Il Venerabile mons. Stefano Ferrando

Mons. Stefano Ferrando è stato un esempio straordinario di dedizione missionaria e servizio episcopale, coniugando il carisma salesiano con una vocazione profonda al servizio dei più poveri. Nato nel 1895 in Piemonte, entrò giovane nella Congregazione salesiana e, dopo aver prestato servizio militare durante la Prima guerra mondiale, che gli valse la medaglia d’argento al valore, si dedicò all’apostolato in India. Vescovo di Krishnagar e poi di Shillong per oltre trent’anni, camminò instancabilmente fra le popolazioni, promuovendo l’evangelizzazione con umiltà e profondo amore pastorale. Fondò istituzioni, sostenne i catechisti laici e incarnò nel suo vivere il motto “Apostolo di Cristo”. La sua vita fu un esempio di fede, abbandono a Dio e totale donazione, lasciando un’eredità spirituale che continua ad ispirare la missione salesiana nel mondo.

            Il venerabile Mons. Stefano Ferrando seppe coniugare la propria vocazione salesiana con il carisma missionario e il ministero episcopale. Nato il 28 settembre 1895 a Rossiglione (Genova, diocesi di Acqui) da Agostino e Giuseppina Salvi, si contraddistinse per un ardente amore a Dio e una tenera devozione alla beata Vergine Maria. Nel 1904 entrò nelle scuole salesiane, prima a Fossano e poi a Torino – Valdocco, dove conobbe i successori di Don Bosco e la prima generazione di Salesiani, e intraprese gli studi sacerdotali; nel frattempo nutrì il desiderio di partire missionario. Il 13 settembre 1912, a Foglizzo fece la sua prima professione religiosa nella Congregazione salesiana. Chiamato alle armi nel 1915, partecipò alla Prima guerra mondiale. Per il coraggio dimostrato gli venne conferita la medaglia d’argento al valore. Tornato a casa nel 1918, il 26 dicembre 1920 emise i voti perpetui.
            Fu ordinato sacerdote a Borgo San Martino (Alessandria) il 18 marzo 1923. Il 2 dicembre dello stesso anno, con nove compagni, s’imbarcò a Venezia come missionario in India. Il 18 dicembre, dopo 16 giorni di viaggio, il gruppo arrivò a Bombay e il 23 dicembre a Shillong, luogo del suo nuovo apostolato. Maestro dei novizi, educò i giovani salesiani all’amore per Gesù e Maria ed ebbe un grande spirito di apostolato.
            Il 9 agosto 1934 papa Pio XI lo nominò vescovo di Krishnagar. Il suo motto fu “Apostolo di Cristo”. Nel 1935, il 26 novembre, venne trasferito a Shillong dove rimarrà vescovo per 34 anni. Pur operando in una gravosa situazione di impatto culturale, religioso e sociale, Mons. Ferrando si prodigò instancabilmente per stare accanto al popolo che gli era stato affidato, lavorando con zelo nella vasta diocesi che comprendeva l’intera regione dell’India del Nord Est. Preferì alla macchina, di cui avrebbe potuto disporre, muoversi a piedi: questo gli permetteva infatti di incontrare le persone, fermarsi a parlare con loro, essere reso partecipe della loro vita. Tale contatto in diretta con la vita delle persone fu una delle principali ragioni della fecondità del suo annuncio evangelico: umiltà, semplicità, amore per i poveri spingono molti a convertirsi e a richiedere il Battesimo. Istituì un seminario per la formazione dei giovani salesiani indiani, costruì un ospedale, edificò un santuario dedicato a Maria Ausiliatrice e fondò la prima Congregazione di suore autoctone, la Congregazione delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani (1942).

            Uomo dal carattere forte, non si scoraggiò di fronte alle innumerevoli difficoltà, che affrontò con il sorriso e la mitezza. La perseveranza di fronte agli ostacoli fu una delle sue caratteristiche principali. Cercò di unire il messaggio evangelico alla cultura locale nella quale esso andava inserito. Fu intrepido nelle visite pastorali, che compì nei luoghi più sperduti della diocesi, pur di ricuperare l’ultima pecorella smarrita. Manifestò una particolare sensibilità e promozione per i catechisti laici, che considerava complementari alla missione del vescovo e da cui dipese buona parte della fecondità dell’annuncio del Vangelo e della sua penetrazione nel territorio. Immensa anche la sua attenzione alla pastorale familiare. Nonostante i numerosi impegni, il venerabile fu un uomo dalla ricca vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal raccoglimento. Come Pastore fu apprezzato dalle sue suore, dai sacerdoti, dai confratelli salesiani e nell’episcopato, nonché dal popolo che lo sentì profondamente vicino. Si donò in maniera creativa al suo gregge, occupandosi dei poveri, difendendo gli intoccabili, curando i malati di colera.
            I punti-cardine della sua spiritualità furono il legame filiale con la Vergine Maria, lo zelo missionario, il continuo riferimento a Don Bosco, come emerge dai suoi scritti e in tutta la sua attività missionaria. Il momento più luminoso ed eroico della sua vita virtuosa fu l’abbandono della diocesi di Shillong. Mons. Ferrando dovette presentare al Santo Padre le dimissioni quando era ancora nel pieno delle proprie facoltà fisiche e intellettive, per consentire la nomina del suo successore, che andava scelto, secondo le superiori indicazioni, fra i sacerdoti indigeni da lui stesso formati. Fu un momento particolarmente doloroso, vissuto dal grande vescovo con umiltà e obbedienza. Egli comprese che era tempo di ritirarsi in preghiera secondo la volontà del Signore.
            Tornato a Genova nel 1969, continuò la sua attività pastorale, presiedendo le cerimonie per il conferimento della Cresima e dedicandosi al sacramento della Penitenza.
            Fu sino all’ultimo fedele alla vita religiosa salesiana, decidendo di vivere in comunità e rinunciando ai privilegi che la sua posizione di vescovo poteva riservargli. Egli in Italia continuò ad essere «a missionary». Non «a missionary who moves, but […] a missionary who is»: non un missionario che si muove, ma un missionario che è. La sua vita in questa ultima stagione diventò un “irradiare”. Egli diventa un “missionario della preghiera” che dice: «Sono contento di essere venuto via perché altri subentrassero a compiere opere così meravigliose».
            Da Genova Quarto, continuò ad animare la missione dell’Assam, sensibilizzando le coscienze ed inviando aiuti economici. Visse quest’ora di purificazione con spirito di fede, di abbandono alla volontà di Dio e di obbedienza, toccando con mano tutto il senso dell’espressione evangelica «siamo solo servi inutili», e confermando con la sua vita il caetera tolle, l’aspetto oblativo-sacrificale della vocazione salesiana. Morì il 20 giugno 1978 e venne sepolto a Rossiglione, sua terra natale. Nel 1987 le sue spoglie mortali furono riportate in India.

            Nella docilità allo Spirito svolse una feconda azione pastorale, che si manifestò nel grande amore per i poveri, nell’umiltà di spirito e nella carità fraterna, nella gioia e nell’ottimismo dello spirito salesiano.
            Mons. Ferrando ha inaugurato, insieme a tanti missionari che con lui hanno condiviso l’avventura dello Spirito nella terra dell’India, tra i quali i Servi di Dio Francesco Convertini, Costantino Vendrame e Oreste Marengo, un nuovo metodo missionario: essere missionario itinerante. Tale esempio è un provvidenziale monito, soprattutto per le congregazioni religiose tentate da un processo di istituzionalizzazione e di chiusura, a non perdere la passione di andare incontro alle persone e alle situazioni di maggior povertà e indigenza materiale e spirituale, andando là dove nessuno vuole andare e affidandosi come lei fece. «Guardo con fiducia all’avvenire fidando in Maria Ausiliatrice… Mi affiderò all’Ausiliatrice che mi salvò già da tanti pericoli».




Il cardinale Augusto Hlond

            Secondo di 11 figli, suo padre era un operaio delle ferrovie. Ricevuta dai genitori una fede semplice ma forte, a 12 anni, attratto dalla fama di Don Bosco, seguì in Italia il fratello Ignazio per consacrarsi al Signore nella Società Salesiana, e vi attirò presto altri due fratelli: Antonio, che diventerà salesiano e rinomato musicista, e Clemente, che sarà missionario. Lo accolse il collegio di Valsalice per gli studi ginnasiali. Ammesso quindi al noviziato, ricevette l’abito talare dal beato Michele Rua (1896). Fatta la professione religiosa nel 1897, i superiori lo destinarono a Roma all’Università Gregoriana per il corso di filosofia che coronò con la laurea. Da Roma tornò in Polonia a esercitare il tirocinio pratico nel collegio di Oświęcim. La sua fedeltà al sistema educativo di Don Bosco, il suo impegno nell’assistenza e nella scuola, la sua dedizione ai giovani e l’amabilità del suo tratto gli acquistarono grande ascendente. Si affermò subito anche per il talento musicale.
            Compiuti gli studi di teologia, ricevette il 23 settembre 1905 l’ordinazione sacerdotale, conferitagli in Cracovia da Mons. Nowak. Negli anni 1905-09 frequentò la facoltà di lettere presso le università di Cracovia e di Leopoli. Nel 1907 fu preposto alla direzione della nuova casa di Przemyśl (1907-09), da dove passò alla direzione della casa di Vienna (1909-19). Qui il suo valore e la sua abilità personale ebbero un campo ancor più vasto per le particolari difficoltà in cui si trovava l’istituto nella capitale imperiale. Don Augusto Hlond, con la sua virtù e col suo tatto, riuscì in breve non solo a sistemare la situazione economica, ma anche a suscitare una fioritura di opere giovanili da attirare l’ammirazione di ogni ceto di persone. La cura dei poveri, degli operai, dei figli del popolo gli attirava l’affetto delle classi più umili. Carissimo ai vescovi e ai nunzi apostolici, godeva la stima delle autorità e della stessa famiglia imperiale. Come riconoscimento di tale opera sociale ed educativa ricevette per tre volte alcune delle onorificenze più prestigiose.
            Nel 1919 lo sviluppo dell’Ispettoria Austro-Ungarica consigliò una divisione proporzionata al numero delle case, e i superiori nominarono don Hlond ispettore dell’Ispettoria tedesco-ungarica, con sede a Vienna (191922), affidandogli la cura dei confratelli austriaci, tedeschi e ungheresi. In nemmeno tre anni, il giovane ispettore aprì una decina di nuove presenze salesiane, e le formò al più genuino spirito salesiano, suscitando numerose vocazioni.
            Era nel pieno fervore della sua attività salesiana, quando, nel 1922, dovendo la Santa Sede provvedere alla sistemazione religiosa della Slesia Polacca, ancor sanguinante per le lotte politiche e nazionali, il Santo Padre Pio XI affidò a lui la delicatissima missione, nominandolo Amministratore Apostolico. Dalla sua mediazione tra tedeschi e polacchi nacque nel 1925 la diocesi di Katowice, di cui diventò vescovo. Nel 1926 è arcivescovo di Gniezno e Poznań e primate di Polonia. L’anno successivo il Papa lo crea cardinale. Nel 1932 fonda la Società di Cristo per gli emigrati polacchi, volta ad assistere i tanti compatrioti che hanno lasciato il Paese.
            Nel marzo del 1939 partecipa al Conclave che elegge Pio XII. Il primo settembre dello stesso anno i nazisti invadono la Polonia: inizia la Seconda guerra mondiale. Il cardinale alza la voce contro le violazioni dei diritti umani e della libertà religiosa compiute da Hitler. Costretto all’esilio si rifugia in Francia, presso l’Abbazia di Hautecombe, denunciando le persecuzioni contro gli Ebrei in Polonia. La Gestapo penetra nell’Abbazia e lo arresta, deportandolo a Parigi. Il porporato si rifiuta categoricamente di appoggiare la formazione di un governo polacco filonazista. Viene internato prima in Lorena e poi in Westfalia. Liberato dalle truppe alleate, nel 1945 torna in Patria.
            Nella nuova Polonia liberata dal nazismo, trova il comunismo. Con coraggio difende i Polacchi dall’oppressione atea marxista, scampando anche ad alcuni attentati. Muore il 22 ottobre 1948 a causa di una polmonite, all’età di 67 anni. Ai funerali accorrono migliaia di persone.
            Il cardinale Hlond fu un uomo virtuoso, un luminoso esempio di religioso salesiano e un pastore generoso, austero, capace di visioni profetiche. Obbediente alla Chiesa e fermo nell’esercizio dell’autorità, dimostrò umiltà eroica e inequivocabile costanza nei momenti di maggiore prova. Coltivò la povertà e praticò la giustizia verso i poveri e i bisognosi. Le due colonne della sua vita spirituale, alla scuola di san Giovanni Bosco, furono l’Eucaristia e Maria Ausiliatrice.
            Nella storia della Chiesa di Polonia, il cardinale Augusto Hlond è stato una delle figure più eminenti per la testimonianza religiosa della sua vita, per la grandezza, la varietà e l’originalità del suo ministero pastorale, per le sofferenze che affrontò con intrepido animo cristiano per il Regno di Dio. L’ardore apostolico distinse l’opera pastorale e la fisionomia spirituale del venerabile Augusto Hlond, che assumendo come motto episcopale Da mihi animas coetera tolle, da vero figlio di san Giovanni Bosco lo confermò con la sua vita di consacrato e di vescovo, dando testimonianza di instancabile carità pastorale.
            Va ricordato il suo grande amore alla Madonna, appreso nella sua famiglia e nella grande devozione del popolo polacco alla Madre di Dio, venerata nel santuario di Częstochowa. Inoltre da Torino, dove iniziò il suo cammino come salesiano, diffuse in Polonia il culto a Maria Ausiliatrice e consacrò la Polonia al Cuore Immacolato di Maria. L’affidamento a Maria lo sostenne sempre nelle avversità e nell’ora dell’incontro estremo con il Signore. Morì con la corona del Rosario fra le mani dicendo ai presenti che la vittoria, quando sarebbe venuta, sarebbe stata la vittoria di Maria Immacolata.
            Il venerabile cardinale Augusto Hlond è testimone singolare di come dobbiamo accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, difficoltà, anche persecuzioni: questo è santità. «Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché “chi vuol salvare la propria vita, la perderà” (Mt 16,25). Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi… La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione» (Francesco, Gaudete et Exsultate, nn. 90-92).




L’educazione della coscienza con san Francesco di Sales

            Con ogni probabilità è stato l’avvento della Riforma protestante a porre all’ordine del giorno il problema della coscienza, e, più precisamente, della «libertà di coscienza». In una lettera del 1597 a Clemente VIII, il prevosto di Sales deplorava la «tirannia» che lo «stato di Ginevra» faceva pesare «sulle coscienze dei cattolici». Domandava alla santa Sede di intervenire presso il re di Francia per ottenere che i Ginevrini concedessero «ciò che chiamano libertà di coscienza». Contrario a soluzioni militari della crisi protestante, faceva intravedere nella libertas conscientiae una possibile via d’uscita dal confronto violento, a condizione che la reciprocità fosse rispettata. Rivendicata da Ginevra a favore della Riforma, e da Francesco di Sales a beneficio del cattolicesimo, la libertà di coscienza stava per divenire uno dei pilastri della mentalità moderna.

Dignità della persona umana
            La dignità dell’individuo risiede nella coscienza, e la coscienza è in primo luogo sinonimo di sincerità, onestà, franchezza, convinzione. Il prevosto di Sales riconosceva ad esempio, «per scaricare la sua coscienza», che il progetto delle Controversie gli era stato in qualche modo imposto da altri Quando presentava le sue ragioni a favore della dottrina e della pratica cattolica, si preoccupava di precisare che lo faceva «in coscienza». «Ditemi in coscienza», domandava ai suoi contradditori. La «buona coscienza», infatti, fa sì che uno eviti certi atti che lo mettono in contraddizione con sé stesso.
            Tuttavia, la coscienza soggettiva individuale non può essere presa sempre come garante della verità oggettiva. Non si è sempre obbligati a credere ciò che uno vi dice in coscienza. «Mostratemi chiaramente – dice il prevosto ai signori di Thonon – che non mentite affatto, che proprio non mi ingannate, quando mi dite che in coscienza avete avuto questa o quell’ispirazione». La coscienza può essere vittima dell’illusione, in forma volontaria o anche involontariamente. «Gli avari incalliti, non soltanto non confessano di esserlo, ma non pensano in coscienza di esserlo».
            La formazione della coscienza è un compito essenziale, perché la libertà di coscienza comporta il rischio di «far il bene e il male», ma «scegliere il male non è usare, bensì abusare della nostra libertà». È un compito duro, perché la coscienza talvolta ci appare come un avversario che «combatte sempre contro noi e per noi»: essa «oppone costante resistenza alle nostre cattive inclinazioni», ma lo fa «per la nostra salvezza». Quando uno pecca, «il rimorso interiore si muove contro la sua coscienza con la spada in pugno», ma lo fa per «trafiggerla con un santo timore».
            Un mezzo per esercitare una libertà responsabile è la pratica dell’«esame di coscienza». Fare l’esame di coscienza è come seguire l’esempio delle colombe che si guardano «con occhi limpidi e puri», «si puliscono con cura e si ornano meglio che possono». Filotea è invitata a fare questo esame tutte le sere, prima di andare a coricarsi, chiedendosi «come ci si è comportati nelle varie ore della giornata; per farlo più facilmente si penserà a dove, con chi e a quali occupazioni ci si è dedicati».
            Una volta all’anno dovremo fare un esame approfondito dello «stato della nostra anima» davanti a Dio, al prossimo e a noi stessi, senza dimenticare un «esame degli affetti della nostra anima». L’esame – dice Francesco di Sales alle visitandine – vi condurrà a sondare «a fondo la vostra coscienza».
            Come alleggerire la coscienza quando uno la sente carica di un errore o di uno fallo? Certuni lo fanno in malo modo, giudicando e accusando gli altri «di vizi di cui sono succubi», pensando così di «addolcire i rimorsi della loro coscienza». In tal modo uno moltiplica il rischio di fare giudizi temerari. Al contrario, «coloro che si prendono correttamente cura della loro coscienza non sono affatto soggetti a giudizi temerari». Conviene considerare a parte il caso dei genitori, degli educatori e dei responsabili del bene pubblico, perché «una buona parte della loro coscienza consiste nel vegliare attentamente sulla coscienza degli altri».

Il rispetto di sé stessi
            Dall’affermazione della dignità e della responsabilità di ognuno dovrà nascere il rispetto di sé. Già Socrate e tutta l’antichità pagana e cristiana ne avevano mostrato il cammino:

È un detto dei filosofi, che però è stato ritenuto valido dai dottori cristiani: «Conosci te stesso», ossia, conosci l’eccellenza della tua anima per non avvilirla e disprezzarla.

            Certi nostri atti costituiscono non solo un’offesa di Dio, ma anche un’offesa della dignità della persona umana e della ragione. Le loro conseguenze sono deplorevoli:

La rassomiglianza e immagine di Dio, che portiamo in noi, viene imbrattata e sfigurata, la dignità del nostro spirito disonorata, e noi siamo resi simili agli animali senza ragione […], rendendoci schiavi delle nostre passioni e rovesciando l’ordine della ragione.

            Ci sono estasi e rapimenti che ci innalzano al di sopra della nostra condizione naturale e altri che ci abbassano: «O uomini, fino a quando sarete così insensati – scrive l’autore del Teotimo – dal voler calpestare la vostra dignità naturale, discendendo volontariamente e precipitandovi nella condizione delle bestie?».
            Il rispetto di sé stessi consentirà di evitare due pericoli opposti: l’orgoglio e il disprezzo dei doni che uno ha. In un secolo in cui il senso dell’onore era esaltato al massimo, Francesco di Sales ha dovuto intervenire per denunciare misfatti, in particolare nel problema del duello, che gli faceva «rizzare i capelli in testa», e più ancora l’orgoglio insensato che ne era la causa. «Sono scandalizzato» – scriveva alla sposa di un marito duellante – ; «in verità, non riesco a pensare come si possa avere un coraggio tanto sregolato persino per bagattelle e cose da nulla». Battendosi in duello è come se «diventassero l’uno carnefice dell’altro».
            Altri, al contrario, non osano riconoscere i doni ricevuti e peccano così contro il dovere della riconoscenza. Francesco di Sales denuncia «certa falsa e sciocca umiltà che impedisce di scoprire il buono che c’è in loro». Hanno torto, perché «i beni che Dio ha posto in noi vanno riconosciuti, stimati e onorati sinceramente».
            Il primo prossimo che devo rispettare e amare, sembra voler dire il vescovo di Ginevra, è il proprio io. Il vero amore verso me stesso e il rispetto dovutogli esigono che tenda alla perfezione e che mi corregga, se necessario, ma dolcemente, ragionevolmente e «seguendo la strada della compassione» piuttosto che quella dell’ira e del furore.
            Esiste infatti un amore di sé stessi non soltanto legittimo, ma anche benefico e comandato: «La carità ben ordinata incomincia da sé stessi» – dice il proverbio – e rispecchia bene il pensiero di Francesco di Sales, ma a condizione di non confondere l’amore di sé con l’amor proprio. L’amore di sé è buono, e Filotea è invitata a interrogarsi sul modo con cui ama sé stessa:

Tenete un buon ordine nell’amore di voi stessa? Perché soltanto il disordinato amore di noi stessi può mandarci in rovina. Ora, l’amore ordinato vuole che amiamo l’anima più del corpo, che cerchiamo di procurarci le virtù più di ogni altra cosa.

            Al contrario, l’amor proprio è un amore egoista, «narcisista», gonfio di sé stesso, geloso della propria bellezza e unicamente preoccupato del proprio interesse: «Narciso – dicono i profani – era un giovane cosi sdegnoso da non voler offrire il proprio amore a nessun altro; e infine, contemplandosi in una limpida fontana fu totalmente rapito dalla sua bellezza».

Il «rispetto dovuto alle persone»
            Se si rispetta sé stessi si sarà più preparati e disposti a rispettare gli altri. Il fatto di essere «l’immagine e la somiglianza di Dio» ha come corollario l’asserto secondo cui «tutti gli esseri umani godono della stessa dignità». Francesco di Sales, pur vivendo in una società segnata dall’antico regime, fortemente disuguale, ha promosso un pensiero e una prassi caratterizzate dal «rispetto dovuto alle persone».
            Bisogna iniziare dai bambini. La madre di san Bernardo – dice l’autore della Filotea – amava i suoi figli appena nati «con rispetto come una cosa sacra che Dio le aveva affidato». Un rimprovero molto grave rivolto dal vescovo di Ginevra ai pagani riguardava il loro disprezzo della vita di esseri indifesi. Il rispetto del bimbo che sta per nascere emerge in questo passo di una lettera, redatta secondo la retorica barocca dell’epoca, indirizzata da Francesco di Sales a una donna incinta. La incoraggia spiegandole che il bimbo che si sta formando nelle sue viscere non è soltanto «un’immagine vivente della divina Maestà», ma anche l’immagine di sua madre. Raccomanda a un’altra donna:

Offrite sovente alla gloria eterna del vostro Creatore la creaturina alla cui formazione vi ha voluto assumere come sua cooperatrice.

            Un altro risvolto del rispetto dovuto agli altri riguarda il tema della libertà. La scoperta di nuove terre aveva avuto, come conseguenza nefasta, il riemergere della schiavitù, che richiamava le pratiche degli antichi romani al tempo del paganesimo. La vendita di esseri umani li degradava al rango delle bestie:

Un giorno, Marcantonio comprò da un mercante due giovanetti; allora, come avviene ancora oggi in qualche contrada, si vendevano i bambini; c’erano degli uomini che se li procuravano e poi li trafficavano come si fa per i cavalli nei nostri paesi.

            Il rispetto degli altri è continuamente minacciato in forma più sottile dalla maldicenza e dalla calunnia. Francesco di Sales insiste parecchio sui «peccati di lingua». Un capitolo della Filotea che tratta esplicitamente di tale argomento è intitolato L’onestà nelle parole e rispetto che si deve alle persone. Rovinare la reputazione di qualcuno è commettere un «omicidio spirituale»; è sottrarre «la vita civile» a colui di cui si parla male. Così pure, «biasimando il vizio», ci si sforzerà di risparmiare il più possibile «la persona implicata in esso».
            Certe categorie di persone sono facilmente denigrate o disprezzate. Francesco di Sales difende la dignità della gente del popolo fondandosi sul Vangelo: «San Pietro – commenta – era un uomo rude, grossolano, un vecchio pescatore, un mestierante di bassa condizione; san Giovanni, al contrario, era un gentiluomo, dolce, amabile, saggio; san Pietro, invece, ignorante». Orbene, è stato san Pietro ad essere scelto per guidare gli altri e per essere il «superiore universale».
            Proclama la dignità dei malati, dicendo che «le anime che sono in croce sono dichiarate regine». Denunciando la «crudeltà verso i poveri» ed esaltando la «dignità dei poveri», giustifica e precisa l’atteggiamento che si deve tenere verso di loro, spiegando «come dobbiamo onorarli e quindi visitarli come rappresentanti di Nostro Signore». Nessuno è inutile, nessuno è insignificante: «Non vi è al mondo oggetto che non possa essere utile per qualche cosa; ma bisogna saperne trovare l’uso e il luogo».

L’«uno-diverso» salesiano
            Il problema che da sempre ha tormentato le società umane è quello di conciliare tra loro la dignità e la libertà di ogni individuo con quelle degli altri. Ricevette da Francesco di Sales un chiarimento originale grazie all’invenzione di una nuova parola. Infatti, ammesso che l’universo è formato da «tutte le cose create, visibili e invisibili» e che «la loro diversità viene ricondotta a unità», il vescovo Ginevra propose di chiamarlo «uno-diverso», ossia «unico e diverso, unico con diversità e diverso con unità».
            Per lui, ogni essere è unico. Le persone sono come le perle di cui parla Plinio: «sono talmente uniche, ciascuna nella sua qualità, che non se ne trovano mai due perfettamente uguali». È significativo che le sue due opere principali, l’Introduzione alla vita devota e il Trattato dell’amore di Dio siano indirizzate a una persona singola, Filotea e Teotimo. Quale varietà e diversità tra gli esseri! «Senza dubbio, come vediamo che non si trovano mai due uomini perfettamente uguali quanto ai doni della natura, così non se ne trovano mai di perfettamente uguali quanto ai doni soprannaturali». La varietà lo incantava anche da un punto di vista puramente estetico, ma temeva una curiosità indiscreta sulle sue cause:

Se qualcuno si ponesse la domanda perché Dio abbia fatto i cocomeri più grossi delle fragole, o i gigli più grandi delle violette; perché il rosmarino non sia una rosa o perché il garofano non sia una calendola; perché il pavone sia più bello di un pipistrello, o perché il fico sia dolce e il limone aspro, si riderebbe delle sue domande e gli si direbbe: pover’uomo, siccome la bellezza del mondo richiede varietà, è necessario che nelle cose ci siano perfezioni diverse e differenziate e che l’una non sia l’altra; ecco perché le une sono piccole, le altre grandi, le une aspre, le altre dolci, le une più belle, le altre meno. […] Tutte hanno il loro pregio, la loro grazia, il loro splendore, e tutte, viste nell’insieme delle loro varietà, costituiscono un meraviglioso spettacolo di bellezza.

            La diversità non ostacola l’unità, tutt’altro la rende ancor più ricca e bella. Ogni fiore ha le sue caratteristiche, che lo distinguono da tutti gli altri: «Non è proprio delle rose essere bianche, mi sembra, perché quelle vermiglie sono più belle e hanno un profumo migliore, il quale però è proprio del giglio». Certo, Francesco di Sales non sopporta la confusione e il disordine, ma è ugualmente nemico dell’uniformità. La diversità degli esseri può condurre alla dispersione e alla rottura della comunione, ma se c’è l’amore, «vincolo della perfezione», niente è perduto, al contrario, la diversità è esaltata dall’unione.
            In Francesco di Sales c’è sicuramente una reale cultura dell’individuo, ma questa non è mai una chiusura al gruppo, alla comunità o alla società. Egli vede spontaneamente l’individuo inserito in un contesto o «stato» di vita, che segna marcatamente l’identità e l’appartenenza di ciascuno. Non sarà possibile fissare un programma o un progetto uguale per tutti, per il semplice fatto che sarà applicato e attuato in maniera diversa «per il gentiluomo, per l’artigiano, per il valletto, per il principe, per la vedova, per la giovane, per la sposata»; bisogna inoltre adattarlo «alle forze e ai doveri di ognuno in particolare. Il vescovo di Ginevra vede la società ripartita in spazi vitali caratterizzati dall’appartenenza sociale e solidarietà di gruppo, come quando tratta «della compagnia di soldati, della bottega degli artigiani, della corte dei principi, della famiglia di gente sposata».
            L’amore personalizza e, quindi, individualizza. L’affetto che lega una persona a un’altra è unico, come dimostra Francesco di Sales nel suo rapporto con la signora di Chantal: «Ogni affetto ha una sua peculiarità che lo differenzia dagli altri; quello che provo per voi possiede una certa particolarità che mi consola infinitamente, e, per dire tutto, per me è oltremodo fruttuoso». Il sole illumina tutti e ciascuno: «rischiarando un angolo della terra, non lo rischiara meno di quel che farebbe se non risplendesse altrove, ma solamente in quell’angolo».

L’essere umano è in divenire
            Umanista cristiano, Francesco di Sales crede infine alla possibilità che la persona umana ha di perfezionarsi. Erasmo aveva forgiato la formula: Homines non nascuntur sed finguntur. Mentre l’animale è un essere predeterminato, guidato dall’istinto, l’uomo, al contrario, è in perpetua evoluzione. Non solo cambia, ma può cambiare sé stesso, tanto in meglio che in peggio.
            Ciò che preoccupava interamente l’autore del Teotimo era perfezionare sé stesso e aiutare gli altri a perfezionarsi, e non soltanto in ambito religioso, bensì in ogni cosa. Dalla nascita alla tomba, l’uomo è in una situazione di apprendista. Imitiamo il coccodrillo che «non cessa mai di crescere fin tanto che vive». Infatti, «rimanere in uno stesso stato a lungo non è possibile: chi non avanza, indietreggia in questo traffico; chi non sale, scende in questa scala; chi non vince è vinto in questo combattimento». Egli cita san Bernardo che diceva: «È scritto in modo particolare per l’uomo, che non si troverà mai nello stesso stato: bisogna che avanzi o indietreggi». Andiamo avanti:

Non sai che sei in cammino e che il camino non è fatto per sedersi, ma per andare avanti? Ed è talmente fatto per avanzare, che muoversi in avanti si chiama camminare.

            Ciò significa anche che la persona umana è educabile, capace di apprendere, di correggersi e di migliorarsi. E ciò è vero a tutti i livelli. L’età a volte non c’entra per nulla. Guardate questi fanciulli cantori della cattedrale, che superano di gran lunga le capacità del loro vescovo in questo loro ambito: «Ammiro questi bambini – diceva – che a mala pena sanno parlare e che cantano già la loro parte; comprendono tutti i segni e le regole musicali, mentre io non saprei proprio come cavarmela, io che sono un uomo fatto e che si vorrebbe far passare per un grande personaggio». Nessuno in questo mondo è perfetto:

Ci sono persone di loro natura leggere, altre sgarbate, altre ancora ben restie ad ascoltare le opinioni altrui, e altre infine portate all’indignazione, altre alla collera e altre all’amore; per farla breve, troviamo ben poche persone in cui non sia possibile scoprire l’una o l’altra di simili imperfezioni.

            Si deve allora disperare di poter migliorare il proprio temperamento, correggendo qualcuna delle nostre naturali inclinazioni? Niente affatto.

Per quanto, infatti, siano in ciascuno di noi come proprie e naturali, se con l’applicazione a un attaccamento contrario si possono correggere e regolare, e perfino uno può liberarsene e purificarsi, allora, vi dico Filotea, che bisogna farlo. Si è pur trovato il modo di far diventare dolci i mandorli amari: basta forarli al piede e farne uscire il succo; perché mai non potremmo allora far uscire le nostre inclinazioni perverse, per diventare così migliori?

            Di qui la conclusione ottimista ma esigente: «Non c’è natura buona che non si possa far diventare malvagia, tramite abitudini viziose; non c’è natura tanto perversa che non si possa, anzitutto con la grazia di Dio e poi con l’impegno industrioso e la diligenza, domare e vincere». Se l’uomo è educabile, bisogna non disperare di nessuno e guardarsi bene dai pregiudizi nei confronti delle persone:

Non dite: quel tale è un ubriacone, anche se l’avete visto ubriaco; è un adultero, per averlo visto peccare; è un incestuoso, per averlo colto in quella disgrazia; perché un solo atto non basta per dare il nome alla cosa. […] E anche quando un uomo fosse stato a lungo vizioso, si correrebbe lo stesso il rischio di mentire chiamandolo vizioso.

            La persona umana non ha mai terminato di coltivare il suo giardino. È la lezione che il fondatore delle visitandine inculcava loro, quando le chiamava «a coltivare la terra e il giardino» dei loro cuori e dei loro spiriti, perché non esiste «uomo tanto perfetto da non aver bisogno di impegnarsi sia per crescere nella perfezione e sia per conservarla».




L’educazione al femminile con san Francesco di Sales

Il pensiero educativo di san Francesco di Sales rivela una visione profonda e innovativa del ruolo femminile nella Chiesa e nella società del suo tempo. Convinto che la formazione delle donne fosse fondamentale per la crescita morale e spirituale dell’intera comunità, il santo vescovo di Ginevra promosse un’educazione equilibrata, rispettosa della dignità femminile ma anche attenta alle fragilità. Con uno sguardo paterno e realista, seppe cogliere e valorizzare le qualità delle donne, incoraggiandole a coltivare virtù, cultura e devozione. Fondatore della Visitazione con Giovanna di Chantal, difese con vigore la vocazione femminile anche contro critiche e pregiudizi. Il suo insegnamento continua a offrire spunti attuali sull’educazione, l’amore e la libertà nella scelta della propria vita.

            In occasione del suo viaggio a Parigi nel 1619, Francesco di Sales incontrò Adrien Bourdoise, un prete riformatore del clero, che gli rimproverò di occuparsi troppo delle donne. Il vescovo gli avrebbe risposto con calma che le donne erano la metà del genere umano e che, formando buone cristiane, si avrebbero avuti giovani buoni, e con giovani buoni, buoni preti. D’altronde, san Girolamo non ha consacrato loro parecchio tempo e vari scritti? La lettura delle sue lettere è raccomandata da Francesco di Sales alla signora di Chantal, la quale vi troverà, tra l’altro, numerose indicazioni «per educare le sue figlie». Se ne dedurrà che il ruolo delle donne in ambito educativo giustificava, ai suoi occhi, il tempo e la sollecitudine ad esse dedicati.

Francesco di Sales e le donne del suo tempo
            “Bisogna aiutare il sesso femminile, disprezzato”, aveva detto un giorno il vescovo di Ginevra a Jean-François de Blonay. Per comprendere le preoccupazioni e il pensiero di Francesco di Sales conviene situarlo nella sua epoca. Occorre dire che un certo numero di sue affermazioni sembrano ancora molto legate alla mentalità corrente. Nella donna del suo tempo deplorava «questa femminile tenerezza con sé stesse», la facilità «nel compatirsi e nel desiderare di essere compatite», una maggiore propensione rispetto agli uomini «a dar credito ai sogni, ad aver paura degli spiriti e ad essere credulone e superstiziose», e soprattutto, gli «attorcigliamenti dei loro vanitosi pensieri». Tra i consigli dati alla signora di Chantal attinenti all’educazione delle figlie, scriveva senza esitazione: “Togliete loro la vanità dall’anima: nasce quasi assieme al sesso”.
            Tuttavia, le donne sono dotate di grandi qualità. Scriveva a proposito della signora di La Fléchère che aveva appena perso il marito: “Se avessi soltanto questa perfetta pecorella nel mio ovile, non mi sarei angustiato d’essere pastore di questa afflitta diocesi. Dopo la signora di Chantal, non so se ho mai incontrato un’anima più forte in un corpo femminile, uno spirito più ragionevole e un’umiltà più sincera”. Le donne non sono affatto le ultime nella pratica delle virtù: “Non abbiamo forse visto molti grandi teologi che hanno detto cose meravigliose sulle virtù, non però per praticarle, mentre, al contrario, ci sono tante sante donne che non sanno parlare di virtù, ma che tuttavia conoscono molto bene come praticarle?”.
            Sono le donne sposate quelle più degne di ammirazione: «Oh mio Dio! Come sono gradite a Dio le virtù di una donna sposata; infatti devono essere forti ed eccellenti per poter durare in tale vocazione!». Nella lotta per conservare la castità, riteneva che «le donne sovente hanno combattuto in maniera più coraggiosa rispetto agli uomini».
            Fondatore di una congregazione di donne assieme a Giovanna di Chantal, fu in costante relazione con le prime religiose. Accanto a lodi, incominciarono a piovere le critiche. Spinto in queste trincee, il fondatore dovette difendersi e difenderle, non soltanto in quanto religiose, ma anche in quanto donne. In un documento che doveva servire come prefazione delle Costituzioni delle visitandine, troviamo la vena polemica di cui sapeva dar prova, dirigendosi non più contro «eresiarchi», ma contro «censori» malevoli e ignoranti:

La presunzione e inopportuna arroganza di parecchi figli di questo secolo, che biasimano ostentatamente tutto ciò che non è secondo il loro spirito […], mi offre l’occasione, meglio mi costringe a stendere questa Prefazione, mie carissime Suore, per armare e difendere la vostra santa vocazione contro le punte dello loro lingue pestifere; affinché le anime buone e pie, che senza dubbio sono legate al vostro  amabile e onorato Istituto, trovino qui come respingere le frecce scagliate dalla temerità di questi bizzarri e insolenti censori.

            Prevedendo forse che un tale preambolo rischiava di danneggiare la causa, il fondatore della Visitazione scrisse una seconda edizione addolcita, allo scopo di mettere in luce la fondamentale uguaglianza dei sessi. Dopo aver citato la Genesi, questa volta ne faceva il seguente commento: “La donna, dunque, non meno dell’uomo, ha la grazia di essere stata fatta a immagine di Dio; pari onore nell’uno e nell’altro sesso; le loro virtù sono uguali”.

L’educazione delle figlie
            Il nemico del vero amore è la “vanità”. Questo era il difetto che Francesco di Sales, come peraltro i moralisti e i pedagoghi del suo tempo, temeva di più nell’educazione delle giovani. Ne rileva parecchie manifestazioni. Guardate «queste signorine di mondo, che essendosi ben sistemate, vanno in giro gonfie d’orgoglio e di vanità, con la testa alta, gli occhi aperti, ansiose d’essere notate dai mondani».
            Il vescovo di Ginevra si diverte un poco nel prendere in giro queste «ragazze di società», che «portano cappelli sparsi e incipriati», con la testa «ferrata come si ferrano gli zoccoli dei cavalli», tutte «impennacchiate e infiorate quanto non è possibile dire» e «cariche di fronzoli». Ci sono di quelle che «indossano vesti che stringono e danno loro molto fastidio, e questo per far vedere che sono snelle»; ecco una vera “pazzia che per lo più le rende incapaci di fare alcunché”.
            Che pensare allora di certune bellezze artificiali trasformate in «boutiques di vanità?». Francesco di Sales preferisce una «faccia limpida e pulita», desidera «che non ci sia nulla di affettato, perché tutto ciò che è imbellettato dispiace». Occorre allora condannare ogni «artificio»? Ammette volentieri che «nel caso di qualche difetto di natura, bisogna correggerlo in modo da vederne la correzione, ma spoglia d’ogni artificio».
            E il profumo? si chiedeva il predicatore parlando della Maddalena. «È una cosa eccellente – risponde –; anche colui che è profumato ne percepisce qualcosa di eccellente»; aggiungendo, da buon conoscitore, che «il muschio della Spagna gode di grande stima nel mondo». Nel capitolo sulla «decenza degli abiti», permette che le giovani abbiano vestiti con ornamenti vari, «perché possono liberamente desiderare di essere gradevoli a molti, ma con l’unico scopo di guadagnarsi un giovane in vista di un santo matrimonio». Chiudeva con questa indulgente osservazione: «Che volete? È pur conveniente che le signorine siano un po’ carine».
            È opportuno aggiungere che la lettura della Bibbia l’aveva preparato a non fare il muso duro davanti alla bellezza femminile. Nell’amante del Cantico dei cantici, ammirava «la notevole bellezza del suo viso simile a un bouquet di fiori». Descrive Giacobbe che, incontrando Rachele presso il pozzo, «versava lacrime di gioia scorgendo una vergine che gli piaceva e l’incantava per la grazia del volto». Amava anche raccontare la storia di santa Brigida, nata in Scozia, un paese dove si ammirano «le più belle creature che uno possa vedere»; era «una giovane oltremodo avvenente», ma la sua bellezza era «naturale», precisa il nostro autore.
            L’ideale della bellezza salesiana si chiama «buona grazia», che designa non soltanto «la perfetta armonia delle parti che fa essere bello», ma anche la «grazia dei movimenti, dei gesti e delle azioni, che è come l’anima della vita e della bellezza», ossia la bontà di cuore. La grazia esige «semplicità e modestia». Ora, la grazia è una perfezione che deriva dall’intimo della persona. È la bellezza unita alla grazia che fa di Rebecca l’ideale femminile della Bibbia: ella era «così bella e graziosa presso il pozzo dove attingeva l’acqua per abbeverare il gregge», e la sua «familiare bontà» le ispirava, inoltre, di dar da bere non soltanto ai servi di Abramo, ma anche ai suoi cammelli.

Istruzione e preparazione alla vita
            Ai tempi di san Francesco di Sales, le donne avevano poche possibilità di accedere a studi superiori. Le ragazze imparavano ciò che udivano da parte dei loro fratelli e, quando la famiglia ne aveva la possibilità, frequentavano un monastero. La lettura era certamente più frequente della scrittura. I collegi erano riservati ai ragazzi, di conseguenza, imparare il latino, lingua della cultura, era praticamente interdetto alle ragazze.
            Bisogna credere che Francesco di Sales non era contrario al fatto che le donne potessero diventare persone colte, ma a condizione che non cadessero nella pedanteria e nella vanità. Ammirava santa Caterina che era «molto erudita, ma umile in tanta scienza». Tra le interlocutrici del vescovo di Ginevra, la signora di La Fléchère aveva studiato latino, italiano, spagnolo e le belle arti, ma era un’eccezione.
            Per trovare loro un posto nella vita, sia in ambito sociale che in quello religioso, a un certo momento le giovani avevano spesso bisogno di un aiuto particolare. Georges Rolland riferisce che il vescovo si occupò personalmente di parecchi casi difficili. Una donna di Ginevra, con tre figlie, fu assistita generosamente dal vescovo, «con denaro e crediti»; «collocò una di dette figlie come apprendista presso un’onesta signora della città, pagandole la pensione per sei anni, in grano e in denaro». Donò pure 500 fiorini per il matrimonio della figlia di uno stampatore di Ginevra.
            L’intolleranza religiosa del tempo talvolta provocava dei drammi, ai quali Francesco di Sales cercava di porre rimedio. Marie-Judith Gilbert, educata a Parigi dai genitori negli «errori di Calvino», scoprì a diciannove anni il libro della Filotea, che osava leggere soltanto in segreto. Ne prese in simpatia l’autore, di cui aveva sentito parlare. Sorvegliata strettamente dal padre e dalla madre, riuscì a farsi prelevare in carrozza, si fece istruire nella religione cattolica ed entrò tra le suore della Visitazione.
            Il ruolo sociale delle donne rimaneva ancora piuttosto limitato. Francesco di Sales non del tutto contrario all’intervento delle donne nella vita pubblica. Scriveva in questi termini, ad esempio, a una donna portata a intervenire in ambito pubblico, a proposito e a sproposito:

Il vostro sesso e la vostra vocazione vi consentono di reprimere il male esterno a voi, ma solo se ciò è ispirato dal bene e compiuto con rimostranze semplici, umili e caritatevoli nei confronti dei trasgressori e avvertendone i superiori nei limiti del possibile.

            D’altra parte, è significativo che una contemporanea di Francesco di Sales, la signorina di Gournay, una prima femminista ante litteram, una intellettuale e autrice di testi polemici come il suo trattato L’uguaglianza degli uomini e delle donne e La lagnanza delle donne, gli abbia manifestato grande ammirazione. Costei si accanì durante tutta la sua vita a dimostrare questa uguaglianza, raccogliendo tutte le testimonianze possibili in merito, senza dimenticare quella del «buono e santo vescovo di Ginevra».

Educazione all’amore
            Francesco di Sales ha parlato molto dell’amore di Dio, ma è stato anche assai attento alle manifestazioni dell’amore umano. Per lui, infatti, l’amore è uno, anche se il suo «oggetto» è diverso e disuguale. Per spiegare l’amore di Dio non ha saputo fare meglio se non partendo dall’amore umano.
            L’amore nasce dalla contemplazione del bello, e il bello si lascia percepire dai sensi, soprattutto dagli occhi. Si stabilisce un fenomeno interattivo tra lo sguardo e la bellezza: «Il contemplare la bellezza ce la fa amare, e l’amore ce la fa contemplare». L’odorato reagisce allo stesso modo; infatti, «i profumi esercitano l’unico loro potere di attrazione con la loro soavità».
            Dopo l’intervento dei sensi esterni subentra quello dei sensi interni, la fantasia, l’immaginazione, che esaltano e trasfigurano il reale: «In forza di questo reciproco movimento dell’amore verso la vista e della vista verso l’amore, allo stesso modo che l’amore rende più splendente la bellezza della cosa amata, così la vista della cosa amata rende l’amore più innamorato e piacevole”. Si comprende allora perché «coloro che hanno dipinto Cupido ne hanno bendato gli occhi, affermando che l’amore è ceco». A questo punto sopraggiunge l’amore-passione: esso fa «ricercare il dialogo, e il dialogo spesso nutre ed accresce l’amore»; inoltre «desidera il segreto, e quando gli innamorati non hanno nessun segreto da dirsi, si compiacciono talvolta a dirselo segretamente»; e infine induce a «proferire delle parole che, certo, sarebbero ridicole se non sgorgassero da un cuore appassionato».
            Ora, questo amore-passione che forse si riduce soltanto ad «amorucci», a «galanterie», è esposto a varie peripezie, a tal punto da indurre l’autore della Filotea a intervenire con una serie di considerazioni e di avvertimenti a proposito di «amicizie frivole che si allacciano fra persone di diverso sesso e senza intenzione di matrimonio». Spesso non sono altro che «aborti o, meglio, parvenze di amicizia».
            Francesco di Sales si è espresso anche in tema di baci, chiedendosi per esempio con gli antichi commentatori, come mai Rachele aveva permesso a Giacobbe di abbracciarla. Egli spiega che ci sono due specie di bacio: cattivo l’uno, buono l’altro. I baci che si scambiano facilmente fra loro i giovani e che all’inizio non sono cattivi, lo possono diventare in seguito a causa della fragilità umana. Ma il bacio però può essere anche buono. In determinati luoghi è voluto dal costume. «Il nostro Giacobbe abbraccia molto innocentemente la sua Rachele; Rachele accetta questo bacio di cortesia da parte di quest’uomo dal carattere buono e dal viso pulito». «Oh! – concludeva Francesco di Sales – datemi persone che abbiano l’innocenza di Giacobbe e di Rachele e permetterò loro di baciarsi».
            Nella questione della danza e del ballo, anch’essa all’ordine del giorno, il vescovo di Ginevra evitava i comandi assoluti, come facevano i rigoristi del tempo, tanto cattolici che protestanti, mostrandosi comunque molto prudente. Gli si è perfino rinfacciato aspramente di aver scritto che «le danze e i balli di per sé sono cose indifferenti». Come per certi giochi, anch’essi diventano pericolosi quando vi ci si affeziona talmente da non potersene più distaccare: il ballo «bisogna farlo per ricreazione e non per passione; per poco tempo e non fino a stancarsi e a stordirsi». Ciò che è più pericoloso sta nel fatto che questi passatempi diventano spesso occasioni che provocano «dispute, invidie, beffe, amorazzi».

La scelta della forma di vita
            Quando la figlioletta è diventata grande, arriva «il giorno in cui bisognerà parlarle, intendo riferirmi a una parola decisiva, quella in cui si dice alle giovani di volerle maritare». Uomo del suo tempo, Francesco di Sales condivideva in larga misura l’idea che attribuiva ai genitori un rilevante compito nel determinare la vocazione dei figli, sia al matrimonio che alla vita religiosa. «D’ordinario non si sceglie il proprio principe o il proprio vescovo, il proprio padre o la propria madre, e neppure spesse volte il proprio marito», costatava l’autore della Filotea. Tuttavia, afferma chiaramente che «le figlie non possono essere date in sposa, fintantoché esse dicono di no».
            La prassi corrente è spiegata bene in questo passo della Filotea: «Perché un matrimonio si faccia veramente, tre cose sono necessarie nei riguardi della giovane che si vuole dare in sposa: anzitutto che le si faccia la proposta; poi, che lei la gradisca; in terzo luogo che acconsenta». Siccome le ragazze si sposavano molto sovente assai giovani, non ci si può meravigliare della loro immaturità affettiva.  «Le ragazze sposate molto giovani amano realmente i loro sposi, se ne hanno, ma non cessano di amare anche gli anelli, i monili, le amiche con le quali si divertono un mondo a giocare, a ballare e a fare pazzie».
            Il problema della libertà di scegliere si poneva ugualmente per i fanciulli che si voleva destinare alla vita religiosa. La Franceschetta, figlia della baronessa di Chantal, doveva essere collocata in un monastero dalla madre desiderosa di vederla religiosa, ma il vescovo intervenne: «Se Franceschetta vuole di buon grado essere religiosa, bene; in caso contrario, non approvo che se ne anticipi il volere con decisioni non sue». Non converrebbe d’altronde che la lettura delle lettere di san Girolamo orienti troppo la madre nella via della severità e della costrizione. Perciò le consiglia di «usare moderazione» e di procedere con «inspirazioni soavi».
            Certe giovani esitano di fronte alla vita religiosa e al matrimonio, senza mai giungere a decidersi. Francesco di Sales incoraggiò la futura signora de Longecombe a fare il passo del matrimonio, che volle celebrare egli stesso. Fece quest’opera buona, dirà in seguito il marito, alla domanda della moglie «che desiderava sposarsi per le mani del vescovo, e senza tale presenza, non avrebbe mai potuto fare questo passo, a causa della grande avversione che nutriva nei confronti del matrimonio».

Le donne e la «devozione»
            Estraneo a ogni femminismo ante litteram, Francesco di Sales era consapevole dell’eccezionale apporto della femminilità sul piano spirituale. Si è fatto notare che favorendo la devozione nelle donne, l’autore della Filotea ne ha favorito, congiuntamente, la possibilità di una maggiore autonomia, una «vita privata al femminile».
            Non meraviglia che le donne abbiano disposizioni particolari per la «devozione». Dopo aver enumerato un certo numero di dottori ed esperti, poteva scrivere nella prefazione del Teotimo: «Ma affinché si sapesse che questo tipo di scritti si redigono meglio con la devozione degli innamorati che con la dottrina dei sapienti, lo Spirito santo ha fatto sì che numerose donne compissero meraviglie al riguardo. Chi ha mai manifestato meglio le celestiali passioni dell’amore divino di santa Caterina da Genova, di sant’Angela da Foligno, di santa Caterina da Siena, di santa Matilde?». È noto l’influsso della madre di Chantal nella redazione del Teotimo, e in particolare del libro nono, «il vostro libro nono dell’Amore di Dio», secondo l’espressione dell’autore.
            Le donne potevano immischiarsi in problemi concernenti la religione? «Ecco dunque questa donna che fa la teologhessa», dice Francesco di Sales parlando della Samaritana del Vangelo. Si deve necessariamente scorgervi una disapprovazione nei confronti delle teologhe? Non è certo. Tanto più che afferma con forza: «Vi dico che una donna semplice e povera può amare Dio quanto un dottore in teologia». La superiorità non abita sempre là dove uno pensa.
            Ci sono donne superiori agli uomini, incominciando dalla Santa Vergine. Francesco di Sales rispetta sempre il principio dell’ordine stabilito dalle leggi religiose e civili del suo tempo, verso le quali predica l’obbedienza, ma la sua prassi testimonia una grande libertà di spirito. Così, per il governo dei monasteri femminili, riteneva che era meglio per loro essere sotto la giurisdizione del vescovo piuttosto dipendere dai loro fratelli religiosi, i quali rischiavano di pesare su di loro in maniera eccessiva.
            Le visitandine, da parte loro, non dipenderanno da alcun ordine maschile e non avranno nessun governo centrale, essendo ogni monastero sotto la giurisdizione del vescovo del luogo. Egli osò qualificare col titolo inatteso di «apostole» le suore della Visitazione in partenza per una nuova fondazione.
            Se interpretiamo correttamente il pensiero del vescovo di Ginevra, la missione ecclesiale delle donne consiste nell’annunciare non la parola di Dio, ma «la gloria di Dio» con la bellezza della loro testimonianza. I cieli, prega il salmista, narrano la gloria di Dio soltanto con il loro splendore. «La bellezza del cielo e del firmamento invita gli uomini ad ammirare la grandezza del Creatore e ad annunciare le sue meraviglie»; e «non è forse una meraviglia più grande vedere un’anima ornata di molte virtù, rispetto a un cielo trapuntato di stelle?».




Giuseppe Augusto Arribat: un Giusto tra le Nazioni

1. Profilo biografico
            Il venerabile Giuseppe Augusto Arribat nacque il 17 dicembre 1879 a Trédou (Rouergue – Francia). La povertà della famiglia costrinse il giovane Augusto ad iniziare la scuola media presso l’oratorio salesiano di Marsiglia solamente all’età di 18 anni. Per la situazione politica di inizio secolo, egli cominciò la vita salesiana in Italia e ricevette la veste talare dalle mani del beato Michele Rua. Tornato in Francia cominciò, come tutti i suoi confratelli, la vita salesiana in una condizione di semi clandestinità, prima a Marsiglia e poi a La Navarre, fondata da Don Bosco nel 1878.
            Ordinato sacerdote nel 1912, venne chiamato alle armi durante la Prima guerra mondiale e fece l’infermiere barelliere. Terminata la guerra don Arribat continuò a lavorare intensamente a La Navarre fino al 1926, dopo di che andò a Nizza dove stette fino al 1931. Ritornò a La Navarre come direttore e contemporaneamente incaricato della parrocchia Sant`Isidoro nella valle di Sauvebonne. I suoi parrocchiani lo chiameranno “Il santo della valle”.
            Al termine del terzo anno fu mandato a Morges, nel cantone di Vaud, in Svizzera. Ricevette poi tre mandati successivi di sei anni ciascuno, prima a Millau, poi a Villemur e infine a Thonon nella diocesi di Annecy. Il periodo più carico di pericoli e di grazie fu probabilmente quello del suo incarico a Villemur durante la Seconda guerra mondiale. Tornato a La Navarre nel 1953, don Arribat vi resterà sino alla sua morte avvenuta il 19 marzo 1963.

2. Profondamente uomo di Dio
            Uomo del dovere quotidiano, nulla per lui era secondario, e tutti sapevano che si alzava per primo molto presto per pulire i bagni degli allievi e il cortile. Fatto direttore della casa salesiana, e volendo fare il suo dovere fino alla fine e alla perfezione, per rispetto e amore agli altri, spesso finiva le sue giornate molto tardi, abbreviando le sue ore di riposo. D’altra parte, era sempre disponibile, accogliente verso tutti, sapendo adattarsi a tutti, sia ai benefattori e grandi proprietari terrieri, sia ai servitori di casa, mantenendo una preoccupazione permanente per i novizi e i confratelli, e soprattutto per i giovani a lui affidati.
            Questo dono totale di sé si manifestò fino all’eroismo. Durante la Seconda guerra mondiale egli non esitò a ospitare famiglie e giovani ebrei, esponendosi al grave rischio di un’indiscrezione o di una denuncia. Trentatré anni dopo la sua morte, coloro che erano stati testimoni diretti del suo eroismo, fecero riconoscere il valore del suo coraggio e del sacrificio della sua vita. Il suo nome è iscritto a Gerusalemme, dove è stato ufficialmente riconosciuto come un «Giusto tra le Nazioni».
            Fu riconosciuto da tutti come un vero uomo di Dio, che faceva «tutto per amore, e nulla per forza», come diceva san Francesco di Sales. Ecco il segreto di un’irradiazione, di cui forse lui stesso non intuiva tutta la portata.
            Tutti i testimoni hanno rilevato la fede viva di questo servo di Dio, uomo di preghiera, senza ostentazione. La sua fede era la fede irradiante di un uomo sempre unito a Dio, un vero uomo di Dio, e in particolare un uomo dell’Eucaristia.
            Nel celebrare la Messa o quando pregava, emanava dalla sua persona una sorta di fervore che non poteva passare inosservato. Un confratello ha dichiarato che: «vedendolo tracciare su di sé il suo gran segno della croce, ognuno sentiva un opportuno richiamo alla presenza di Dio. Il suo raccoglimento all’altare era impressionante». Un altro salesiano ricorda che «s’imponeva di fare alla perfezione le sue genuflessioni con un coraggio, un’espressione di adorazione che mi portavano alla devozione». Lo stesso aggiunge: «Egli ha rafforzato la mia fede».
            La sua visione di fede traspariva in confessionale e nelle conversazioni spirituali. Egli comunicava la sua fede. Uomo della speranza, contava in ogni momento su Dio e la sua Provvidenza, mantenendo la calma nella tempesta e diffondendo ovunque un senso di pace.
            Questa profonda fede si è ulteriormente perfezionata in lui durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Non aveva più alcuna responsabilità e non poteva più leggere facilmente. Viveva soltanto dell’essenziale e lo testimoniava con semplicità accogliendo tutti quelli che sapevano bene che la sua semicecità non gli impediva di vedere chiaro nei loro cuori. In fondo alla cappella, il suo confessionale era un luogo assediato dai giovani e dai vicini della valle.

3. «Non sono venuto per essere servito…»
            L’immagine che i testimoni hanno conservato di don Augusto è quella del servitore del Vangelo, ma nel senso più umile. Spazzare il cortile, pulire i bagni degli allievi, lavare i piatti, curare e vegliare i malati, vangare il giardino, rastrellare il parco, decorare la cappella, allacciare le scarpe dei piccoli, pettinare i loro capelli, niente gli ripugnava ed era impossibile distoglierlo da questi umili esercizi di carità. Il “buon padre” Arribat, è stato più generoso con le azioni concrete che con le parole: dava volentieri la sua stanza al visitatore occasionale, che rischiava di essere alloggiato meno comodamente di lui. La sua disponibilità era permanente, di ogni momento. La sua preoccupazione per la pulizia e la dignitosa povertà non lo lasciavano in pace, perché la casa doveva essere accogliente. Come uomo dal contatto facile, approfittava delle sue lunghe marce per salutare tutti e avviare un dialogo, anche con i “mangia preti”.
            Don Arribat è vissuto oltre trent’anni alla Navarre, nella casa che Don Bosco stesso volle mettere sotto la protezione di san Giuseppe, capo e servitore della Sacra Famiglia, modello di fede nel nascondimento e nella discrezione. Nella sua sollecitudine per i bisogni materiali della casa e attraverso la sua vicinanza a tutte le persone dedite ai lavori manuali, contadini, giardinieri, operai, impiegati, uomini tuttofare, persone di cucina o di lavanderia, questo sacerdote faceva pensare a san Giuseppe, di cui portava anche il nome. E poi non è forse morto il 19 marzo, festa di san Giuseppe?

4. Un autentico educatore salesiano
            «La Provvidenza mi ha assegnato in modo speciale la cura dell’infanzia», ha detto per riassumere la sua specifica vocazione di salesiano, discepolo di Don Bosco, al servizio dei giovani, specialmente dei più bisognosi.
            Don Arribat non aveva esteriormente nessuna delle qualità particolari che s’impongono facilmente alla gioventù. Non era un grande sportivo, né un brillante intellettuale, né un parlatore che trascina le folle, né un musicista, né un uomo di teatro o di cinema, niente di tutto questo! Come spiegare l’influenza che esercitò sui giovani? Il suo segreto non è altro che quello che aveva imparato da Don Bosco, che conquistò il suo piccolo mondo con tre cose ritenute fondamentali nell’educazione della gioventù: la ragione, la religione e l’amorevolezza. Come il “padre e maestro della gioventù” egli ha saputo parlare con i giovani il linguaggio della ragione, per motivare, spiegare, persuadere, convincere i suoi allievi, evitando i moti della passione e dell’ira. Ha messo al centro della sua vita e della sua azione la religione, non nel senso dell’imposizione forzata, ma della testimonianza luminosa del suo rapporto con Dio, con Gesù e con Maria. Quanto all’amorevolezza, con la quale si guadagna il cuore dei giovani, vale la pena richiamare alla memoria a proposito del servo di Dio ciò che diceva san Francesco di Sales: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto».
            Particolarmente autorevole la testimonianza di don Pietro Ricaldone, futuro successore di Don Bosco, che scriveva dopo la sua visita canonica del 1923-1924: «Don Arribat Augusto è catechista, confessore e legge i voti di condotta! Si tratta di un santo confratello. Solo la sua bontà può rendere meno incompatibili tra di loro le sue diverse mansioni». Poi ripete l’elogio: «È un ottimo confratello, non troppa salute. Per le sue belle maniere gode della confidenza dei giovani più grandi che vanno quasi tutti da lui».
            Una cosa che colpiva era il rispetto quasi cerimonioso che manifestava verso tutti, ma soprattutto per i fanciulli. A un ometto di otto anni dava del “voi” chiamandolo “Monsieur”. Una signora ha testimoniato: «Lui rispettava talmente l’altro che l’altro era quasi costretto a innalzarsi alla dignità che gli era testimoniata in quanto figlio di Dio, e tutto ciò senza nemmeno parlare di religione».
            Viso aperto e sorridente, questo figlio di san Francesco di Sales e di Don Bosco non dava fastidio a nessuno. Se la magrezza della persona e l’ascetismo richiamavano il santo curato d’Ars e don Rua, il suo sorriso e la sua dolcezza erano di marca tipicamente salesiana. Come dichiara un testimone: «Era l’uomo più naturale del mondo, pieno di umorismo, spontaneo nelle sue reazioni, giovane di cuore».
            Le sue parole, che non erano quelle di un grande oratore, risultavano efficaci perché promanavano dalla semplicità e dal fervore della sua anima.
            Uno dei suoi exallievi testimoniò: «Nelle nostre teste di bambini, nelle nostre conversazioni infantili, dopo aver sentito le storie della vita di Giovanni Maria Vianney, ci rappresentavamo don Arribat come se fosse il Santo curato d’Ars per noi. Le ore di catechismo, presentato in linguaggio semplice ma vero, erano seguite con grande attenzione. Durante la Messa, le panche sul retro della cappella erano sempre piene. Avevamo l’impressione di incontrare Dio nella sua bontà e ciò ha segnato la nostra gioventù».

5. Don Arribat ecologista?
            Ecco un tratto originale per completare il quadro di questa figura che sembra del tutto ordinaria. È stato ritenuto quasi come un ecologista prima che questo termine fosse molto diffuso. Piccolo contadino, aveva imparato ad amare e rispettare profondamente la natura. Le sue composizioni giovanili sono piene di freschezza e di osservazioni molto fini, con un tocco di poesia. Ha condiviso spontaneamente il lavorare di questo mondo rurale, dove ha vissuto gran parte della sua lunga esistenza.
            A proposito del suo amore per gli animali, quante volte venne visto «il buon padre, con una scatola sotto il braccio, piena di briciole di pane, facendo faticosamente a piccoli passi molto dolorosi il percorso dal refettorio fino alle sue colombe». Fatto incredibile per chi non ha visto, narra la persona che ha assistito alla scena, le colombe appena lo vedevano si sono fatte avanti verso la grata come per accoglierlo. Lui ha aperto la gabbia e subito sono venute da lui, alcune si sono poste sulle sue spalle. «Egli parlava loro con espressioni che non posso ricordare, era come se le conoscesse tutte». Quando un ragazzino gli portava un passerotto che aveva preso dal nido, gli diceva: «Tu devi rendergli la libertà». Si racconta anche la storia di un cane lupo abbastanza feroce, che solo lui fu in grado di ammansire, e che venne a coricarsi accanto alla sua bara dopo la sua morte.
            Il rapido profilo spirituale di don Augusto Arribat ci ha riproposto alcuni lineamenti spirituali del volto di santi cui si sentiva vicino: l’amorevolezza di Don Bosco, l’ascesi di don Rua, la dolcezza di san Francesco di Sales, la pietà sacerdotale del santo curato d’Ars, l’amore della natura di san Francesco d’Assisi e il lavoro costante e fedele di san Giuseppe.




Venerabile Ottavio Ortiz Arrieta Coya, vescovo

Ottavio Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima, in Perù, il 19 aprile 1878, è stato il primo salesiano peruviano. Da giovane si formò come falegname, ma il Signore lo chiamò a una missione più alta. Emise la sua prima professione salesiana il 29 gennaio 1900 e fu ordinato sacerdote nel 1908. Nel 1922 fu consacrato vescovo della diocesi di Chachapoyas, incarico che mantenne con dedizione fino alla morte, avvenuta il 1º marzo 1958. Due volte rifiutò la nomina alla più prestigiosa sede di Lima, preferendo restare vicino al suo popolo. Instancabile pastore, percorse tutta la diocesi per conoscere personalmente i fedeli e promosse numerose iniziative pastorali per l’evangelizzazione. Il 12 novembre 1990, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, fu aperta la sua causa di canonizzazione, e gli fu attribuito il titolo di Servo di Dio. Il 27 febbraio 2017, papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche, dichiarandolo Venerabile.


            Il venerabile Mons. Ottavio Ortiz Arrieta Coya trascorse la prima parte della vita quale oratoriano, studente e quindi diventò egli stesso Salesiano, impegnato nelle opere dei Figli di Don Bosco in Perù. Fu il primo Salesiano formatosi nella prima casa salesiana del Perù, fondata nel Rimac, un quartiere povero, dove imparò a vivere una vita austera di sacrificio. Tra i primi Salesiani che arrivarono in Perù nel 1891, conobbe lo spirito di Don Bosco e il Sistema Preventivo. Come Salesiano della prima generazione apprese che il servizio e il dono di sé sarebbero stati l’orizzonte della sua vita; per questo fin da giovane salesiano assunse importanti responsabilità, come l’apertura di nuove opere e la direzione di altre, con semplicità, sacrificio e totale dedizione ai poveri.
            Visse la seconda parte della vita, dall’inizio degli anni venti, come vescovo di Chachapoyas, diocesi immensa, vacante da anni, in cui le proibitive condizioni del territorio si sommavano a una certa chiusura, soprattutto nei villaggi più sperduti. Qui il campo e le sfide dell’apostolato erano immensi. Ortiz Arrieta era di temperamento vivace, abituato alla vita comunitaria; inoltre delicatissimo d’animo, al punto da venire chiamato “pecadito” nei suoi giovani anni, per la sua esattezza nel rilevare le mancanze e aiutare sé stesso e gli altri a emendarsene. Disponeva inoltre di un innato senso del rigore e del dovere morale. Le condizioni in cui dovette svolgere il ministero episcopale gli si prospettano invece diametralmente opposte: solitudine e sostanziale impossibilità a condividere una vita salesiana e sacerdotale, nonostante le reiterate e quasi supplicanti richieste alla propria Congregazione; necessità di contemperare il proprio rigore morale con una fermezza sempre più docile e quasi disarmata; fine coscienza morale continuamente messa alla prova da grossolanità di scelte e tiepidezza nella sequela, da parte di alcuni collaboratori meno eroici di lui, e di un popolo di Dio che sapeva opporsi al vescovo quando la sua parola diveniva denuncia di ingiustizia e diagnosi dei mali spirituali. Il cammino del venerabile verso la pienezza della santità, nell’esercizio delle virtù, fu pertanto segnato da fatiche, difficoltà e dalla continua necessità di convertire il proprio sguardo e il proprio cuore, sotto l’azione dello Spirito.
            Se senz’altro troviamo nella sua vita episodi definibili come eroici in senso stretto, occorre però evidenziare nel suo cammino virtuoso anche e forse soprattutto quei momenti in cui egli avrebbe potuto agire diversamente, ma non lo fece; cedere all’umana disperazione, mentre rinnovò la speranza; accontentarsi di una carità grande, senza però dare piena disponibilità all’esercizio di quella carità eroica che invece praticò con esemplare fedeltà per diversi decenni. Quando, per due volte, gli venne proposto di cambiare sede, e nel secondo caso gli fu offerta la sede primaziale di Lima, decise di restare tra i suoi poveri, quelli che nessuno voleva, davvero alla periferia del mondo, rimanendo nella diocesi che aveva per sempre sposato e amato così come essa era, impegnandosi con tutto sé stesso a renderla anche solo un poco migliore. Fu pastore “moderno” nel suo stile di presenza e nel ricorso a mezzi di azione come l’associazionismo e la stampa. Uomo di temperamento deciso e di salde convinzioni di fede, Mons. Ortiz Arrieta usò certamente di questo “don de gobierno” nella sua guida, sempre unita però al rispetto e alla carità, espressi con coerenza straordinaria.
            Benché sia vissuto prima del Concilio Vaticano II, tuttavia è attuale il modo in cui egli pianificò e svolse gli incarichi pastorali a lui affidati: dalla pastorale vocazionale al concreto appoggio ai suoi seminaristi e sacerdoti; dalla formazione catechetica e umana dei più giovani a quella pastorale familiare attraverso cui incontra coppie di sposi in crisi o coppie di conviventi restii nel regolarizzare la loro unione. Mons. Ortiz Arrieta del resto non educa solo con la sua concreta azione pastorale, ma con il suo stesso comportamento: con la capacità di discernere per sé stesso, prima di tutto, che cosa significhi e che cosa comporti rinnovare la fedeltà alla strada intrapresa. Egli davvero ha perseverato nella povertà eroica, nella fortezza attraverso le numerose prove della vita e nella radicale fedeltà alla diocesi cui era stato assegnato. Umile, semplice, sempre sereno; tra il serio e il gentile; la dolcezza del suo sguardo faceva trasparire tutta la tranquillità del suo spirito: questo fu il cammino della santità che percorse.
            Le belle caratteristiche che i suoi superiori salesiani riscontrarono in lui prima dell’ordinazione sacerdotale – quando lo definiscono una “perla di salesiano” e ne valorizzano lo spirito di sacrificio – ritornano come una costante in tutta la sua vita, anche episcopale. Davvero si può dire che Ortiz Arrieta si sia «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22): autorevole con le autorità, semplice con i bambini, povero tra i poveri; mite con chi lo insultava o tentava per rancore di delegittimarlo; sempre pronto a non restituire male per male, ma a vincere il male con il bene (cf Rm 12,21). Tutta la sua vita fu dominata dal primato della salvezza delle anime: una salvezza cui vorrebbe fattivamente dedicati anche i suoi sacerdoti, dei quali prova a contrastare la tentazione di rinserrarsi entro facili sicurezze o trincerarsi dietro incarichi di maggior prestigio, per impegnarli invece nel servizio pastorale. Si può davvero dire che si sia situato in quella misura “alta” della vita cristiana, che ne fa un pastore che incarnò in modo originale la carità pastorale, cercando la comunione nel popolo di Dio, andando verso i più bisognosi e testimoniando una vita evangelica povera.




Beatificazione di Camille Costa de Beauregard. E dopo…?

            La diocesi di Savoia e la città di Chambéry hanno vissuto tre giornate storiche, il 16, 17 e 18 maggio 2025. Un resoconto dei fatti e delle prospettive future.

            Le reliquie di Camille Costa de Beauregard sono state trasferite dal Bocage alla chiesa di Notre-Dame (luogo del battesimo di Camille), venerdì 16 maggio. Un magnifico corteo ha quindi percorso le vie della città a partire dalle ore venti. Dopo i corni delle Alpi, le cornamuse hanno preso il testimone per aprire la marcia, seguite da una carrozza fiorita che trasportava un ritratto gigante del “padre degli orfani”. Seguivano poi le reliquie, su una barella portata da giovani studenti del liceo del Bocage, vestiti con magnifiche felpe rosse su cui si poteva leggere questa frase di Camille: “Più la montagna è alta, meglio vediamo lontano“. Diverse centinaia di persone di tutte le età sfilavano poi, in un’atmosfera “bon enfant”. Lungo il percorso, i curiosi, rispettosi, si fermavano, sbalorditi, a vedere passare questo corteo insolito.
            All’arrivo alla chiesa di Notre-Dame, un sacerdote era lì per animare una veglia di preghiera sostenuta dai canti di un bel coro di giovani. La cerimonia si svolgeva quindi in un clima rilassato, ma raccolto. Tutti sfilavano, alla fine della veglia, per venerare le reliquie e affidare a Camille un’intenzione personale. Un momento molto bello!
            Sabato 17 maggio. Gran giorno! Da Pauline Marie Jaricot (beatificata nel maggio del 2022), la Francia non aveva conosciuto un nuovo “Beato”. Così tutta la Regione Apostolica si trovava rappresentata dai suoi vescovi: Lione, Annecy, Saint-Étienne, Valence ecc… A questi si erano aggiunti due ex arcivescovi di Chambéry: monsignor Laurent Ulrich, attualmente arcivescovo di Parigi e monsignor Philippe Ballot, vescovo di Metz. Due vescovi del Burkina Faso avevano fatto il viaggio per partecipare a questa festa. Numerosi sacerdoti diocesani erano venuti a concelebrare, così come diversi religiosi tra cui sette Salesiani di Don Bosco. Il nunzio apostolico in Francia, monsignor Celestino Migliore, aveva la missione di rappresentare il cardinale Semeraro (Prefetto del Dicastero per le cause dei santi) trattenuto a Roma per l’intronizzazione di papa Leone XIV. Inutile dire che la cattedrale era gremita, così come i capitelli e il sagrato e il Bocage: più di tremila persone in tutto.
            Che emozione, quando dopo la lettura del decreto pontificio (firmato solo il giorno prima da papa Leone XIV) letto da don Pierluigi Cameroni, postulatore della causa, il ritratto di Camille è stato svelato nella cattedrale! Che fervore in questo grande vascello! Che solennità sostenuta dai canti di un magnifico coro interdiocesano e dal grande organo meravigliosamente servito dal maestro Thibaut Duré! Insomma, una cerimonia grandiosa per questo umile sacerdote che diede tutta la sua vita al servizio dei più piccoli!
            Un reportage è stato assicurato da RCF Savoie (una stazione radio regionale francese che fa parte del network RCF, Radios Chrétiennes Francophones) con interviste a diverse personalità coinvolte nella difesa della causa di Camille, e d’altra parte, dal canale KTO (il canale televisivo cattolico di lingua francese) che trasmetteva in diretta questa magnifica celebrazione.
            Una terza giornata, Domenica 18 maggio, veniva a coronare questa festa. Si svolgeva al Bocage, sotto un grande tendone; era una messa di ringraziamento presieduta da monsignor Thibault Verny, arcivescovo di Chambéry, circondato dai due vescovi africani, il Provinciale dei Salesiani e alcuni sacerdoti, tra cui padre Jean François Chiron, (presidente, da tredici anni, del Comitato Camille creato da monsignor Philippe Ballot) che pronunciava un’omelia notevole. Una folla considerevole era venuta a partecipare e pregare. Alla fine della messa, una rosa “Camille Costa de Beauregard fondatore del Bocage” è stata benedetta da padre Daniel Féderspiel, Ispettore dei Salesiani della Francia (questa rosa, scelta dagli ex allievi, offerta alle personalità presenti, è in vendita nelle serre del Bocage).
            Dopo la cerimonia, i corni delle Alpi hanno dato un concerto fino al momento in cui papa Leone, durante il suo discorso, al momento del Regina Coeli, ha dichiarato di essere molto gioioso della prima beatificazione del suo pontificato, il sacerdote di Chambéry Camille Costa de Beauregard. Tuono di applausi sotto il tendone!
            Nel pomeriggio, diversi gruppi di giovani del Bocage, liceo e casa dei bambini, o scout, si sono succeduti sul podio per animare un momento ricreativo. Sì! Che festa!

            E adesso? Tutto è finito? O c’è un dopo, un seguito?
            La beatificazione di Camille è solo una tappa nel processo di canonizzazione. Il lavoro continua e siete chiamati a contribuire. Cosa resta da fare? Far conoscere sempre meglio la figura del nuovo beato intorno a noi, con molteplici mezzi, perché è necessario che molti lo preghino affinché la sua intercessione ci ottenga una nuova guarigione inspiegabile dalla scienza, il che permetterebbe di considerare un nuovo processo e una rapida canonizzazione. La santità di Camille sarebbe allora presentata al mondo intero. È possibile, bisogna crederci! Non fermiamoci a metà strada!

            Disponiamo di diversi mezzi, come:
            – il libro Il beato Camille Costa de Beauregard La nobiltà del cuore, di Françoise Bouchard, Edizioni Salvator;
            – il libro Pregare quindici giorni con Camille Costa de Beauregard, di padre Paul Ripaud, Edizioni Nouvelle Cité;
            – un fumetto: Beato Camille Costa de Beauregard, di Gaëtan Evrard, Edizioni Triomphe;
            – i video da scoprire sul sito di “Amis de Costa“, e quello della beatificazione;
            – le visite ai luoghi della memoria, al Bocage a Chambéry; sono possibili contattando sia l’accoglienza del Bocage, sia direttamente il signor Gabriel Tardy, direttore de la Maison des Enfants.

            A tutti, grazie per sostenere la causa del beato Camille, se lo merita!

don Paul Ripaud, sdb




Educare il cuore umano con san Francesco di Sales

San Francesco di Sales, pone al centro della formazione umana il cuore, sede di volontà, amore e libertà. Partendo dalla tradizione biblica e dialogando con la filosofia e la scienza del suo tempo, il vescovo di Ginevra individua nella volontà la “facoltà maestra” capace di governare passioni e sensi, mentre gli affetti – soprattutto l’amore – ne alimentano il dinamismo interiore. L’educazione salesiana mira dunque a trasformare desideri, scelte e risoluzioni in un cammino di padronanza di sé, dove dolcezza e fermezza convergono per orientare l’intera persona verso il bene.

            Al centro e al vertice della persona umana, san Francesco di Sales pone il cuore, al punto che dirà: «Chi conquista il cuore dell’uomo conquista tutto l’uomo». Nell’antropologia salesiana non si può non costatare l’uso sovrabbondante del termine e del concetto di cuore. Ciò stupisce ancor più perché negli umanisti del tempo, impregnati di linguaggi e pensieri tratti dall’antichità, non pare possibile scoprire una particolare insistenza su questo simbolo.
            Da un lato, questo fenomeno è spiegabile con l’uso comune, universale, del sostantivo cuore per designare l’interiorità della persona, specialmente in riferimento alla sua sensibilità. D’altro lato, Francesco di Sales deve molto alla tradizione biblica, che considera il cuore come la sede delle facoltà più elevate dell’uomo, quali l’amore, la volontà e l’intelligenza.
            A queste considerazioni si potrebbero forse aggiungere le ricerche contemporanee di anatomia attinenti il cuore e la circolazione del sangue. Ciò che è importante per noi è chiarire il significato che Francesco di Sales attribuiva al cuore, partendo dalla sua visione della persona umana al cui centro e apice stanno la volontà, l’amore e la libertà.

La volontà, facoltà maestra
            Con le facoltà dello spirito, come l’intelletto e la memoria, si rimane nell’ambito del conoscere. Si tratta ora di addentrarsi in quello dell’agire. Come avevano già fatto sant’Agostino e certuni filosofi come Duns Scoto, Francesco di Sales assegna il primo posto alla volontà, probabilmente sotto l’influsso dei suoi maestri gesuiti. È la volontà che deve governare tutte le «potenze» dell’anima.
            È significativo che il Teotimo inizi col capitolo intitolato: «Come per la bellezza della natura umana, Dio abbia dato alla volontà il governo di tutte le facoltà dell’anima». Citando san Tommaso, Francesco di Sales afferma che l’uomo ha «pieno potere su ogni genere di accidenti e avvenimenti» e che «l’uomo saggio, cioè l’uomo che segue la ragione, si renderà maestro assoluto degli astri». Con l’intelletto e la memoria, la volontà è «il terzo soldato del nostro spirito e il più forte di tutti, perché nulla può sovrastare il libero volere dell’uomo; Dio stesso che l’ha creato non vuole in alcun modo forzarlo o violentarlo».
            La volontà esercita, però, la sua autorità in maniere molto diverse, e l’obbedienza ad essa dovuta è notevolmente variabile. Così alcune nostre membra, non impedite dal muoversi, obbediscono alla volontà senza problema. Apriamo e chiudiamo la bocca, muoviamo la lingua, le mani, i piedi, gli occhi a nostro piacimento e quanto vogliamo. La volontà esercita un potere sul funzionamento dei cinque sensi, ma si tratta di un potere indiretto: per non vedere con gli occhi, devo distoglierli o chiuderli; per praticare l’astinenza devo comandare alle mani di non fornire il cibo alla bocca.
            La volontà può e deve dominare l’appetito sensibile con le sue dodici passioni. Benché esso tenda a comportarsi come «un soggetto ribelle, sedizioso, irrequieto», la volontà talvolta può e deve dominarlo, anche a prezzo di una lunga lotta. La volontà ha potere anche sulle facoltà superiori dello spirito, la memoria, l’intelletto e l’immaginazione, perché è essa che decide di applicare lo spirito a tale oggetto e a distoglierlo da questo o da quel pensiero; ma non può regolarli e farli obbedire senza difficoltà, in quanto l’immaginazione ha la caratteristica di essere estremamente «mutevole e volubile».
            Ma come funziona la volontà? La risposta è relativamente facile se ci si riferisce al modello salesiano della meditazione o orazione mentale, con le tre parti che la compongono: le «considerazioni», gli «affetti» e le «risoluzioni». Le prime consistono nel riflettere e meditare su un bene, una verità, un valore. Tale riflessione produce normalmente degli affetti, cioè grandi desideri di acquistare e possedere tale bene o valore, e questi affetti sono in grado di «muovere la volontà». Infine la volontà, una volta «mossa», produce le «risoluzioni».

Gli «affetti» che muovono la volontà
            La volontà, essendo considerata da Francesco di Sales come un «appetito», è una «facoltà affettiva». Ma è un appetito razionale e non sensibile o sensuale. L’appetito produce dei moti, e mentre quelli dell’appetito sensibile sono ordinariamente chiamati «passioni», quelli della volontà sono detti «affetti», in quanto «premono» o «muovono» la volontà. L’autore del Teotimo chiama pure i primi «passioni del corpo» e i secondi «affetti del cuore». Salendo dall’ambito sensibile a quello razionale, le dodici passioni dell’anima si trasformano in affetti ragionevoli.
            Nei diversi modelli di meditazione proposti nell’Introduzione alla vita devota, l’autore invita Filotea, mediante una serie di espressioni vivaci e significative, a coltivare tutte le forme di affetti volontari: l’amore del bene («volgere il proprio cuore verso», «affezionarsi», «abbracciare», «attaccarsi», «congiungersi», «unirsi»); l’odio del male («detestarlo», «rompere ogni legame», «calpestare»); il desiderio («aspirare», «implorare», «invocare», «supplicare»); la fuga («disprezzare», «separarsi», «allontanarsi», «rimuovere», «abiurare»); la speranza («orsù dunque! Oh cuore mio!»); la disperazione («oh! la mia indegnità è grande!»); la gioia («gioire», «compiacersi»); la tristezza («affliggersi», «confondersi», «abbassarsi», «umiliarsi»); l’ira («rinfacciare», «pussare via», «sradicare»); la paura («tremare», «spaventare l’anima»); il coraggio («incoraggiare», «irrobustire»); e infine il trionfo («esaltare», «glorificare»).
            Gli stoici, negatori delle passioni – ma a torto – ammettevano però l’esistenza di questi affetti ragionevoli, che chiamavano «eupatie» o buone passioni. Affermavano «che il saggio non concupiva, ma voleva; che non provava allegria, ma gioia; che non andava soggetto a timore, ma era previdente ed accorto; per cui era spinto soltanto dalla ragione e secondo la ragione».
            Riconoscere il ruolo degli affetti nel processo decisionale pare indispensabile. È significativo che la meditazione destinata a sfociare nelle risoluzioni riservi loro un ruolo centrale. In certi casi, spiega l’autore della Filotea, si possono quasi tralasciare le considerazioni o abbreviarle, ma gli affetti non dovranno mai mancare perché sono quelli che motivano le risoluzioni. Allorché sopravviene un affetto buono, scriveva, «bisognerà lasciargli briglia sciolta e non pretendere di seguire il metodo che vi ho indicato”, perché le considerazioni si fanno soltanto per eccitare l’affetto.

L’amore, primo e principale «affetto»
            Per san Francesco di Sales, l’amore compare sempre al primo posto sia nella lista delle passioni che in quella degli affetti. Cos’è l’amore? demandava Jean-Pierre Camus all’amico, il vescovo di Ginevra, che gli rispose: «L’amore è la prima passione del nostro appetito sensitivo e il primo affetto di quello razionale, che è la volontà; dato che la nostra volontà non è altro se non l’amore del bene, e l’amore è volere il bene».
            L’amore governa gli altri affetti ed entra per primo nel cuore: «La tristezza, il timore, la speranza, l’odio e gli altri affetti dell’anima non entrano nel cuore se l’amore non li trascina dietro di sé». Sulla scia di sant’Agostino, per il quale «vivere è amare», l’autore del Teotimo spiega che gli altri undici affetti che popolano il cuore umano dipendono dall’amore: «L’amore è la vita del nostro cuore […]. Tutti i nostri affetti seguono il nostro amore, e secondo quello desideriamo, ci dilettiamo, speriamo e disperiamo, temiamo, ci facciamo coraggio, odiamo, fuggiamo, ci rattristiamo, ci adiriamo, ci sentiamo trionfanti».
            Curiosamente, la volontà ha prima di tutto una dimensione passiva, mentre l’amore è la potenza attiva che muove e commuove. La volontà non giunge a decidere se non è mossa da uno stimolo predominante: l’amore. Prendendo l’esempio del ferro attirato dalla calamita, si dovrà dire che la volontà è il ferro e l’amore la calamita.
            Per illustrare il dinamismo dell’amore, l’autore del Teotimo utilizza anche l’immagine dell’albero. Con una precisione da botanico, analizza le «cinque parti principali» dell’amore, il quale è «come un bell’albero, la cui radice è la convenienza della volontà col bene, il ceppo ne è il compiacimento, il tronco è la tensione, i rami sono le ricerche, i tentativi e gli altri sforzi, ma soltanto il frutto ne è l’unione e il godimento».
            L’amore si impone alla stessa volontà. Tale è la forza dell’amore che, per colui che ama niente è difficile, «per l’amore niente è impossibile». L’amore è forte come la morte, ripete Francesco di Sales col Cantico dei cantici; o piuttosto, l’amore è più forte della morte. A ben considerare, l’uomo vale soltanto per l’amore, e tutte le potenze e facoltà umane, specialmente la volontà, tendono ad esso: «Dio vuole l’uomo solamente per l’anima, e l’anima solamente per la volontà e la volontà solamente per l’amore».
            Per spiegare il suo pensiero, l’autore del Teotimo ricorre all’immagine dei rapporti tra uomo e donna, così com’erano codificati e vissuti al suo tempo. La giovane donna sugli innamorati che la corteggiano può scegliere quello che più le piace. Ma dopo il matrimonio, perde la libertà e da padrona diventa sottomessa alla potestà del marito, rimanendo presa da colui che essa stessa ha scelto. Così la volontà, che ha la scelta dell’amore, dopo averne abbracciato uno, gli rimane sottomessa.

Il combattimento della volontà per la libertà interiore
            Volere è scegliere. Fin tanto che uno è bambino, è ancora interamente dipendente e incapace di scegliere, ma crescendo ben presto le cose cambiano e le scelte si impongono. I bambini non sono né buoni né cattivi, perché non sono in grado di scegliere tra il bene e il male. Durante l’infanzia camminano come quelli che escono da una città e per un po’ vanno diritto; ma dopo un po’ scoprono che la via prende due direzioni; spetta loro scegliere quella di destra o di sinistra a piacimento, per andare dove vogliono.
            D’ordinario le scelte sono difficili perché richiedono che uno rinunci a un bene per un altro. Di solito la scelta dovrà farsi tra ciò che uno sente e ciò che vuole, perché c’è una grande differenza tra sentire e consentire. Il giovane tentato da una «donna scostumata», di cui parla san Girolamo, aveva l’immaginazione «oltremodo occupata da tale presenza voluttuosa», ma superò la prova con un puro atto della volontà superiore. La volontà, assediata da ogni parte e spinta a dare il suo consenso, ha resistito alla passione sensuale.
            La scelta si impone anche di fronte ad altre passioni e affetti: «Calpestate coi piedi le vostre sensazioni, diffidenze, paure, avversioni» –  consiglia Francesco di Sales a una persona da lui diretta –, chiedendole di schierarsi dalla «parte dell’ispirazione e della ragione contro la parte dell’istinto e dell’avversione». L’amore si serve della forza di volontà per governare tutte le facoltà e tutte le passioni. Sarà un «amore armato» e tale amore armato sottometterà le nostre passioni. Questa volontà libera «risiede nella parte suprema e più spirituale dell’anima» e «non dipende da altro se non da Dio e da se stessi; e quando tutte le altre facoltà dell’anima sono perdute e sottomesse al nemico, solo essa rimane padrona di sé per non acconsentire in alcun modo».
            La scelta, però, non è soltanto nell’obiettivo da raggiungere, ma anche nell’intenzione che presiede l’azione. È un aspetto al quale Francesco di Sales è particolarmente sensibile, perché tocca la qualità dell’agire. Infatti, il fine perseguito imprime un senso all’azione. Ci si può decidere di compiere un atto in base a molti motivi. A differenza degli animali, «l’uomo è talmente padrone delle sue azioni umane e ragionevoli da compierle tutte per un fine»; può perfino cambiare il fine naturale di un’azione, aggiungendovi un fine secondario, «come quando, oltre l’intenzione di soccorrere il povero cui tende l’elemosina, aggiunge l’intenzione di obbligare l’indigente a fare altrettanto». Presso i pagani, le intenzioni erano raramente disinteressate, e in noi le intenzioni possono essere inquinate «dall’orgoglio, dalla vanità, dall’interesse temporale o da qualche altro motivo cattivo». Talvolta «fingiamo di voler essere gli ultimi e ci sediamo in fondo al tavolo, ma per passare con più onore a capotavola».
            «Purifichiamo quindi, Teotimo, finche possiamo, tutte le nostre intenzioni», chiede l’autore del Trattato dell’amore di Dio. La buona intenzione «anima» le più piccole azioni e i semplici gesti quotidiani. In effetti, «raggiungiamo la perfezione non facendo molte cose, bensì facendole con un’intenzione pura e perfetta». Non ci si deve perdere di coraggio, perché «si può sempre correggere la propria intenzione, bonificarla e migliorarla».

Il frutto della volontà sono le «risoluzioni»
            Dopo aver messo in luce il carattere passivo della volontà, la cui prima proprietà consiste nel lasciarsi attirare dal bene prospettatole dalla ragione, conviene mostrarne l’aspetto attivo. San Francesco di Sales annette una grande importanza alla distinzione fra volontà affettiva e volontà effettiva, come pure fra amore affettivo e amore effettivo. L’amore affettivo assomiglia all’amore di un padre per il figlio minore, «un piccino grazioso ancora bimbetto, molto gentile», mentre l’amore che dimostra al figlio maggiore, «uomo ormai fatto, bravo e nobile soldato», è di un’altra specie: «Quest’ultimo è amato con un amore effettivo, mentre il piccino è amato con un amore affettivo».
            Parimenti, parlando della «costanza della volontà», il vescovo di Ginevra afferma che non ci si può contentare di una «costanza sensibile»; è necessaria una costanza «situata nella parte superiore dello spirito e che sia effettiva». Giunge il momento in cui non si deve più «speculare col ragionamento», ma «irrigidire la volontà». «La nostra anima sia triste o allegra, sommersa dalla dolcezza o dall’amarezza, in pace o turbata, luminosa o tenebrosa, tentata o tranquilla, colma di piacere o di disgusto, immersa nell’aridità o nella tenerezza, bruciata dal sole o rinfrescata dalla rugiada», non importa, una volontà forte non si lascia facilmente distogliere dai suoi propositi. «Restiamo saldi nei nostri propositi, inflessibili nelle nostre risoluzioni», chiede l’autore della Filotea. È la facoltà maestra da cui dipende il valore alla persona: «Il mondo intero vale meno di un’anima e un’anima vale nulla senza i nostri buoni propositi».
            Il sostantivo «risoluzione» indica una decisione che giunge al termine di un processo, il quale ha messo in gioco il ragionamento con la sua capacità di discernere e il cuore, inteso nel senso di una affettività che si lascia muovere da un bene attraente. Nella «dichiarazione autentica» che l’autore dell’Introduzione alla vita devota invita Filotea a pronunciare, si legge: «Questa è la mia volontà, la mia intenzione e la mia decisione, inviolabile e irrevocabile, volontà che confesso e confermo senza riserve o eccezioni». Una meditazione che non sfoci in atti concreti non servirebbe a niente.
            Nelle dieci Meditazioni proposte a titolo di modello nella prima parte della Filotea, troviamo espressioni frequenti come queste: «voglio», «non voglio più», «sì, seguirò le ispirazioni e i consigli», «farò tutto il possibile», «voglio fare questo o quello», «farò questo o quello sforzo», «farò questa o quella cosa», «scelgo», «voglio prendere parte», o ancora «voglio prendere la cura richiesta».
            La volontà di Francesco di Sales sovente assume un aspetto passivo, qui invece rivela tutto il suo dinamismo estremamente attivo. Non è quindi senza ragione che si è potuto parlare di volontarismo salesiano.

Francesco di Sales, educatore del cuore umano
            Francesco di Sales è stato considerato come un «ammirevole educatore della volontà». Dire che fu un ammirevole educatore del cuore umano significa, su per giù, la stessa cosa, ma con l’aggiunta di una sfumatura affettiva, caratteristica della concezione salesiana del cuore. Come si è visto, egli non ha trascurato nessun componente dell’essere umano: il corpo con i suoi sensi, l’anima con le sue passioni, lo spirito con le sue facoltà, in particolare intellettuali. Ma ciò che a lui importa di più è il cuore umano, a proposito del quale scriveva a una sua corrispondente: «È necessario, quindi, coltivare con grande cura questo cuore benamato e non risparmiare nulla di quanto può essere utile alla sua felicità».
            Ora, il cuore dell’uomo è «inquieto», secondo il detto di sant’Agostino, perché è pieno di desideri inappagati. Sembra che non abbia mai né «riposo né tranquillità». Francesco di Sales propone allora un’educazione anche dei desideri. A. Ravier ha pure parlato di un «discernimento o di una politica del desiderio». In effetti, il principale nemico della volontà «è la quantità di desideri che abbiamo di questa o di quella cosa. In breve, la nostra volontà è così piena di pretese e di progetti, che molto spesso non fa altro che perdere tempo a considerarli uno dopo l’altro o anche tutti insieme, invece di darsi da fare per realizzarne uno più utile».
            Un buon pedagogo sa che per condurre il proprio allievo verso l’obiettivo propostogli, sia esso il sapere o la virtù, è imprescindibile presentargli un progetto che ne mobiliti le energie. Francesco di Sales si rivela un maestro nell’arte di motivare, quanto insegna alla sua «figlia», Giovanna di Chantal, una delle sue massime preferite: «Occorre fare tutto per amore e niente per forza». Nel Teotimo afferma che «la gioia apre il cuore come la tristezza lo chiude». L’amore infatti è la vita del cuore.
            Tuttavia la forza non deve mancare. Al giovane che era in procinto di «prendere il largo nel vasto mare del mondo», il vescovo di Ginevra consigliava «un cuore vigoroso» e «un cuore nobile», capace di governare i desideri. Francesco di Sales vuole un cuore dolce e pacifico, puro, indifferente, un «cuore spoglio di affetti» incompatibili con la vocazione, un cuore «retto», «disteso e senza alcuna costrizione». Non ama la «tenerezza di cuore» che si riduce a ricerca di sé, e richiede invece la «fermezza di cuore» nell’agire. «A un cuore gagliardo nulla è impossibile» – scrive a una signora –, per incoraggiarla a non abbandonare «il corso delle sante risoluzioni». Vuole un «cuore virile» e allo stesso tempo un cuore «docile, malleabile e sottomesso, arrendevole a ogni cosa consentita e pronto ad assumere ogni impegno per obbedienza e carità»; un «cuore dolce verso il prossimo e umile davanti a Dio», «nobilmente fiero» e «perennemente umile», «dolce e pacifico».
            In fin dei conti, l’educazione della volontà mira alla piena padronanza di sé, che Francesco di Sales esprime mediante un’immagine: prendere il cuore in mano, possedere il cuore o l’anima. «La grande gioia dell’uomo, Filotea, è possedere la propria anima; e quanto più la pazienza diventa perfetta, tanto più perfettamente possediamo la nostra anima». Ciò significa non già insensibilità, assenza di passioni o di affetti, bensì una tensione verso la padronanza se stessi. Si tratta d’un cammino diretto all’autonomia di sé, garantita dalla supremazia della volontà, libera e ragionevole, ma di una autonomia governata dall’amore sovrano.

Foto: Ritratto di San Francesco di Sales nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù a Roma. Opera su tela realizzata dal pittore romano Attilio Palombi e offerta in dono dal cardinale Lucido Maria Parocchi.




Il Venerabile padre Carlo Crespi “testimone e pellegrino di speranza”

Padre Carlo Crespi, missionario salesiano in Ecuador, ha vissuto la sua vita dedicandosi alla fede e alla speranza. Negli ultimi anni, nel santuario di Maria Ausiliatrice, ha consolato fedeli, infondendo ottimismo anche nei momenti di crisi. La sua pratica esemplare delle virtù teologali, evidenziata dalla testimonianza di chi lo conosceva, si è espressa anche nell’impegno per l’educazione: fondando scuole e istituti, ha offerto ai giovani nuove prospettive. Il suo esempio di resilienza e dedizione continua ad illuminare il cammino spirituale e umano della comunità. Il suo lascito perdura e ispira generazioni di credenti.

            Negli ultimi anni della sua vita, padre Carlo Crespi (Legnano, 29 maggio 1891 – Cuenca, 30 aprile 1982), missionario salesiano in Ecuador, messi gradualmente in secondo piano gli aneliti accademici della giovinezza, si circonda di essenzialità e la sua crescita spirituale appare inarrestabile. Viene visto nel santuario di Maria Ausiliatrice a divulgare la devozione alla Vergine, a confessare e a consigliare file interminabili di fedeli, rispetto ai quali gli orari, i pasti e persino il sonno non contano più. Così come aveva fatto in modo esemplare per tutta la vita, tiene lo sguardo fisso verso i beni eterni, che ora appaiono quanto mai vicini.
            Egli aveva quella speranza escatologica che si lega alle aspettative dell’uomo in vita e oltre la morte, influenzando in modo significativo la visione del mondo e il comportamento quotidiano. Secondo san Paolo, la speranza è un ingrediente indispensabile per una vita che si dona, che cresce collaborando con gli altri e sviluppando la propria libertà. Il futuro diventa così un compito collettivo che ci fa crescere come persone. La sua presenza ci invita a guardare al futuro con un senso di fiducia, intraprendenza e connessione con gli altri.
            Questa era la speranza del Venerabile padre Crespi! Una grande virtù che, come le braccia di un giogo, sorregge la fede e la carità; come il braccio trasverso della croce è trono di salvezza, è appoggio del serpente salutare alzato da Mosè nel deserto; ponte dell’anima per spiccare il volo nella luce.
            Il non comune livello raggiunto dal padre Crespi nella pratica di tutte le virtù è stato evidenziato, in maniera concorde, dai testimoni ascoltati nel corso della Inchiesta diocesana della Causa di beatificazione, ma emerge anche dall’analisi attenta dei documenti e dalle vicende biografiche di padre Carlo Crespi. L’esercizio delle virtù cristiane da parte sua fu, a detta di chi lo conobbe, non solo fuori dal comune, ma anche costante nel corso della sua lunga vita. La gente lo seguiva fedelmente perché nel suo quotidiano traspariva, quasi naturalmente, l’esercizio delle virtù teologali, tra le quali la speranza spiccava in modo particolare nei tanti momenti di difficoltà. Egli seminò la speranza nel cuore delle persone e visse tale virtù in massimo grado.
            Quando la scuola “Cornelio Merchan” fu distrutta da un incendio, al popolo accorso in lacrime davanti alle rovine fumanti, egli, pure piangente, manifestò una costante e non comune speranza incoraggiando tutti: “Pachilla non c’è più, ma noi ne costruiremo una migliore e i bambini saranno più felici e più contenti“. Dalle sue labbra non uscì mai una parola di amarezza o di dolore per ciò che era andato perduto.
            Alla scuola di don Bosco e di Mamma Margherita, ha vissuto e testimoniato la speranza in pienezza perché, confidando nel Signore e sperando nella Divina Provvidenza, ha realizzato grandi opere e servizi senza budget, anche se non gli è mai mancato il denaro. Non aveva tempo per agitarsi o disperarsi, il suo atteggiamento positivo dava fiducia e speranza agli altri.
            Don Carlo veniva spesso descritto come un uomo dal cuore ricco di ottimismo e speranza davanti alle grandi sofferenze della vita, perché era portato a relativizzare le vicende umane, anche le più difficili; in mezzo alla sua gente era testimone e pellegrino di speranza nel cammino della vita!
            Molto edificante, al fine di comprendere in che modo ed in quali ambiti della vita del Venerabile la virtù della speranza trovò concreta espressione, è anche il racconto che lo stesso padre Carlo Crespi fa in una lettera, inviata da Cuenca nel 1925, al Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi. In essa, accogliendo una sua insistente richiesta, gli riferisce un episodio vissuto in prima persona, quando, nel consolare una donna kivara per la perdita prematura del figlio, le annuncia la buona novella della vita senza fine: “Commosso fino alle lacrime mi accostai alla veneranda figlia della selva dai capelli sciolti al vento: l’assicurai che il figlio era morto bene, che prima di morire non aveva avuto sulle labbra che il nome della madre lontana, e che aveva avuto una sepoltura in una cassa espressamente lavorata, essendo certamente la sua anima stata raccolta dal grande Iddio nel Paradiso […]. Potei quindi scambiare tranquillamente alcune parole, gettando in quel cuore infranto il soave balsamo della Fede e della Speranza cristiana”.
            La pratica della virtù della speranza crebbe parallelamente alla pratica delle altre virtù cristiane, incentivandole: fu uomo ricco di fede, di speranza e di carità.
            Quando la situazione socio-economica di Cuenca nel XX secolo peggiorò notevolmente, creando importanti ripercussioni sulla vita della popolazione, ebbe l’intuizione di comprendere che formando i giovani da un punto di vista umano, culturale e spirituale, avrebbe seminato in loro la speranza in una vita e in futuro migliore, contribuendo a cambiare le sorti dell’intera società.
            Padre Crespi intraprese, pertanto, numerose iniziative in favore della gioventù di Cuenca, partendo anzitutto dall’educazione scolastica. La Scuola Popolare Salesiana “Cornelio Merchán”; il Collegio Normale Orientalista rivolto agli insegnanti salesiani; la fondazione delle scuole d’arti e mestieri – che in seguito diventarono il “Técnico Salesiano” e l’Istituto Tecnologico Superiore, culminante nell’Università Politecnica Salesiana – confermano il desiderio del Servo di Dio di offrire alla popolazione cuencana migliori e più numerose prospettive per una crescita spirituale, umana e professionale. I giovani e i poveri, considerati anzitutto quali figli di Dio destinati alla beatitudine eterna, furono quindi raggiunti da padre Crespi attraverso una promozione umana e sociale capace di confluire in una più ampia dinamica, quella della salvezza.
            Tutto ciò fu da lui attuato con pochi mezzi economici, ma abbondante speranza nel futuro dei giovani. Lavorò attivamente senza perdere di vista lo scopo ultimo della propria missione: il conseguimento della vita eterna. È proprio in questo senso che padre Carlo Crespi intese la virtù teologale della speranza ed è attraverso questa prospettiva che passò tutto il suo sacerdozio.
La riaffermazione della vita eterna fu senza dubbio uno dei temi centrali trattati negli scritti di padre Carlo Crespi. Questo dato ci permette di cogliere l’evidente importanza da lui assegnata alla virtù della speranza. Tale dato mostra chiaramente come la pratica di questa virtù permeò costantemente il percorso terreno del Servo di Dio.
            Nemmeno la malattia poté spegnere l’inesauribile speranza che sempre animò padre Crespi.
            Poco prima di chiudere la propria esistenza terrena don Carlo chiese che gli fosse dato fra le mani un crocifisso. La sua morte avvenne il 30 aprile 1982 alle ore 17.30 nella Clinica Santa Inés di Cuenca a causa di una broncopolmonite e d’un attacco cardiaco.
            Il medico personale del Venerabile Servo di Dio, che per 25 anni e fino alla morte, fu testimone diretto della serenità e della consapevolezza con la quale padre Crespi, che sempre aveva vissuto con lo sguardo rivolto al cielo, visse il tanto atteso incontro con Gesù.
            Nel processo testimoniò: “Per me un segno speciale è proprio quell’atteggiamento di aver comunicato con noi in un atto semplicemente umano, ridendo e scherzando e, quando -dico- ha visto che le porte dell’eternità erano aperte e forse la Vergine l’aspettava, ci ha zittito e ci ha fatto pregare tutti”.

Carlo Riganti,
Presidente Associazione Carlo Crespi




La radicalità evangelica del Beato Stefano Sándor

Stefano Sándor (Szolnok 1914 – Budapest 1953) è un martire coadiutore salesiano. Giovane allegro e devoto, dopo gli studi metallurgici entrò tra i Salesiani, diventando maestro tipografo e guida dei ragazzi. Animò oratori, fondò la Gioventù Operaia Cattolica e trasformò trincee e cantieri in “oratori festivi”. Quando il regime comunista confiscò le opere ecclesiali, continuò clandestinamente a educare e salvare giovani e macchinari; arrestato, fu impiccato l’8 giugno 1953. Radicato nell’Eucaristia e nella devozione a Maria, incarnò la radicalità evangelica di Don Bosco con dedizione educativa, coraggio e fede incrollabile. Beatificato da papa Francesco nel 2013, resta modello di santità laicale salesiana.

1. Cenni biografici
            Sándor Stefano nacque a Szolnok, in Ungheria, il 26 ottobre 1914 da Stefano e Maria Fekete, primo di tre fratelli. Il padre era impiegato presso le Ferrovie dello Stato, la madre invece era casalinga. Entrambi trasmisero ai propri figli una profonda religiosità. Stefano studiò nella sua città ottenendo il diploma di tecnico metallurgico. Fin da ragazzo veniva stimato dai compagni, era allegro, serio e gentile. Aiutava i fratellini a studiare e a pregare, dandone per primo l’esempio. Fece con fervore la cresima impegnandosi a imitare il suo santo protettore e san Pietro. Serviva ogni giorno la santa Messa dai padri francescani ricevendo l’Eucaristia.
            Leggendo il Bollettino Salesiano conobbe Don Bosco. Si sentì subito attratto dal carisma salesiano. Si confrontò col suo direttore spirituale, esprimendogli il desiderio di entrare nella Congregazione salesiana. Ne parlò anche ai suoi genitori. Essi gli negarono il consenso, e cercarono in ogni modo di dissuaderlo. Ma Stefano riuscì a convincerli, e nel 1936 fu accettato al Clarisseum, sede dei Salesiani a Budapest, dove in due anni fece l’aspirantato. Frequentò nella tipografia “Don Bosco” i corsi di tecnicostampatore. Iniziò il noviziato, ma dovette interromperlo per la chiamata alle armi.
            Nel 1939 ottenne il congedo definitivo e, dopo l’anno di noviziato, emise la sua prima professione l’8 settembre 1940 come salesiano coadiutore. Destinato al Clarisseum, si impegnò attivamente nell’insegnamento nei corsi professionali. Ebbe anche l’incarico dell’assistenza all’oratorio, che condusse con entusiasmo e competenza. Fu il promotore della Gioventù Operaia Cattolica. Il suo gruppo venne riconosciuto come il migliore del movimento. Sull’esempio di Don Bosco, si mostrò un educatore modello. Nel 1942 fu richiamato al fronte, e si guadagnò una medaglia d’argento al valore militare. La trincea era per lui un oratorio festivo che animava salesianamente, rincuorando i compagni di leva. Alla fine della Seconda guerra mondiale si impegnò nella ricostruzione materiale e morale della società, dedicandosi in particolare ai giovani più poveri, che radunava insegnando loro un mestiere. Il 24 luglio 1946 emise la sua professione perpetua. Nel 1948 conseguì il titolo di maestro-stampatore. Alla fine degli studi gli allievi di Stefano venivano assunti nelle migliori tipografie della capitale Budapest e dell’Ungheria.

            Quando lo Stato nel 1949, sotto Mátyás Rákosi, incamerò i beni ecclesiastici e iniziarono le persecuzioni nei confronti delle scuole cattoliche, che dovettero chiudere i battenti, Sándor cercò di salvare il salvabile, almeno qualche macchina tipografica e qualcosa dell’arredamento che tanti sacrifici era costato. Di colpo i religiosi si ritrovarono senza più nulla, tutto era diventato dello Stato. Lo stalinismo di Rákosi continuò ad accanirsi: i religiosi vennero dispersi. Senza più casa, lavoro, comunità, molti si ridussero allo stato di clandestini. Si adattarono a fare di tutto: spazzini, contadini, manovali, facchini, servitori… Anche Stefano dovette “sparire”, lasciando la sua tipografia che era diventata famosa. Invece di rifugiarsi all’estero rimase in patria per salvare la gioventù ungherese. Colto sul fatto (stava cercando di salvare delle macchine tipografiche), dovette fuggire in fretta e rimanere nascosto per alcuni mesi; poi, sotto altro nome, riuscì a farsi assumere in una fabbrica di detergenti della capitale, ma continuò impavido e clandestinamente il suo apostolato, pur sapendo che era attività rigorosamente proibita. Nel luglio del 1952 fu catturato sul posto di lavoro, e non fu più rivisto dai confratelli. Un documento ufficiale ne certifica il processo e la condanna a morte, eseguita per impiccagione l’8 giugno 1953.
            La fase diocesana della Causa di martirio iniziò a Budapest il 24 maggio 2006 e si concluse l’8 dicembre 2007. Il 27 marzo 2013 papa Francesco autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto di martirio e a celebrare il rito di beatificazione, che si svolse sabato 19 ottobre 2013 a Budapest.

2. Testimonianza originale di santità salesiana
            I rapidi cenni sulla biografia di Sándor ci hanno introdotto nel cuore della sua vicenda spirituale. Contemplando la fisionomia che ha assunto in lui la vocazione salesiana, segnata dall’azione dello Spirito e ora proposta dalla Chiesa, scopriamo alcuni tratti di quella santità: il senso profondo di Dio e la disponibilità piena e serena alla sua volontà, l’attrazione per Don Bosco e la cordiale appartenenza alla comunità salesiana, la presenza animatrice ed incoraggiante tra i giovani, lo spirito di famiglia, la vita spirituale e di preghiera coltivata personalmente e condivise con la comunità, la totale consacrazione alla missione salesiana vissuta nella dedizione agli apprendisti e ai giovani lavoratori, ai ragazzi dell’oratorio, all’animazione di gruppi giovanili. Si tratta di un’attiva presenza nel mondo educativo e sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo spinge interiormente!

            Non mancarono gesti che hanno dell’eroico e dell’insolito, fino a quello supremo di donare la propria vita per la salvezza della gioventù ungherese. «Un giovanotto voleva saltare sul tram che passava davanti alla casa salesiana. Sbagliando mossa, cadde sotto il veicolo. La carrozza si fermò troppo tardi; una ruota lo ferì profondamente alla coscia. Una grande folla si radunò a guardare la scena senza intervenire, mentre il povero malcapitato stava per dissanguarsi. In quel momento si aprì il cancello del collegio e Pista (nome famigliare di Stefano) corse fuori con una barella pieghevole sotto il braccio. Buttò per terra la sua giacca, si infilò sotto il tram e tirò fuori il giovanotto con prudenza, stringendo la sua cintura attorno alla coscia sanguinante, e mise il ragazzo sulla barella. A questo punto arrivò l’ambulanza. La folla festeggiò Pista con entusiasmo. Egli arrossì, ma non poté nascondere la gioia di avere salvato la vita a qualcuno».
            Uno dei suoi ragazzi ricorda: «Un giorno mi ammalai gravemente di tifo. All’ospedale di Újpest mentre al capezzale i miei genitori si preoccupavano per la mia vita, Stefano Sándor si offrì di darmi il sangue, se fosse stato necessario. Questo atto di generosità commosse molto mia madre e tutte le persone intorno a me».
            Anche se sono trascorsi oltre sessant’anni dal suo martirio e profonda è stata l’evoluzione della Vita Consacrata, dell’esperienza salesiana, della vocazione e della formazione del salesiano coadiutore, la via salesiana alla santità tracciata da Stefano Sándor è un segno e un messaggio che apre prospettive per l’oggi. Si compie in questo modo l’affermazione delle Costituzioni salesiane: «I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione». La sua beatificazione indica concretamente quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» indicata da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte.

2.1. Sotto il vessillo di Don Bosco
            È sempre interessante cercare di individuare nel piano misterioso che il Signore tesse su ciascuno di noi il filo conduttore di tutta l’esistenza. Con una formula sintetica il segreto che ha ispirato e guidato tutti i passi della vita di Stefano Sándor, si può sintetizzare con queste parole: al seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e sempre. Nella storia vocazionale di Stefano Don Bosco irrompe in modo originale e con i tratti tipici di una vocazione ben identificata, come scrisse il parroco francescano, presentando il giovane Stefano: «Qui a Szolnok, nella nostra parrocchia abbiamo un giovane molto bravo: Stefano Sándor di cui sono padre spirituale e che, finita la scuola tecnica, apprese il mestiere in una scuola metallurgica; fa la Comunione giornalmente e vorrebbe entrare in un ordine religioso. Da noi non avremmo nessuna difficoltà, ma lui vorrebbe entrare dai Salesiani come fratello laico».
            Il giudizio lusinghiero del parroco e direttore spirituale evidenzia: i tratti di lavoro e preghiera tipici della vita salesiana; un cammino spirituale perseverante e costante con una guida spirituale; l’apprendistato dell’arte tipografica che nel tempo si perfezionerà e si specializzerà.
            Era venuto a conoscere Don Bosco tramite il Bollettino Salesiano e le pubblicazioni salesiane di Rákospalota. Da questo contatto attraverso la stampa salesiana nacque forse la sua passione per la tipografia e per i libri. Nella lettera all’Ispettore dei Salesiani d’Ungheria, don János Antal, dove chiede di essere accettato tra i figli di Don Bosco, dichiarava: «Sento la vocazione di entrare nella Congregazione salesiana. Di lavoro ce n’è bisogno ovunque; senza lavoro non si può raggiungere la vita eterna. A me piace lavorare».
            Fin dall’inizio emerge la volontà forte e decisa di perseverare nella vocazione ricevuta, come poi di fatto avverrà. Quando il 28 maggio 1936 egli fece domanda di ammissione al noviziato salesiano, dichiarò di «aver conosciuto la Congregazione salesiana ed essere stato sempre più confermato nella sua vocazione religiosa, tanto da confidare di poter perseverare sotto il vessillo di Don Bosco». Con poche parole Sándor esprime una coscienza vocazionale di alto profilo: conoscenza esperienziale della vita e dello spirito della Congregazione; conferma di una scelta giusta e irreversibile; sicurezza per il futuro di essere fedele sul campo di battaglia che lo attende.
            Il verbale dell’ammissione al noviziato, in lingua italiana (2 giugno 1936), qualifica unanimemente l’esperienza dell’aspirantato: «Con ottimo risultato, diligente, di pietà buona e si offrì da sé all’oratorio festivo, fu pratico, di buon esempio, ricevette l’attestato di stampatore, ma non ha ancora la perfetta praticità». Sono già presenti quei tratti che, consolidati successivamente nel noviziato, ne definiranno la fisionomia di religioso salesiano laico: l’esemplarità della vita, la generosa disponibilità alla missione salesiana, la competenza nella professione di tipografo.
            L’8 settembre 1940 emette la sua professione religiosa come salesiano coadiutore. Di questo giorno di grazia riportiamo una lettera scritta da Pista, come veniva famigliarmente chiamato, ai suoi genitori: «Cari genitori, ho da riferire di un evento importante per me e che lascerà orme indelebili nel mio cuore. L’8 settembre per grazia del buon Dio e con la protezione della Santa Vergine mi sono impegnato con la professione ad amare e servire Dio. Nella festa della Vergine Madre ho fatto il mio sposalizio con Gesù e gli ho promesso col triplice voto di essere Suo, di non staccarmi mai più da Lui e di perseverare nella fedeltà a Lui fino alla morte. Prego pertanto tutti voi di non dimenticarmi nelle vostre preghiere e nelle Comunioni, facendo voti che io possa rimanere fedele alla mia promessa fatta a Dio. Potete immaginare che quello fu per me un giorno lieto, mai capitato nella mia vita. Penso che non avrei potuto dare alla Madonna un dono di compleanno più gradito del dono di me stesso. Immagino che il buon Gesù vi avrà guardato con occhi affettuosi, essendo stati voi a donarmi a Dio… Affettuosi saluti a tutti. PISTA».

2.2. Dedizione assoluta alla missione
            «La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto…», dicono le Costituzioni salesiane.12 Stefano Sándor visse la missione salesiana nel campo che gli era stato affidato, incarnando la carità pastorale educativa come salesiano coadiutore, con lo stile di Don Bosco. La sua fede lo portò a vedere Gesù nei giovani apprendisti e lavoratori, nei ragazzi dell’oratorio, in quelli della strada.
            Nell’industria tipografica la direzione competente dell’amministrazione è considerata un compito essenziale. Stefano Sándor era incaricato della direzione, dell’addestramento pratico e specifico degli apprendisti e della fissazione dei prezzi dei prodotti tipografici. La tipografia “Don Bosco” godeva in tutto il Paese di grande prestigio. Facevano parte delle edizioni salesiane il Bollettino Salesiano, Gioventù Missionaria, riviste per la gioventù, il Calendario Don Bosco, libri di devozione e l’edizione in traduzione ungherese degli scritti ufficiali della Direzione Generale dei Salesiani. È in quell’ambiente che Stefano Sándor prese ad amare i libri cattolici che venivano da lui non solo approntati per la stampa, ma anche studiati.
            Nel servizio della gioventù egli era pure responsabile dell’educazione collegiale dei giovani. Anche questo era un compito importante, oltre al loro addestramento tecnico. Era indispensabile disciplinare i giovani, in fase di sviluppo vigoroso, con fermezza affettuosa. In ogni momento del periodo di apprendistato egli li affiancava come un fratello maggiore. Stefano Sándor si distinse per una forte personalità: possedeva un’eccellente istruzione specifica, accompagnata dalla disciplina, dalla competenza e dallo spirito comunitario.
            Non si accontentava di un solo determinato lavoro, ma si rendeva disponibile ad ogni necessità. Si assunse il compito di sagrestano della piccola chiesa del Clarisseum e si prese cura nella direzione del “Piccolo Clero”. Prova della sua capacità di resistenza fu anche l’impegno spontaneo di lavoro volontario nel fiorente oratorio, frequentato regolarmente dai giovani dei due sobborghi di Újpest e Rákospalota. Gli piaceva giocare con i ragazzi; nelle partite di calcio faceva l’arbitro con grande competenza.

2.3. Religioso educatore
            Stefano Sándor fu educatore alla fede di ogni persona, confratello e ragazzo, soprattutto nei momenti di prova e nell’ora del martirio. Davvero Sándor aveva fatto della missione per i giovani il proprio spazio educativo, dove viveva quotidianamente i criteri del Sistema Preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza amorosa ai giovani lavoratori, nell’aiuto prestato a comprendere e accettare le situazioni di sofferenza, nella testimonianza viva della presenza del Signore e del suo amore indefettibile.
            A Rákospalota Stefano Sándor si dedicò con zelo all’addestramento dei giovani tipografi e all’educazione dei giovani dell’oratorio e dei “Paggi del Sacro Cuore”. Su questi fronti manifestò uno spiccato senso del dovere, vivendo con grande responsabilità la sua vocazione religiosa e caratterizzandosi per una maturità che suscitava ammirazione e stima. «Durante la sua attività tipografica, viveva coscienziosamente la sua vita religiosa, senza alcuna volontà di apparire. Praticava i voti di povertà, castità e obbedienza, senza alcuna forzatura. In questo campo, la sua sola presenza valeva una testimonianza, senza dire alcuna parola. Anche gli alunni riconoscevano la sua autorevolezza, grazie ai suoi modi fraterni. Metteva in pratica tutto ciò che diceva o chiedeva agli alunni, e a nessuno veniva in mente di contraddirlo in alcun modo».
            György Érseki conosceva i Salesiani fin dal 1945 e dopo la Seconda guerra mondiale andò ad abitare a Rákospalota, nel Clarisseum. La sua conoscenza con Stefano Sándor durò fino al 1947. Per questo periodo non solo ci offre uno spaccato della molteplice attività del giovane coadiutore, tipografo, catechista ed educatore della gioventù, ma anche una lettura profonda, dalla quale emerge la ricchezza spirituale e la capacità educativa di Stefano: «Stefano Sándor fu una persona molto dotata di natura. In qualità di pedagogo, posso sostenere e confermare la sua capacità di osservazione e la sua personalità poliedrica. Fu un bravo educatore e riusciva a gestire i giovani, uno per uno, in una maniera ottimale, scegliendo il tono adeguato con tutti. Vi è ancora un dettaglio appartenente alla sua personalità: considerava ogni suo lavoro un santo dovere, consacrando, senza sforzi e con grande naturalezza, tutta la sua energia alla realizzazione di questo scopo sacro. Grazie ad un intuito innato, riusciva a cogliere l’atmosfera e ad influenzarla positivamente. […] Aveva un carattere forte come educatore; si prendeva cura di tutti singolarmente. S’interessava dei nostri problemi personali, reagendo sempre nel modo più adatto a noi. In questo modo realizzava i tre principi di Don Bosco: la ragione, la religione e l’amorevolezza… I coadiutori salesiani non indossavano la veste all’infuori del contesto liturgico, ma l’aspetto di Stefano Sándor si distingueva dalla massa della gente. Per quanto riguarda la sua attività di educatore, non ricorreva mai alla punizione fisica, vietata secondo i principi di Don Bosco, diversamente da altri insegnanti salesiani più impulsivi, incapaci di padroneggiarsi e che a volte davano degli schiaffi. Gli alunni apprendisti affidati a lui formavano una piccola comunità all’interno del collegio, pur essendo diversi fra di loro dal punto di vista dell’età e della cultura. Essi mangiavano alla mensa insieme agli altri studenti, dove abitualmente durante i pasti si leggeva la Bibbia. Naturalmente vi era presente anche Stefano Sándor. Grazie alla sua presenza, il gruppo di apprendisti industriali riuscì sempre il più disciplinato… Stefano Sándor rimase sempre giovanile, dimostrando grande comprensione verso i giovani. Cogliendo i loro problemi, trasmetteva dei messaggi positivi e li sapeva consigliare sia sul piano personale, che su quello religioso. La sua personalità rivelava grande tenacia e resistenza nel lavoro; anche nelle situazioni più difficili, rimaneva fedele ai suoi ideali e a se stesso. Il collegio salesiano di Rákospalota ospitava una grande comunità, richiedendo un lavoro con i giovani a più livelli. Nel collegio, accanto alla tipografia, abitavano dei giovani salesiani in formazione, che erano in stretto rapporto con i coadiutori. Ricordo i seguenti nomi: József Krammer, Imre Strifler, Vilmos Klinger e László Merész. Questi giovani avevano compiti diversi da quelli di Stefano Sándor e ne differivano anche caratterialmente. Grazie però alla loro vita in comune, conoscevano i problemi, le virtù e i difetti gli uni degli altri. Stefano Sándor nel suo rapporto con questi chierici trovò sempre la misura adeguata. Stefano Sándor riuscì a trovare il tono fraterno per ammonirli, quando mostravano qualche loro manchevolezza, senza cadere nel paternalismo. Anzi, furono i giovani chierici a chiedere la sua opinione. A mio avviso, egli realizzò gli ideali di Don Bosco. Fin dal primo momento della nostra conoscenza, Stefano Sándor rappresentò lo spirito che caratterizzava i membri della Società Salesiana: senso del dovere, purezza, religiosità, praticità e fedeltà ai principi cristiani».

            Un ragazzo di quel tempo così ricorda lo spirito che animava Stefano Sándor: «Il mio primo ricordo di lui è legato alla sagrestia del Clarisseum, in cui egli, in qualità di sagrestano principale, esigeva l’ordine, imponendo la serietà dovuta alla situazione, rimanendo però sempre lui, con il suo comportamento, a darci il buon esempio. Era una delle sue caratteristiche quella di darci le direttive con un tono moderato, senza alzar la voce, chiedendoci piuttosto cortesemente di fare i nostri doveri. Questo suo comportamento spontaneo ed amichevole ci conquistò. Gli volevamo veramente bene. Ci incantò la naturalezza con la quale Stefano Sándor si occupava di noi. Ci insegnava, pregava e viveva con noi, testimoniando la spiritualità dei coadiutori salesiani di quel tempo. Noi, giovani, spesso non ci rendevamo conto di quanto fossero speciali queste persone, ma egli spiccava per la sua serietà, che manifestava in chiesa, nella tipografia e persino nel campo da gioco».

3. Riflesso di Dio con radicalità evangelica
            Ciò che dava spessore a tutto questo – la dedizione alla missione e la capacità professionale ed educativa – e che colpiva immediatamente coloro che lo incontravano era la figura interiore di Stefano Sándor, quella di discepolo del Signore, che viveva in ogni momento la sua consacrazione, nella costante unione con Dio e nella fraternità evangelica. Dalle testimonianze processuali emerge una figura completa, anche per quell’equilibrio salesiano per cui le diverse dimensioni si congiungono in una personalità armonica, unificata e serena, aperta al mistero di Dio vissuto nel quotidiano.
            Un tratto che colpisce di tale radicalità è il fatto che fin dal noviziato tutti i suoi compagni, anche quelli aspiranti al sacerdozio e molto più giovani di lui, lo stimassero e lo vedessero come modello da imitare. L’esemplarità della sua vita consacrata e la radicalità con cui visse e testimoniò i consigli evangelici lo distinsero sempre e ovunque per cui in molte occasioni, anche nel tempo della prigionia, diversi pensavano che fosse un sacerdote. Tale testimonianza dice molto della singolarità con cui Stefano Sándor visse sempre con chiara identità la sua vocazione di salesiano coadiutore, evidenziando proprio lo specifico della vita consacrata salesiana in quanto tale. Tra i compagni di noviziato Gyula Zsédely così parla di Stefano Sándor: «Entrammo insieme nel noviziato salesiano di Santo Stefano a Mezőnyárád. Il nostro maestro fu Béla Bali. Qui passai un anno e mezzo con Stefano Sándor e fui testimone oculare della sua vita, modello di giovane religioso. Benché Stefano Sándor avesse almeno nove-dieci anni più di me, conviveva con i suoi compagni di noviziato in modo esemplare; partecipava alle pratiche di pietà insieme a noi. Non sentivamo affatto la differenza d’età; ci stava a fianco con affetto fraterno. Ci edificava non solo attraverso il suo buon esempio, ma anche dandoci dei consigli pratici in merito all’educazione della gioventù. Si vedeva già allora come fosse predestinato a questa vocazione secondo i principi educativi di Don Bosco… Il suo talento di educatore balzò agli occhi anche di noi novizi, specialmente in occasione delle attività comunitarie. Con il suo fascino personale ci entusiasmava a tal punto, che davamo per scontato di poter affrontare con facilità anche i compiti più difficili. Il motore della sua profonda spiritualità salesiana furono la preghiera e l’Eucaristia, nonché la devozione alla Vergine Maria Ausiliatrice. Durante il noviziato, che durò un anno, vedevamo nella sua persona un buon amico. Divenne il nostro modello anche nell’obbedienza, poiché, essendo lui il più vecchio, fu messo alla prova con delle piccole umiliazioni, ma egli le sopportò con padronanza e senza dar segni di sofferenza o risentimento. In quel tempo, purtroppo, c’era qualcuno tra i nostri superiori che si divertiva ad umiliare i novizi, ma Stefano Sándor seppe resistere bene. La sua grandezza di spirito, radicata nella preghiera, era percepibile da tutti».
            Riguardo alla intensità con cui Stefano Sándor viveva la sua fede, con una continua unione con Dio, emerge una esemplarità di testimonianza evangelica, che possiamo ben definire un “riflesso di Dio”: «Mi pare che la sua attitudine interiore sia scaturita dalla devozione all’Eucaristia e alla Madonna, la quale aveva trasformato anche la vita di Don Bosco. Quando si occupava di noi, “Piccolo Clero”, non dava l’impressione di esercitare un mestiere; le sue azioni manifestavano la spiritualità di una persona capace di pregare con grande fervore. Per me e per i miei coetanei “il Signor Sándor” fu un ideale e neanche per sogno pensavamo che tutto ciò che abbiamo visto e udito fosse una messinscena superficiale. Ritengo che solo la sua intima vita di preghiera abbia potuto alimentare tale comportamento quando, ancora confratello giovanissimo, aveva compreso e preso sul serio il metodo di educazione di Don Bosco».
            La radicalità evangelica si espresse in diverse forme nel corso della vita religiosa di Stefano Sándor:
            – Nell’aspettare con pazienza il consenso dei genitori per entrare dai Salesiani.
            – In ogni passaggio della vita religiosa dovrà attendere: prima di essere ammesso al noviziato dovrà fare l’aspirantato; ammesso al noviziato dovrà interromperlo per fare il servizio militare; la domanda per la professione perpetua, prima accettata, verrà rinviata dopo un ulteriore periodo di voti temporanei.
            – Nelle dure esperienze del servizio militare e al fronte. Lo scontro con un ambiente che tendeva molte insidie alla sua dignità di uomo e di cristiano rafforzarono in questo giovane novizio la decisione di seguire il Signore, di essere fedele alla sua scelta di Dio, costi quel che costi. Davvero non c’è discernimento più duro ed esigente che quello di un noviziato provato e vagliato nella trincea della vita militare.
            – Negli anni della soppressione e poi del carcere, fino all’ora suprema del martirio.

            Tutto questo rivela quello sguardo di fede che accompagnerà sempre la storia di Stefano: la consapevolezza che Dio è presente e opera per il bene dei suoi figli.

Conclusione
            Stefano Sándor dalla nascita fino alla morte fu un uomo profondamente religioso, che in tutte le circostanze della vita rispose con dignità e coerenza alle esigenze della sua vocazione salesiana. Così visse nel periodo dell’aspirantato e della formazione iniziale, nel suo lavoro di tipografo, come animatore dell’oratorio e della liturgia, nel tempo della clandestinità e della carcerazione, fino ai momenti che precedettero la sua morte. Desideroso, fin dalla prima giovinezza, di consacrarsi al servizio di Dio e dei fratelli nel generoso compito dell’educazione dei giovani secondo lo spirito di Don Bosco, fu capace di coltivare uno spirito di fortezza e di fedeltà a Dio e ai fratelli che lo misero in grado, nel momento della prova, di resistere, prima alle situazioni di conflitto e poi alla prova suprema del dono della vita.
            Vorrei evidenziare la testimonianza di radicalità evangelica offerta da questo confratello. Dalla ricostruzione del profilo biografico di Stefano Sándor emerge un reale e profondo cammino di fede, iniziato fin dalla sua infanzia e giovinezza, irrobustito dalla professione religiosa salesiana e consolidato nell’esemplare vita di salesiano coadiutore. Si nota in particolare una genuina vocazione consacrata, animata secondo lo spirito di Don Bosco, da un intenso e fervoroso zelo per la salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Anche i periodi più difficili, quali il servizio militare e l’esperienza della guerra, non scalfirono l’integro comportamento morale e religioso del giovane coadiutore. È su tale base che Stefano Sándor subirà il martirio senza ripensamenti o esitazioni.
            La beatificazione di Stefano Sándor impegna tutta la Congregazione nella promozione della vocazione del salesiano coadiutore, accogliendo la sua testimonianza esemplare e invocando in forma comunitaria la sua intercessione per questa intenzione. Come salesiano laico, riuscì a dare buon esempio persino ai preti, con la sua attività in mezzo ai giovani e con la sua esemplare vita religiosa. È un modello per i giovani consacrati, per il modo con il quale affrontò le prove e le persecuzioni senza accettare compromessi. Le cause a cui si dedicò, la santificazione del lavoro cristiano, l’amore per la casa di Dio e l’educazione della gioventù, sono tuttora missione fondamentale della Chiesa e della nostra Congregazione.
Come educatore esemplare dei giovani, in particolare degli apprendisti e dei giovani lavoratori, e come animatore dell’oratorio e dei gruppi giovanili, ci è di esempio e di stimolo nel nostro impegno di annunciare ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà.