Educare le facoltà del nostro spirito con san Francesco di Sales

San Francesco di Sales presenta lo spirito come la parte più elevata dell’anima, retta da intelletto, memoria e volontà. Cuore della sua pedagogia è l’autorità della ragione, “divina fiaccola” che rende l’uomo realmente umano e deve guidare, illuminare e disciplinare passioni, immaginazione e sensi. Educare lo spirito significa quindi coltivare l’intelletto con studio, meditazione e contemplazione, esercitare la memoria come deposito delle grazie ricevute, e irrobustire la volontà perché scelga costantemente il bene. Da tale armonia sgorgano le virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – che formano persone libere, equilibrate e capaci di autentica carità.

            Lo spirito è considerato da Francesco di Sales come la parte superiore dell’anima. Le sue facoltà sono l’intelletto, la memoria e la volontà. L’immaginazione potrebbe farne parte nella misura in cui la ragione e la volontà intervengono nel suo funzionamento. La volontà, da parte sua, è la facoltà maestra cui conviene riservare un trattamento particolare. Lo spirito fa sì che l’uomo divenga, secondo la definizione classica, un «animale razionale». «Siamo uomini soltanto mediante la ragione», scrive Francesco di Sales. Dopo «le grazie corporali», ci sono «i doni dello spirito», che dovrebbero essere oggetto delle nostre riflessioni e della nostra riconoscenza.  Fra essi l’autore della Filotea distingue i doni ricevuti dalla natura e quelli acquistati con l’educazione:

Considerate i doni dello spirito: quanta gente c’è al mondo ebete, pazza furiosa, mentecatta. Perché non vi trovate fra loro? Dio vi ha favorita. Quanti sono stati educati rozzamente e nella più estrema ignoranza: ma voi, la Provvidenza divina vi ha fatto allevare in un modo civile e onorato.

La ragione, “divina fiaccola”
           
In un Esercizio del sonno o riposo spirituale, composto a Padova quando aveva ventitré anni, Francesco si proponeva di meditare un argomento che stupisce:

Mi fermerò ad ammirare la bellezza della ragione che Dio ha donato all’uomo, affinché illuminato e istruito dal suo meraviglioso splendore, odiasse il vizio e amasse la virtù. Oh! Seguiamo la splendente luce di questa divina fiaccola, perché ci è donata in uso per vedere dove dobbiamo mettere i piedi! Ah! Se ci lasciamo condurre dai suoi dettami, raramente inciamperemo, difficilmente ci faremo male.

            «La ragione naturale è un buon albero che Dio ha piantato in noi, i frutti che ne provengono possono essere soltanto buoni», afferma l’autore del Teotimo; è vero che è «gravemente ferita e quasi morta a causa del peccato», ma il suo esercizio non è fondamentalmente impedito.
            Nel regno interiore dell’uomo, «la ragione deve essere la regina, alla quale tutte le facoltà del nostro spirito, tutti i nostri sensi e lo stesso corpo devono rimanere assolutamente sottomessi». È la ragione che distingue l’uomo dall’animale, per cui bisogna guardarsi bene dall’imitare «le bertucce e le scimmie che sono sempre immusonite, tristi e lamentose quando manca la luna; poi, al contrario, alla luna nuova, saltano, danzano, e fanno tutte le smorfie possibili». È necessario far regnare «l’autorità della ragione», ribadisce Francesco di Sales.
            Fra la parte superiore dello spirito, che deve regnare, e la parte inferiore del nostro essere, designata a volte da Francesco di Sales col termine biblico di «carne», la lotta talvolta diventa aspra. Ogni fronte ha i suoi alleati. Lo spirito, «fortezza dell’anima», è accompagnato «da tre soldati: l’intelletto, la memoria e la volontà». Attenti dunque alla «carne» che complotta e cerca alleati sul posto:

La carne usa ora l’intelletto, ora la volontà, ora l’immaginazione, le quali associandosi contro la ragione, le lasciano libero il campo, creando divisione e facendo un cattivo servizio alla ragione. […] La carne alletta la volontà a volte coi piaceri, a volte con le ricchezze; ora sollecita l’immaginazione a campare pretese, ora suscita nell’intelletto una grande curiosità, il tutto col pretesto del bene.

            In questa lotta, anche quando tutte le passioni dell’anima sembrano sconvolte, niente è perduto fin tanto che lo spirito resiste: «Se questi soldati fossero fedeli, lo spirito non avrebbe alcun timore e non darebbe alcun peso ai propri nemici: come soldati che, disponendo di sufficienti munizioni, resistono nel bastione di una fortezza imprendibile, nonostante che i nemici si trovino nei sobborghi o addirittura abbiano già preso anche la città; è capitato alla cittadella di Nizza, davanti alla quale la forza di tre grandi principi non l’ha spuntata contro la resistenza dei difensori». La causa di tutte queste interiori lacerazioni è l’amore proprio. In effetti, «i nostri ragionamenti ordinariamente sono pieni di motivazioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, e ciò causa grandi conflitti nell’anima».
            In ambito educativo, è importante far sentire la superiorità dello spirito. «Qui sta il principio di un’educazione umana – dice il padre Lajeunie –: mostrare al fanciullo, appena la sua ragione si sveglia, ciò che è bello e buono, e distoglierlo da ciò che è cattivo; creare in questo modo nel suo cuore l’abitudine di controllare i suoi riflessi istintivi, invece di seguirli servilmente; è così, infatti, che si forma questo processo di sensualizzazione che lo rende schiavo dei suoi desideri spontanei. Al momento di scelte decisive, tale abitudine di cedere sempre, senza controllarsi, alle pulsioni istintive può rivelarsi catastrofica».

L’intelletto, “occhio dell’anima”
            L’intelletto, facoltà tipicamente umana e razionale, la quale consente di conoscere e comprendere, sovente è paragonato alla vista. Si afferma per esempio: «Io vedo», per dire: «Io comprendo». Per Francesco di Sales, l’intelletto è “l’occhio dell’anima”; di qui la sua espressione «l’occhio del vostro intelletto». L’incredibile attività di cui è capace, lo rende simile a «un operaio, il quale, con le centinaia di migliaia di occhi e di mani, come un altro Argo, compie più opere di tutti i lavoratori del mondo, perché non c’è niente nel mondo che non sia in grado di rappresentare».
            Come funziona l’intelletto umano? Francesco di Sales ne ha analizzato con precisione le quattro operazioni di cui è capace: il semplice pensiero, lo studio, la meditazione e la contemplazione. Il semplice pensiero si esercita su una grande diversità di cose, senza alcun fine, «come fanno le mosche che si posano sui fiori senza volerne estrarre alcun succo, ma soltanto perché li incontrano». Quando l’intelletto passa da un pensiero all’altro, i pensieri che così lo stipano sono d’ordinario «inutili e dannosi». Lo studio, al contrario, mira a considerare le cose «per conoscerle, per comprenderle e per parlarne bene, con lo scopo di «riempirne la memoria», come fanno li maggiolini che «si posano sulle rose per nessun altro fine se non per saziarsene e riempirsene il ventre».
            Francesco di Sales poteva fermarsi qui, ma conosceva e raccomandava altre due forme più elevate. Mentre lo studio mira a aumentare le conoscenze, la meditazione ha come scopo quello di «muovere gli affetti e, in particolare, l’amore»: «Fissiamo il nostro intelletto sul mistero dal quale speriamo di poter attingere buoni affetti», come la colomba che “tuba trattenendo il respiro e, mediante il brontolio che produce in gola senza lasciarne uscire il respiro, produce il suo tipico canto”.
            L’attività suprema dell’intelletto è la contemplazione, la quale consiste nel gioire del bene conosciuto tramite la meditazione e amato mediante tale conoscenza; questa volta assomigliamo agli uccellini che si trastullano nella gabbia soltanto per “far piacere al maestro». Con la contemplazione lo spirito umano giunge al suo vertice; l’autore del Teotimo afferma che la ragione «vivifica infine l’intelletto con la contemplazione”.
            Ritorniamo allo studio, l’attività intellettuale che ci interessa più da vicino. “C’è un vecchio assioma dei filosofi, secondo cui ogni uomo desidera conoscere”. Riprendendo da parte sua questa affermazione di Aristotele, come pure l’esempio di Platone, Francesco di Sales intende dimostrare che ciò costituisce un grande privilegio. Ciò che l’uomo vuol conoscere è la verità. La verità è più bella di quella «famosa Elena, per la cui bellezza morirono tanti Greci e Troiani». Lo spirito è fatto per la ricerca della verità: «La verità è l’oggetto del nostro intelletto, il quale, di conseguenza, scoprendo e conoscendo la verità delle cose, si sente pienamente appagato e contento». Quando lo spirito trova qualcosa di nuovo, ne prova una gioia intensa, e quando si incomincia a trovare qualche cosa di bello, si è spinti a continuare la ricerca, «come coloro che hanno trovato una miniera d’oro e si spingono sempre più avanti per trovarne ancora di più, di questo prezioso metallo». Lo stupore che produce la scoperta è un potente stimolo; «l’ammirazione, infatti, ha dato l’origine alla filosofia e all’attenta ricerca delle cose naturali». Essendo Dio la verità suprema, la conoscenza di Dio è la scienza suprema che riempie il nostro spirito. È lui che ci «ha donato l’intelletto per conoscerlo»; fuori di lui ci sono soltanto «pensieri vani e riflessioni inutili!»

Coltivare la propria intelligenza
            Ciò che caratterizza l’uomo è il grande desiderio di conoscere. È stato questo desiderio «a indurre il grande Platone a uscire da Atene e correre tanto», e «a indurre questi antichi filosofi a rinunciare alle loro comodità corporali». Certuni giungono perfino a digiunare diligentemente «per poter studiare meglio». Lo studio, infatti, produce un piacere intellettuale, superiore ai piaceri sensuali e difficile da fermare: «L’amore intellettuale, trovando nell’unione con il suo oggetto una contentezza insperata, ne perfeziona la conoscenza, continuando così ad unirvisi, e unendosi sempre più, non smette dal continuare a farlo».
            Si tratta di «illuminare bene l’intelletto», sforzandosi di «purgarlo» dalle tenebre dell’«ignoranza». Egli denuncia «l’ottusità e l’indolenza di spirito, che non vuole sapere ciò che è necessario» e insiste sul valore dello studio e dell’apprendimento: «Studiate sempre di più, con diligenza e umiltà», scriveva a uno studente. Ma non basta «purgare» l’intelletto dall’ignoranza, occorre inoltre «abbellirlo e ornarlo», «tappezzarlo di considerazioni». Per conoscere perfettamente una cosa, è necessario imparare bene, dedicare del tempo ad «assoggettare» l’intelletto, cioè a fissarlo su una cosa, prima di passare ad un’altra.
            Il giovane Francesco di Sales applicava la sua intelligenza non soltanto agli studi e a conoscenze intellettuali, ma anche a certi soggetti essenziali per la vita dell’uomo sulla terra, e, in particolare, alla «considerazione della vanità della grandezza, delle ricchezze, degli onori, delle comodità e dei piaceri voluttuosi di questo mondo»; alla «considerazione della nefandezza, abiezione e deplorabile miseria, presenti nel vizio e nel peccato», e alla «conoscenza dell’eccellenza della virtù».
            Lo spirito umano è sovente distratto, dimentica, si accontenta d’una conoscenza vaga o vana. Mediante la meditazione, non soltanto delle verità eterne, ma anche dei fenomeni e degli avvenimenti del mondo, è in grado di raggiungere una visione più realista e più profonda della realtà. Per questo motivo, nelle Meditazioni proposte dall’autore a Filotea, vi è dedicata una prima parte intitolata Considerazioni.
            Considerare significa applicare lo spirito a un oggetto preciso, esaminarne con attenzione i suoi diversi aspetti. Francesco di Sales invita Filotea a «pensare», a «vedere», a esaminare i differenti «punti», alcuni dei quali meritano di essere considerati «a parte». Esorta a vedere le cose in generale e a discendere poi ai casi particolari. Vuole che si esaminino i principi, le cause e le conseguenze di una determinata verità, di una data situazione, come pure le circostanze che l’accompagnano. Occorre anche saper «pesare» certe parole o sentenze, la cui importanza rischia di sfuggirci, considerarle una ad una, confrontarle l’una con l’altra.
            Come in ogni cosa, così nel desiderio di conoscere ci possono essere eccessi e deformazioni. Attenti alla vanità di falsi sapienti: certuni, infatti, «per il poco di scienza che hanno, vogliono essere onorati e rispettati da tutti, come se ognuno dovesse andare alla loro scuola e averli per maestri: perciò li si chiama pedanti». Ora, «la scienza ci disonora quando ci gonfia e degenera in pedanteria». Che ridicolaggine voler istruire Minerva, Minervam docere, la dea della saggezza! «La peste della scienza è la presunzione, che gonfia gli spiriti e li rende idropici, come sono d’ordinario i sapienti del mondo».
            Quando si tratta di problemi che ci superano e che rientrano nell’ambito dei misteri della fede, è necessario «purificarli da ogni curiosità», bisogna «tenerli ben chiusi e coperti di fronte a tali vane e sciocche questioni e curiosità». È la «purità intellettuale», la «seconda modestia» o l’«interiore modestia». Infine si deve sapere che l’intelletto può sbagliarsi e che esiste il «peccato dell’intelletto», come quello che Francesco di Sales rimprovera alla signora di Chantal, la quale aveva commesso un errore riponendo un’esagerata stima nel suo direttore.

La memoria e i suoi «magazzini»
            Come l’intelletto, così la memoria è una facoltà dello spirito che suscita ammirazione. Francesco di Sales la paragona a un magazzino «che vale più di quelli di Anversa o di Venezia». Non si dice forse «immagazzinare» nella memoria? La memoria è un soldato la cui fedeltà ci è assai utile. È un dono di Dio, dichiara l’autore dell’Introduzione alla vita devota: Dio ve l’ha donata «perché vi ricordiate di lui», dice a Filotea, invitandola a fuggire «i ricordi detestabili e frivoli».
            Questa facoltà dello spirito umano ha bisogno di essere allenata. Quando era studente a Padova, il giovane Francesco esercitava la sua memoria non soltanto negli studi, ma anche nella vita spirituale, nella quale la memoria dei benefici ricevuti è un elemento fondamentale:

Prima di ogni cosa, mi dedicherò a rinfrescare la mia memoria con tutti i buoni moti, desideri, affetti, propositi, progetti, sentimenti e dolcezze che in passato la divina Maestà m’ha ispirato e fatto sperimentare, considerando i suoi santi misteri, la bellezza della virtù, la nobiltà del suo servizio e un’infinità di benefici che mi ha liberamente elargito; metterò pure ordine nei miei ricordi circa gli obblighi che ho verso di lei per il fatto che, per la sua santa  grazia, a volte ha debilitato i miei sensi inviandomi certe malattie e infermità, dalle quali ho tratto grande profitto.

            Nelle difficoltà e nelle paure è indispensabile servirsene «per ricordarsi delle promesse» e per «restare saldi confidando che tutto perirà piuttosto che le promesse vengano meno». Tuttavia, la memoria del passato non è sempre buona, perché può ingenerare tristezza, come capitò a un discepolo di san Bernardo, che fu assalito da una brutta tentazione quando incominciò «a ricordare gli amici del mondo, i parenti, i beni che aveva lasciato». In certe circostanze eccezionali della vita spirituale «è necessario purificarla dal ricordo di cose caduche e da affari mondani e dimenticare per un certo tempo le cose materiali e temporali, benché buone e utili». In campo morale, per esercitare la virtù, la persona che si è sentita offesa prenderà una misura radicale: «Mi ricordo troppo delle frecciate e ingiurie, d’ora in poi perderò la memoria».

«Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole»
            Le capacità dello spirito umano, in particolare dell’intelletto e della memoria, non sono destinate soltanto a gloriose imprese intellettuali, ma anche e soprattutto alla condotta della vita. Cercare di conoscere l’uomo, di comprendere la vita e definire le norme riguardanti i comportamenti conformi alla ragione, questi dovrebbero essere i compiti fondamentali dello spirito umano e della sua educazione. La parte centrale della Filotea, che tratta dell’«esercizio delle virtù», contiene, verso la fine, un capitolo che riassume in certo modo l’insegnamento di Francesco di Sales sulle virtù: «Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole».
            Con finezza e un pizzico di umore, l’autore denuncia numerose condotte bizzarre, folli o semplicemente ingiuste: «Accusiamo il prossimo per poco, e scusiamo noi stessi per molto di più»; «vogliamo vendere con un prezzo alto e comperare a buon mercato»; «ciò che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, e ciò che fanno gli altri per noi è niente»; «abbiamo un cuore dolce, grazioso e cortese verso di noi, e un cuore duro, severo e rigoroso verso il prossimo»; «abbiamo due pesi: l’uno per pesare le nostre comodità con il maggior vantaggio possibile per noi, l’altro per pesare quelle del prossimo con il maggior svantaggio che si può». Per giudicare bene, consiglia a Filotea, è necessario sempre mettersi nei panni del prossimo: «Fatevi venditrice nel comperare e compratrice nel vendere». Non si perde nulla a vivere da persone «generose, nobili, cortesi, con un cuore regale, costante e ragionevole».
            La ragione sta alla base dell’edificio dell’educazione. Certi genitori non hanno un atteggiamento mentale giusto; infatti, «ci sono ragazzi virtuosi che padri e madri non riescono quasi a sopportare perché hanno questo o quel difetto nel corpo; ce ne sono invece di viziosi continuamente coccolati, perché hanno questa o quella bella dote fisica». Ci sono educatori e responsabili che si lasciano andare a preferenze. «Tenete la bilancia ben diritta fra le vostre figlie», raccomandava a una superiora delle visitandine, affinché «i doni naturali non vi facciano distribuire ingiustamente gli affetti e i favori». E aggiungeva: «La bellezza, la buona grazia e la parola garbata conferiscono spesso una grande forza d’attrattiva alle persone che vivono secondo le loro inclinazioni naturali; la carità ha come oggetto la vera virtù e la bellezza del cuore, e si estende a tutti senza particolarismi».
            Ma è soprattutto la gioventù quella che corre i rischi maggiori, perché se «l’amor proprio ci allontana solitamente dalla ragione», ciò avviene forse ancor di più nei giovani tentati dalla vanità e dall’ambizione. La ragione di un giovane rischia di perdersi soprattutto quando si lascia «prendere da innamoramenti». Attenzione dunque, scrive il vescovo a un giovane, «a non permettere ai vostri affetti di prevenire il giudizio e la ragione nella scelta dei soggetti da amare; poiché, una volta che si è messo in corsa, l’affetto trascina il giudizio, come si trascinerebbe uno schiavo, a scelte molto deplorevoli, di cui potrebbe pentirsi assai presto». Spiegava pure alle visitandine che «i nostri pensieri sono solitamente pieni di ragioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, che causa grandi conflitti nell’anima».

La ragione, fonte delle quattro virtù cardinali
            La ragione assomiglia al fiume del paradiso, «che Dio fa scorrere per irrigare tutto l’uomo in tutte le sue facoltà e attività»; esso si divide in quattro bracci corrispondenti alle quattro virtù che la tradizione filosofica chiama virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
            La prudenza «inclina il nostro intelletto a discernere veramente il male da evitare e il bene da compiere». Essa consiste nel «discernere quali sono i mezzi più appropriati per raggiungere il bene e la virtù». Attenzione alle passioni che rischiano di deformare il nostro giudizio e di provocare la rovina della prudenza! La prudenza non si oppone alla semplicità: saremo, congiuntamente, «prudenti come serpenti per non essere ingannati; semplici come colombe per non ingannare nessuno».
            La giustizia consiste nel «rendere a Dio, al prossimo e a sé stessi ciò che si deve». Francesco di Sales inizia con la giustizia verso Dio, connessa con la virtù della religione, «mediante la quale rendiamo a Dio il rispetto, l’onore, l’omaggio e la sottomissione a lui dovuti come nostro sovrano Signore e primo principio». La giustizia verso i genitori comporta il dovere della pietà, la quale «si estende a tutti gli uffici che si possono legittimamente rendere loro, sia in onore, sia in servizio».
            La virtù della fortezza aiuta a «superare le difficoltà che si incontrano nel compiere il bene e nel respingere il male». È ben necessaria, perché l’appetito sensitivo è «davvero un soggetto ribelle, sedizioso, turbolento». Quando la ragione domina le passioni, l’ira lascia il posto alla dolcezza, grande alleata della ragione. La fortezza è accompagnata spesso dalla magnanimità, «una virtù che ci spinge e inclina a compiere azioni di grande rilievo».
            Infine la temperanza è indispensabile «per reprimere le inclinazioni disordinate della sensualità», per «governare l’appetito dell’avidità» e «frenare le passioni connesse». In effetti, se l’anima si appassiona troppo ad un piacere e a una gioia sensibile, si degrada rendendosi incapace di gioie più elevate.
            In conclusione, le quattro virtù cardinali sono come le manifestazioni di questa luce naturale che ci fornisce la ragione. Praticando queste virtù, la ragione esercita «la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali».




Con Nino Baglieri pellegrino di Speranza, nel cammino del Giubileo

Il percorso del Giubileo 2025, dedicato alla Speranza, trova un testimone luminoso nella vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri. Dalla drammatica caduta che lo rese tetraplegico a diciassette anni fino alla rinascita interiore del 1978, Baglieri è passato dall’ombra della disperazione alla luce di una fede operosa, trasformando il suo letto di dolore in cattedra di gioia. La sua storia intreccia i cinque segni giubilari – pellegrinaggio, porta, professione di fede, carità e riconciliazione – mostrando che la speranza cristiana non è evasione, ma forza che apre il futuro e sostiene ogni cammino.

1. Sperare come attesa
            La speranza, secondo il vocabolario online Treccani, è un sentimento di “aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera”. L’etimologia del sostantivo “speranza” deriva dal latino spes, a sua volta derivato dalla radice sanscrita spa– che significa tendere verso una meta. Nella lingua spagnola “sperare” e “aspettare” vengono tradotti con il verbo esperar, che racchiude in un unico lemma entrambi i significati: quasi si potesse aspettare solo ciò che si spera. Questo stato d’animo ci permette di affrontare la vita e le sue sfide con coraggio e una luce nel cuore sempre ardente. La speranza viene espressa – in positivo o in negativo – anche in alcuni proverbi della saggezza popolare: “La speranza è l’ultima a morire”, “Finché c’è vita c’è speranza”, “Chi di speranza vive, disperato muore”.
            Quasi raccogliendo questo “sentire condiviso” sulla speranza, ma consapevole di dover aiutare a riscoprire la speranza nella sua dimensione più piena e vera, Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo Ordinario del 2025 alla Speranza (Spes non confundit [La speranza non delude] ne è la bolla di indizione) e già nel 2014 diceva: “La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre e là dove si infrange la speranza umana. Nel momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce, è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci la luce. Nel momento più oscuro interviene Dio e risuscita” (cf. Udienza del 16 aprile 2014).
            In questo contesto cade a pennello la vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri (Modica, 1° maggio 1951 – 2 marzo 2007) che giovane muratore diciassettenne, cadendo da un’impalcatura alta diciassette metri per il cedimento improvviso di un tavolone, si schiantò al suolo rimanendo tetraplegico: da quella caduta, il 6 maggio 1968, potrà muovere solo testa e collo, dovendo dipendere a vita dagli altri in tutto, anche nelle cose più semplici e umili. Nino non può nemmeno stringere la mano a un amico, o fare una carezza alla mamma… e vede svanire la possibilità di realizzare i suoi sogni. Quale speranza di vita ha ora questo giovane? Con quali sentimenti può fare i conti? Quale futuro lo attende? La prima risposta di Nino è la disperazione, il buio più totale davanti a una richiesta di senso che non trova risposta: dapprima un lungo peregrinare in ospedali di regioni italiane diverse, poi il compatirlo di amici e conoscenti portano Nino a ribellarsi e a rinchiudersi in dieci lunghi anni di solitudine e rabbia, mentre il tunnel della vita si fa sempre più profondo.
            Nella mitologia greca, Zeus affida a Pandora un vaso che contiene tutti i mali del mondo: scoperchiato, gli uomini perdono l’immortalità e iniziano una vita di sofferenza. Per salvarli, Pandora riapre allora il vaso e libera elpis, la speranza, rimasta sul fondo: era l’unico antidoto agli affanni della vita. Guardando invece al Datore di ogni bene, sappiamo che «la speranza non delude» (Rm 5,5). Papa Francesco nella Spes non confundit scrive: “Nel segno di questa speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma […] Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza” (ivi, 1).

2. Da Testimone della “disperazione” ad “ambasciatore” di speranza
            Ritorniamo allora alla vicenda del nostro Servo di Dio, Nino Baglieri.
            Devono passare dieci lunghi anni prima che Nino esca dal tunnel della disperazione, le fitte tenebre si diradino ed entri la Luce. Era il pomeriggio del 24 marzo, Venerdì Santo del 1978, quando padre Aldo Modica con un gruppetto di giovani si recò a casa di Nino sollecitato dalla sua mamma Peppina e da alcune persone che frequentavano il cammino del Rinnovamento nello Spirito, allora agli albori nella vicina parrocchia salesiana. Scrive Nino: “mentre invocavano lo Spirito Santo sentii una sensazione stranissima, un grande calore invadeva il mio corpo, un forte formicolio in tutte le [mie] membra, come se una forza nuova entrasse in me e qualcosa di vecchio uscisse. In quel momento dissi il mio “sì” al Signore, accettai la mia croce e rinacqui a vita nuova, diventai un uomo nuovo. Dieci anni di disperazione cancellati in pochi istanti, perché una gioia sconosciuta entrò nel mio cuore. Io desideravo la guarigione del mio corpo e invece il Signore mi graziava con una gioia ancora più grande: la guarigione spirituale”.
            Inizia per Nino un nuovo cammino: da “testimone della disperazione” diventa “pellegrino di speranza”. Non più isolato all’interno della sua stanzetta ma “ambasciatore” di questa speranza, racconta il suo vissuto attraverso una trasmissione messa in onda da una radio locale e – grazia ancora più grande – il buon Dio gli dona la gioia di poter scrivere con la bocca. Nino confida: “Nel mese di marzo del 1979 il Signore mi fece un grande Miracolo imparai a scrivere, con la bocca, incominciai così, ero con i miei amici che si stavano facendo i compiti dissi di darmi una matita e un quaderno, incominciai a fare dei segni e a disegnare qualcosa, ma poi scoprii che potevo scrivere e così incominciai a scrivere”. Inizia allora a redigere le sue memorie e ad avere contatti tramite lettera con persone di ogni categoria e in varie parti del mondo, per migliaia di lettere a tutt’oggi custodite. La ritrovata speranza lo rende creativo, ora Nino riscopre il gusto delle relazioni e vuole rendersi – come può – indipendente: con l’ausilio di un’asticella che usa con la bocca, e di un elastico applicato al telefono, compone i numeri telefonici per mettersi in comunicazione con tante persone ammalate, per rivolgere loro una parola di conforto. Scopre un nuovo modo di affrontare la propria condizione di sofferenza, che lo fa uscire dall’isolamento e lo avvia a diventare testimone del Vangelo della gioia e della speranza: “Adesso c’è tanta gioia nel mio cuore, in me non esiste più dolore, nel mio cuore c’è il Tuo amore. Grazie Gesù mio Signore, dal mio letto di dolore ti voglio lodare e con tutto il mio cuore ti voglio ringraziare perché mi hai chiamato per conoscere la vita per conoscere la vera vita”.
            Nino ha cambiato prospettiva, ha effettuato una virata di 360° – il Signore gli ha regalato la conversione – ha posto la sua fiducia in quel Dio misericordioso che, attraverso la “disgrazia”, l’ha chiamato a lavorare nella sua vigna, per essere segno e strumento di salvezza e speranza. Così, tante persone che andavano a trovarlo per consolarlo uscivano consolati, con le lacrime agli occhi: non trovavano su quel lettuccio un uomo triste e mesto, ma un volto sorridente che sprigionava – nonostante tante sofferenze, tra cui le piaghe e i problemi respiratori – gioia di vivere: il sorriso era una costante sul suo volto e Nino si sentiva “utile da un letto di croce”. Nino Baglieri è l’opposto di tante persone di oggi, perennemente alla ricerca del senso della vita, che puntano al successo facile e alla felicità di cose effimere e senza valore, vivono on-line, consumano la vita in un click, vogliono tutto e subito ma hanno gli occhi tristi, spenti. Nino in apparenza non aveva niente, eppure aveva la pace e la gioia nel cuore: non ha vissuto isolato, ma sostenuto dall’amore di Dio espresso dall’abbraccio e dalla presenza di tutta la sua famiglia e di sempre più persone che lo conoscono ed entrano in rapporto con lui.

3. Ravvivare la speranza
            Costruire la speranza è: ogni volta che non mi accontento della mia vita e mi impegno per cambiarla. Ogni volta che non mi lascio indurire dalle esperienze negative e impedisco che esse mi rendano diffidente. Ogni volta che cado e provo a rialzarmi, che non permetto che le paure abbiano l’ultima parola. Ogni volta che, in un mondo segnato dai conflitti, scelgo la fiducia e di rilanciare sempre, con tutti. Ogni volta che non sfuggo al sogno di Dio che mi dice: “voglio che tu sia felice”, “voglio che tu abbia una vita piena… piena anche di santità”. Il culmine della virtù della speranza è infatti uno sguardo al Cielo per abitare bene la terra o, come direbbe Don Bosco, un camminare con i piedi per terra e il cuore in Cielo.
            In questo solco di speranza trova compimento il giubileo che, con i suoi segni, ci chiede di metterci in cammino, di varcare alcune frontiere.
            Primo segno, il pellegrinaggio: quando ci si muove da un luogo all’altro si è aperti al nuovo, al cambiamento. Tutta la vita di Gesù è stata “un mettersi in viaggio”, un cammino di evangelizzazione che si compie nel dono della vita e poi oltre, con la Risurrezione e l’Ascensione.
            Secondo segno, la porta: in Gv 10,9 Gesù afferma «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Passare la porta è lasciarsi accogliere, essere comunità. Nel vangelo si parla anche della “porta stretta”: il Giubileo diventa cammino di conversione.
            Terzo segno, la professione di fede: esprimere l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa e il dichiararlo pubblicamente.
            Quarto segno la carità: la carità è la password per il cielo, in 1Pt 4,8 l’apostolo Pietro ammonisce «conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati».
            Quinto segno, dunque, la riconciliazione e l’indulgenza giubilare: si tratta di un “tempo favorevole” (cf. 2Cor 6,2) per sperimentare la grande misericordia di Dio e percorrere cammini di riavvicinamento e perdono verso i fratelli; per vivere la preghiera del Padre Nostro dove si chiede “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. È diventare creature nuove.
            Anche nella vita di Nino ci sono episodi che lo collegano – sul “filo” della speranza – a queste dimensioni giubilari. Per esempio il pentimento per alcune bravate della sua infanzia, come quando, in tre (lui racconta), “rubavamo le offerte delle Messe in sacrestia, ci servivano per giocare al bigliardino. Quando incontri cattivi compagni ti portano nelle male vie. Poi uno ha preso il mazzo di chiavi dell’Oratorio e l’ha nascosto nella mia borsa dei libri che era nello studio; hanno trovato le chiavi, hanno chiamato i genitori, ci hanno dato due schiaffoni e ci hanno cacciato alla scuola. Vergogna!”. Ma soprattutto nella vita di Nino c’è la carità, l’aiutare il fratello povero, nella prova fisica e morale, il farsi vivo con chi ha fatiche anche psicologiche e il raggiungere per iscritto i fratelli in carcere per testimoniare loro la bontà e l’amore di Dio. A Nino, che prima della caduta era stato muratore, “[mi] piaceva costruire con le mie mani qualcosa che restasse nel tempo: anche ora – scrive – mi sento di essere un muratore che lavora nel Regno di Dio, per lasciare qualcosa che resti nel tempo, per vedere le Opere Meravigliose di Dio che compie nella nostra Vita». Confida: «il mio corpo sembra morto, ma nel mio petto continua a battere il mio cuore. Le gambe non si muovono, eppure, per le vie del mondo io cammino”.

4. Pellegrino verso il cielo
            Nino, consacrato cooperatore salesiano della grande Famiglia Salesiana, conclude il suo “pellegrinaggio” terreno venerdì 2 marzo 2007 alle ore 8.00 del mattino, a soli 55 anni, di cui 39 trascorsi da tetraplegico tra letto e carrozzina, dopo aver chiesto scusa alla famiglia per le fatiche che ha dovuto affrontare per la sua condizione. Lascia la scena di questo mondo in tuta e scarpette, come ha espressamente chiesto, per correre nei verdi prati fioriti e saltellare come una cerva lungo i corsi d’acqua. Leggiamo nel suo Testamento spirituale: “non finirò mai di ringraziarti, o Signore, per avermi chiamato a Te attraverso la Croce il 6 maggio 1968. Una croce pesante per le mie giovani forze…”. Il 2 marzo la vita – continuo dono che parte dai genitori e viene piano piano alimentato con stupore e bellezza – inserisce per Nino Baglieri il suo tassello più importante: quello dell’abbraccio con il suo Signore e Dio, accompagnato dalla Madonna.
            Alla notizia della sua dipartita da più parti si leva un coro unanime: «è morto un santo», un uomo che ha fatto del suo letto di croce il vessillo della vita piena, dono per tutti. Quindi un grande testimone di speranza.
            Trascorsi 5 anni dalla morte così, come previsto dalle Normae Servandae in Inquisitionibus ab Episcopis faciendis in Causis Sanctorum del 1983, il vescovo della Diocesi di Noto, su richiesta del Postulatore Generale della Congregazione Salesiana, sentita la Conferenza Episcopale Siciliana e ottenuto il Nihil obstat della Santa Sede, apre l’Inchiesta Diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Nino Baglieri.
            Il processo diocesano, durato 12 anni, si è svolto lungo due direttrici portanti: il lavoro della Commissione Storia che ha ricercato, raccolto, studiato e presentato tante fonti, soprattutto Scritti “del” e “sul” Servo di Dio; il Tribunale Ecclesiastico, titolare dell’Inchiesta, che ha altresì ascoltato sotto giuramento i testimoni.
            Questo percorso si è concluso lo scorso 5 maggio 2024 alla presenza di mons. Salvatore Rumeo, attuale vescovo della diocesi di Noto. Pochi giorni dopo gli Atti processuali sono stati consegnati al Dicastero delle Cause dei Santi che ha proceduto alla loro apertura in data 21 giugno 2024. All’inizio del 2025, il medesimo Dicastero ne ha decretato la “Validità Giuridica”, con cui la Fase romana della Causa può entrare nel vivo.
            Ora l’apporto alla Causa prosegue anche continuando a far conoscere la figura di Nino che al termine del suo cammino terreno ha raccomandato: “non lasciatemi senza far nulla. Io continuerò dal cielo la mia missione. Vi scriverò dal Paradiso”.
            Il cammino della speranza in sua compagnia diventa così desiderio del Cielo, quando “ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine […]. Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio […] Camminiamo cantando!” (cf. Laudato Sì, 243-244).

Roberto Chiaramonte




San Domenico Savio. I luoghi della fanciullezza

San Domenico Savio, il “piccolo grande santo”, visse la sua breve ma intensa fanciullezza tra le colline del Piemonte, in luoghi oggi carichi di memoria e spiritualità. In occasione della sua beatificazione nel 1950, la figura di questo giovane discepolo di Don Bosco fu celebrata come simbolo di purezza, fede e dedizione evangelica. Ripercorriamo i luoghi principali della sua infanzia — Riva presso Chieri, Morialdo e Mondonio — attraverso testimonianze storiche e racconti vividi, rivelando l’ambiente familiare, scolastico e spirituale che ha forgiato il suo cammino verso la santità.

            L’Anno Santo 1950 fu anche quello della Beatificazione di Domenico Savio, avvenuta il 5 marzo. Il quindicenne discepolo di don Bosco era il primo santo laico «confessore» a salire sugli altari in così giovane età.
            Quel giorno la Basilica di San Pietro era gremita di giovani che testimoniavano, con la loro presenza a Roma, una giovinezza cristiana tutta aperta ai più sublimi ideali del Vangelo. Era trasformata, a detta della Radio Vaticana, in un immenso e rumoroso Oratorio Salesiano. Quando dalla raggiera del Bernini cadde il velario che copriva la figura del nuovo Beato, da tutta la basilica si levò un applauso frenetico e l’eco raggiunse la piazza, dove veniva scoperto l’arazzo riproducente il Beato dalla Loggia delle Benedizioni.
Il sistema educativo di don Bosco riceveva quel giorno il suo più alto riconoscimento. Abbiamo voluto rivisitare i luoghi della fanciullezza di Domenico, dopo esserci rilette le dettagliate informazioni di don Michele Molineris in quella Nuova Vita di Domenico Savio, in cui egli descrive con la sua nota serietà di documentazione ciò che le biografie di San Domenico Savio non dicono.

A Riva presso Chieri
            Eccoci anzitutto a San Giovanni di Riva presso Chieri, la borgata dove il 2 aprile 1842 nacque il nostro «piccolo grande Santo» da Carlo Savio e Brigida Gaiato, secondo di dieci figli, ereditando dal primo, sopravvissuto solo 15 giorni alla nascita, nome e primogenitura.
            Il padre, si sa, proveniva da Ranello, frazione di Castelnuovo d’Asti, e da giovane era andato ad abitare con lo zio Carlo, fabbro a Mondonio, in una casa sull’attuale via Giunipero, al n. 1, ancora oggi chiamata «ca dèlfré» o casa del fabbro. Là, da «Barba Carlòto» aveva appreso il mestiere. Qualche tempo dopo le sue nozze, contratte il 2 marzo 1840, si era reso indipendente, trasferendosi a San Giovanni di Riva in casa Gastaldi. Affittò un alloggio con locali al pian terreno adatti a cucina, ripostiglio ed officina e camere da letto al primo piano dove si giungeva da una scala esterna oggi scomparsa.
            Gli eredi dei Gastaldi vendettero poi ai Salesiani la casetta ed il cascinale attiguo nel 1978. Ed oggi un moderno Centro di accoglienza giovanile, gestito da exallievi e cooperatori salesiani, dà memoria e nuova vita alla casetta natia di Domenico.

A Morialdo
            Nel novembre del 1843, e cioè quando Domenico non aveva ancora compiuto due anni di età, i Savio, per ragioni di lavoro, si trasferirono a Morialdo, la frazione di Castelnuovo legata al nome di San Giovanni Bosco, nato alla Cascina Biglione, borgata dei Becchi.
            A Morialdo i Savio affittarono alcune camerette presso il portico d’entrata del cascinale di proprietà di Viale Giovanna andata sposa a Stefano Persoglio. Tutto il podere venne più tardi venduto dal figlio, Persoglio Alberto, a Pianta Giuseppe e famiglia.
            Anche questo cascinale è ora, in gran parte, proprietà dei Salesiani che, dopo averlo ristrutturato, lo hanno destinato ad incontri per ragazzi e adolescenti e alle visite dei pellegrini. Distante meno di 2 km dal Colle Don Bosco, sito in un ambiente di natura paesana, tra festoni di viti, fertili campi e prati ondulati, con un’aria di letizia in primavera e di nostalgia in autunno quando le foglie ingiallite vengono indorate dai raggi del sole, con un panorama incantevole nelle giornate più belle, quando la catena delle Alpi si distende all’orizzonte dalla vetta del Rosa a ridosso di Albugnano, al Gran Paradiso, al Rocciamelone, giù fino al Monviso, è davvero un posto da visitare e da utilizzare per giornate di intensa vita spirituale, una scuola di santità stile don Bosco.
I Savio rimasero a Morialdo fino al febbraio del 1853, e cioè ben 9 anni e 3 mesi. Domenico, vissuto solo 14 anni eli mesi, passò lì quasi due terzi della sua breve esistenza. Può quindi essere considerato non solo allievo e figlio spirituale di don Bosco, ma anche suo conterraneo.

A Mondonio
            Perché i Savio abbiano lasciato Morialdo, ce lo suggerisce don Molineris. Lo zio fabbro era morto e il papà di Domenico, oltre ai ferri del mestiere, ne poteva ereditare a Mondonio anche la clientela. Probabilmente quella fu la ragione del trasloco, avvenuto però non nella casa di via Giunipero, ma nella parte più bassa del paese, dove presero in affitto dai fratelli Bertello la prima casa a sinistra della strada principale del paese. La casetta consisteva, e consiste ancor oggi, di un pian terreno a due stanze, adattate a cucina e camera da lavoro, e di un piano superiore, sopra la cucina, con due camere da letto e lo spazio sufficiente per un’officina con porta sulla rampa della strada.
            Sappiamo che i coniugi Savio ebbero dieci figli, di cui tre morirono in tenerissima età ed altri tre, tra cui il nostro, non raggiunsero i 15 anni. La madre moriva nel 1871 a 51 anni. Il padre, rimasto solo in casa col figlio Giovanni, dopo avere accasato le tre figlie superstiti, chiese nel 1879 ospitalità a don Bosco e morì poi a Valdocco il 16 dicembre 1891.
A Valdocco, Domenico era entrato il 29 ottobre 1854, rimanendovi, tranne brevi periodi di vacanza, fino al 1° marzo 1857. Moriva otto giorni dopo a Mondonio, nella stanzetta accanto alla cucina, il 9 marzo di quell’anno. La sua permanenza a Mondonio quindi fu in tutto di 20 mesi circa, a Valdocco di 2 anni e 4 mesi.

Ricordi di Morialdo
            Da questa breve scorsa sulle tre case del Savio appare evidente che quella di Morialdo dev’essere la più ricca di memorie. San Giovanni di Riva ricorda la nascita di Domenico, e Mondonio un anno di scuola e la sua santa morte, ma Morialdo ricorda la sua vita in famiglia, in chiesa e a scuola. «Minòt», come egli era lì chiamato, quante cose avrà sentito, visto e imparato da papà e mamma, quanta fede ed amore dimostrato nella chiesetta di San Pietro, quanta intelligenza e bontà alla scuola di don Giovanni Zucca, e quanta allegria e vivacità nei trastulli con i compagni di borgata.
            Fu a Morialdo che Domenico Savio si preparò alla Prima Comunione, fatta poi nella Chiesa parrocchiale di Castelnuovo l‘8 aprile 1849. Fu lì che a soli 7 anni scrisse i «Ricordi» e cioè i propositi della sua Prima Comunione:
            1. Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore me ne darà licenza;
            2. Voglio santificare i giorni festivi;
            3. I miei amici saranno Gesù e Maria;
            4. La morte ma non peccati.
            Ricordi che furono la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.
Il contegno, il modo di pensare e di agire di un ragazzo riflettono l’ambiente in cui vive, e soprattutto la famiglia in cui ha passato la sua fanciullezza. Se si vuol quindi capire qualcosa di Domenico, sarà sempre bene riflettere sulla sua vita in quella cascina di Morialdo.

La famiglia
            La sua non era una famiglia di contadini. Il padre era fabbro ferraio e la madre sarta. I suoi genitori non erano di costituzione robusta. I segni della fatica si potevano scorgere sul volto del padre mentre la finezza del tratto distingueva il volto materno. Il papà di Domenico era uomo di iniziativa e di coraggio. La mamma veniva dal non lontano Cerreto d’Asti dove teneva bottega di sarta «e con la sua perizia toglieva a quegli abitanti la noia di scendere a valle a provvedersi di panni». E fece ancora la sarta anche a Morialdo. Lo avrà saputo don Bosco? Curioso, comunque, il suo dialogo col piccolo Domenico che lo era andato a cercare ai Becchi:
— Ebbene, che gliene pare?
— Eh, mi pare che ci sia buona stoffa (in piem.: Eh, m’a smia ch’a-j sia bon-a stòfa!).
— A che può servire questa stoffa?
— A fare un bell’abito da regalare al Signore.
— Dunque, io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; mi prenda con lei (in piem.: ch’èmpija ansema a chiel) e farà un bell’abito per il Signore» (OE XI, 185).
            Dialogo impagabile tra due conterranei che si compresero a prima vista. E il loro linguaggio veniva proprio a taglio per il figlio della sarta.
            Quando la mamma morì, il 14 luglio 1871, alle figlie piangenti, il parroco di Mondonio, don Giovanni Pastrone, per consolarle diceva: «Non piangete, perché vostra madre era una santa donna; ed ora è già in Paradiso».
Suo figlio Domenico, che l’aveva preceduta in cielo di parecchi anni, aveva pure detto a lei ed al papà, prima di spirare: «Non piangete, io vedo già il Signore e la Madonna colle braccia aperte che mi aspettano». Queste sue ultime parole, testimoniate da Anastasia Molino, vicina di casa, presente al momento della sua morte, erano il suggello di una vita gioiosa, il segno manifesto di quella santità che la Chiesa riconosceva solennemente il 5 marzo 1950, dandole poi definitiva conferma il 12 giugno 1954 con la sua canonizzazione.

Foto nel frontespizio. La casa ove morì Domenico nel 1857. È una costruzione di tipo rurale risalente probabilmente alla fine del 1600. Ricostruita su di un’altra casa ancor più antica, è uno dei monumenti più cari ai Mondoniesi.




Padre Crespi e il Giubileo del 1925

Nel 1925, in vista dell’Anno Santo, Padre Carlo Crespi si fece promotore di una mostra missionaria internazionale. Richiamato dal Collegio Manfredini di Este, fu incaricato di documentare le imprese missionarie in Ecuador, raccogliendo materiali scientifici, etnografici e audiovisivi. Grazie a viaggi e proiezioni, la sua opera collegò Roma e Torino, evidenziando l’impegno salesiano e rafforzando i legami tra istituzioni ecclesiastiche e civili. Il suo coraggio e la sua visione trasformarono la sfida missionaria in un successo espositivo, lasciando un segno indelebile nella storia della Propaganda Fide e dell’azione missionaria salesiana.

            Quando Pio XI, in vista dell’Anno Santo del 1925, volle programmare a Roma una documentata Esposizione Missionaria Internazionale Vaticana, i Salesiani fecero propria l’iniziativa con una Mostra Missionaria, da tenersi a Torino nel 1926, anche in funzione del 50° delle Missioni salesiane. A tale scopo i Superiori pensarono subito a don Carlo Crespi e lo chiamarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare Scienze naturali, Matematica e Musica.
            A Torino don Carlo conferì con il Rettore Maggiore, don Filippo Rinaldi, con il superiore referente per le missioni, don Pietro Ricaldone e, in particolare, con Mons. Domenico Comin, vicario apostolico di Méndez e Gualaquiza (Ecuador), che ne doveva appoggiare l’opera. In quel momento, viaggi, esplorazioni, ricerche, studi e quant’altro doveva nascere dall’opera di Carlo Crespi, ebbero l’avallo e il via ufficiale dai Superiori. Seppure mancassero quattro anni alla progettata Esposizione, chiesero a don Carlo di occuparsene direttamente, affinché svolgesse al completo un lavoro scientificamente serio e credibile.
Si trattava di:
            1. Creare un clima d’interesse a favore dei Salesiani operanti nella missione ecuadoriana di Méndez, valorizzandone le imprese tramite documentazioni scritte e orali, e provvedendo ad una congrua raccolta di fondi.
            2. Raccogliere materiale per l’allestimento dell’Esposizione Missionaria Internazionale di Roma e, trasferirlo successivamente a Torino, per commemorare solennemente i primi cinquant’anni delle missioni salesiane.
            3. Effettuare uno studio scientifico del suddetto territorio al fine di convogliare i risultati, non solo nelle mostre di Roma e Torino, ma soprattutto in un Museo permanente e in un’opera “storico-geo-etnografica” precisa.
            Dal 1921 in avanti, i Superiori incaricarono don Carlo di condurre in diverse città italiane attività propagandistiche a favore delle missioni. Per sensibilizzare l’opinione pubblica al riguardo, don Carlo organizzò la proiezione di documentari sulla Patagonia, la Terra del Fuoco e gli indios del Mato Grosso. Ai filmati girati dai missionari, abbinò commenti musicali eseguiti personalmente al pianoforte.
            La propaganda con conferenze fruttò circa 15 mila lire [rivalutati corrispondono a € 14.684] spese poi per i viaggi, il trasporto e per i seguenti materiali: una macchina fotografica, una cinepresa, una macchina da scrivere, alcune bussole, teodoliti, livelle, pluviometri, una cassetta di medicinali, attrezzi da agricoltura, tende da campo.
            Diversi industriali del milanese offersero alcuni quintali di tessuti per il valore di 80 mila lire [€ 78.318], tessuti che furono ripartiti più tardi fra gli indios.
            Il 22 marzo 1923 padre Crespi s’imbarca, dunque, sul piroscafo “Venezuela”, alla volta di Guayaquil, il porto fluviale e marittimo più importante dell’Ecuador, di fatto la capitale commerciale ed economica del Paese, soprannominata per la sua bellezza: “La Perla del Pacifico”.
            In uno scritto successivo rievocherà con grande commozione la sua partenza per le Missioni: “Ricordo la mia partenza da Genova il 22 marzo dell’anno 1923 […]. Quando, tolti i ponti che ancora ci tenevano avvinti alla terra natia, il bastimento incominciò a muoversi, l’anima mia fu pervasa da una gioia così travolgente, così sovrumana, così ineffabile, che tale non l’avevo mai provata in nessun istante della mia vita, neppure nel giorno della mia prima Comunione, neppure nel giorno della mia prima Messa. In quell’istante cominciai a comprendere che cosa era il missionario e che cosa a lui riserbava Iddio […]. Pregate fervidamente, affinché Iddio ci conservi la santa vocazione e ci renda degni della nostra santa missione; affinché nessuna perisca delle anime, che nei suoi eterni decreti Iddio ha voluto che si salvassero per mezzo nostro, affinché ci faccia baldi campioni della fede, fino alla morte, fino al martirio” (Carlo Crespi, Nuovo drappello. L’inno della riconoscenza, in Bollettino Salesiano, L, nr.12, dicembre 1926).
            Don Carlo adempì l’incarico ricevuto mettendo in pratica le conoscenze universitarie, in particolare attraverso la campionatura di minerali, flora e fauna provenienti dall’Ecuador. Ben presto, però, andò oltre la missione affidatagli, entusiasmandosi su temi di carattere etnografico e archeologico che, in seguito, occuperanno molto tempo della sua intensa vita.
            Fin dai primi itinerari, Carlo Crespi non si limita ad ammirare, ma raccoglie, classifica, appunta, fotografa, filma e documenta qualunque cosa attragga la sua attenzione di studioso. Con entusiasmo, si addentra nell’Oriente ecuadoriano per film, documentari e per raccogliere valide collezioni botaniche, zoologiche, etniche e archeologiche.
            Questo è quel mondo magnetico che già gli vibrava nel cuore ancor prima di arrivarci, del quale così riferisce all’interno dei suoi quadernetti: “In questi giorni una voce nuova, insistente, mi suona nell’animo, una sacra nostalgia dei paesi di missione; qualche volta anche per il desiderio di conoscere in particolare cose scientifiche. Oh Signore! Sono disposto a tutto, ad abbandonare la famiglia, i parenti, i compagni di studi; il tutto per salvare qualche anima, se questo è il tuo desiderio, la tua volontà” (Senza luogo, senza data. – Appunti personali e riflessioni del Servo di Dio su temi di natura spirituale tratti da 4 quadernetti).
            Un primo itinerario, durato tre mesi, iniziò a Cuenca, toccò Gualaceo, Indanza e terminò al fiume Santiago. Raggiunse poi la valle del fiume San Francesco, la laguna di Patococha, Tres Palmas, Culebrillas, Potrerillos (la località più alta, a 3.800 m s.l.m.), Rio Ishpingo, la collina di Puerco Grande, Tinajillas, Zapote, Loma de Puerco Chico, Plan de Milagro e Pianoro. In ognuno di questi luoghi raccolse campioni da essiccare e integrare nelle varie collezioni. Taccuini da campo e numerose fotografie documentano il tutto con precisione.
            Carlo Crespi organizzò un secondo viaggio attraverso le valli di Yanganza, Limón, Peña Blanca, Tzaranbiza, nonché lungo il sentiero di Indanza. Com’è facile supporre, gli spostamenti all’epoca erano difficoltosi: esistevano solamente mulattiere, oltre a precipizi, condizioni climatiche inospitali, belve pericolose, ofidi letali e malattie tropicali.
            A ciò si aggiungeva il pericolo di attacchi da parte degli indomiti abitanti dell’Oriente che don Carlo, però, riuscì ad avvicinare, ponendo le premesse del lungometraggio “Los invencibles Shuaras del Alto Amazonas”, che girerà nel 1926 e verrà proiettato il 26 febbraio 1927 a Guayaquil. Superando tutte queste insidie, riuscì a riunire seicento varietà di coleotteri, sessanta uccelli imbalsamati dal meraviglioso piumaggio, muschi, licheni, felci. Studiò circa duecento specie locali e, utilizzando la sotto classificazione dei luoghi visitati dai naturalisti sulle Allioni, s’imbatte in 21 varietà di felci, appartenenti alla zona tropicale al di sotto degli 800 m s.l.m.; 72 a quella subtropicale che va dagli 800 ai 1.500 m s.l.m.; 102 a quella Subandina, tra i 1.500 e i 3.400 m s.l.m., e 19 a quella Andina, superiore ai 3.600 m s.l.m. (Interessantissimo è il commento del prof. Roberto Bosco, prestigioso botanico e componente della Società Botanica Italiana che, quattordici anni dopo, nel 1938, decise di studiare e ordinare sistematicamente “la vistosa collezione di felci” preparata in pochi mesi dal “Prof. Carlo Crespi, erborizzando nell’Equatore).
            Le specie maggiormente degne di nota, studiate da Roberto Bosco, furono battezzate “Crespiane”.
            Per riassumere: già nell’ottobre del 1923, don Carlo, per preparare l’Esposizione Vaticana, aveva organizzato le prime escursioni missionarie per tutto il Vicariato, fino a Méndez, Gualaquiza e Indanza, raccogliendo materiali etnografici e molta documentazione fotografica. Le spese furono coperte con i tessuti e i finanziamenti raccolti in Italia. Con il materiale raccolto, che in seguito avrebbe trasferito in Italia, organizzò un’Esposizione fieristica, tra i mesi di giugno e luglio del 1924, nella città di Guayaquil. Il lavoro suscitò giudizi entusiastici, riconoscimenti e aiuti. Di questa Esposizione riferirà, dieci anni dopo, in una lettera del 31 dicembre 1935 ai Superiori di Torino, per informarli sui fondi raccolti dal novembre 1922 al novembre 1935.
            Padre Crespi passò il primo semestre del 1925 nelle foreste della zona di Sucùa-Macas, studiando la lingua Shuar e raccogliendo ulteriore materiale per l’Esposizione missionaria di Torino. Nell’agosto dello stesso anno cominciò una trattativa con il Governo per ottenere un grosso finanziamento, che si concluse il 12 settembre con un contratto per 110.000 sucres (pari a 500.000 lire di allora e che oggi sarebbero € 489.493,46), che permettesse di ultimare la mulattiera Pan-Méndez). Inoltre, ottenne pure il permesso di ritirare dalla dogana 200 quintali di ferro e materiale sequestrato ad alcuni commercianti.
            Nel 1926 don Carlo, rientrato in Italia, portò gabbie con animali vivi della zona orientale dell’Ecuador (una difficile raccolta di uccelli ed animali rari) e casse con materiale etnografico, per l’Esposizione Missionaria di Torino, che organizzò personalmente tenendovi anche il discorso ufficiale di chiusura il 10 ottobre.
            Nello stesso anno fu occupato nell’organizzare l’Esposizione e, poi, nel tenere diverse conferenze e partecipando al Congresso Americano di Roma con due conferenze scientifiche. Questo suo entusiasmo e questa sua competenza e ricerca scientifica rispondevano perfettamente alle direttive dei Superiori, e, pertanto, attraverso l’Esposizione Missionaria Internazionale del 1925 a Roma e del 1926 a Torino, l’Ecuador poté essere ampiamente conosciuto. Inoltre, a livello ecclesiale, contattò l’Opera di Propaganda Fide, la Santa Infanzia e l’Associazione per il Clero Indigeno. A livello civile, intrecciò rapporti con il Ministero degli Esteri del Governo Italiano.
            Da questi contatti e dalle interviste con i Superiori della Congregazione Salesiana, si ottennero alcuni risultati. In primo luogo i Superiori gli fecero il regalo di concedergli 4 sacerdoti, 4 seminaristi, 9 fratelli coadiutori, e 4 suore per il Vicariato. Inoltre, ottenne una serie di aiuti economici dagli Organismi Vaticani e la collaborazione con materiale sanitario per gli ospedali, per il valore di circa 100.000 lire (€ 97.898,69). Come regalo dei Superiori Maggiori per l’aiuto prestato per l’Esposizione Missionaria, essi si fecero carico della costruzione della Chiesa di Macas, con due quote di 50.000 lire (€ 48,949, 35), inviate direttamente a Mons. Domenico Comin.
            Esaurito il compito di collezionista fornitore e animatore delle grandi mostre internazionali, padre Crespi nel 1927 tornò in Ecuador, che divenne la sua seconda patria. Si stabilì nel Vicariato, sotto la giurisdizione del vescovo, Mons. Comin, sempre dedito, in spirito di obbedienza, a escursioni di propaganda, per assicurare sovvenzioni e fondi speciali, necessari alle opere delle missioni, quali la strada Pan Méndez, l’Hospital Guayaquil, la scuola Guayaquil a Macas, l’Hospital Quito a Méndez, la Scuola agricola di Cuenca, città dove, già dal 1927, incominciò a sviluppare il suo apostolato sacerdotale e salesiano.
            Per alcuni anni, poi continuò a occuparsi di scienze, ma sempre con lo spirito dell’apostolo.

Carlo Riganti
Presidente Associazione Carlo Crespi

Immagine: 24 marzo 1923 – Padre Carlo Crespi In partenza per l’Ecuador sul Piroscafo Venezuela




Educare le nostre emozioni con san Francesco di Sales

La psicologia moderna ha dimostrato l’importanza e l’influsso delle emozioni nella vita della psiche umana e ognuno sa che le emozioni sono particolarmente forti durante la giovinezza. Ma non si parla quasi più delle «passioni dell’anima», che l’antropologia classica ha analizzato accuratamente, come testimonia l’opera di Francesco di Sales, e, in particolare, quando scrive che «l’anima, in quanto tale, è la sorgente delle passioni». Nel suo vocabolario il termine «emozione» non appare ancora con le connotazioni che gli attribuiamo. Dirà, invece, che le nostre «passioni» in certe circostanze sono «mosse». In ambito educativo, la questione che si pone riguarda l’atteggiamento che conviene avere di fronte a queste manifestazioni involontarie della nostra sensibilità, che hanno sempre una componente fisiologica.

«Io sono un povero uomo e nulla più»
            Tutti coloro che hanno conosciuto Francesco di Sales hanno notato la sua grande sensibilità e emotività. Gli saliva il sangue alla testa e il volto diventava tutto rosso. Conosciamo i suoi scatti d’ira contro gli «eretici» e la cortigiana di Padova. Come ogni buon Savoiardo, era «abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili scatti d’ira; un vulcano sotto la neve». La sua sensibilità era assai viva. In occasione della morte della sorellina Jeanne, scriveva a Giovanna di Chantal, anch’essa costernata:

Ahimè, Figlia mia: io sono un povero uomo e nulla più. Il mio cuore s’è intenerito più di quanto non avrei mai immaginato; ma la verità è che vi ha contribuito assai il dispiacere vostro e di mia madre: ho avuto paura per il cuore vostro e per quello di mia madre.

            Alla morte della madre, non nascose che quella separazione gli aveva fatto versare lacrime; ebbe certo il coraggio di chiuderle gli occhi e la bocca e di darle un ultimo bacio, ma dopo ciò, confidava a Giovanna di Chantal, «il cuore mi si gonfiò grandemente, e piansi per questa buona madre più di quanto non avessi mai fatto dal giorno in cui abbracciai il sacerdozio». Egli, infatti, non frenava sistematicamente le manifestazioni esteriori dei suoi sentimenti, il suo umanesimo le accettava tranquillamente. Una preziosa testimonianza di Giovanna di Chantal ci informa che «il nostro santo non era esente da sentimenti e da moti delle passioni, e non voleva esserne liberato».
            Si sa bene che le passioni dell’anima influiscono sul corpo, provocando reazioni esteriori ai loro movimenti interiori: «Noi esterniamo e manifestiamo le nostre passioni e i movimenti che le nostre anime hanno in comune con gli animali per mezzo degli occhi, con movimenti delle sopracciglia, della fronte e di tutto il volto». Così, non è in nostro potere non provare paura in determinate circostanze: «È come se uno dicesse ad una persona che si vede venire contro un leone od un orso: Non aver paura». Ora, «quando si prova timore si diventa pallidi, e quando veniamo richiamati per una cosa che ci contraria, ci sale il sangue al volto e diventiamo rossi, oppure la contrarietà può anche far sgorgare lacrime dai nostri occhi». I bambini, «se vedono un cane che abbaia, immediatamente si mettono a gridare e non smettono finché non sono vicini alla mamma».
            Quando la signora di Chantal incontrerà l’assassino del marito, come reagirà il suo «cuore»? «So che, senza dubbio, cotesto vostro cuore sobbalzerà e si sentirà sconvolto, e il vostro sangue bollirà», prevede il suo direttore spirituale, aggiungendo questa lezione di saggezza: «Dio ci fa toccare con mano, in queste emozioni, quanto sia vero che siamo fatti di carne, di ossa e di spirito».

Le dodici passioni dell’anima
            Nell’antichità, Virgilio, Cicerone e Boezio riducevano a quattro le passioni dell’anima, mentre sant’Agostino conosceva una sola passione dominante, l’amore, articolato a sua volta in quattro passioni secondarie: «L’amore che tende a possedere ciò che ama, si chiama cupidigia o desiderio; quando lo consegue e lo possiede, si chiama gioia; quando fugge ciò che gli è contrario, si chiama timore; se gli capita di perderlo e ne sente il peso, si chiama tristezza».
            Nella Filotea, Francesco di Sales ne segnala sette, paragonandole alle corde che il liutaio deve di volta in volta accordare: l’amore, l’odio, il desiderio, il timore, la speranza, la tristezza e la gioia.
            Nel Teotimo, invece, ne enumera fino a dodici. Stupisce che «questa moltitudine di passioni […] sia lasciata nelle nostre anime!». Le prime cinque hanno per oggetto il bene, ossia tutto ciò che la nostra sensibilità ci fa spontaneamente cercare e apprezzare come buono per noi (pensiamo ai beni fondamentali della vita, della salute e della gioia):

Se il bene viene considerato in sé stesso, secondo la sua bontà naturale, genera l’amore, prima e principale passione; se il bene viene considerato in quanto mancante, provoca il desiderio; se, desiderandolo, si pensa di poterlo conseguire, si ha la speranza; se si teme di non poterlo ottenere, si entra nella disperazione; e quando, di fatto, lo si possiede, si ha la gioia.

            Le altre sette passioni sono quelle che ci fanno spontaneamente reagire negativamente di fronte a tutto ciò che ci appare come male da evitare e da combattere (pensiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte):

Appena conosciamo il male, lo odiamo; se è assente, lo fuggiamo; se pensiamo di non poterlo evitare, lo temiamo; se riteniamo di poterlo evitare, ci facciamo animo e coraggio; ma se lo sentiamo presente, ci rattristiamo, e allora l’ira e il cruccio intervengono repentinamente per respingerlo e allontanarlo o almeno vendicarsene; e, se ciò non è fattibile, rimaniamo nella tristezza; ma, se riusciamo a respingerlo o a farne vendetta, proviamo soddisfazione e un senso di pace, che è piacere del trionfo, perché come il possesso del bene rallegra il cuore, la vittoria sul male soddisfa il coraggio.

            Come si vede, alle undici passioni dell’anima proposte da san Tommaso, Francesco di Sales aggiunge la vittoria sul male, che «soddisfa il coraggio» e provoca la gioia del trionfo.

L’amore, prima e principale passione
            Come era facile prevedere, l’amore è presentato come la «prima e principale passione»: «L’amore viene al primo posto, fra le passioni dell’anima: è il re di tutti i moti del cuore, trasforma in sé tutto il resto e ci fa essere ciò che esso ama». «L’amore è la prima passione dell’anima», ripete.
            Esso si manifesta in mille maniere e il suo linguaggio è assai diversificato; infatti, «non si esprime soltanto a parole, ma anche con gli occhi, con i gesti e con le azioni. Per quello che riguarda gli occhi, le lacrime che ne sgorgano sono prove d’amore». Ci sono pure i «sospiri d’amore». Ma tali manifestazioni dell’amore sono differenti. La più abituale e superficiale è l’emozione o passione, la quale mette in moto quasi involontariamente la sensibilità.
            E l’odio? Odiamo spontaneamente ciò che ci appare come un male. Occorre sapere che, tra le persone, ci sono forme di odio e avversioni istintive, irrazionali, inconsapevoli, come quelle esistenti tra il mulo e il cavallo, tra la vigna e i cavoli. Non ne siamo per nulla responsabili, perché non dipendono dalla nostra volontà.

Il desiderio e la fuga
            Il desiderio è un’altra realtà fondamentale della nostra psiche. La vita quotidiana provoca molteplici desideri, perché il desiderio consiste nella «speranza di un bene futuro». I più comuni desideri naturali sono quelli che «riguardano i beni, i piaceri e gli onori».
            All’opposto, noi fuggiamo spontaneamente i mali della vita. La volontà umana di Cristo lo spingeva a fuggire i dolori e le sofferenze della passione; di qui il tremore, l’angoscia e il sudare sangue.

La speranza e la disperazione
            La speranza concerne un bene che si pensa di poter ottenere. Filotea è invitata a esaminare come si è comportata in riferimento alla «speranza, forse troppo spesso riposta nel mondo e nella creatura, e troppo poco in Dio e nelle cose eterne».
            Quanto alla disperazione, guardate per esempio quella dei «giovani aspiranti alla perfezione»: «Appena incontrano una difficoltà sul loro cammino, eccoti subito una sensazione di disappunto, che li spinge a fare un mucchio di lamentele, tale da dare l’impressione di essere travagliati da grandi tormenti. L’orgoglio e la vanità non possono tollerare il minimo difetto, senza sentirsi subito fortemente turbati sino a giungere alla disperazione».

La gioia e la tristezza
            La gioia è «la soddisfazione per il bene ottenuto». Così, «quando incontriamo quelli che amiamo, non è possibile non sentirsi commossi per la gioia e la contentezza». Il possesso di un bene produce infallibilmente una compiacenza o allegrezza, come la legge di gravità muove la pietra: «È il peso che scuote le cose, le muove e le ferma: è il peso che muove la pietra e la trascina nella discesa non appena vengono tolti gli ostacoli; è lo stesso peso che le fa continuare il movimento verso il basso; infine, è sempre lo stesso peso che la fa arrestare ed assestarsi quando è giunta al suo posto».
            La gioia giunge talvolta al riso. «Il riso è una passione che erompe senza che lo vogliamo e non è in nostro potere trattenerlo, tanto più che ridiamo e siamo mossi a ridere da circostanze impreviste». Nostro Signore ha riso? Il vescovo di Ginevra pensa che Gesù sorrideva quando voleva: «Nostro Signore non poteva ridere, perché per lui nulla era imprevisto, dato che conosceva tutto prima che avvenisse; poteva, certo, sorridere, ma lo faceva volutamente».
            Le giovani visitandine, prese a volte da un incontenibile riso quando una compagna si batteva il petto o una lettrice commetteva un errore durante la lettura a tavola, avevano bisogno di una lezioncina su questo punto: «I pazzi ridono di ogni situazione, perché tutto li sorprende, non riuscendo a prevedere nulla; ma i saggi non ridono con tanta leggerezza, perché impiegano maggiormente la riflessione, la quale fa sì che prevedano le cose che devono accadere». Detto ciò, non è un difetto ridere di qualche imperfezione, «purché non si vada troppo oltre».
            La tristezza è «il dolore per un male presente». Essa «turba l’anima, provoca timori smodati, fa provare disgusto per la preghiera, fiacca e addormenta il cervello, priva l’anima di saggezza, di risoluzione, di giudizio e coraggio e annienta le forze»; è «come un duro inverno che rovina tutta la bellezza della terra e rende indolenti tutti gli animali; perché toglie ogni soavità dall’anima e la rende come pigra e impotente in tutte le sue facoltà».
            Può sfociare in certi casi nel pianto: un padre, all’atto di inviare il figlio a corte o agli studi, non può trattenersi «dal piangere congedandosi da lui»; e «una figlia, benché si sia sposata secondo i desideri del padre e della madre, li commuove fino alle lacrime al momento di riceverne la benedizione». Alessandro Magno pianse quando venne a sapere che c’erano altre terre che non avrebbe mai potuto conquistare: «Come un bambino che frigna per una mela che gli si nega, quell’Alessandro, che gli storici chiamano il Grande, più folle di un bambino, si mette a piangere a calde lacrime, perché gli sembra impossibile conquistare gli altri mondi».

Il coraggio e la paura
            Il timore si riferisce a un «male futuro». Certuni, volendo fare i coraggiosi, si aggirano da qualche parte durante la notte, ma «appena sentono cadere un sasso o il fruscio di un sorcio che scappa, si mettono ad urlare: Dio mio! – Che cosa c’è, si chiede loro, che cosa avete trovato? – Ho sentito un rumore.  – Ma che cosa? – Non lo so». È necessario essere guardinghi, perché «la paura è un male più grande del male stesso».
            Quanto al coraggio, prima di essere una virtù, è un sentimento che ci sostiene davanti a difficoltà che normalmente dovrebbero abbatterci. Francesco di Sales lo provò all’atto di intraprendere una lunga e rischiosa visita della sua diocesi di montagna:

Sono sul punto di montare a cavallo per la visita pastorale, che durerà circa cinque mesi. […] Parto pieno di coraggio, e, fin da questa mattina, ho provato una grande gioia di poter cominciare, sebbene, prima, per vari giorni, avessi provato vani timori e tristezze.

La collera e il sentimento del trionfo
            Quanto all’ira o collera, non possiamo impedire dall’esserne presi in certe circostanze: «Se mi vengono a dire che qualcuno ha parlato male di me, o che mi venga causata altra contrarietà, immediatamente scoppia la collera e non mi rimane nemmeno una vena che non si contorca, perché il sangue ribolle». Perfino nei monasteri della Visitazione le occasioni di irritarsi e arrabbiarsi non mancavano, e si sentivano prepotenti gli attacchi dell’«appetito irascibile». Niente di strano in ciò: «Impedire che il risentimento della collera si svegli in noi e che il sangue ci salga alla testa, non sarà mai possibile; saremo fortunati se potremo avere questa perfezione un quarto d’ora prima di morire». Può anche succedere «che l’ira sconvolga e metta sottosopra il mio povero cuore, che la testa mi fumi da tutte le parti, che il sangue ribolla come una pentola sul fuoco».
            L’appagamento dell’ira, per aver superato il male, provoca l’esaltante emozione del trionfo. Colui che trionfa «non può contenere il trasporto della sua gioia».

Alla ricerca dell’equilibrio
            Le passioni e i moti dell’anima sono il più delle volte indipendenti dal nostro volere: «Non si pretende da voi che non abbiate passioni; non è in vostro potere», diceva alle figlie della Visitazione, aggiungendo: «Che cosa può fare una persona per avere tale o tal altro temperamento, soggetto a questa o quella passione? Tutto sta dunque nelle azioni che ne facciamo derivare per mezzo di quel movimento, che dipende dalla nostra volontà».
            Una cosa è sicura, i moti d’animo e le passioni fanno dell’uomo un essere estremamente soggetto a variazioni della «temperatura» psicologica, ad immagine delle variazioni climatiche. «La sua vita scorre su questa terra come le acque, fluttuando e ondeggiando in una perpetua varietà di movimenti». «Oggi si sarà felici all’eccesso, e, subito dopo, esageratamente tristi. In tempo di carnevale si vedranno manifestazioni di gioia e di allegria, con azioni sciocche e pazzoidi, poi, subito dopo, vedrete segni di tristezza e di tedio così esagerati da far pensare che si tratti di cose terribili e, all’apparenza, irrimediabili. Un altro, al presente, sarà troppo fiducioso e nulla lo spaventerà, e, subito dopo, verrà preso da un’angoscia che lo sprofonderà fin sotto terra».
            Il direttore spirituale di Giovanna di Chantal ha individuato bene le diverse «stagioni dell’anima» attraversate da costei agli inizi della sua fervorosa vita:

Vedo che si trovano nella vostra anima tutte le stagioni dell’anno. Ora sentite l’inverno attraverso le molte sterilità, distrazioni, pesantezze e noie; ora le rugiade del mese di maggio col profumo dei santi fiorellini, e ora il calore dei desideri di piacere al nostro buon Dio. Non resta che l’autunno del quale, come dite, non vedete molti frutti. Orbene, spesso avviene che, trebbiando il grano o pigiando l’uva, si trova un frutto più abbondante di quanto promettessero le messi e la vendemmia. Voi vorreste che fosse sempre primavera o estate; ma no, Figlia mia: bisogna che avvenga l’avvicendamento delle stagioni nel nostro interiore come nel nostro esteriore. Solo in cielo tutto sarà primavera quanto alla bellezza, tutto sarà autunno quanto al godimento e tutto sarà estate quanto all’amore. Lassù, non vi sarà più inverno, ma qui esso è necessario per l’esercizio dell’abnegazione e di mille piccole e belle virtù, che si esercitano nel tempo delle aridità.

            La salute dell’anima come quella del corpo non può consistere nell’eliminare questi quattro umori, ma nel raggiungere una «invariabilità d’umore». Quando una passione predomina sulle altre, causa le malattie dell’anima; e siccome è oltremodo difficile regolarla, ne deriva che gli uomini sono bizzarri e variabili, per cui non si scorge altro tra loro se non fantasie, incostanze e stupidità.
            Le passioni hanno di buono il fatto di consentirci «d’esercitare la volontà nell’acquisto della virtù e nella vigilanza spirituale». Nonostante certe manifestazioni, nelle quali si deve «soffocare e reprimere le passioni», per Francesco di Sales non si tratta di eliminarle, cosa impossibile, ma di controllarle come più si può, cioè moderarle e orientarle a un fine che sia buono.
            Non si tratta, quindi, di fingere di ignorare le nostre manifestazioni psichiche, come se non esistessero (ciò che ancora una volta è impossibile), ma di «vegliare in continuazione sul proprio cuore e sul proprio spirito per mantenere le passioni nella norma e sotto il controllo della ragione; altrimenti si avranno soltanto originalità e comportamenti disuguali». Filotea non sarà felice, se non quando avrà «sedato e pacificato tante passioni che [le] provocavano inquietudine».
            Avere uno spirito costante è uno dei migliori ornamenti della vita cristiana e uno dei più amabili mezzi per acquistare e conservare la grazia di Dio, e anche per edificare il prossimo. «La perfezione, quindi, non consiste nell’assenza delle passioni, bensì nel loro corretta regolazione; le passioni stanno al cuore come le corde a un’arpa: bisogna che siano accordate perché possiamo dire: Ti loderemo con l’arpa».
            Quando le passioni ci fanno perdere l’equilibrio interiore e esteriore, due metodi sono possibili: «opponendovi passioni contrarie, oppure opponendovi maggiori passioni della stessa specie». Se sono turbato dal «desiderio delle ricchezze o del piacere voluttuoso», combatterò tale passione con il disprezzo e la fuga, oppure aspirerò a ricchezze e piaceri superiori. Posso lottare contro la paura fisica con il contrario che è il coraggio, oppure sviluppando un timore salutare riguardante l’anima.
            L’amore di Dio, da parte sua, imprime alle passioni una vera e propria conversione, cambiandone l’orientamento naturale e prospettando loro un fine spirituale. Per esempio, «l’appetito per i cibi viene reso molto spirituale se, prima di appagarlo, gli si dà il motivo dell’amore: e no, Signore, non è per accontentare questo povero ventre, né per appagare questo appetito che vado a tavola, ma, secondo la tua Provvidenza, per mantenere questo corpo che tu hai fatto soggetto a tale miseria; sì, Signore, perché così è piaciuto a te».
            La trasformazione così operata somiglierà a un «artificio» utilizzato nell’alchimia che cambia il ferro in oro. «O santa e sacra alchimia! – scrive il vescovo di Ginevra –, o polvere divina della fusione, con la quale tutti i metalli delle nostre passioni, affetti e azioni vengono mutati nell’oro purissimo della celeste dilezione!».
            Moti dell’animo, passioni e immaginazioni sono profondamente radicati nell’anima umana: rappresentano una risorsa eccezionale per la vita dell’anima. Sarà compito delle facoltà superiori, la ragione e soprattutto la volontà, moderarle e governarle. Impresa difficile; Francesco di Sales l’ha compiuta con successo, perché, secondo quanto afferma la madre di Chantal, «possedeva un tale assoluto dominio delle sue passioni da renderle obbedienti come schiave; e alla fine non comparivano quasi più».




Venerabile Francesco Convertini, pastore secondo il Cuore di Gesu

Il venerabile don Francesco Convertini, salesiano missionario in India, emerge come un pastore secondo il Cuore di Gesù, forgiato dallo Spirito e totalmente fedele al progetto divino sulla sua vita. Attraverso le testimonianze di quanti l’hanno incontrato, si delineano la sua umiltà profonda, la dedizione incondizionata all’annuncio del Vangelo e il fervido amore per Dio e per il prossimo. Visse con gioiosa semplicità evangelica, affrontando fatiche e sacrifici con coraggio e generosità, sempre attento a chiunque incontrasse sul suo cammino.

1. Contadino nella vigna del Signore
            Presentare il profilo virtuoso di padre Francesco Convertini, missionario salesiano in India, un uomo che si è lasciato plasmare dallo Spirito e ha saputo realizzare la sua fisionomia spirituale secondo il disegno di Dio su di lui, è qualcosa di bello e di serio nello stesso tempo, perché richiama il senso vero della vita, come risposta a una chiamata, a una promessa, a un progetto di grazia.
            Molto originale è la sintesi tratteggiata su di lui da un sacerdote suo conterraneo, don Quirico Vasta, che conobbe padre Francesco nelle rare visite nella sua amata terra di Puglia. Questo testimone ci offre una sintesi del profilo virtuoso del grande missionario, introducendoci in modo autorevole e avvincente a scoprire qualcosa della statura umana e religiosa di questo uomo di Dio. «La “maniera” per misurare la statura spirituale di questo sant’uomo, di don Francesco Convertini, non è quella, analitica, di comparare la sua vita ai molteplici “parametri di condotta” religiosi (don Francesco, in quanto salesiano, accettò anche gli impegni propri di un religioso: la povertà, l’obbedienza, la castità e vi rimase fedele per tutta la vita). Al contrario, don Francesco Convertini appare, in sintesi, come fu realmente fin dall’inizio: un giovane contadino che, dopo – e forse a causa delle brutture della guerra –, si apre alla luce dello Spirito e, lasciando tutto, si pone al seguito del Signore. Da un lato sa quello che lascia; e lo lascia non solo con il vigore proprio del contadino meridionale, povero ma tenace; ma anche gioiosamente e con quella forza d’animo tutta personale che la guerra ha rinvigorito: quella di chi intende perseguire a testa bassa, ancorché silenziosamente e nel profondo dell’anima, ciò su cui ha concentrato l’attenzione. Dall’altro lato, sempre come un contadino, che ha colto in qualcosa o in qualcuno le “certezze” del futuro e la fondatezza delle proprie speranze e sa “di chi si sta fidando”; lascia che la luce di chi gli ha parlato lo ponga in condizioni di chiarezza operativa. E ne adopera fin da subito le strategie per conseguire lo scopo: la preghiera e la disponibilità senza misura, a qualunque costo. Non a caso, le virtù chiave di questo sant’uomo sono: l’azione silenziosa e senza clamori (cf. S. Paolo: “È quando sono debole che io sono forte”) e un rispettosissimo senso dell’altro (cf. Atti: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”).
Colto in tal modo, don Francesco Convertini risulta per davvero un uomo: schivo, incline a nascondere doti e meriti, alieno dal vantarsi, dolce con gli altri e forte con sé stesso, misurato, equilibrato, prudente e fedele; un uomo di fede, di speranza ed in abituale comunione con Dio; un religioso esemplare, nell’obbedienza, nella povertà, nella castità».

2. Tratti distintivi: “Sprigionava da lui un fascino, che ti sanava”
            Ripercorrendo le tappe della sua infanzia e giovinezza, della preparazione al sacerdozio e della vita missionaria, risulta evidente l’amore particolare di Dio per il suo servo e la corrispondenza di lui verso questo buon Padre. In particolare risaltano come tratti distintivi della sua fisionomia spirituale:

            – Illimitata fede-fiducia in Dio, incarnata nell’abbandono filiale alla divina volontà.
            Viveva una grandissima fiducia nella infinita bontà e misericordia di Dio e nei grandi meriti della passione e morte di Gesù Cristo, a cui tutto confidava e dal quale tutto si aspettava. Sulla salda roccia di tale fede si sobbarcò tutte le fatiche apostoliche. Freddo o caldo, pioggia tropicale o sole scottante, difficoltà o fatica, niente gli impedì di procedere sempre con fiducia, quando si trattava della gloria di Dio e della salvezza delle anime.

            – Incondizionato amore a Gesù Cristo Salvatore, a cui tutto offriva in sacrificio, cominciando dalla sua vita, consegnata alla causa del Regno.
            Padre Convertini si rallegrava della promessa del Salvatore e gioiva nella venuta di Gesù, come Salvatore universale e unico mediatore tra Dio e gli uomini: «Gesù ci diede tutto sé stesso morendo sulla croce e noi non saremo capaci di dare noi stessi a Lui completamente?».

            – Salvezza integrale del prossimo, perseguita con un’appassionata evangelizzazione.
            Gli abbondanti frutti della sua opera missionaria erano dovuti alla sua incessante preghiera e ai sacrifici senza risparmio fatti per il prossimo. Sono uomini e missionari di tale tempra che lasciano un solco indelebile nella storia delle missioni, del carisma salesiano e del ministero sacerdotale.
            Anche nel contatto con gli Indù, con i Musulmani, se da una parte era sollecitato da un vero desiderio di annuncio del Vangelo, che spesso portava alla fede cristiana, dall’altro si sentiva come obbligato a valorizzare quelle verità di fondo facilmente percepibili anche dai non cristiani, quali l’infinita bontà di Dio, l’amore del prossimo come via della salvezza e la preghiera come mezzo per ottenere grazie.

            – Incessante unione con Dio attraverso la preghiera, i sacramenti, l’affidamento a Maria Madre di Dio e nostra, l’amore alla Chiesa e al Papa, la devozione ai santi.
            Si sentiva figlio della Chiesa e la serviva con cuore di autentico discepolo di Gesù e missionario del Vangelo, affidato al Cuore Immacolato di Maria e nella compagnia dei santi sentiti come intercessori e amici.

            – Ascesi evangelica semplice e umile nella sequela della croce, incarnata in una vita straordinariamente ordinaria.
            Traspariva da tutta la sua persona la profonda umiltà, la povertà evangelica (portava con sé l’indispensabile), il volto angelico. Penitenza volontaria, controllo di sé: poco o quasi niente riposo, pasti irregolari. Si privava di tutto per donare ai poveri, anche i vestiti, le scarpe, il letto e il cibo. Dormiva sempre per terra. Digiunava a lungo. Con il passare degli anni contrasse parecchie malattie che minarono la sua salute: soffriva di asma, bronchiti, enfisema, mal di cuore… parecchie volte lo attaccavano in modo tale da costringerlo a stare a letto. Meravigliava come potesse sopportare tutto senza lamentarsi. Era proprio questo che gli attirava la venerazione degli indù, per cui egli era il “sanyasi”, colui che sapeva rinunciare a tutto per amor di Dio e per loro.

            La sua vita appare come una lineare ascesa verso le vette della santità nell’adempimento fedele della volontà di Dio e nella donazione di sé stesso ai fratelli, attraverso il ministero sacerdotale vissuto in fedeltà. Laici, religiosi ed ecclesiastici in modo concorde parlano del suo modo straordinario di vivere il quotidiano.

3. Missionario del Vangelo della gioia: «Ho annunziato loro Gesù. Gesù Salvatore. Gesù misericordioso»
            Non c’è stato un giorno in cui non sia andato da qualche famiglia per parlare di Gesù e del Vangelo. Padre Francesco aveva tale entusiasmo e zelo, da fargli sperare anche cose che sembravano umanamente impossibili. Padre Francesco divenne famoso come pacificatore tra le famiglie, o tra i villaggi in discordia. «Non è per mezzo delle discussioni che si arriva a capire. Dio e Gesù sono oltre le nostre discussioni. Bisogna soprattutto pregare e Dio ci darà il dono della fede. Per mezzo della fede si troverà il Signore. Non è forse scritto nella Bibbia che Dio è amore? Per la via dell’amore si giunge a Dio».

            Era un uomo pacificato interiormente e portava la pace. Voleva che tra la gente, nelle case o nei villaggi, non ci fossero alterchi, o risse, o divisioni. «Nel nostro villaggio eravamo cattolici, protestanti, indù e musulmani. Perché la pace regnasse tra di noi, di tanto in tanto il padre ci radunava tutti insieme e ci diceva come si poteva e si doveva vivere in pace tra di noi. Poi ascoltava coloro che volevano dire qualche cosa e alla fine, dopo aver pregato, dava la benedizione: un modo meraviglioso per conservare la pace tra di noi». Aveva una tranquillità d’animo veramente sorprendente; era la forza che gli veniva dalla certezza che aveva di fare la volontà di Dio, ricercata con fatica, ma poi abbracciata con amore una volta trovata.
            Un uomo che visse con semplicità evangelica, trasparenza di bambino, disponibilità ad ogni sacrificio, sapendo entrare in sintonia con ogni persona che incontrava sul suo cammino, viaggiando a cavallo, o in bicicletta, o più spesso camminando intere giornate a piedi con lo zaino sulle spalle. Appartenne a tutti senza distinzione di religione, di casta, di condizione sociale. Da tutti fu amato, perché a tutti portava “l’acqua di Gesù che salva”.

4. Un uomo dalla fede contagiosa: labbra in preghiera, rosario nelle mani, occhi al cielo
            «Noi sappiamo da lui che egli mai tralasciò la preghiera, sia quando si trovava con gli altri, sia quando era da solo, anche da soldato. Questo lo aiutò a fare tutto per Dio, specialmente quando faceva la prima evangelizzazione tra noi. Per lui non c’era tempo fisso: mattina o sera, sole o pioggia; caldo o freddo non erano un impedimento per lui, quando si trattava di parlare di Gesù o di fare del bene. Quando andava nei villaggi si sobbarcava a camminare anche di notte e senza prendere cibo pur di arrivare in qualche casa o in qualche villaggio per predicare il Vangelo. Anche quando fu messo come confessore a Krishnagar, veniva da noi per le confessioni durante il caldo soffocante del dopo pranzo. Gli dissi una volta: “Perché viene a quest’ora?”. Ed egli: “Nella passione, Gesù non scelse il suo tempo conveniente quando era condotto da Anna o Caifa o Pilato. Dovette farlo anche contro la sua volontà, per fare la volontà del Padre”.
            Evangelizzava non per proselitismo, ma per attrazione. Era il suo comportamento che attirava le persone. La sua dedizione e l’amore facevano dire alla gente che padre Francesco era la vera immagine del Gesù che predicava. L’amore di Dio lo portava a cercare l’intima unione con lui, a raccogliersi in preghiera, a evitare ciò che poteva dispiacere a Dio. Egli sapeva che si conosce Dio solo attraverso la carità. Soleva dire: “Ama Dio, non darGli dispiacere”».

            «Se c’era un sacramento in cui padre Francesco eccelleva in modo eroico, era l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione. Per qualsiasi persona della nostra diocesi di Krishnagar dire padre Francesco è dire l’uomo di Dio che mostrava la paternità del Padre nel perdonare specialmente al confessionale. I suoi ultimi 40 anni di vita li spese più in confessionale che in ogni altro ministero: ore e ore, specialmente in preparazione alle feste e alle solennità. Così tutta la notte di Natale e di Pasqua o delle feste patronali. Era sempre puntualmente presente nel confessionale ogni giorno, ma specialmente nelle domeniche prima delle Messe o alla vigilia vespertina delle feste e al sabato. Poi si avviava verso altri luoghi dove lui era confessore abituale. Era un compito questo molto caro a lui e molto atteso da tutti i religiosi della diocesi, dai quali appunto si recava settimanalmente. Il suo confessionale era sempre il più affollato e il più desiderato. I sacerdoti, i religiosi, la gente comune: sembrava che padre Francesco conoscesse ciascuno personalmente, tanto era pertinente nei suoi consigli e nei suoi ammonimenti. Io stesso mi meravigliavo per la saggezza dei suoi ammonimenti quando mi confessavo da lui. Infatti il servo di Dio fu il mio confessore per tutta la sua vita, da quando era missionario nei villaggi, fino al termine dei suoi giorni. Dicevo tra me: “È proprio quello che volevo sentire da lui…”. Il vescovo Mons. Morrow, che si confessava da lui regolarmente, lo considerava la sua guida spirituale, dicendo che padre Francesco era guidato dallo Spirito Santo nei suoi consigli e che la sua santità personale suppliva alla mancanza di doni naturali».

            La fiducia nella misericordia di Dio era un tema quasi assillante nelle sue conversazioni, e lo utilizzò bene come confessore. Il suo ministero del confessionale era ministero di speranza per sé e per coloro che si confessavano da lui. Le sue parole ispiravano speranza in tutti coloro che andavano a lui. «Al confessionale il servo di Dio era il sacerdote modello, famosissimo nell’amministrare questo sacramento. Il servo di Dio ammaestrava sempre cercando di condurre tutti alla salvezza eterna… Al servo di Dio piaceva indirizzare le sue preghiere al Padre che è nei cieli, e così pure insegnava alla gente di vedere in Dio il Padre buono. Specialmente a chi si trovava in difficoltà, anche spirituali e ai peccatori pentiti, ricordava che Dio è misericordioso e che si deve sempre confidare in lui. Il servo di Dio aumentava le sue preghiere e mortificazioni per scontare le sue infedeltà, come egli diceva, e per i peccati del mondo».

            Eloquenti le parole di don Rosario Stroscio, superiore religioso, che così concluse l’annuncio del decesso di padre Francesco: «Quelli che hanno conosciuto don Francesco ricorderanno sempre con amore i piccoli avvisi e le esortazioni che egli soleva dare in confessione. Con la sua vocina così debole, eppure così piena di ardore: “Amiamo le anime, lavoriamo solo per le anime… Avviciniamo il popolo… Trattiamo con esso in modo che il popolo capisca che l’amiamo…”. Tutta la sua vita fu una magnifica testimonianza della tecnica più fruttuosa del ministero sacerdotale e del lavoro missionario. Possiamo sintetizzarla nella semplice espressione: “Per vincere anime a Cristo non c’è mezzo più potente della bontà e dell’amore!”».

5. Amava Dio e amava il prossimo per amor di Dio: Metti amore! Metti amore!
            A Ciccilluzzo, nome famigliare, che aiutava nei campi guardando i tacchini e facendo altri lavori adatti alla sua giovane età, la mamma Caterina soleva ripetere: «Metti amore! Metti amore!».
            «Padre Francesco diede a Dio tutto, perché era convinto che essendosi consacrato tutto a Lui come religioso e sacerdote missionario, Iddio aveva su di lui pieno diritto. Quando gli chiedevamo perché non andasse a casa (in Italia), ci rispondeva che ormai si era dato tutto a Dio e a noi». Il suo essere sacerdote era tutto per gli altri: «Io sono prete per il bene del prossimo. Questo è il mio primo dovere». Si sentiva debitore di Dio in tutto, anzi, tutto apparteneva a Dio e al prossimo, mentre lui si era donato totalmente, non riservandosi nulla: padre Francesco ringraziava continuamente il Signore per averlo scelto ad essere sacerdote missionario. Mostrava questo senso di gratitudine verso chiunque avesse fatto qualche cosa per lui, fosse anche il più povero.
            Diede esempi di fortezza in modo straordinario adattandosi alle condizioni di vita del lavoro missionario a lui assegnato: una lingua nuova e difficile, che cercò di imparare abbastanza bene, perché questo era il modo per comunicare con il suo popolo; un clima durissimo, quello del Bengala, tomba di tanti missionari, che imparò a sopportare per amore di Dio e delle anime; viaggi apostolici a piedi attraverso zone sconosciute, con il rischio di incontrare animali selvatici.

            Fu un missionario e un evangelizzatore instancabile in una zona difficilissima come quella di Krishnagar – che voleva trasformare in Crist-nagar, città di Cristo –, dove erano difficili le conversioni, senza dimenticare l’opposizione dei protestanti e dei membri di altre religioni. Per l’amministrazione dei sacramenti affrontò tutti i pericoli possibili: pioggia, fame, malattie, belve selvatiche, persone malevoli. «Ho sentito spesso l’episodio di padre Francesco, che una notte, portando il SS. Sacramento ad un ammalato, s’imbatté in una tigre che stava accovacciata sul sentiero dove lui e i suoi compagni dovevano passare… Mentre gli accompagnatori cercavano di fuggire, il servo di Dio ordinò alla tigre: “Lascia passare il tuo Signore!”; e la tigre si scostò. Ma ho sentito altri simili esempi sul servo di Dio, che moltissime volte viaggiava a piedi di notte. Una volta un gruppo di briganti lo assaltò, credendo di avere qualche cosa da lui. Ma quando lo videro così privo di ogni cosa eccetto ciò che portava addosso, si scusarono e lo accompagnarono fino al prossimo villaggio».
            La sua vita di missionario è stata un continuo viaggiare: in bicicletta, a cavallo e il più delle volte a piedi. Questo suo camminare a piedi è forse l’atteggiamento che meglio ritrae l’instancabile missionario e il segno dell’autentico evangelizzatore: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza» (Is 52,7).

6. Occhi limpidi e rivolti al cielo
            «Osservando il viso sorridente del servo di Dio e guardando ai suoi occhi limpidi e rivolti al cielo, si pensava che egli non fosse di quaggiù, ma del cielo». Nel vederlo, fin dalla prima volta molti riportavano un’impressione indimenticabile di lui: i suoi occhi splendenti che mostravano un volto pieno di semplicità e innocenza e la barba lunga e venerabile richiamavano l’immagine di una persona piena di bontà e compassione. Un testimone afferma: «Padre Francesco era un santo. Non saprei dare un giudizio, ma penso che persone simili non si trovino. Noi eravamo piccoli, ma egli parlava con noi, non disprezzava mai nessuno. Non faceva differenza tra musulmani e cristiani. Il padre andava da tutti allo stesso modo e quando ci trovavamo insieme ci trattava tutti nella stessa maniera. A noi piccoli dava consigli: “Obbedite ai genitori, fate bene i vostri compiti, amatevi tutti come fratelli”. Ci dava poi piccoli dolci: nelle sue tasche c’era sempre qualche cosa per noi».
            Padre Francesco manifestò il suo amore per Dio soprattutto con la preghiera, che sembrava essere senza interruzioni. Si poteva vederlo sempre muovendo le labbra in preghiera. Anche quando parlava con le persone, teneva gli occhi sempre sollevati come se stesse vedendo qualcuno a cui stava parlando. Ciò che maggiormente e spesso colpiva la gente era la capacità di padre Convertini di essere totalmente concentrato su Dio e, allo stesso tempo, sulla persona che stava di fronte a lui, guardando con occhi sinceri il fratello che incontrava sul suo cammino: «Aveva, senza alcun dubbio, i suoi occhi fissi sul volto di Dio. Questo era un tratto indelebile della sua anima, una concentrazione spirituale di impressionante livello. Ti seguiva attentamente e ti rispondeva con estrema precisione quando tu parlavi con lui. Eppure, tu avvertivi che egli era “altrove”, in un’altra dimensione, in dialogo con l’Altro».

            Alla conquista della santità incoraggiava altri, come nel caso del cugino Lino Palmisano che si preparava al sacerdozio: «Sono molto contento sapendoti già al tirocinio; anche questo passerà presto, se saprai approfittare delle grazie del Signore che ogni giorno ti darà, per trasformarti in un santo cristiano di buon senso. Ti attendono gli studi più soddisfacenti della teologia che nutrirà la tua anima di Spirito di Dio, il quale ha chiamato ad aiutare Gesù nel Suo apostolato. Non pensare ad altri, ma a te solo, del come diventare un santo sacerdote come Don Bosco. Anche a suo tempo Don Bosco diceva: i tempi sono difficili, ma noi faremo puf, puf, andremo avanti anche contro corrente. Era la mamma celeste che gli diceva: infirma mundi elegitDeus. Niente paura, io ti aiuterò. Caro fratello, il cuore, l’anima di un sacerdote santo agli occhi del Signore vale più di tutti i tesserati, il giorno del tuo sacrificio assieme a quello di Gesù sull’altare è vicino, preparati. Non ti pentirai mai di essere stato generoso verso Gesù e verso i Superiori. Confidenza in loro, essi ti aiuteranno a vincere le piccole difficoltà del giorno che la tua bell’anima potrà incontrare. Ti ricorderò nella S. Messa di ogni giorno, perché tu pure possa un giorno offrirti tutto al Buon Dio».

Conclusione
            Come all’inizio, così anche al termine di questo breve excursus sul profilo virtuoso di padre Convertini, ecco una testimonianza che sintetizza quanto presentato.
            «Una delle figure di pionieri che mi colpì profondamente fu quella del Venerando don Francesco Convertini, zelante apostolo dell’amore cristiano, che riuscì a portare la notizia della Redenzione nelle chiese, nelle zone parrocchiali, nei vicoletti e capanne dei rifugiati e con chiunque incontrava, consolando, consigliando, aiutando con la sua squisita carità: un vero testimone delle opere di misericordia corporali e spirituali, sulle quali saremo giudicati: sempre pronto e zelante nel ministero del sacramento del perdono. Cristiani di ogni confessione, musulmani e indù, accettavano con gioia e prontezza colui che chiamavano l’uomo di Dio. Egli sapeva portare a ciascuno il vero messaggio dell’amore, che Gesù predicò e portò in questa terra: con l’evangelico contatto diretto e personale, per piccoli e grandi, bambini e bambine, poveri e ricchi, autorità e paria (fuori casta), cioè l’ultimo e il più disprezzato gradino dei rifiuti (sub)umani. Per me e per molti altri, è stata un’esperienza sconvolgente che mi ha aiutato a capire e vivere il messaggio di Gesù: “Amatevi come io vi ho amati”».

            L’ultima parola è a padre Francesco, come un’eredità che consegna a ciascuno di noi. Il 24 settembre 1973, scrivendo ai parenti da Krishnagar, il missionario vuole coinvolgerli nel lavoro per i non cristiani che sta facendo con fatica dopo la sua ultima malattia, ma sempre con zelo: «Dopo sei mesi di ospedale la mia salute è un po’ debole, mi sembra di essere una pignatta rotta e rattoppata. Tuttavia il misericordioso Gesù mi aiuta miracolosamente nel Suo lavoro delle anime. Mi faccio portare in città e poi ritorno a piedi, dopo aver fatto conoscere Gesù e la nostra santa religione. Finite le confessioni a casa, vado tra i pagani, molto più buoni di certi cristiani. Aff.mo nel Cuore di Gesù, sacerdote Francesco».




Don Elia Comini: sacerdote martire a Monte Sole

Il 18 dicembre 2024 papa Francesco ha riconosciuto ufficialmente il martirio di don Elia Comini (1910-1944), Salesiano di Don Bosco, che sarà dunque beatificato. Il suo nome si aggiunge a quello di altri sacerdoti—come don Giovanni Fornasini, già Beato dal 2021—rimasti vittime delle efferate violenze naziste nell’area di Monte Sole, sui colli bolognesi, durante la Seconda Guerra Mondiale. La beatificazione di don Elia Comini non è solo un avvenimento di straordinario rilievo per la Chiesa bolognese e la Famiglia Salesiana, ma costituisce anche un invito universale a riscoprire il valore della testimonianza cristiana: una testimonianza in cui la carità, la giustizia e la compassione prevalgono su ogni forma di violenza e di odio.

Dall’Appennino ai cortili salesiani
            Don Elia Comini nasce il 7 maggio 1910 in località “Madonna del Bosco” di Calvenzano di Vergato, in provincia di Bologna. La sua casa natale è contigua a un piccolo santuario mariano, dedicato alla “Madonna del Bosco”, e questa forte impronta nel segno di Maria lo accompagnerà tutta la vita.
            È il secondogenito di Claudio ed Emma Limoni che si erano sposati, presso la chiesa parrocchiale di Salvaro, l’11 febbraio 1907. L’anno dopo era nato il primogenito Amleto. Due anni più tardi veniva al mondo Elia. Battezzato il giorno dopo la nascita – 8 maggio – presso la parrocchia Sant’Apollinare di Calvenzano, Elia riceve quel giorno anche i nomi di “Michele” e “Giuseppe”.
            Quando ha sette anni la famiglia si trasferisce in località “Casetta” di Pioppe di Salvaro nel comune di Grizzana. Nel 1916 Elia inizia la scuola: frequenta le prime tre classi elementari a Calvenzano. In quel periodo riceve anche la Prima Comunione. Ancora piccolo, si mostra molto coinvolto nel catechismo e nelle celebrazioni liturgiche. Riceve la Cresima il 29 luglio 1917. Tra il 1919 e il 1922 Elia apprende i primi elementi di pastorale alla «scuola di fuoco» di Mons. Fidenzio Mellini che da giovane aveva conosciuto don Bosco, il quale gli aveva profetizzato il sacerdozio. Nel 1923, don Mellini orienta quindi ai Salesiani di Finale Emilia sia Elia sia il fratello Amleto ed entrambi faranno tesoro del carisma pedagogico del santo dei giovani: Amleto come docente e “imprenditore” nell’ambito della scuola; Elia come Salesiano di Don Bosco.
            Novizio dal 1° ottobre 1925 a San Lazzaro di Savena, Elia Comini resta orfano di padre il 14 settembre 1926, a pochi giorni (3 ottobre 1926) dalla sua Prima Professione religiosa che rinnoverà fino alla Perpetua, l’8 maggio 1931 nell’anniversario del battesimo, presso l’Istituto “San Bernardino” di Chiari. A Chiari sarà inoltre “tirocinante” presso l’Istituto Salesiano “Rota”. Riceve il 23 dicembre 1933 gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato; dell’esorcistato e dell’accolitato il 22 febbraio 1934. È suddiacono il 22 settembre 1934. Ordinato diacono nella cattedrale di Brescia il 22 dicembre 1934, don Elia è consacrato sacerdote per l’imposizione delle mani del Vescovo di Brescia Mons. Giacinto Tredici il 16 marzo del 1935, a soli 24 anni: il giorno successivo celebra la Prima Messa presso l’Istituto salesiano “San Bernardino” di Chiari. Il 28 luglio 1935 festeggerà con una Messa a Salvaro.
            Iscritto alla facoltà di Lettere Classiche e Filosofia dell’allora Regia Università di Milano, si fa sempre assai benvolere dagli allievi, sia come docente, sia come padre e guida nello Spirito: il suo carattere, serio senza rigidità, gli vale stima e fiducia. Don Elia è anche un fine musico e umanista, che apprezza e sa far apprezzare le “cose belle”. Nei componimenti scritti molti studenti, oltre a svolgere la traccia, trovano naturale aprire a don Elia il proprio cuore, fornendogli così occasione per accompagnarli e indirizzarli. Di don Elia “Salesiano” si dirà che era come la chioccia con attorno i pulcini («Si leggeva sul loro volto tutta la felicità di ascoltarlo: sembravano una covata di pulcini attorno alla chioccia»): tutti vicini a lui! Questa immagine richiama quella di Mt 23,37 ed esprime la sua attitudine a radunare le persone per rallegrarle e custodirle.
            Don Elia si laurea il 17 novembre 1939 in Lettere Classiche con una tesi sul De resurrectione carnis di Tertulliano, relatore il professore Luigi Castiglioni (latinista di fama nonché co-autore di un celebre dizionario di Latino, il “Castiglioni-Mariotti”): soffermandosi sulle parole «resurget igitur caro», Elia commenta che si tratta del canto di vittoria dopo una battaglia lunga ed estenuante.

Un viaggio senza ritorno
            Quando il fratello Amleto si trasferisce in Svizzera, la mamma – signora Emma Limoni – resta sola in Appennino: perciò don Elia, in piena intesa con i Superiori, le dedicherà ogni anno le proprie vacanze. Quando tornava a casa aiutava la mamma ma – sacerdote – si rendeva anzitutto disponibile nella pastorale locale, affiancando Mons. Mellini.
            D’accordo con i Superiori e in particolare l’Ispettore, don Francesco Rastello, don Elia torna a Salvaro anche nell’estate 1944: quell’anno spera di poter far sfollare la mamma da una zona dove, a breve distanza, forze Alleate, Partigiani ed effettivi nazi-fascisti definivano una situazione di particolare rischio. Don Elia è consapevole del pericolo che corre lasciando la sua Treviglio per recarsi a Salvaro e un confratello, don Giuseppe Bertolli sdb, ricorda: «salutandolo gli dissi che un viaggio come il suo avrebbe anche potuto essere senza ritorno; gli chiesi anche, naturalmente scherzando, che cosa mi avrebbe lasciato se non fosse tornato; egli mi rispose col mio stesso tono, che mi avrebbe lasciato i suoi libri…; poi non l’ho più visto». Don Elia era già consapevole di dirigersi verso “l’occhio del ciclone” e non ricercò nella casa Salesiana (dove agevolmente sarebbe potuto restare) una forma di tutela: «L’ultimo ricordo che ho di lui risale all’estate del 1944, quando, in occasione della guerra, la Comunità cominciò a sciogliersi; sento ancora le mie parole che bonariamente si rivolgevano a lui, con aria quasi di scherzo, ricordandogli che egli, in quei periodi oscuri che stavamo per affrontare, avrebbe dovuto sentirsi come privilegiato, in quanto sul tetto dell’Istituto era stata tracciata una croce bianca e nessuno avrebbe avuto il coraggio di bombardarlo. Egli però, come un profeta, mi rispose di stare bene attento perché durante le vacanze avrei potuto leggere sui giornali che Don Elia Comini era morto eroicamente nell’adempimento del suo dovere». «L’impressione del pericolo al quale egli si esponeva era viva in tutti», ha commentato un confratello.
            Lungo il viaggio verso Salvaro don Comini sosta a Modena, dove rimedia una brutta ferita a una gamba: stando a una ricostruzione, per essersi interposto tra un veicolo e un passante, scongiurando così un più grave incidente; stando a un’altra, per aver aiutato un signore a spingere un carretto. Ad ogni modo, per aver soccorso il prossimo. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
            L’episodio di Modena esprime, in tal senso, un atteggiamento di don Elia che a Salvaro, nei mesi successivi, sarebbe emerso ancora di più: interporsi, mediare, accorrere in prima persona, esporre la propria vita per i fratelli, sempre cosciente del rischio che ciò comporta e serenamente disposto a pagarne le conseguenze.

Un pastore sul fronte di guerra
            Claudicante, arriva a Salvaro al tramonto del 24 giugno 1944, appoggiandosi come può a un bastone: insolito strumento, per un giovane di 34 anni! Trova la canonica trasformata: Mons. Mellini vi ospita decine di persone, appartenenti a nuclei familiari di sfollati; inoltre, le 5 suore Ancelle del Sacro Cuore, responsabili dell’asilo, tra cui suor Alberta Taccini. Anziano, stanco e scosso dagli eventi bellici, in quell’estate Mons. Fidenzio Mellini fa fatica a decidere, è diventato più fragile e incerto. Don Elia, che lo conosce sin da bambino, comincia ad aiutarlo in tutto e prende un po’ in mano la situazione. La ferita alla gamba gli impedisce inoltre di far sfollare la mamma: don Elia rimane a Salvaro e, quando può di nuovo camminare bene, le mutate circostanze e i crescenti bisogni pastorali faranno sì che vi resti.
            Don Elia rianima la pastorale, segue il catechismo, si occupa degli orfani abbandonati a se stessi. Accoglie inoltre gli sfollati, incoraggia i timorosi, modera gli imprudenti. Quella di don Elia diventa una presenza aggregante, un segno buono in quei drammatici frangenti dove i rapporti umani sono dilaniati da sospetti e contrapposizioni. Mette al servizio di tanta gente le capacità organizzative e l’intelligenza pratica allenate in anni di vita salesiana. Scrive al fratello Amleto: «Certo sono momenti drammatici, e peggiori se ne presagiscono. Speriamo tutto nella grazia di Dio e nella protezione della Madonna, che dovete invocare voi per noi. Spero di potervi fare avere ancora nostre notizie».
            I tedeschi della Wehrmacht presidiano la zona e, sulle alture, c’è la brigata partigiana “Stella Rossa”. Don Elia Comini resta una figura estranea a rivendicazioni o partigianerie di sorta: è un sacerdote e fa valere istanze di prudenza e pacificazione. Ai partigiani diceva: «Ragazzi, guardate quel che fate, perché rovinate la popolazione…», esponendola a ritorsioni. Loro lo rispettano e, nel luglio e nel settembre 1944, chiederanno Messe nella parrocchiale di Salvaro. Don Elia accetta, facendo scendere i partigiani e celebrando senza nascondersi, evitando invece di salire lui in zona partigiana e preferendo – come sempre farà quell’estate – restare a Salvaro o in zone limitrofe, senza nascondersi né scivolare in atteggiamenti “ambigui” agli occhi dei nazi-fascisti.
            Il 27 luglio don Elia Comini scrive le ultime righe del suo Diario spirituale: «27 luglio: mi trovo proprio nel mezzo della guerra. Ho nostalgia dei miei confratelli e della mia casa di Treviglio; se potessi, tornerei domani».
            Dal 20 luglio, condivideva una fraternità sacerdotale con padre Martino Capelli, Dehoniano, nato il 20 settembre 1912 a Nembro nella bergamasca e già docente di Sacra Scrittura a Bologna, anch’egli ospite di Mons. Mellini e in aiuto alla pastorale.
            Elia e Martino sono due studiosi di lingue antiche che devono ora provvedere alle cose più pratiche e materiali. La canonica di Mons. Mellini diventa ciò che Mons. Luciano Gherardi ha poi chiamato «la comunità dell’arca», un posto che accoglie per salvare. Padre Martino era un religioso che si era infervorato quando aveva sentito parlare dei martiri messicani e avrebbe desiderato essere missionario in Cina. Elia, sin da giovane, è inseguito da una strana consapevolezza di “dover morire” e già a 17 anni aveva scritto: «Persiste sempre in me il pensiero che debba morire! – Chissà?! Facciamo come il servo fedele: sempre preparato all’appello, a “reddere rationem” della gestione».
            Il 24 luglio don Elia inizia il catechismo per i bambini in preparazione alle prime Comunioni, in calendario per il 30 luglio. Il 25, nasce una bambina nel battistero (tutti gli spazi, dalla sacrestia al pollaio, erano stracolmi) e si appende un fiocco rosa.
            Per l’intero mese di agosto 1944, soldati della Wehrmacht stazionano presso la canonica di Mons. Mellini e nello spazio antistante. Tra tedeschi, sfollati, consacrati… la tensione sarebbe potuta scoppiare ogni momento: don Elia media e previene anche in piccole cose, per esempio facendo da “ammortizzatore” tra il volume troppo alto della radio dei tedeschi e la pazienza ormai troppo corta di Mons. Mellini. Ci fu anche qualche po’ di Rosario tutti assieme. Don Angelo Carboni conferma: «Nell’intento sempre di confortare Monsignore, D. Elia si adoprò molto contro la resistenza d’una compagnia di Tedeschi che, impostatisi a Salvaro il 1° agosto, voleva occupare diversi ambienti della Canonica togliendo ogni libertà e comodità ai famigliari e sfollati ivi ospitati. Accomodati i Tedeschi nell’archivio di Monsignore, eccoli di nuovo a disturbare, occupando coi loro carri buona parte del piazzale della Chiesa; con modi ancor più gentili e persuasive parole, D. Elia ottenne anche quest’altra liberazione a conforto di Monsignore, che l’oppressione della lotta aveva costretto al riposo». In quelle settimane, il sacerdote salesiano è fermo nel tutelare il diritto di Mons. Mellini a muoversi con un certo agio in casa propria – nonché quello degli sfollati a non essere allontanati dalla canonica –: tuttavia riconosce alcune esigenze degli uomini della Wehrmacht e ciò ne attira la benevolenza verso Mons. Mellini che i soldati tedeschi impareranno a chiamare il pastore buono. Dai tedeschi, don Elia ottiene cibo per gli sfollati. Inoltre, canticchia per calmare i bambini e racconta episodi della vita di don Bosco. In un’estate segnata da uccisioni e ritorsioni, con don Elia alcuni civili riescono persino ad andare a sentire un poco di musica, evidentemente diffusa dall’apparecchio dei tedeschi, e a comunicare con i soldati attraverso brevi cenni. Don Rino Germani sdb, Vicepostulatore della Causa, afferma: «Tra le due forze in lotta si inserisce l’opera instancabile e mediatrice del Servo di Dio. Quando occorre si presenta al Comando tedesco e con educazione e preparazione riesce a conquistare la stima di qualche ufficiale. Così molte volte ottiene di evitare ritorsioni, saccheggi e lutti».
            Liberata la canonica dalla presenza fissa della Wehrmacht il 1° settembre 1944 – «Il 1° settembre i tedeschi lasciarono libera la zona di Salvaro, solo qualcuno rimase per pochi giorni ancora nella casa Fabbri» – la vita a Salvaro può trarre un respiro di sollievo. Don Elia Comini persevera intanto nelle iniziative di apostolato, coadiuvato dagli altri sacerdoti e dalle suore.
            Mentre tuttavia padre Martino accetta alcuni inviti a predicare altrove e sale in quota, dove i suoi capelli chiari gli fanno correre un grosso guaio con i partigiani che lo sospettano tedesco, don Elia resta sostanzialmente stanziale. L’8 settembre scrive al direttore salesiano della Casa di Treviglio: «Ti lascio immaginare il nostro stato d’animo in questi momenti. Abbiamo attraversato giornate nerissime e drammatiche. […] Il mio pensiero è sempre con te e coi cari confratelli di costì. Sento vivissima la nostalgia […]».
            Dall’11 predica gli Esercizi alle Suore sul tema dei Novissimi, dei voti religiosi e della vita del Signore Gesù.
            Tutta la popolazione – ha dichiarato una consacrata – amava Don Elia, anche perché egli non esitava a spendersi per tutti, in ogni momento; non chiedeva soltanto alle persone di pregare, ma offriva loro un valido esempio con la sua pietà e quel poco di apostolato che, data la circostanza, era possibile esercitare.
            L’esperienza degli Esercizi imprime un diverso dinamismo all’intera settimana, e coinvolge trasversalmente consacrati e laici. Alla sera, infatti, don Elia raduna 80-90 persone: si cercava di stemperare la tensione con un po’ di allegria, buoni esempi, carità. In quei mesi sia lui sia padre Martino, come altri sacerdoti: primo tra tutti don Giovanni Fornasini, erano in prima linea in tante opere di bene.

L’eccidio di Montesole
            La strage più efferata e più grande compiuta dalle SS naziste in Europa, nel corso della guerra del 1939-45, è stata quella consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, anche se è comunemente nota come la “strage di Marzabotto”.
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di tedeschi e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno e alcune porzioni dei territori limitrofi. Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei tedeschi consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, Salesiano, e a padre Martino Capelli, Dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato; è stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati tedeschi trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.

Dalla Wehrmacht alle SS
            Il 25 settembre la Wehrmacht lascia la zona e cede il comando alle SS del 16 Battaglione della Sedicesima Divisione Corazzata “Reichsfürer” – SS”, una Divisione che include elementi SS “Totenkopf – Testa di morto” ed era preceduta da una scia di sangue, essendo stata presente a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) il 12 agosto 1944; a San Terenzo Monti (Massa-Carrara, in Lunigiana) il 17 di quel mese; a Vinca e dintorni (Massa-Carrara, in Lunigiana alle pendici delle Alpi Apuane) dal 24 al 27 agosto.
            Il 25 settembre le SS stabiliscono l’’“Alto comando” a Sibano. Il 26 settembre si portano a Salvaro, dove è anche don Elia: zona fuori dall’area di immeditata influenza partigiana. La durezza dei comandanti nel perseguire il più totale disprezzo della vita umana, l’abitudine a mentire circa il destino dei civili e l’assetto paramilitare – che ricorreva volentieri a tecniche da “terra bruciata”, in dispregio a qualsivoglia codice di guerra o legittimità di ordini impartiti dall’alto – ne faceva uno squadrone della morte che nulla lasciava di intatto al proprio passaggio. Alcuni avevano ricevuto una formazione di stampo esplicitamente concentrazionista ed eliminazionista, deputata a: soppressione della vita, con finalità ideologica; odio verso chi professava la fede ebraico-cristiana; disprezzo per i piccoli, i poveri, gli anziani e i deboli; persecuzione di chi si opponesse alle aberrazioni del nazionalsocialismo. C’era un vero e proprio catechismo – anticristiano e anticattolico – dei quali le giovani SS erano impregnate.
            «Quando si pensa che la gioventù nazista era formata nel disprezzo della personalità umana degli ebrei e delle altre razze “non elette”, nel fanatico culto di una pretesa superiorità nazionale assoluta, nel mito della violenza creatrice e delle “armi nuove” apportatrici di giustizia nel mondo, si comprende dove fossero le radici delle aberrazioni, rese più facili dall’atmosfera di guerra e dal timore di una deludente sconfitta».
            Don Elia Comini – con padre Capelli – accorre per confortare, rassicurare, esortare. Decide si accolgano in canonica soprattutto i superstiti delle famiglie in cui i tedeschi avevano ucciso per ritorsione. Così facendo, sottrae i sopravvissuti al pericolo di trovare la morte poco dopo, ma soprattutto li strappa – almeno nella misura del possibile – a quella spirale di solitudine, disperazione e perdita di volontà di vivere che si sarebbe potuta tradurre addirittura in desiderio di morte. Riesce inoltre a parlare ai tedeschi e, in almeno un’occasione, a far desistere le SS dal loro proposito, facendole sfilare oltre e potendo quindi avvertire successivamente i rifugiati di fuoriuscire dal nascondiglio.
            Il Vicepostulatore don Rino Germani sdb scriveva: «Arriva don Elia. Li rassicura. Dice loro di venir fuori, perché i tedeschi sono andati via. Parla con i tedeschi e li fa andare oltre».
            Viene ucciso anche Paolo Calanchi, un uomo cui la coscienza nulla rimprovera e che commette l’errore di non scappare. Sarà ancora don Elia ad accorrere, prima che le fiamme ne aggrediscano il corpo, tentando almeno di onorarne le spoglie non essendo arrivato in tempo per salvargli la vita: «Il corpo di Paolino viene salvato dalle fiamme proprio da don Elia che, a rischio della vita, lo raccoglie e trasporta con un carretto alla Chiesa di Salvaro».
            La figlia di Paolo Calanchi ha testimoniato: «Mio padre era un uomo buono ed onesto [«in tempi di tessera annonaria e di carestia dava pane a chi non ne aveva»] e aveva rifiutato di scappare sentendosi tranquillo verso tutti. Fu ucciso dai tedeschi, fucilato, per rappresaglia; più tardi fu incendiata anche la casa, ma il corpo di mio padre era stato salvato dalle fiamme proprio da Don Comini, che, a rischio della propria vita, lo aveva raccolto e trasportato con un carretto alla Chiesa di Salvaro, dove, in una cassa da lui costruita con assi di ripiego, fu inumato nel cimitero. Così, grazie al coraggio di Don Comini e, molto probabilmente, anche di Padre Martino, terminata la guerra, io e mia madre potemmo ritrovare e far trasportare la bara del nostro caro nel cimitero di Vergato, insieme a quella di mio fratello Gianluigi, morto 40 giorni dopo nell’attraversare il fronte».
            Una volta don Elia aveva detto della Wehrmacht: «Dobbiamo amare anche questi Tedeschi che ci vengono a disturbare». «Amava tutti senza preferenza». Il ministero di don Elia fu molto prezioso per Salvaro e tanti sfollati, in quei giorni. Testimoni hanno dichiarato: «Don Elia è stato la nostra fortuna perché avevamo il Parroco troppo anziano e debole. Tutta la popolazione sapeva che Don Elia aveva questo interesse nei nostri riguardi; Don Elia ha aiutato tutti. Si può dire che tutti i giorni lo vedevamo. Diceva la Messa, ma poi era spesso sul sagrato della chiesa a guardare: i tedeschi erano giù, verso il Reno; i partigiani venivano dal monte, verso la Creda. Una volta, per esempio, (qualche giorno prima del 26) vennero i partigiani. Noi si usciva dalla chiesa di Salvaro e c’erano i partigiani lì, tutti armati; e Don Elia si raccomandava tanto che se ne andassero, per evitare dei guai. Lo ascoltarono e se ne andarono. Probabilmente, se non ci fosse stato lui, quello che è successo dopo, sarebbe avvenuto molto prima»; «Da quanto mi risulta Don Elia era l’anima della situazione, in quanto con la sua personalità sapeva tenere in pugno tante cose che in quei momenti drammatici erano di importanza vitale».
            Anche se era un sacerdote giovane, don Elia Comini era affidabile. Questa sua affidabilità, unita a una profonda rettitudine, lo accompagnava un po’ da sempre, addirittura da chierico come risulta da una testimonianza: «L’ho avuto quattro anni al Rota, dal 1931 al 1935, e, sebbene ancora chierico, mi ha dato un aiuto che ben difficilmente avrei trovato in altro confratello anche anziano».

Il triduo di passione
            La situazione comunque precipita dopo pochi giorni, il 29 settembre mattina quando le SS compiono una terribile strage in località “Creda”. Il segnale per l’inizio della strage sono un razzo bianco e uno rosso in aria: cominciano a sparare, le mitragliatrici colpiscono le vittime, asserragliate contro un portico e pressoché senza via di scampo. Vengono quindi lanciate bombe a mano, alcune incendiarie e la stalla – dove alcuni erano riusciti a trovare scampo – prende fuoco. Pochi uomini, cogliendo un istante di distrazione delle SS in quell’inferno, si precipitano giù verso il bosco. Attilio Comastri, ferito, si salva perché il corpo esanime della moglie Ines Gandolfi gli ha fatto scudo: vagherà per giorni, in stato di shock, finché riuscirà a passare il fronte e ad aver salva la vita; aveva perso, oltre alla moglie, la sorella Marcellina e la figlia Bianca, di due anni appena. Anche Carlo Cardi riesce a salvarsi, ma la sua famiglia è sterminata: Walter Cardi aveva solo 14 giorni, fu la più piccola vittima dell’eccidio di Monte Sole. Mario Lippi, uno degli scampati, attesta: «Non so io stesso come mi fossi miracolosamente salvato, dato che di 82 persone raccolte sotto al portico, ne rimasero uccise 70 [69, stando alla ricostruzione ufficiale]. Ricordo che oltre al fuoco delle mitragliatrici, i tedeschi scagliarono su di noi anche delle bombe a mano e credo che fossero alcune schegge di queste a ferirmi leggermente nel fianco destro, nella schiena e nel braccio destro. Io, insieme con altre sette persone, profittando che in [un] lato del portico vi era una porticina che portava nella strada, scappai verso il bosco. I tedeschi, vistici fuggire, ci spararono dietro, uccidendo uno di noi [di] nome Gandolfi Emilio. Preciso che tra le 82 persone raccolte sotto il sunnominato portico vi erano anche una ventina di bambini, di cui due in fasce, sulle braccia delle rispettive madri, e una ventina di donne».
            Alla Creda sono 21 i bimbi sotto gli 11 anni, alcuni molto piccoli; 24 le donne (di cui una adolescente); quasi 20 gli “anziani”. Tra le famiglie più colpite i Cardi (7 persone), i Gandolfi (9 persone), i Lolli (5 persone), i Macchelli (6 persone).
            Dalla canonica di Mons. Mellini, guardando in alto, a un certo punto si vede il fumo: ma è mattina presto, la Creda resta nascosta allo sguardo e il bosco attutisce i rumori. In parrocchia quel giorno – 29 settembre festa dei Santi Arcangeli – si celebrano tre Messe, di mattina presto, in immediata successione: quella di Mons. Mellini; quella di padre Capelli che si reca poi a portare una Estrema unzione in località “Casellina”; quella di don Comini. Ed è allora che il dramma bussa alla porta: «Ferdinando Castori, sfuggito anche lui alla strage, giunse alla chiesa di Salvaro imbrattato di sangue come un macellaio, e andò a nascondersi dentro la cuspide del Campanile». Verso le 8 giunge in canonica un uomo sconvolto: sembrava «un mostro per l’aspetto terrorizzante», dice suor Alberta Taccini. Chiede aiuto per i feriti. Una settantina di persone è morta o sta morendo tra terribili supplizi. Don Elia, in pochi istanti, ha la lucidità di nascondere 60/70 uomini in sagrestia, spingendo contro la porta un vecchio armadio che lasciava la soglia visibile da sotto, ma era nondimeno l’unica speranza di salvezza: «Fu allora che Don Elia, proprio lui, ebbe l’idea di nascondere gli uomini a fianco della sacrestia, mettendo poi un armadio davanti alla porta (lo aiutarono una o due persone che erano in casa di Monsignore). L’idea fu di Don Elia; ma tutti erano contrari al fatto che fosse Don Elia a compiere quel lavoro… L’ha voluto lui. Gli altri dicevano: “E se poi ci scoprono?”». Un’altra ricostruzione: «Don Elia riuscì a nascondere in un locale attiguo alla sacrestia una sessantina di uomini e contro l’uscio spinse un vecchio armadio. Intanto il crepitare delle mitraglie e gli urli disperati della gente giungevano dalle case vicine. Don Elia ebbe la forza di iniziare il S. Sacrificio della Messa, l’ultima della sua vita. Non aveva ancora terminato, che giunse atterrito e trafelato un giovane della località “Creda” a chiedere soccorso perché le SS avevano circondato una casa e arrestato sessantanove persone, uomini, donne, bambini».
            «Ancora in paramenti sacri, prostrato all’altare, immerso in preghiera, invoca per tutti l’aiuto del Sacro Cuore, l’intercessione di Maria Ausiliatrice, di san Giovanni Bosco e di san Michele Arcangelo. Poi, con un breve esame di coscienza, recitato tre volte l’atto di dolore, fa loro una preparazione alla morte. Raccomanda all’assistenza delle suore tutte quelle persone e alla Superiora di guidare forte la preghiera perché i fedeli possano trovare in essa il conforto del quale hanno bisogno».
            A proposito di don Elia e di padre Martino, rientrato poco dopo, «si constatano alcune dimensioni di una vita sacerdotale spesa consapevolmente per gli altri fino all’ultimo istante: la loro morte è stata un prolungare nel dono della vita la Messa celebrata fino all’ultimo giorno». La loro scelta aveva «radici lontane, nella decisione di fare del bene anche se si fosse all’ultima ora, disposti anche al martirio»: «molte persone vennero a cercare aiuto in parrocchia e, all’insaputa del parroco, Don Elia e Padre Martino cercarono di nascondere quante più persone possibili; poi assicuratisi che fossero in qualche modo assistite, corsero sul luogo dei massacri per poter portare aiuto anche ai più sfortunati; lo stesso Mons. Mellini non si rese conto di ciò e continuava a cercare i due preti per farsi aiutare a ricevere tutta quella gente» («Abbiamo la certezza che nessuno di essi era partigiano o era stato coi partigiani»).
            In quei momenti, don Elia attesta grande lucidità che si traduce sia in spirito organizzativo, sia nella consapevolezza di mettere a repentaglio la propria vita: «Alla luce di tutto ciò, e Don Elia lo sapeva bene, non possiamo quindi ricercare quella carità che induce al tentativo di aiutare gli altri, ma piuttosto quel tipo di carità (che poi è stata la stessa di Cristo) che induce a partecipare fino in fondo alla sofferenza altrui, non temendo neppure la morte come sua ultima manifestazione. Il fatto che la sua sia stata una scelta lucida e ben ragionata, viene anche dimostrato dallo spirito organizzativo che ha manifestato fino a pochi minuti prima della morte, nel tentare con prontezza ed intelligenza di nascondere quante più persone possibile nei locali nascosti della canonica; poi la notizia della Creda e, dopo la carità fraterna, la carità eroica».
            Una cosa è certa: se don Elia si fosse nascosto con tutti gli altri uomini o anche solo fosse rimasto accanto a Mons. Mellini, non avrebbe avuto nulla da temere. Invece, don Elia e padre Martino prendono la stola, gli oli santi e una teca con alcune Particole consacrate «partirono quindi per la montagna, armati della stola e dell’olio degli infermi»: «Quando Don Elia tornò dall’essere andato da Monsignore, prese la Pisside con le Ostie e l’Olio Santo e si voltò verso di noi: ancora quel volto! era talmente pallido, che sembrava uno già morto. E disse: “Pregate, Pregate per me, perché ho una missione da compiere”». «Pregate per me, non lasciatemi solo!». «Noi siamo sacerdoti e dobbiamo andare e dobbiamo fare il nostro dovere». «Andiamo a portare il Signore ai nostri fratelli».
            Su alla Creda c’è tanta gente che sta morendo tra supplizi: devono accorrere, benedire e – se possibile – provare a interporsi rispetto alle SS.
            La signora Massimina [Zappoli], poi teste anche all’indagine militare di Bologna, ricorda: «Nonostante le preghiere di tutti noi, essi celebrarono in fretta l’Eucaristia e, spinti solo dalla speranza di poter fare qualcosa per le vittime di tanta ferocia almeno con un conforto spirituale, presero il SS. Sacramento e corsero verso la Creda. Ricordo che mentre Don Elia, già lanciato nella sua corsa, mi passò accanto in cucina, io mi aggrappai a lui in un ultimo tentativo di dissuaderlo, dicendo che noi saremmo rimasti in balia di noi stessi; egli fece capire che, per quanto fosse grave la nostra situazione, c’era chi stava peggio di noi ed era da questi che loro dovevano andare».
            Egli è irremovibile e si rifiuta, come poi Mons. Mellini suggerì, di ritardare la salita alla Creda quando i tedeschi se ne fossero andati: «È stata [perciò] una passione, prima che cruenta, […] del cuore, la passione dello spirito. In quei tempi si era terrorizzati da tutto e da tutti: non si aveva più fiducia di nessuno: chiunque poteva essere un nemico determinante per la propria vita. Quando i due Sacerdoti si son resi conto che qualcuno aveva veramente bisogno di loro non hanno avuto tanto tentennamento a decidere cosa fare […] e soprattutto non sono ricorsi a quella che era la decisione immediata per tutti, cioè, trovare un nascondiglio, cercare di coprirsi e di essere fuori dalla mischia. I due Sacerdoti, invece, ci sono andati dentro, consapevolmente, sapendo che la loro vita era al 99% a rischio; e ci sono andati per essere veramente sacerdoti: cioè, per assistere e per confortare; per dare anche il servizio dei Sacramenti, quindi della preghiera, del conforto che la fede e la religione offrono».
            Una persona ha detto: «Don Elia, per noi, era già santo. Se fosse stato una persona normale […] non si sarebbe messo; si sarebbe nascosto anche lui, dietro l’armadio, come tutti gli altri».
            Con gli uomini nascosti, sono le donne a provare a trattenere i sacerdoti, in un estremo tentativo di salvar loro la vita. La scena è al contempo concitata ed assai eloquente: «Lidia Macchi […] e altre donne provarono a impedir loro di partire, tentarono di trattenerli per la tonaca, li rincorsero, li richiamarono a gran voce perché ritornassero indietro: spinti da una forza interiore che è ardore di carità e sollecitudine missionaria, essi stavano ormai decisamente camminando verso la Creda portando i conforti religiosi».
            Una di loro ricorda: «Li abbracciai, li tenevo fermi per le braccia, dicendo e supplicando: – Non andate! – Non andate!».
            E Lidia Marchi aggiunge: «Io tiravo Padre Martino per la veste e lo trattenevo […] ma tutti e due i sacerdoti ripetevano: – Dobbiamo andare; il Signore ci chiama».
            «Dobbiamo compiere il nostro dovere. E [don Elia e padre Martino,] come Gesù, andarono incontro a una sorte segnata».
            «La decisione di recarsi alla Creda fu scelta dai due sacerdoti per puro spirito pastorale; nonostante tutti cercassero di dissuaderli, essi vollero andare spinti dalla speranza di poter salvare qualcuno di coloro che erano in balia della rabbia dei soldati».
            Alla Creda, quasi senz’altro, non arrivarono mai. Catturati, stando a una testimone, presso un “pilastrello”, appena fuori dal campo visivo della parrocchia, don Elia e padre Martino furono visti più tardi carichi di munizioni, alla testa di rastrellati, o ancora soli, legati, con catene, vicino a un albero mentre non c’era alcuna battaglia in corso e le SS mangiavano. Don Elia intimò a una donna di scappare, di non fermarsi per evitare di essere uccisa: «Anna, per carità, scappa, scappa».
            «Erano carichi e curvi sotto il peso di tante cassettine pesanti che dalle spalle avvolgevano il corpo davanti e dietro. Con la schiena facevano una curva che li portava quasi con il naso a terra».
            «Seduti per terra […] molto sudati e stanchi, con le munizioni sulla schiena».
            «Arrestati vengono costretti a portare munizioni su e giù per il monte, testimoni di inaudite violenze».
            «[Le SS li fanno] più volte scendere e salire per il monte, sotto la loro scorta, e compiendo inoltre, sotto gli occhi delle due vittime, le più raccapriccianti violenze».
            Dove sono, ora, la stola, gli oli santi e soprattutto il Santissimo Sacramento? Non ce n’è più alcuna traccia. Lontani da occhi indiscreti, le SS ne hanno spogliato a forza i sacerdoti, liberandosi di quel Tesoro di cui nulla si sarebbe più trovato.
Verso la sera del 29 settembre 1944, furono tradotti con molti altri uomini (rastrellati e non per rappresaglia o non perché filo-partigiani, come le fonti dimostrano), presso la casa “dei Birocciai” a Pioppe di Salvaro. Più tardi essi, suddivisi, avranno sorti diversissime: pochi saranno liberati, dopo una serie di interrogatori. La maggior parte, valutati abili al lavoro, verranno deferiti ai campi di lavoro coatto e potranno – in seguito – tornare alle proprie famiglie. I valutati inabili, per mero criterio anagrafico (cf. campi di concentramento) o di salute (giovane, ma ferito o che si simula malato sperando di salvarsi) verranno uccisi la sera del 1° ottobre alla “Botte” della Canapiera di Pioppe di Salvaro, ormai un rudere perché bombardata dagli Alleati giorni prima.
            Don Elia e padre Martino – che furono interrogati – poterono muoversi fino all’ultimo nella casa e ricevere visite. Don Elia intercedette per tutti e un giovane, molto provato, si addormentò sulle sue ginocchia: in una di esse, don Elia ricevette il Breviario, a lui tanto caro e che volle tenere con sé sino agli ultimi istanti. Oggi, l’attenta ricerca storica attraverso le fonti documentali, supportata dalla più recente storiografia di parte laica, ha dimostrato come non fosse mai andato a buon fine un tentativo di liberare don Elia, messo in atto dal Cavalier Emilio Veggetti, e come don Elia e padre Martino non siano mai realmente stati considerati o perlomeno trattati come “spie”.

L’olocausto
            Infine, vennero inseriti, benché giovani (34 e 32 anni), nel gruppo degli inabili e con essi giustiziati. Vissero quegli ultimi istanti pregando, facendo pregare, essendosi assolti a vicenda e donato ogni possibile conforto di fede. Don Elia riuscì a trasformare la macabra processione dei condannati fino a una passerella antistante l’invaso della canapiera, dove verranno uccisi, in un atto corale di affidamento, tenendo finché poté il Breviario aperto in mano (poi, si legge, un tedesco colpì con violenza le sue mani e il Breviario cadde nell’invaso) e soprattutto intonando le Litanie. Quando fu aperto il fuoco, don Elia Comini salvò un uomo perché gli faceva scudo col proprio corpo e gridò «Pietà». Padre Martino invocò invece “Perdono”, ergendosi a fatica nell’invaso, tra i compagni morti o morenti, e tracciando il segno di Croce pochi istanti prima di morire egli stesso, a causa di una enorme ferita. Le SS vollero assicurarsi che nessuno sopravvivesse lanciando alcune bombe a mano. Nei giorni successivi, stante l’impossibilità a recuperare le salme immerse in acqua e fango a causa di abbondanti piogge (vi provarono le donne, ma nemmeno don Fornasini poté riuscirvi), un uomo aprì le griglie e l’impetuosa corrente del fiume Reno portò via tutto. Nulla venne mai più trovato di loro: consummatum est!
            Si era delineato il loro essere disposti «anche al martirio, anche se agli occhi degli uomini appare stolto rifiutare la propria salvezza per dare un misero sollievo a chi era già destinato alla morte». Mons. Benito Cocchi nel settembre 1977 a Salvaro disse: «Ebbene qui davanti al Signore diciamo che la nostra preferenza va a questi gesti, a queste persone, a coloro che pagano di persona: a chi in un momento in cui valevano solo le armi, la forza e la violenza, quando una casa, la vita di un bimbo, un’intera famiglia erano valutati niente, seppe compiere gesti che non hanno voce nei bilanci di guerra, ma che sono veri tesori di umanità, resistenza e alternativa alla violenza; a chi in questo modo poneva radici per una società e una convivenza più umana».
            In tal senso, «Il martirio dei sacerdoti costituisce il frutto della loro scelta consapevole di condividere la sorte del gregge fino all’estremo sacrificio, quando gli sforzi di mediazione tra popolazione e gli occupanti, a lungo perseguiti, vengono a perdere ogni possibilità di successo».
            Don Elia Comini era stato lucido sulla propria sorte, dicendo – già nelle prime fasi di detenzione –: «Per far del bene ci troviamo in tante pene»; «Era Don Elia che additando il cielo salutava con gli occhi imperlati». «Elia si è affacciato e mi ha detto: “Vada a Bologna, dal Cardinale, e gli dica dove ci troviamo”. Gli ho risposto: “Come faccio ad andare a Bologna?”. […] Intanto i soldati mi spingevano con la canna del fucile. D. Elia mi ha salutato dicendo: “Ci vedremo in paradiso!”. Ho gridato: “No, no, non dica questo”. Ha risposto, mesto e rassegnato: “Ci vedremo in Paradiso”».
            Con don Bosco…: «[Vi] aspetto tutti in Paradiso»!
            Era la sera del 1° ottobre, inizio del mese dedicato al Rosario e alle Missioni.
            Negli anni della sua prima giovinezza, Elia Comini aveva detto a Dio: «Signore, preparami ad essere il meno indegno per essere vittima accetta» (“Diario” 1929); «Signore, […] ricevimi pure come vittima espiatoria» (1929); «vorrei essere una vittima d’olocausto» (1931). «[A Gesù] ho domandato la morte piuttosto che venir meno alla vocazione sacerdotale e all’amore eroico per le anime» (1935).




Educare il corpo e i suoi 5 sensi con san Francesco di Sales

            Un buon numero di antichi asceti cristiani hanno sovente considerato il corpo come un nemico, la cui corruzione doveva essere combattuta, anzi, come un oggetto di disprezzo e da tener in nessun conto. Numerosi uomini spirituali del Medioevo non si preoccupavano del corpo se non per infliggergli penitenze. Nella maggioranza delle scuole del tempo, niente era previsto per far riposare “fratello asino”.
            Per Calvino, la natura umana totalmente corrotta dal peccato originale, non poteva essere altro se non un “immondezzaio”. Sul fronte opposto, numerosi scrittori e artisti rinascimentali esaltavano il corpo fino al punto di tributargli un culto, nel quale la sensualità aveva un grande rilievo. Rabelais, da parte sua, magnificava il corpo dei suoi giganti e si compiaceva nel metterne in mostra le funzioni organiche anche meno nobili.

Il realismo salesiano
           
Tra la divinizzazione del corpo e il suo disprezzo, Francesco di Sales offre una visione realista della natura umana. Alla fine della prima meditazione sul tema della creazione dell’uomo, “il primo essere del mondo visibile”, l’autore dell’Introduzione alla vita devota mette sulle labbra di Filotea questo proposito che sembra riassumere il suo pensiero: “Voglio sentirmi onorata per l’essere che egli mi ha dato”. Certo, il corpo è votato alla morte. Con crudo realismo l’autore descrive l’addio dell’anima al corpo, che abbandonerà “pallido, livido, disfatto, orrendo e puzzolente”, ma ciò non costituisce una ragione per trascurarlo e denigrarlo ingiustamente mentre è vivo. San Bernardo ha avuto torto quando annunciava a coloro che volevano porsi al suo seguito “che dovevano abbandonare il loro corpo e andare da lui solamente in spirito”. I mali fisici non devono spingere a odiare il corpo: il male morale è assai peggiore.
            Non troviamo affatto in Francesco di Sales l’oblio o la messa in ombra dei fenomeni corporali, come quando parla di diverse forme di malattie o quando evoca le manifestazioni dell’amore umano. In un capitolo del Trattato dell’amor di Dio dal titolo: “L’amore tende all’unione”, egli scrive per esempio che “si applica una bocca sull’altra quando ci si bacia, per testimoniare che si vorrebbe versare un’anima nell’altra, per unirle con un’unione perfetta”. Questo atteggiamento di Francesco di Sales nei confronti del corpo ha suscitato, già al suo tempo, reazioni scandalizzate. Quando apparve la Filotea, un religioso avignonese criticò pubblicamente questo “libretto”, lo fece a pezzi tacciando il suo autore di “dottore corrotto e corruttore”. Nemico del pudore esagerato, Francesco di Sales non conosceva ancora il riserbo e le paure che emergeranno in tempi successivi. Sopravvivono in lui usanze medievali o più semplicemente è una manifestazione del suo gusto “biblico”? Ad ogni modo, in lui non si trova niente di paragonabile alle trivialità dell’“infame” Rabelais.
            I doni naturali più stimati sono la bellezza, la forza e la salute. In riferimento alla bellezza, Francesco di Sales così si esprimeva parlando di santa Brigida: “Nacque in Scozia; era una ragazza molto bella, dato che gli scozzesi sono belli di natura, e in quel Paese si incontrano le più belle creature esistenti”. Pensiamo d’altronde al repertorio di immagini riguardanti le perfezioni fisiche dello sposo e della sposa, prese dal Cantico dei cantici. Benché le rappresentazioni siano sublimate e trasferite su un registro spirituale, rimangono tuttavia significative di un’atmosfera dove si esalta la bellezza naturale dell’uomo e della donna. Si è tentato di fargli sopprimere il capitolo del Teotimo sul bacio, nel quale dimostra che “l’amore tende all’unione”, ma si è sempre rifiutato di farlo. In ogni caso, la bellezza esteriore non è quella più importante: la bellezza della figlia di Sion è interiore.

Stretto legame tra il corpo e l’anima
            Innanzi tutto Francesco di Sales afferma che il corpo è “una parte della nostra persona”. L’anima personificata potrà anche dire con un accento di tenerezza: “Questa carne è la mia cara metà, è mia sorella, è mia compagna, nata con me, nutrita con me”.
            Il vescovo è stato assai attento al legame esistente tra il corpo e l’anima, tra la sanità del corpo e quella dell’anima. Così scrive di una persona da lui diretta, cagionevole di salute, che la salute del suo corpo “dipende molto da quella dell’anima, e quella dell’anima dipende dalle consolazioni spirituali”. “Non è illanguidito il vostro cuore – scriveva a una malata –, bensì il vostro corpo, e, dati i legami strettissimi che li uniscono, il vostro cuore ha l’impressione di provare il male del vostro corpo”. Ognuno può costatare che le infermità corporali “finiscono per creare disagio anche allo spirito, a causa degli stretti vincoli fra l’uno e l’altro”. Inversamente, lo spirito agisce sul corpo fino al punto che “il corpo percepisce gli affetti che si agitano nel cuore”, come avvenne in Gesù, che si sedette al pozzo di Giacobbe, stanco del suo gravoso impegno al servizio del regno di Dio.
            Tuttavia, siccome “il corpo e lo spirito procedono spesso in direzione contraria, e, a misura che l’uno s’indebolisce, l’altro si irrobustisce”, e siccome “lo spirito deve regnare”, “dobbiamo sostenerlo e consolidarlo talmente, che resti sempre il più forte”. Se poi mi prendo cura del corpo è “perché sia al servizio dello spirito”.
            Intanto siamo giusti nei confronti del corpo. In caso di malessere o di sbagli, capita spesso che l’anima accusi il corpo e lo maltratti, come fece Balaam colla sua asina: “O povera anima! se la tua carne potesse parlare, ti direbbe, come l’asina di Balaam: perché batti me, miserabile? È contro di te, anima mia, che Dio arma la sua vendetta, sei tu la criminale”. Quando una persona riforma il suo intimo, la conversione si manifesterà anche esternamente: in tutti gli atteggiamenti, nella bocca, nelle mani e “finanche nei capelli”. La pratica della virtù rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente. Inversamente, un cambiamento esteriore, un comportamento del corpo può favorire un cambio interiore. Un atto di devozione esteriore durante la meditazione può risvegliare la devozione interiore. Ciò che qui è detto della vita spirituale può essere facilmente applicato all’educazione in generale.

Amore e dominio del corpo
            Parlando dell’atteggiamento da avere nei confronti del corpo e delle realtà corporali, non stupisce vedere Francesco di Sales raccomandare a Filotea, come prima cosa, la gratitudine per le grazie corporali che Dio le ha dato.

Dobbiamo amare il nostro corpo per diversi motivi: perché ci è necessario per compiere le buone opere, perché è una parte della nostra persona, e perché è destinato a partecipare alla felicità eterna. Il cristiano deve amare il proprio corpo come un’immagine vivente di quello del Salvatore incarnato, come da lui proveniente per parentela e consanguineità. Soprattutto dopo che abbiamo rinnovato l’alleanza, ricevendo realmente il corpo del Redentore nell’adorabile sacramento dell’eucaristia, e, col battesimo, la confermazione e gli altri sacramenti, ci siamo dedicati e consacrati alla somma bontà.

            L’amore del proprio corpo fa parte dell’amore dovuto a sé stessi. In verità, la ragione più convincente per onorare e usare saggiamente del corpo sta in una visione di fede, che il vescovo di Ginevra così spiegava alla madre di Chantal uscita da una malattia: “Abbiate ancora cura di questo corpo, perché è di Dio, mia carissima Madre”. La Vergine Maria viene presentata a questo punto come modello: “Con quale devozione doveva amare il suo corpo verginale! Non soltanto perché era un corpo dolce, umile, puro, obbediente al santo amore e totalmente impregnato di mille sacri profumi, ma anche perché era la viva sorgente di quello del Salvatore e gli apparteneva molto strettamente, con un legame che non ha confronti”.
            L’amore del corpo è, sì, raccomandato, ma il corpo deve rimanere sottomesso allo spirito, come il servitore al suo maestro. Per controllare l’appetito dovrò “comandare alle mani di non fornire alla bocca cibi e bevande, se non nella giusta misura”. Per governare la sessualità “bisogna togliere o dare alla facoltà della riproduzione i soggetti, gli oggetti e gli alimenti che l’eccitano, secondo i dettami della ragione”. Al giovane che si accinge a “prendere il largo nel vasto mare” il vescovo raccomanda: “Vi auguro anche un cuore vigoroso che vi impedisca di vezzeggiare il vostro corpo con soverchie ricercatezze nel mangiare, nel dormire o in altre cose. Si sa, infatti, che un cuore generoso sente sempre un po’ di disprezzo per le delicatezze e le delizie corporali”.
            Affinché il corpo rimanga sottomesso alla legge dello spirito, conviene evitare gli eccessi: né maltrattarlo né vezzeggiarlo. In ogni cosa occorre misura. Il motivo della carità deve avere il primato in tutte le cose; ciò gli fa scrivere: “Se il lavoro che fate vi è necessario oppure è molto utile alla gloria di Dio, preferirei che sopportiate le pene del lavoro piuttosto che quelle del digiuno”. Di qui la conclusione: “In generale è meglio avere in corpo più forze di quante servano, piuttosto che rovinarle al di là del necessario; perché rovinarle si può sempre, appena si vuole, ma per recuperarle non sempre basta volerlo”.
            Ciò che è necessario evitare è questa “tenerezza che si prova per sé stessi”. Se la prende, con fine ironia ma in modo spietato, con un’imperfezione che non è soltanto “propria dei bambini, e, se posso osare di dirlo, delle donne”, ma anche di uomini poco coraggiosi, di cui ci dà questo interessante quadro caratteristico: “Altri sono quelli teneri verso sé stessi, e che non fanno altro che lamentarsi, coccolarsi, vezzeggiarsi e guardarsi”.
            Ad ogni modo, il vescovo di Ginevra si prendeva cura del suo corpo com’era suo dovere, obbediva al proprio medico e alle “infermiere”. Si occupava anche della salute altrui, consigliando misure appropriate. Scriverà, per esempio, alla madre di un giovane allievo del collegio d’Annecy: “È necessario far visitare Charles dai medici, affinché il suo gonfiore di ventre non si aggravi”.
            Al servizio della salute c’è l’igiene. Francesco di Sales desiderava che sia il cuore e sia il corpo fossero puliti. Raccomandava il decoro, molto differente da affermazioni come questa di sant’Ilario secondo il quale “non bisognava cercare la pulizia nei nostri corpi che non sono altro se non carogne pestilenziali e cariche soltanto di infezione”. Era piuttosto del parere di sant’Agostino e degli antichi che facevano il bagno “per tener puliti i loro corpi sia dalla sporcizia prodotta dalla calura e dal sudore, e sia per la salute, che è certamente oltremodo aiutata dalla pulizia”.
            Per poter lavorare e adempiere i doveri del proprio incarico, ognuno dovrebbe prendersi cura del proprio corpo per quanto riguarda l’alimentazione e il riposo: “Mangiare poco, lavorare molto e con molta agitazione e negare al corpo il riposo necessario, è come esigere molto da un cavallo che è sfiancato senza dargli il tempo per masticare un po’ di biada”. Il corpo ha bisogno di riposare, è cosa del tutto evidente. Le lunghe veglie serali sono “dannose alla testa e allo stomaco”, mentre, invece, alzarsi presto al mattino è “utile sia alla salute che alla santità”.

Educare i nostri sensi, specialmente gli occhi e le orecchie
            I nostri sensi sono doni meravigliosi del Creatore. Ci mettono in contatto con il mondo e ci aprono a tutte le realtà sensibili, alla natura, al cosmo. I sensi sono la porta dello spirito, al quale forniscono, per così dire, la materia prima; infatti, come dice la tradizione scolastica, “niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi”.
            Quando Francesco di Sales parla dei sensi, il suo interesse lo porta specialmente sul piano educativo e morale, e il suo insegnamento al riguardo si ricollega a quanto ha esposto sul corpo in generale: ammirazione e vigilanza. Da una parte dice che Dio ci dona “gli occhi per vedere le meraviglie delle sue opere, la lingua per lodarlo, e così per tutte le altre facoltà”, senza mai omettere, dall’altra, la raccomandazione a “porre delle sentinelle agli occhi, alla bocca, alle orecchie, alle mani e all’odorato”.
            È necessario incominciare dalla vista, perché “fra tutte le parti esterne del corpo umano non ce n’è una, per fattura come per attività, più nobile dell’occhio”. L’occhio è fatto per la luce: lo dimostra il fatto che più le cose sono belle, piacevoli alla vista e debitamente illuminate, più l’occhio le guarda con avidità e vivacità. “Dagli occhi e dalle parole si conosce qual è l’anima e lo spirito dell’uomo, poiché gli occhi servono all’anima come il quadrante all’orologio”. È risaputo che tra gli amanti, gli occhi parlano di più della lingua.
            Bisogna vigilare sugli occhi, perché attraverso di loro possono entrare la tentazione e il peccato, come avvenne ad Eva, che rimase incantata nel vedere la bellezza del frutto proibito, o a Davide, che fissò il suo sguardo sulla moglie di Uria. In certi casi bisogna procedere come si fa con l’uccello da preda: per farlo ritornare è necessario mostrargli il logoro; per quietarlo occorre coprirlo con un cappuccio; allo stesso modo, per evitare gli sguardi cattivi, “bisogna distogliere gli occhi, coprirli con il cappuccio naturale e chiuderli”.
            Ammesso che le immagini visive siano largamente dominanti nelle opere di Francesco di Sales, occorre riconoscere che le immagini uditive sono assai degne di nota. Ciò evidenzia l’importanza che attribuiva all’udito per ragioni tanto estetiche quanto morali. “Una sublime melodia ascoltata con molto raccoglimento” produce un tale magico effetto da “incantare le orecchie”. Ma attenzione a non superare le capacità uditive: una musica, per bella che sia, se è forte e troppo vicina, ci dà fastidio e offende l’orecchio.
            D’altra parte, occorre sapere che “il cuore e le orecchie discorrono fra loro”, perché è attraverso l’orecchio che il cuore “ascolta i pensieri degli altri”. È ancora attraverso l’orecchio che entrano nel più profondo dell’anima parole sospette, ingiuriose, menzognere o malevole, dalle quali è necessario guardarsi bene; perché le anime si avvelenano attraverso l’orecchio, come il corpo attraverso la bocca. La donna onesta si tapperà le orecchie per non udire la voce dell’incantatore che vuole conquistarla subdolamente. Restando nell’ambito simbolico, Francesco di Sales dichiara che l’orecchio destro è l’organo attraverso il quale ascoltiamo i messaggi spirituali, le buone ispirazioni e mozioni, mentre quello sinistro serve per udire discorsi mondani e vani. Per custodire il cuore, proteggiamo quindi con grande cura le orecchie.
            Il miglior servizio che possiamo chiedere alle orecchie è quello di poter udire la parola di Dio, oggetto della predicazione, la quale esige uditori attenti e tesi a farla penetrare nei loro cuori affinché porti frutto. Filotea è invitata a “farla stillare” a sua volta nell’orecchio ora dell’uno e ora dell’altro, e a pregare Dio nell’intimo della anima sua, perché gli piaccia far penetrare quella santa rugiada nel cuore di chi l’ascolta.

Gli altri sensi
            Anche in tema di odorato, si è rilevato l’abbondanza delle immagini olfattive. I profumi sono tanto diversi quanto lo sono le sostanze odorose, come il latte, il vino, il balsamo, l’olio, la mirra, l’incenso, il legno aromatico, il nardo, l’unguento, la rosa, la cipolla, il giglio, la violetta, la viola del pensiero, la mandragola, il cinnamomo… Stupisce ancor più costatare i risultati prodotti con la fabbricazione dell’acqua odorosa:

Il basilico, il rosmarino, la maggiorana, l’issopo, i chiodi di garofano, la cannella, la noce moscata, i limoni e il muschio, mescolati insieme e tritati, danno effettivamente un profumo molto gradevole per la miscela dei loro odori; ma non è nemmeno paragonabile a quello dell’acqua che ne viene distillata, nella quale gli aromi di tutti questi ingredienti, isolati dai loro corpi, si fondono più perfettamente, dando origine ad uno squisito profumo che penetra molto di più l’olfatto di quanto non avverrebbe se, assieme all’acqua, ci fossero le parti materiali.

            Numerose sono le immagini olfattive ricavate dal Cantico dei cantici, poema orientale dove i profumi occupano un posto rilevante e dove uno dei versetti biblici più commentati da Francesco di Sales è il grido accorato della sposa: “Attirami a te, noi cammineremo e correremo insieme nella scia dei tuoi profumi”. E quanto è raffinata questa annotazione: “Il soave profumo della rosa è reso più sottile dalla vicinanza dell’aglio piantato nei pressi dei roseti!”.
            Non confondiamo, però, il sacro balsamo con i profumi di questo mondo. Esiste infatti un olfatto spirituale, che dovrebbe essere nel nostro interesse coltivare. Esso ci consente di percepire la presenza spirituale del soggetto amato, e inoltre fa sì che non ci lasciamo distrarre dai cattivi odori del prossimo. Il modello è il padre che raccoglie a braccia aperte il figliol prodigo che ritorna da lui “seminudo, sporco, lurido e puzzolente di immondizie per la lunga consuetudine coi porci”. Un’altra immagine realista compare in riferimento a certe critiche mondane: non meravigliamoci, raccomanda Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, è necessario “che il poco unguento di cui disponiamo sembri puzzolente alle narici del mondo”.
            A proposito del gusto, certe osservazioni del vescovo di Ginevra potrebbero farci pensare che era un goloso nato, anzi un educatore del gusto: “Chi non sa che la dolcezza del miele si unisce sempre più al nostro senso del gusto con un progresso continuo di sapore, allorché, tenendolo lungamente in bocca, anziché inghiottirlo subito, il suo sapore penetra più a fondo il senso del nostro gusto?”. Ammessa la dolcezza del miele, occorre però apprezzare maggiormente il sale, per il fatto che è di uso più comune. In nome della sobrietà e della temperanza, Francesco di Sales raccomandava di saper rinunciare al gusto personale, mangiando ciò che ci “è messo davanti”.
            Infine, trattandosi del tatto, Francesco di Sales ne parla soprattutto in un senso spirituale e mistico. Così raccomanda di toccare Nostro Signore crocifisso: il capo, le sante mani, il prezioso corpo, il cuore. Al giovane che sta per prendere il largo nel vasto mare del mondo richiede di governarsi energicamente e di disprezzare le mollezze, le delizie corporali e le leziosaggini: “Vorrei che a volte voi trattaste duramente il vostro corpo per fargli provare qualche asprezza e durezza, disprezzando delicatezze e cose gradevoli ai sensi; perché è necessario che talvolta la ragione eserciti la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali”.

Il corpo e la vita spirituale
            Anche il corpo è chiamato a partecipare alla vita spirituale che si esprime in primo luogo nella preghiera: “È vero, l’essenza della preghiera è nell’anima, ma la voce, i gesti e gli altri segni esteriori, mediante i quali si rivela l’intimo dei cuori, sono nobili appannaggi e utilissime proprietà della preghiera; ne sono effetti e operazioni. L’anima non si accontenta di pregare se l’uomo nella sua interezza non prega; essa prega assieme agli occhi, alle mani, alle ginocchia”.
            Egli aggiunge che “l’anima prosternata davanti a Dio fa piegare facilmente su di sé l’intero corpo; alza gli occhi dove eleva il cuore, innalza le mani là, da dove aspetta un aiuto”. Francesco di Sales spiega anche che “pregare in spirito e verità è pregare volentieri e affettuosamente, senza finzione né ipocrisia, e impegnando del resto l’uomo intero, anima e corpo, affinché ciò che Dio ha unito non sia separato”. “Bisogna che tutto l’uomo preghi”, ripete alle visitandine. Ma la miglior preghiera è quella di Filotea, quando decide di consacrare a Dio non solamente l’anima, il suo spirito e il suo cuore, ma anche il suo “corpo con tutti i suoi sensi”; è così che l’amerà e servirà veramente con tutto il suo essere.




Vera Grita pellegrina di speranza

            Vera Grita, figlia di Amleto e di Maria Anna Zacco della Pirrera, nata a Roma il 28 gennaio 1923, era la secondogenita di quattro sorelle. Visse e studiò a Savona dove conseguì l’abilitazione magistrale. A 21 anni, durante una improvvisa incursione aerea sulla città (1944), venne travolta e calpestata dalla folla in fuga, riportando conseguenze gravi per il suo fisico che da allora rimase segnato per sempre dalla sofferenza. Passò inosservata nella sua breve vita terrena, insegnando nelle scuole dell’entroterra ligure (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), dove si guadagnò la stima e l’affetto di tutti per il suo carattere buono e mite.
            A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipava alla Messa ed era assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 fu suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizzò la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si donava a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopose tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodì nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagnarono lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.
            Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita rispose al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore fu resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore diede testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene.
            Morì il 22 dicembre 1969, a 46 anni, in una cameretta dell’ospedale a Pietra Ligure dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scrisse don Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”.

Una vita privata delle umane speranze
            Umanamente, la vita di Vera è segnata sin dall’infanzia dalla perdita di un orizzonte di speranza. La perdita dell’autonomia economica nel suo nucleo familiare, quindi il distacco dai genitori per recarsi Modica in Sicilia dalle zie e soprattutto la morte del padre nel 1943, mettono Vera davanti alle conseguenze di eventi umani particolarmente sofferti.
            Dopo il 4 luglio 1944, giorno del bombardamento su Savona e che segnerà tutta la vita di Vera, anche le sue condizioni di salute saranno compromesse per sempre. Perciò la Serva di Dio si ritrovò giovane ragazza senza alcuna prospettiva di futuro e dovette a più riprese rivedere i propri progetti e rinunciare a tanti desideri: dagli studi universitari all’insegnamento e, soprattutto, a una propria famiglia con il giovane che stava frequentando.
            Nonostante la fine repentina di tutte le sue umane speranze tra i 20 e i 21 anni, in Vera la speranza è molto presente: sia quale virtù umana che crede in un cambiamento possibile e si impegna a realizzarlo (pur molto malata, preparò e vinse il concorso per insegnare), sia soprattutto come virtù teologale – ancorata alla fede – che le infonde energia e diventa strumento di consolazione per gli altri.
            Quasi tutti i testimoni che la conobbero rilevano tale apparente contraddizione tra condizioni di salute compromesse e la capacità di non lamentarsi mai, attestando invece gioia, speranza e coraggio anche in circostanze umanamente disperate. Vera divenne “apportatrice di gioia”.
            Una nipote afferma: «Era sempre malata e sofferente, ma mai l’ho vista scoraggiata o arrabbiata per la sua condizione, aveva sempre una luce di speranza sostenuta dalla grande fede. […] Mia zia era spesso ricoverata in ospedale, sofferente e delicata, ma sempre serena e piena di speranza per il grande Amore che aveva per Gesù».
            Anche la sorella Liliana trasse dalle telefonate pomeridiane con lei incoraggiamento, serenità e speranza, benché la Serva di Dio fosse allora gravata da numerosi problemi di salute e da vincoli professionali: «mi infondeva – dice – fiducia e speranza facendomi riflettere che Dio è sempre vicino a noi e ci conduce. Le sue parole mi riportavano nelle braccia del Signore e ritrovavo la pace».
            Agnese Zannino Tibirosa, la cui testimonianza riveste particolare valore poiché frequentò Vera all’ospedale “Santa Corona” nel suo ultimo anno di vita, attesta: «nonostante le gravi sofferenze che la malattia le procurava, non l’ho mai sentita lamentarsi del suo stato. Dava sollievo e speranza a tutti quelli che avvicinava e quando parlava del suo futuro, lo faceva con entusiasmo e coraggio».
            Fino all’ultimo Vera Grita si mantenne così: anche nell’ultima parte del suo cammino terreno custodì uno sguardo al futuro, sperò che con le cure il tubercoloma potesse venire riassorbito, sperava di poter occupare la cattedra ai Piani di Invrea nell’anno scolastico 1969-1970 come pure di potersi dedicare, una volta uscita dall’ospedale, alla propria missione spirituale.

Educata alla speranza dal confessore e nel cammino spirituale
            In tal senso, la speranza attestata da Vera è radicata in Dio e in quella lettura sapienziale degli eventi che il suo padre spirituale don Gabriello Zucconi e, prima di lui, il confessore don Giovanni Bocchi le insegnarono. Proprio il ministero di don Bocchi – uomo di letizia e speranza – esercitò un ascendente positivo su Vera, che egli accolse nella sua condizione di malata e cui insegnò a dare valore alle sofferenze – non ricercate – da cui era gravata. Don Bocchi per primo fu maestro di speranza, di lui è stato detto: «con parole sempre cordiali e piene di speranza, ha spalancato i cuori alla magnanimità, al perdono, alla trasparenza nei rapporti interpersonali; ha vissuto le beatitudini con naturalità e fedeltà quotidiana». «Sperando ed avendo la certezza che come è avvenuto a Cristo avvenga anche a noi: la Risurrezione gloriosa», don Bocchi attuava attraverso il suo ministero un annuncio della speranza cristiana, fondata sull’onnipotenza di Dio e la risurrezione di Cristo. Più tardi, dall’Africa dove era partito missionario, dirà: «ero lì perché volevo portare e donare loro Gesù Vivo e presente nella Santissima Eucaristia con tutti i doni del Suo Cuore: la Pace, la Misericordia, la Gioia, l’Amore, la Luce, l’Unione, la Speranza, la Verità, la Vita eterna».
            Vera divenne apportatrice di speranza e di gioia anche in ambienti segnati dalla sofferenza fisica e morale, da limitazioni cognitive (come tra i suoi piccoli alunni ipodotati) o condizioni familiari e sociali non ottimali (come nel «clima arroventato» di Erli).
            L’amica Maria Mattalia ricorda: «Rivedo il dolce sorriso di Vera, talvolta stanco per tanto lottare e soffrire; rammentando la sua forza di volontà cerco di seguire il suo esempio di bontà, di grande fede, speranza e amore […]».
            Antonietta Fazio – già bidella alla scuola di Casanova – testimoniò di lei: «era molto benvoluta dai suoi alunni che amava tanto ed in particolare da coloro in difficoltà intellettiva […]. Molto religiosa, trasmetteva ad ognuno fede e speranza pur essendo lei medesima molto sofferente nel fisico ma non nel morale».
            In quei contesti, Vera lavorava per far rinascere le ragioni della speranza. Per esempio, in ospedale (dove il vitto è poco appagante) si privò di un grappolo speciale d’uva per farne trovare una parte sul comodino di tutte le malate della camerata, come pure ebbe sempre cura della propria persona sì da presentarsi bene, in ordine, con compostezza e raffinatezza, concorrendo anche in tal modo a contrastare l’ambiente di sofferenza di una clinica, e talvolta di perdita della speranza in tanti malati che rischiano di “lasciarsi andare”.
            Attraverso i Messaggi dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, il Signore la educò a una postura di attesa, pazienza e fiducia in lui. Innumerevoli sono infatti le esortazioni sull’attendere lo Sposo o lo Sposo che attende la sua sposa:

“Spera nel tuo Gesù sempre, sempre.

Venga Egli nelle nostre anime, venga nelle nostre case; venga con noi per condividere gioie e dolori, fatiche e speranze.

Lascia fare al mio Amore e aumenta la tua fede, la tua speranza.

Seguimi nel buio, nelle ombre perché conosci la «via».

Spera in Me, spera in Gesù!

Dopo il cammino della speranza e dell’attesa ci sarà la vittoria.

Per chiamarvi alle cose del Cielo”.

Apportatrice di speranza nel morire e nell’intercedere
            Anche nella malattia e in morte, Vera Grita testimoniò la speranza cristiana.
Sapeva che, quando la sua missione fosse compiuta, anche la vita in terra sarebbe terminata. «Questo è il tuo compito e quando sarà terminato tu saluterai la terra per i Cieli»: perciò non si sentiva “proprietaria” del tempo, ma cercava l’obbedienza alla volontà di Dio.
            Negli ultimi mesi, pur in una condizione ingravescente ed esposta a un peggioramento del quadro clinico, la Serva di Dio attestò serenità, pace, interiore percezione di un “compimento” della propria vita.
            Negli ultimi giorni, benché fosse naturalmente attaccata alla vita, don Giuseppe Formento la descrisse «già in pace con il Signore». In tal spirito poté ricevere la Comunione fino a pochi giorni prima di morire, e ricevere l’Estrema unzione il 18 dicembre.
            Quando la sorella Pina andò a trovarla poco prima della morte – Vera era stata circa tre giorni in coma – contravvenendo al proprio abituale riserbo le disse di avere visto in quei giorni molte cose, cose bellissime che purtroppo non le restava il tempo di raccontare. Aveva saputo delle preghiere di Padre Pio e del Papa Buono per lei, inoltre aggiunse – con riferimento alla Vita eterna – «Voi tutti verrete in paradiso con me, siatene certe».
            Liliana Grita testimoniò inoltre come, nell’ultimo periodo, Vera «sapesse più di Cielo che di terra». Della sua vita venne tratto il seguente bilancio: «lei così sofferente consolava gli altri, infondendo loro speranza e non esitava ad aiutarli».
            Molte grazie attribuite alla mediazione intercedente di Vera riguardano, infine, la speranza cristiana. Vera – anche durante la Pandemia da Covid 19 – ha aiutato tanti a ritrovare le ragioni della speranza ed è stata per essi tutela, sorella nello spirito, aiuto nel sacerdozio. Ha aiutato interiormente un sacerdote che in seguito ad Ictus si era dimenticato le preghiere, non riuscendo più a scandirle con proprio estremo dolore e disorientamento. Ha fatto sì che tanti tornassero a pregare, chiedendo la guarigione di un giovane papà colpito da emorragia.
            Anche suor Maria Ilaria Bossi, Maestra delle Novizie delle Benedettine del Santissimo Sacramento di Ghiffa, rileva come Vera – sorella nello spirito – sia un’anima che indirizza al Cielo e accompagna verso il Cielo: «La sento sorella nel cammino verso il cielo… Tanti […] che in lei si riconoscono, e a lei si riferiscono, nel cammino evangelico, nella corsa verso il cielo».
            In sintesi, si comprende come tutta la storia di Vera Grita sia stata sorretta non da speranze umane, dal mero guardare al “domani” auspicando fosse migliore del presente, bensì da una vera Speranza teologale: «era serena perché la fede e la speranza l’hanno sempre sostenuta. Cristo era al centro della sua vita, da Lui traeva la forza. […] era una persona serena perché aveva nel cuore la Speranza teologale, non la speranza spicciola […], ma quella che deriva solo da Dio, che è dono e ci prepara all’incontro con Lui».

            In una preghiera a Maria dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, si legge: «Sollevaci [Maria] dalla terra affinché da qui noi viviamo e siamo per il Cielo, per il Regno del figlio tuo».
            È bello anche ricordare che anche don Gabriello dovette pellegrinare nella speranza tra tante prove e difficoltà come scrive in una lettera a Vera del 4 marzo 1968 da Firenze: «Tuttavia dobbiamo sempre sperare. La presenza delle difficoltà non toglie che alla fine il bene, il buono, il bello trionferanno. Ritornerà la pace, l’ordine, la gioia. L’uomo figlio di Dio riavrà tutta la gloria che ebbe fin da principio. L’uomo sarà salvo in Gesù e ritroverà in Dio ogni bene. Ecco allora che ritornano in mente tutte le cose belle promesse da Gesù e l’anima in Lui ritrova la sua pace. Coraggio: ora siamo come in combattimento. Verrà il giorno della vittoria. Essa è certezza in Dio».
            Nella chiesa del Santa Corona a Pietra Ligure Vera Grita partecipava alla Messa e si recava a pregare durante i lunghi ricoveri. La sua testimonianza di fede nella presenza viva di Gesù Eucaristia e della Vergine Maria nella sua breve vita terrena è un segno di speranza e di conforto, per quanti in questo luogo di cura chiederanno il suo aiuto e la sua intercessione presso il Signore per essere sollevati e liberati dalla sofferenza.
            Il cammino di Vera Grita nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i ‘poveri’, i ‘fragili’, i ‘malati’ che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza.
            Scrive san Paolo, «che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi». Con «impazienza» noi aspettiamo di contemplare il volto di Dio poiché «nella speranza noi siamo stati salvati» (Rom 8, 18.24). Pertanto, è assolutamente necessario sperare contro ogni speranza, «Spes contra spem». Perché, come ha scritto Charles Péguy, la Speranza è una bambina «irriducibile». Rispetto alla Fede che «è una sposa fedele» e alla Carità che «è una Madre», la Speranza sembra, in prima battuta, che non valga nulla. E invece è esattamente il contrario: sarà proprio la Speranza, scrive Péguy, «che è venuta al mondo il giorno di Natale» e che «portando le altre, traverserà i mondi».
            «Scrivi, Vera di Gesù, io ti darò luce. L’albero fiorito in primavera ha dato i suoi frutti. Molti alberi dovranno rifiorire nella stagione opportuna perché i frutti siano copiosi… Ti chiedo di accettare con fede ogni prova, ogni dolore per Me. Vedrai i frutti, i primi frutti della nuova fioritura». (Santa Corona – 26 ottobre 1969 – Festa di Cristo Re – Penultimo messaggio).




L’educazione secondo san Francesco di Sales

L’educazione secondo san Francesco di Sales è un percorso d’amore e cura verso i giovani, basato su regole imprescindibili: dolcezza, comprensione e correzione equilibrata. Dalla famiglia alla società, san Francesco chiede ai responsabili di mostrare un affetto sincero, consapevoli che i giovani hanno bisogno di essere guidati con pazienza e ispirazione. L’educazione è un dono che aiuta a formare anime libere, capaci di pensare e agire con armonia. Come un maestro di montagna, il vescovo savoiardo ci ricorda che correggere vuol dire accompagnare, salvaguardando la spontaneità dei cuori in crescita, e puntando sempre alla trasformazione interiore. Nasce così un’educazione integrale.

Un dovere da compiere con amore
           
L’educazione è un fenomeno universale, basato sulle leggi della natura e della ragione. È il miglior regalo che i genitori possano fare ai loro figli, nei quali alimenterà la gratitudine e la pietà filiale. Parlando di coloro che sono responsabili degli altri, sia in famiglia che nella società, Francesco di Sales raccomanda loro di mostrarsi affettuosi: “Facciano dunque il loro dovere con amore”.
            I giovani hanno bisogno di una guida. Se è vero che “chi governa sé stesso è governato da un grande sciocco”, questo dovrebbe essere ancora più vero per coloro che ancora non hanno esperienza. Allo stesso modo, Celse-Bénigne, il figlio maggiore di Madame de Chantal, che era fonte di preoccupazione per la madre, aveva bisogno di una guida che lo aiutasse a “gustare la bontà della vera saggezza attraverso ammonizioni e raccomandazioni”.
            A un giovane che stava per “prendere il largo nel mondo”, suggerì di trovare “qualche spirito cortese” che potesse andare a trovare di tanto in tanto per “ricrearsi e riprendere fiato spirituale”. Dobbiamo fare come il giovane Tobia nella Bibbia: inviato dal padre in una terra lontana dove non conosceva la strada, ricevette questo consiglio: “Va’ dunque e cerca un uomo che ti guidi”.
            Specialista della montagna, il vescovo savoiardo amava ricordare che chi cammina su sentieri impervi e scivolosi ha bisogno di essere legato, legato l’uno all’altro per avanzare più sicuro. Ogni volta che poteva, offriva aiuto e consigli ai giovani in pericolo. A un giovane scolaro preso dal gioco d’azzardo e dal libertinaggio, scrisse “una lettera piena di buoni, gentili e amichevoli avvertimenti”, invitandolo a fare un uso migliore del suo tempo.
            Una buona guida deve sapersi adattare alle esigenze e alle possibilità di ogni individuo. Francesco di Sales ammirava le madri che sapevano dare a ciascuno dei loro figli ciò di cui avevano bisogno e adattarsi a ciascuno “secondo la portata del suo spirito”. È così che Dio accompagna le persone. Il suo insegnamento assomiglia a quello di un padre attento alle capacità di ciascuno: “Come un buon padre che tiene per mano il suo bambino”, scriveva a Jeanne de Chantal, “egli adatterà i suoi passi ai tuoi e si accontenterà di non andare più veloce di te”.

Elementi di psicologia giovanile
            Per avere qualche possibilità di successo, l’educatore deve sapere qualcosa sui giovani in generale e su ciascun giovane in particolare. Cosa significa essere giovani? Commentando la famosa visione della scala di Giacobbe, l’autore dell’Introduzione alla vita devota osserva che gli angeli che salivano e scendevano la scala avevano tutte le attrattive della giovinezza: erano pieni di vigore e di agilità; avevano le ali per volare e i piedi per camminare con i loro compagni; i loro volti erano belli e allegri; “le loro gambe, le loro braccia e le loro teste erano tutte scoperte” e “il resto del loro corpo era coperto, ma con una veste bella e leggera”.
            Ma non idealizziamo troppo questa età della vita. Per Francesco di Sales, la gioventù è per natura spericolata e audace; i giovani divorano tutte le difficoltà da lontano e fuggono le difficoltà da vicino. “Giovane e ardente” sono due aggettivi che vanno spesso a braccetto, soprattutto quando vengono usati per descrivere una mente “brulicante di concezioni e fortemente incline agli estremi”. E tra i rischi di questa età c’è “l’ardore di un sangue giovane che comincia a ribollire e di un coraggio che non ha ancora come guida la prudenza”.
            I giovani sono versatili, si muovono e cambiano facilmente. Come i giovani cani che amano i cambiamenti, i giovani sono volubili e incostanti, agitati da vari “desideri di novità e cambiamenti”, e sono suscettibili di provocare “grandi e sfortunati scandali”. È un’età in cui le passioni sono feroci e difficili da controllare. Come le farfalle, svolazzano intorno al fuoco con il rischio di bruciarsi le ali.
            Spesso mancano di saggezza ed esperienza, perché l’amor proprio acceca la ragione. Dobbiamo temere questi due atteggiamenti opposti in loro: la vanità, che è in realtà una mancanza di coraggio, e l’ambizione, che è un eccesso di coraggio che li porta a cercare gloria e onore in modo irragionevole.
            Che meraviglia, invece, quando gioventù e virtù si incontrano! Francesco di Sales ammira una giovane donna che aveva tutto per piacere nella primavera della sua vita e che amava e stimava “le sante virtù”. Egli elogia tutti coloro che, durante la loro giovinezza, hanno mantenuto la loro anima “sempre pura in mezzo a tante infezioni”.
            Soprattutto i giovani sono sensibili all’affetto che ricevono. “Non è possibile esprimere quanto siamo amici”, scriveva a un padre a proposito del suo rapporto con il figlio indisciplinato, persino insopportabile, a scuola. Come si vede, Francesco di Sales era felice di proclamarsi amico dei giovani. Scriveva parimenti alla madre di una bambina di cui era padrino: “La cara piccola figlioccia, come penso, ha un segreto sentore che le voglio bene, tanto forte è l’affetto che mi dimostra”.
            Infine, “questa è l’età giusta per ricevere impressioni”, il che è un’ottima cosa perché significa che i giovani possono essere educati e sono capaci di grandi cose. Il futuro è dei giovani, come abbiamo visto nell’abbazia di Montmartre, dove sono stati proprio le giovani, con la loro badessa ancora più giovane, a realizzare la “riforma”.

Il senso delle finalità nell’educazione
            Se da un lato il realismo impone agli educatori di conoscere le persone a cui si rivolgono, dall’altro non devono mai perdere di vista il senso dello scopo della loro azione. Non c’è niente di meglio di una chiara consapevolezza degli obiettivi che ci prefiggiamo, perché “ogni agente agisce per il fine e secondo il fine”.
            Che cos’è dunque l’educazione e qual è il suo scopo? L’educazione, dice Francesco di Sales, è “una moltitudine di sollecitazioni, di aiuti, di prestazioni e di altri servizi necessari al bambino, esercitati e continuati nei suoi confronti fino all’età in cui non ne ha più bisogno”. Due cose colpiscono in questa definizione: da un lato, l’insistenza sulla moltitudine di attenzioni che l’educazione richiede, dall’altro, la sua fine, che coincide con il momento in cui il soggetto ha raggiunto l’autonomia. I bambini vengono educati per raggiungere la libertà e il pieno controllo della propria vita.
            In concreto, l’ideale educativo di Francesco di Sales sembra ruotare attorno alla nozione di armonia, ovvero all’integrazione armonica di tutte le varie componenti che esistono nell’essere umano: “azioni, movimenti, sentimenti, inclinazioni, abitudini, passioni, facoltà e poteri”. L’armonia implica unità, ma anche distinzione. L’unione richiede un unico comandamento, ma l’unico comandamento deve non solo rispettare le differenze, ma promuovere le distinzioni nella ricerca dell’armonia. Nella persona umana, il governo appartiene alla volontà, alla quale fanno riferimento tutte le altre componenti, ciascuna al suo posto e in interdipendenza tra loro.
            Francesco di Sales utilizza due paragoni per illustrare il suo ideale. Non sono privi di analogia con le due pulsioni umane fondamentali messe in luce dalla psicoanalisi: l’aggressività e il piacere. Un esercito è bello, spiega, quando è composto da parti distinte disposte in modo tale da formare insieme un unico esercito. La musica è bella quando le voci sono unite nella distinzione e quando sono distinte pur unendosi.

Partire dal cuore
            “Chi ha conquistato il cuore dell’uomo ha conquistato tutto l’uomo”, scrive l’autore dell’Introduzione alla vita devota. Questa regola generale dovrebbe essere applicabile al campo dell’educazione. L’espressione “conquistare il cuore” può essere interpretata in due modi. Può significare che l’educatore deve puntare al cuore, cioè al centro interiore della persona, prima di preoccuparsi del suo comportamento esteriore. D’altra parte, significa conquistare una persona attraverso l’affetto.
            L’uomo si costruisce dall’interno: questa sembra essere una delle grandi lezioni di Francesco di Sales, formatore e riformatore di persone e comunità. Egli era ben consapevole che il suo metodo non era condiviso da tutti, poiché scriveva: “Non ho mai potuto approvare il metodo di coloro che, per riformare l’uomo, cominciano dall’esterno, dal portamento, dai vestiti, dai capelli”. Bisogna quindi partire dall’interno, cioè dal cuore, sede della volontà e fonte di tutte le nostre azioni.
            Il secondo punto è cercare di conquistare l’affetto degli altri, in modo da stabilire con loro un buon rapporto educativo. In una lettera a una badessa per consigliarle la riforma del suo monastero, composto in gran parte da giovani, troviamo indicazioni preziose su come il vescovo savoiardo concepiva il suo metodo di educazione, di formazione e, più precisamente in questo caso, di “riforma”. Soprattutto, non dobbiamo allarmarli dando loro l’impressione di volerli riformare. L’obiettivo è che si riformino da soli. Dopo questi preliminari, bisogna usare tre o quattro “trucchi”. Non c’è da stupirsi, visto che l’educazione è anche un’arte, anzi l’arte delle arti. Il primo è chiedere loro di fare spesso le cose, ma con molta facilità e senza dare l’impressione di farle. In secondo luogo, bisogna parlare spesso e in termini generali di ciò che deve essere cambiato, come se si stesse pensando a qualcun altro. In terzo luogo, bisogna cercare di rendere l’obbedienza amabile, senza dimenticare ancora una volta di mostrarne i benefici e i vantaggi. Secondo Francesco di Sales, la dolcezza dovrebbe essere preferita perché è generalmente più efficace. Infine, i responsabili devono dimostrare di non agire per capriccio, ma in virtù della loro responsabilità e in vista del bene di tutti.

Comandare, consigliare, ispirare
            Sembra che gli interventi proposti da Francesco di Sales in campo educativo siano modellati sui tre modi che Dio usa con gli uomini per indicare loro la sua volontà: comandamenti, consigli e ispirazioni.
            È ovvio che i genitori e gli insegnanti hanno il diritto e il dovere di comandare i loro figli o alunni per il loro bene, e che essi devono obbedire. Lui stesso, nella sua responsabilità di vescovo, non esitava a farlo quando era necessario. Tuttavia, secondo Camus, aborriva gli spiriti assoluti che volevano essere obbediti a piacimento e che tutto doveva cedere al loro dominio. Diceva che “coloro che amano essere temuti, temono di essere amati”. In alcuni casi, l’obbedienza può essere costretta. Riferendosi al figlio di uno dei suoi amici, scrisse al padre: “Se persevererà, saremo soddisfatti; se non lo farà, dovremo usare uno di questi due rimedi: o ritirarlo in una scuola un po’ più chiusa di questa, o dargli un maestro privato che sia un uomo e al quale renda obbedienza”. Si può escludere del tutto l’uso della forza?
            Di solito, però, Francesco di Sales ricorreva a consigli, avvisi e raccomandazioni. L’autore dell’Introduzione alla vita devota si presenta come un consigliere, un assistente, qualcuno che dà “consigli”. Anche se spesso usa l’imperativo, è un consiglio che sta dando, soprattutto perché spesso è accompagnato da un condizionale: “Se puoi farlo, fallo”. A volte la raccomandazione è mascherata da una dichiarazione di valore: è bene farlo, è meglio fare così, ecc.
            Ma quando può e la sua autorità non è in discussione, preferisce agire per ispirazione, suggerimento o insinuazione. Questo è il metodo salesiano per eccellenza, che rispetta la libertà umana. Gli sembrava particolarmente adatto per scegliere uno stato di vita. È questo il metodo che consigliava a Madame de Chantal per la vocazione che voleva per i suoi figli, “ispirando loro con garbo pensieri in sintonia con questa”.
            Ma l’ispirazione non si comunica solo con le parole. I cieli non parlano, dice la Bibbia, ma proclamano la gloria di Dio con la loro testimonianza silenziosa. Allo stesso modo, “il buon esempio è una predicazione silenziosa”, come quella di san Francesco il quale, senza dire una sola parola, attirava un gran numero di giovani con il suo esempio. Infatti, l’esempio porta all’imitazione. I piccoli usignoli imparano a cantare con i grandi, ricordava, e “l’esempio di coloro che amiamo ha un’influenza e un’autorità dolce e impercettibile su di noi”, al punto che siamo obbligati a lasciarli o a imitarli.

Come correggere?
            Lo spirito di correzione consiste nel “resistere al male e reprimere i vizi di coloro che ci sono affidati, costantemente e valorosamente, ma con dolcezza e tranquillità”. Tuttavia, i difetti devono essere corretti senza indugio, finché sono piccoli, “perché se aspetti che crescano, non potrai curarli facilmente”.
            La severità è talvolta necessaria. I due giovani religiosi che stavano dando scandalo dovevano essere rimessi sulla retta via se si voleva evitare un gran numero di conseguenze deplorevoli. Sebbene la loro giovane età possa essere stata una scusa, “la continuazione del loro comportamento li rende ormai imperdonabili”. Ci sono persino casi in cui è necessario “tenere i malvagi in qualche timore per la resistenza che vedranno opporre”. Il Vescovo di Ginevra cita una lettera di san Bernardo ai frati di Roma che avevano bisogno di correzione, in cui “parla loro come si deve e con un sapone abbastanza caldo”. Facciamo come il chirurgo, perché “è un’amicizia debole o cattiva vedere il proprio amico perire e non aiutarlo, vederlo morire di apostasia e non osare dargli il filo del rasoio della correzione per salvarlo”.
            Tuttavia, la correzione deve essere amministrata senza passione, perché “un giudice castiga i malvagi molto meglio quando emette le sue sentenze con ragione e in uno spirito di tranquillità, che quando le emette con impeto e passione, soprattutto perché, giudicando con passione, non castiga le colpe secondo quello che sono, ma secondo quello che è lui stesso”. Allo stesso modo, “le ammonizioni dolci e cordiali di un padre hanno molto più potere di correggere un figlio che la sua collera e la sua ira”. Ecco perché è importante guardarsi dalla rabbia. La prima volta che provi rabbia, disse a Filotea, “devi raccogliere rapidamente le tue forze, non all’improvviso o con impeto, ma con dolcezza e serietà”. In una lettera a una suora che si era lamentata di “una ragazzina scontrosa e dispersiva” affidata alle sue cure, il vescovo dava questo consiglio: “Non correggerla, se puoi, con rabbia”. Non facciamo come il re Erode o come quegli uomini che dicono di regnare quando sono temuti, quando invece regnare vuol dire “essere amati”.
            Ci sono molti modi per correggere. Uno dei migliori non è tanto quello di riprendere ciò che è negativo, ma di incoraggiare tutto ciò che è positivo in una persona. Questo si chiama “correggere per ispirazione”, perché “è meraviglioso come la dolcezza e l’amabilità di qualcosa di buono sia un modo potente di attirare i cuori”.
            Il suo discepolo, Jean-Pierre Camus, raccontò la storia di una madre che maledisse il figlio che l’aveva insultata. Si pensava che il vescovo dovesse fare lo stesso, ma lui rispose: “Cosa vuoi che faccia? Temevo di versare in un quarto d’ora il piccolo liquore di gentilezza che ho cercato di raccogliere per ventidue anni”. È stato ancora Camus che riferisce questo detto “indimenticabile” del suo maestro: “Ricordatevi che si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto”.
            La gentilezza è preferibile con gli altri, ma anche con noi stessi. Ognuno dovrebbe essere pronto a riconoscere i propri errori con calma e a correggersi senza arrabbiarsi. Ecco un buon consiglio per una “povera ragazza” che è arrabbiata con sé stessa: “Dille che, per quanto possa lamentarsi, non sarà mai sorpresa o arrabbiata con sé stessa”.

Educazione progressiva
            San Francesco di Sales, che aveva il senso del reale e del possibile, oltre alla moderazione e al tatto necessari, era convinto che i grandi progetti si ottengono solo con la pazienza e il tempo. La perfezione non è mai il punto di partenza e probabilmente non sarà mai raggiunta, ma è sempre possibile progredire. La crescita ha le sue leggi che devono essere rispettate: le api erano prima larve, poi ninfe e infine api “formate, fatte e perfette”.
            Fare le cose in modo ordinato, una dopo l’altra, senza clamore, anche con una certa lentezza, ma senza mai fermarsi, questo sembra essere l’ideale del Vescovo di Ginevra. Andiamo avanti, diceva, e “per quanto lentamente avanziamo, faremo molta strada”. Allo stesso modo, raccomandava a una badessa che aveva il gravoso compito di riformare il suo monastero: “Devi avere un cuore grande e duraturo”. La legge della progressione è universale e si applica in ogni campo.
            Per illustrare il suo pensiero, il santo della dolcezza usava innumerevoli paragoni e immagini per inculcare il senso del tempo e la necessità di perseverare. Alcune persone sono portate a volare prima di avere le ali, o a voler essere angeli all’improvviso, quando non sono solo bravi uomini e donne. Quando i bambini sono piccoli, diamo loro il latte, e quando crescono e iniziano ad avere i denti, diamo loro pane e burro.
            Un punto importante è non avere paura di ripetere sempre la stessa cosa. Bisogna imitare i pittori e gli scultori che creano le loro opere ripetendo i colpi di pennello e di scalpello. L’educazione è un lungo viaggio. Lungo il percorso bisogna depurarsi da molti “umori” negativi, e questa depurazione è lenta. Ma non dobbiamo perderci d’animo. La lentezza non significa rassegnazione o attesa disinvolta. Al contrario, dobbiamo imparare a sfruttare al meglio ogni cosa, non perdendo tempo e sapendo utilizzare “i nostri anni, i nostri mesi, le nostre settimane, i nostri giorni, le nostre ore, persino i nostri momenti”.
            La pazienza, spesso insegnata dal Vescovo di Ginevra, è una pazienza attiva che ci permette di andare avanti, anche se a piccoli passi. “A poco a poco e piede a piede, dobbiamo acquisire questo dominio”, scriveva a un’impaziente Filotea. Impariamo “prima a camminare a piccoli passi, poi ad affrettarci, poi a camminare a metà strada, infine a correre”. La crescita verso l’età adulta inizia lentamente e si accelera sempre di più, così come la formazione e l’educazione. Infine, la pazienza è alimentata dalla speranza: “Non c’è terreno così ingrato che l’amore dell’operaio non lo fecondi”.

Educazione integrale
            Da quanto detto finora, è già abbastanza chiaro che per Francesco di Sales l’educazione non poteva essere confusa con una sola dimensione della persona, come l’istruzione, o le buone maniere, o addirittura un’educazione religiosa priva di fondamenti umani. Naturalmente, non si può negare l’importanza di ciascuno di questi ambiti particolari. Per quanto riguarda l’educazione e la formazione della mente, basta ricordare il tempo e gli sforzi che lui stesso dedicò durante la sua giovinezza all’acquisizione di un’alta cultura intellettuale e “professionale”, così come la cura che dedicò all’educazione nella sua diocesi.
            Tuttavia, la sua preoccupazione principale era la formazione integrale della persona umana, intesa in tutte le sue dimensioni e dinamiche. Per dimostrarlo, ci concentreremo su ciascuna delle dimensioni costitutive della persona umana nella sua totalità simbolica: il corpo con tutti i suoi sensi, l’anima con tutte le sue passioni, la mente con tutte le sue facoltà e il cuore, sede della volontà, dell’amore e della libertà.