ci sono le opere che lui ha compiuto, ma lo stupore di scoprirsi amato e la fede in questo amore provvidenziale in ogni stagione della vita. È da questa certezza vissuta che sgorga la totalità di donazione al prossimo per amore di Dio. L’amore che riceve dal Signore è la forza che trasforma la sua vita, dilata il suo cuore e lo predispone ad amare. Con lo stesso Spirito, lo Spirito di santità, amore che ci guarisce e ci trasforma, fin da ragazzo fa scelte e compie gesti di amore in ogni situazione e con ogni fratello e sorella che incontra, perché si sente amato e ha la forza di amare:

  • ancora adolescente in Italia egli sperimenta i disagi della povertà e del lavoro, ma pone il fondamento di una solida vita cristiana, dando le prime prove della sua carità generosa;
  • emigrato con la famiglia in Argentina sa custodire e far crescere la sua fede resistendo ad un ambiente spesso immorale e anticristiano e maturando, grazie all’incontro con i Salesiani e all’accompagnamento spirituale del padre Carlo Cavalli, l’aspirazione al sacerdozio, accettando di ritornare sui banchi di scuola con ragazzini di dodici anni, lui che di anni ne aveva già venti;
  • si offre con pronta disponibilità ad assistere un sacerdote malato di tubercolosi e ne contrae il male, senza dire una parola di lamento o di recriminazione, ma vivendo la malattia come un tempo di prova e di purificazione, portandone con fortezza e serenità le conseguenze;
  • guarito in modo straordinario, per intercessione di Maria Ausiliatrice, dopo aver fatto la promessa di dedicare la sua vita agli ammalati e ai poveri, accetta generosamente la rinuncia al sacerdozio e si dedica con tutte le sue forze alla nuova missione come Salesiano laico;
  • vive in forma straordinaria il ritmo ordinario delle sue giornate: pratica fedele ed edificante della vita religiosa in gioiosa fraternità; servizio sacrificato a tutte le ore e con tutte le prestazioni più umili ai malati e ai poveri; lotta continua contro la povertà, nella ricerca di risorse e di benefattori per far fronte ai debiti, confidando esclusivamente nella Provvidenza; disponibilità pronta a tutte le sventure umane che chiedono il suo intervento; resistenza ad ogni difficoltà e accettazione di ogni caso avverso; dominio di sé e serenità gioiosa e ottimistica che si comunica a tutti coloro che lo avvicinano.

            Settantun anni di questa vita di fronte a Dio e di fronte agli uomini: una vita consegnata con gioia e fedeltà fino alla fine, testimoniando una santità accessibile e alla portata di tutti, come insegnano San Francesco di Sales e Don Bosco: non una meta impervia, separata dalla vita di tutti i giorni, ma incarnata nella quotidianità, nelle corsie dell’ospedale, in bicicletta per le strade di Viedma, nei travagli della vita concreta per far fronte a esigenze e bisogni di ogni genere, vivendo le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente, con la gioia della donazione, abbracciando con entusiasmo la vocazione di Salesiano laico e diventando riflesso luminoso del Signore.




San Francesco di Sales. Vita (1/8)

VITA DI SAN FRANCESCO DI SALES (1/8)

1. I primi anni

            Francesco nasce nel castello di famiglia a Thorens (20 km circa da Annecy). È settimino e “fu un miracolo che, in un parto così pericoloso, la mamma non avesse perso la vita”. È il primogenito cui faranno seguito sette tra fratelli e sorelle. La mamma, Francesca de Sionnaz, ha appena 15 anni mentre il papà, il Sig. de Boisy, ne ha 43! All’epoca il matrimonio, nelle classi nobili, era un’occasione per salire nella scala sociale (mettere insieme titoli nobiliari, terre, castelli…). Il resto, amore compreso, veniva dopo!

                                 Chiesa di San Maurizio di Thorens, Francia

            È battezzato nella piccola chiesa di San Maurizio di Thorens. Francesco anni dopo sceglierà quell’umile chiesetta per la sua consacrazione episcopale (8 dicembre 1602).
            I primi anni Francesco li vive insieme ai suoi tre cugini nello stesso castello: con loro gioca, si diverte e contempla la splendida natura che lo circonda e che per lui diventa il grande libro da cui attingerà mille esempi per i suoi libri. L’educazione che riceve dai Genitori è di chiaro stampo cattolico. “Si deve sempre pensare a Dio ed essere uomini di Dio” ripeteva il padre e Francesco farà tesoro di questo consiglio. I genitori frequentano con assiduità la parrocchia e trattano con correttezza i dipendenti e sanno fare generosa carità quando occorre. I primi ricordi di Francesco non sono solo quelli legati alla bellezza di quella meravigliosa natura, ma sono anche gli spettacoli di distruzione e di morte, dovuti alle guerre fratricide in nome del Vangelo.

            Arriva l’ora di andare a scuola: Francesco lascia la sua casa e si reca in collegio prima a La Roche per circa due anni e poi per tre ad Annecy in compagnia dei suoi cugini. Questo tempo è segnato da alcuni fatti importanti:
            – nella chiesa di S. Domenico (attuale chiesa di San Maurizio) riceve la prima Comunione e la Cresima e da allora in poi si comunicherà spesso.
            – si iscrive alla confraternita del Rosario e da allora prende l’abitudine a recitarlo ogni giorno.
            – chiede di ricevere la tonsura: il padre gli concede il permesso, dal momento che questo passo non implicava l’inizio della carriera ecclesiastica.
            Francesco è un ragazzo normale, studioso, obbediente con un tratto caratteristico: “non lo si vedeva mai prendere in giro nessuno!”.
            Ormai la Savoia gli aveva insegnato tutto quello che poteva. E così nel 1578 Francesco, con gli inseparabili cugini e sotto l’occhio vigile del precettore Déage, parte alla volta di Parigi, dove resterà per dieci anni, allievo del collegio del Clermont, gestito dai gesuiti.

2. I dieci anni che contano: 1578-1588

            L’orario del Collegio è severo e anche le prescrizioni religiose sono esigenti. In questi anni Francesco studia il latino, il greco, l’ebraico, familiarizza con i classici, si perfeziona nella lingua francese. Ha ottimi insegnanti.
            Nel tempo libero frequenta ambienti altolocati, ha libero accesso alla Corte, eccelle nelle arti della nobiltà, segue alcuni corsi di teologia alla Sorbona. Ascolta, in particolare, il Commento al Cantico dei Cantici del P. Génébrard e ne esce sconvolto: scopre dentro l’allegoria dell’amore di un uomo per una donna la passione di Dio per l’umanità. Si sente amato da Dio! Ma in pari tempo matura nella sua mente l’idea di essere escluso da questo amore. Si sente dannato! Entra in crisi e per sei settimane non dorme, non mangia, piange, si ammala. Esce da questo stato affidandosi alla Madonna nella chiesa di S. Etienne des Grès con l’atto di abbandono eroico alla misericordia e bontà di Dio. Recita una Salve Regina e la tentazione svanisce.
            Finalmente, terminati gli esami conclusivi, può lasciare Parigi, non senza rincrescimento. Quale gioia per Francesco ritornare a casa e riabbracciare i genitori, i fratellini e le sorelline che nel frattempo erano arrivati a rallegrare la famiglia.
            Il tutto per pochi mesi soltanto, perché bisogna ripartire per completare “il sogno di papà”: diventare un grande nel campo del diritto.

3. Gli anni di Padova: 1588-1591

            Sono gli anni decisivi per Francesco sul piano umano, culturale e spirituale.
            Padova è la capitale del Rinascimento italiano con migliaia di studenti che provengono da tutta Europa: nelle università si trovano i più celebri insegnanti, gli spiriti migliori del tempo.
            Qui Francesco studia diritto e al tempo stesso approfondisce la teologia, legge i Padri della Chiesa, si mette nelle mani di un saggio direttore spirituale, il gesuita P. Possevino. Probabilmente a causa di una febbre tifoidea, viene ridotto in fin di vita; riceve i sacramenti e fa testamento: “Il mio corpo, quando sarò spirato, consegnatelo agli studenti di medicina”. Era tale il fervore per lo studio e la sete di conoscere il corpo umano che gli studenti di medicina, a corto di cadaveri, andavano a dissotterrarli al cimitero!
            Importante questo testamento di Francesco perché dice la sensibilità, che conserverà per tutta la vita, nei confronti della cultura, delle novità scientifiche tipiche del Rinascimento.
            Guarisce, conclude brillantemente i suoi studi il 5 settembre 1591 e lascia Padova “laureato a pieni voti in utroque” (diritto civile ed ecclesiastico). Il padre ne è fiero.

4. Verso il sacerdozio: 1593

            Nel cuore di Francesco ci sono altri sogni, molto lontani da quelli di suo padre, ma come dirglielo? Il Signor di Boisy ha posto in Francesco tutte le sue speranze!
Viene nominato Prevosto della cattedrale di Annecy. Forte di questo titolo onorifico si incontra con il padre per dirgli la sua intenzione di diventare sacerdote. Fu uno scontro durissimo e comprensibile.
             “Pensavo e speravo che sareste stato il bastone della mia vecchiaia e il sostegno della famiglia…Non condivido le vostre intenzioni, ma non vi nego la mia benedizione” concluse il padre.
            La via del sacerdozio è aperta: in pochi mesi Francesco riceve gli ordini minori, il suddiaconato, il diaconato e finalmente il 18 dicembre l’ordinazione sacerdotale. Si prepara tre giorni per celebrare la prima messa il 21 dicembre.
            Alcuni giorni dopo Natale, Francesco di Sales può essere ufficialmente “insediato” prevosto della cattedrale e in quell’occasione pronunciò uno dei suoi discorsi più famosi, una vera e propria arringa. Si sente già fin d’ora l’ardore e lo zelo del pastore, in sintonia con quanto il Concilio di Trento aveva indicato come via alla riforma.

5. Missionario nel Chiablese: 1594-1598

            Il Chiablese è il territorio che si affaccia al lago di Ginevra. I sacerdoti di questa zona della Savoia erano stati cacciati dai Calvinisti di Ginevra e le chiese erano senza pastori. Ora però, nel 1594, il Duca Carlo Emanuele ha riconquistato quelle terre e sollecita il vescovo di Annecy ad inviare nuovi missionari. La proposta rimbalza sul clero, ma nessuno ha il coraggio di andare in quelle terre così ostili, rischiando la propria vita. Solo Francesco si dichiara disponibile e il 14 settembre, con il cugino Luigi, parte per questa missione.
            Prende dimora nel castello degli Allinges, dove il Barone Hermanance veglia sulla sua incolumità. Così ogni mattina, dopo la messa, scende alla ricerca dei Signori di Thonon. La domenica predica nella chiesa di S. Ippolito, ma i fedeli sono poche persone.

                                 Capella del castello degli Allinges, Francia

            Allora decide di scrivere e far stampare le sue prediche: le affigge nei luoghi pubblici e le fa scivolare sotto la porta di cattolici e protestanti.
            Il suo modello è Gesù per le strade della Palestina: si ispira alla sua dolcezza e bontà, alla sua franchezza e sincerità. Non mancano ostilità e chiusure, ma arrivano anche “le prime spighe”, cioè le prime conversioni.
            Era severo e inflessibile verso l’errore e verso coloro che diffondevano l’eresia, ma di una pazienza senza limiti nei confronti di tutti coloro che riteneva vittime delle teorie degli eretici.
             “Io amo la predicazione che si affida più all’amore del prossimo che all’indignazione, persino degli ugonotti, che occorre trattare con grande compassione, non già lusingandoli, bensì deplorandoli”. Lo spirito salesiano sembra concentrata in questa espressione di Francesco: “La verità che non è caritatevole sgorga da una carità che non è vera”.
            Di questo periodo straordinario per lo zelo, la bontà e il coraggio di Francesco va ancora ricordato l’iniziativa di celebrare nella chiesa di s. Ippolito le tre messe di Natale nel 1596.
            Ma l’iniziativa che maggiormente contribuì a smantellare l’eresia dal territorio del Chiablese fu quella delle Sante Quarantore, promosse e animate da un nuovo collaboratore di Francesco, padre Cherubino della Maurienne. Nel 1597 furono celebrate ad Annemasse, alle porte di Ginevra.
            L’anno seguente le Sante Quarantore si tennero a Thonon (inizio di ottobre 1598).
            A fine anno Francesco deve lasciare la “missione” e scendere a Roma per trattare vari problemi della Diocesi.
            A Roma contrae amicizie importanti (Bellarmio, Baronio, Ancina…) e incontra i preti dell’Oratorio di S. Filippo Neri e si innamora del loro spirito.
Ritorna ad Annecy passando per Loreto, quindi in nave risale fino a Venezia; si ferma a Bologna e a Torino dove discute con il Duca quanto concesso dal Papa a favore delle parrocchie della diocesi.
            Nel 1602 si reca a Parigi sempre per trattare con il nunzio e con il Re delicate questioni diplomatiche concernenti la diocesi e i rapporti con i calvinisti. Qui si fermerà per nove lunghi mesi e tornerà a casa con un pugno di mosche. Se questo è il risultato diplomatico, molto ricco e importante è invece il profitto spirituale e umano che ne sa trarre.
Decisivo per la vita di Francesco è l’incontro con il famoso “Circolo della Signora Acarie”: è una sorta di cenacolo spirituale dove si leggono le opere di S. Teresa d’Avila e di S. Giovanni della Croce e grazie a questo movimento spirituale verrà introdotto in Francia il Carmelo riformato.
            Sulla via del ritorno, Francesco riceve la notizia della morte del suo amato vescovo.

6. Francesco, vescovo di Ginevra: 1602 – 1622

            L’8 dicembre 1602 nella piccola chiesetta di Thorens Francesco viene consacrato vescovo e resterà alla guida della sua diocesi per venti anni. “Quel giorno Dio mi aveva tolto da me stesso per prendermi per sé e quindi darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro”.
            Di questo periodo metto in risalto tre aspetti importanti:

6.1 Francesco pastore

            In questi anni brilla il suo zelo concentrato nelle parole: Da mihi animas che diventano il suo programma.
             “Il prete è tutto per Dio e tutto per il popolo” soleva ripetere e lui ne era il modello, per primo!
            I problemi della diocesi sono tanti e molto gravi: riguardano il clero, i monasteri, la formazione dei futuri ministri, il seminario inesistente, la catechesi, la mancanza di risorse economiche.
            Francesco inizia subito la visita alle oltre quattrocento parrocchie, visita che si protrae per cinque o sei anni: parla con i sacerdoti, conforta, incoraggia, risolve i problemi più spinosi, predica, amministra il sacramento della cresima ai ragazzi o ai futuri sposi, celebra matrimoni…
            Per ovviare all’ignoranza del clero fa scuola di teologia in casa sua, ogni anno raduna i suoi preti in Sinodo, predica… “Per alcuni anni insegnò ad Annecy molti argomenti di indole teologica ai suoi canonici e dettava loro lezioni in latino.
            Erano molti coloro che aspiravano alla vita religiosa o al sacerdozio: non erano le vocazioni che mancavano. Molto spesso mancava la vocazione!
            Scrive un opuscolo Avvertimenti ai confessori, un gioiello di zelo pastorale dove si intrecciano dottrina, esperienza personale, consigli…
            Visita i numerosi monasteri della diocesi: alcuni li chiude, in altri sposta il personale, ne fonda di nuovi.
            Lotterà fino alla fine per avere un Seminario: mancano i fondi per l’egoismo dei Cavalieri di S. Lazzaro e di S. Maurizio, che trattengono le rendite dovute alla diocesi.
            La caratteristica dominante in Francesco pastore è la sua capacità di accompagnare le persone.
             “È una fatica guidare le anime singole, ma una fatica che fa sentire leggeri come quella dei mietitori e dei vendemmiatori, i quali non sono mai tanto contenti come quando hanno molto lavoro e molto da portare”.
            Caratteristiche di questa educazione individualizzata:
            Ricchezza di umanità: “Penso che nel mondo non vi siano anime che amino più cordialmente e più teneramente e, per dire tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore”.
            Padre e fratello: sa essere molto esigente, ma sempre con dolcezza e serenità. Non abbassa la posta in gioco: basta leggere la prima parte della Filotea per rendersene conto.
            Prudenza e concretezza: “Usatevi molti riguardi durante questa gravidanza… se vi stancate a stare inginocchiata, mettetevi a sedere e se non avete l’attenzione sufficiente per pregare mezz’ora, pregate solo per un quarto d’ora…” (Madame de la Fléchère)
            Senso di Dio: “Occorre fare tutto per amore e nulla per forza; occorre amare l’obbedienza più di quanto si tema la disobbedienza”. “Dio sia il Dio del vostro cuore”.
            Francesco fu definito la copia più vera di Gesù in terra (S. Vincenzo di Paoli)

6.2 Francesco scrittore:

            Nonostante gli impegni legati al suo essere vescovo, Francesco trova il tempo per dedicarsi a scrivere. Che cosa? Migliaia di lettere a persone che chiedono la sua guida spirituale, ai monasteri della Visitazione di recente fondazione, a personaggi di spicco della nobiltà o della Chiesa per tentare di risolvere problemi, ai suoi familiari ed amici.
            Nel 1608 viene pubblicata la Introduzione alla vita devota: è lo scritto più noto di Francesco.
            “È nel carattere, nel genio, ma soprattutto nel cuore di Francesco di Sales che occorre cercare la vera origine e la preparazione remota dell’Introduzione alla Vita Devota o Filotea”: così scrive nell’introduzione all’edizione critica di Annecy don Machey, un uomo che ha dedicato la vita allo studio delle opere del Santo.
            La prefazione porta la data dell’8 agosto 1608.
            Questo libro ricevette un’accoglienza entusiasta.
            La Chantal parla di questo libro come “di un libro dettato dallo Spirito Santo”. In 400 anni di vita, il libro ha avuto oltre 1300 edizioni con milioni di copie, tradotto in tutte le lingue del mondo.
            A distanza di quattro secoli queste pagine conservano intatto il loro fascino e la loro attualità.

            Nel 1616 appare un altro scritto di Francesco: Il Trattato dell’amor di Dio, il suo capolavoro, scritto per coloro che vogliono puntare alle vette! Li guida con sapienza e con esperienza a vivere l’abbandono totale alla volontà di Dio fino al punto “dove si incontrano gli amanti!” cioè al Calvario. Solo i santi sanno guidare alla santità.

6.3 Francesco fondatore

            Nel 1604 Francesco si reca a Digione a predicare la Quaresima, invitato dall’arcivescovo di Bourges, Andrea Fremyot. Fin dai primi giorni rimane colpito dall’attenzione e dal comportamento devoto di una dama presente. È la baronessa Giovanna Francesca Fremyot de Chantal, sorella dell’arcivescovo.
            Dal 1604, anno dell’incontro di Giovanna con Francesco, al 1610, data dell’entrata di Giovanna in noviziato ad Annecy, i due santi si incontrano quattro o cinque volte, ogni volta per una settimana o una decina di giorni. Gli incontri sono rallegrati dalla presenza di varie persone di famiglia (la mamma, la sorella di Francesco) o amiche (la Signora Brulart, la badessa di Puy d’Orbe…).
            Giovanna vorrebbe accelerare i tempi, ma Francesco procede con prudenza.
Poco alla volta i vari nodi si allentano, giungono consensi, la serenità e la pace crescono e questo permette di risolvere meglio i problemi.
            Dio ha preso possesso del suo cuore e l’ha resa donna pronta a dare la sua vita per Lui. Il suo sogno, a lungo coltivato, si realizza il 6 giugno 1610: giornata storica! Giovanna e le sue due amiche (Giacomina Favre e Carlotta di Bréchard) entrano in una casetta, “la Galerie”, e iniziano l’anno di noviziato.
            Il 6 giugno dell’anno seguente le prime tre professioni nelle mani di Francesco. Intanto altre giovani e altre donne chiedevano di essere accolte. Prende così il via la famiglia religiosa che si ispira alla Visitazione di Maria.
            L’espansione del nuovo Ordine ha del prodigioso. Alcune cifre: dal 1611 (anno di fondazione) al 1622 (anno della morte di Francesco) le fondazioni sono tredici: Annecy, Lione, Moulins, Grenoble, Bourges, Parigi…. Alla morte di Giovanna, nel 1641, i monasteri saranno 87 con una media di oltre 3 all’anno! Tra questi anche due in Piemonte: a Torino e a Pinerolo!

7. Ultimi anni

            Francesco negli ultimi anni di vita deve prendere per due volte la strada di Parigi: viaggi importanti sul piano diplomatico e spirituale, viaggi faticosi per lui stanco e malandato in salute.
            La fama della santità di Francesco è nota a Parigi al punto che il cardinale Henri de Gondi pensa a lui come a suo successore e glielo propone. Nota è la simpatica risposta di Francesco: “Io ho sposato una povera donna (la diocesi di Annecy); non posso divorziare per sposarne una ricca (la diocesi di Parigi)!”
            Nel suo ultimo anno di vita intraprende un nuovo viaggio a Pinerolo, in Piemonte, su richiesta del Papa per riportare la pace in un monastero di Foglianti (Cistercensi riformati) che non riescono a mettersi d’accordo sul superiore generale. Francesco riuscì a rappacificare menti e cuori con soddisfazione unanime.
            Un altro ordine del Duca impone a Francesco di accompagnare il cardinal Maurizio di Savoia ad Avignone per incontrare il re Luigi XIII.
            Al ritorno si ferma a Lione nel monastero delle Visitandine. Qui incontra per l’ultima volta Giovanna de Chantal. È stremato, ma predica ancora fino alla fine, che sopraggiunge il 28 dicembre 1622.
            Francesco è morto con un sogno: ritirarsi dagli affari della diocesi e trascorrere gli ultimi anni di vita nel quieto Monastero di Talloires, sulle sponde del lago, a scrivere il suo ultimo libro Trattato dell’amore del prossimo e a recitare il Rosario. Siamo certi che il libro l’aveva già scritto con l’esempio della sua vita; quanto alla recita del Rosario, ora non gli mancano né il tempo, né la tranquillità.

(continua)