Don Bosco e sua madre

            Nel 1965 venne commemorato il 150° anniversario della nascita di Don Bosco. Tra le conferenze per l’occasione ce ne fu una fatta da Mons. Giuseppe Angrisani, allora Vescovo di Casale, e Presidente Nazionale degli Exallievi sacerdoti. L’oratore nel suo discorso, accennando a Mamma Margherita, ebbe a dire di Don Bosco: «Per fortuna sua quella mamma gli fu a fianco per tanti e tanti anni, ed io penso e credo di essere nel vero affermando che l’aquila dei Becchi non avrebbe spiccato il volo fino ai confini della terra se la rondinella della Serra di Capriglio non fosse venuta a nidificare sotto la trave dell’umilissima casa della famiglia Bosco» (BS, sett. 1966, p. 10).
            Quella dell’illustre oratore fu un’immagine altamente poetica, che esprimeva tuttavia una realtà. Non per nulla 30 anni prima, G. Joergensen, senza voler profanare la Sacra Scrittura, si permetteva di iniziare il suo Don Bosco edito dalla SEI con le parole: «In principio c’era la madre».
L’influsso materno negli atteggiamenti religiosi del fanciullo e nella religiosità dell’adulto è riconosciuto dagli esperti di psicologia religiosa ed è, nel caso nostro, più che evidente: San Giovanni Bosco, che ebbe sempre per sua madre la più grande venerazione, ricopiò da lei un profondo senso religioso della vita. «Dio domina come un sole meridiano la mente di Don Bosco» (Pietro Stella).

Iddio in cima ai suoi pensieri
            È un fatto facile da documentarsi: Don Bosco ebbe sempre Iddio in cima a tutti i suoi pensieri. Uomo di azione, fu prima di tutto uomo di preghiera. Ricorda egli stesso che fu la madre ad insegnargli a pregare, cioè a conversare con Dio:
            — Mi faceva mettere coi miei fratelli in ginocchio mattino e sera, e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune (MO 21-22).
            Quando Giovanni dovette lasciare il tetto materno e andar garzone di campagna alla cascina Moglia, la preghiera era già il suo abituale alimento e conforto. In quella casa di Moncucco «si adempivano i doveri del buon cristiano con la regolarità delle inveterate abitudini domestiche, tenaci sempre nelle famiglie campagnole, tenacissime a quei tempi di vita sanamente paesana» (E. Ceria). Ma Giovanni faceva già qualcosa di più: pregava in ginocchio, pregava spesso, pregava a lungo. Anche fuori casa, mentre conduceva le vacche al pascolo, sostava ogni tanto in preghiera.
            La mamma gli aveva anche instillato nel cuore una tenera devozione alla Vergine Santissima. Alla sua entrata in Seminario, gli aveva detto:
            — Quando sei venuto al mondo, ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la devozione a questa nostra Madre; e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga sempre la devozione a Maria (MO, 89).
            Mamma Margherita, dopo aver educato il figlio Giovanni nella casetta dei Becchi, dopo averlo maternamente seguito ed incoraggiato nel suo duro cammino vocazionale, visse ancora per dieci anni al suo fianco, coprendo un delicatissimo ruolo materno nell’educazione di quei giovani da lui radunati, con uno stile che rivive in tanti aspetti della prassi educativa di Don Bosco: consapevolezza della presenza di Dio, laboriosità che è senso della dignità umana e cristiana, coraggio ispiratore di opere, ragione che è dialogo e accettazione degli altri, amore esigente ma rasserenante.
            Senza alcun dubbio, quindi, la madre svolse una funzione unica nell’educazione e nel primo apostolato del figlio, incidendo profondamente sullo spirito e sullo stile del suo futuro operare.
            Fatto sacerdote ed iniziato il lavoro tra la gioventù, Don Bosco diede il nome di Oratorio alla sua opera. Non è senza motivo che il centro propulsore di tutte le opere di Don Bosco sia stato chiamato “Oratorio”. Il titolo indica l’attività dominante, lo scopo principale di un’impresa. E Don Bosco, come lui stesso confessava, diede il nome di Oratorio alla sua «casa» per indicare chiaramente come la preghiera fosse la sola potenza su cui fare assegnamento.
            Non aveva nessun’altra forza a disposizione per animare i suoi oratori, avviare l’ospizio, risolvere il problema del pane quotidiano, porre le basi del la sua Congregazione. Perciò molti, lo sappiamo, dubitarono persino della sua sanità mentale.
            Ciò che i grandi non capivano, lo capirono invece i piccoli, cioè i giovani che, dopo averlo conosciuto, non si staccavano più da lui. Vedevano in lui la viva immagine del Signore. Sempre calmo e sereno, tutto a loro disposizione, fervente nel pregare, faceto nel parlare, paterno nel guidarli al bene, tenendo poi sempre viva in tutti la speranza della salvezza. Se qualcuno, asserisce un teste, gli avesse domandato a bruciapelo: Don Bosco, dov’è incamminato? egli avrebbe risposto: Andiamo in Paradiso!
Questo senso religioso della vita, che permeò tutte le opere e gli scritti di Don Bosco, era evidente retaggio di sua madre. La santità di Don Bosco era attinta alla fonte divina della Grazia e si modellava su Cristo, maestro di ogni perfezione, ma affondava le radici in un valore spirituale materno, la sapienza cristiana. L’albero buono produce frutti buoni.

Glielo aveva insegnato Lei
            La mamma di Don Bosco, Margherita Occhiena, dal novembre 1846, quando a 58 anni di età, aveva lasciato la sua casetta dei Becchi, divideva con il figlio a Valdocco una vita di privazioni e sacrifici tutta spesa per i monelli della periferia di Torino. Passarono quattro anni, e lei si sentiva ormai venire meno le forze. Una grande stanchezza le era penetrata nelle ossa, una forte nostalgia nel cuore. Entrò nella stanza di Don Bosco e disse: «Ascoltami, Giovanni, non è più possibile andar avanti così. I ragazzi tutti i giorni me ne combinano una. Ora mi gettano a terra la biancheria pulita stesa al sole, ora mi calpestano la verdura nell’orto. Stracciano i vestiti in modo che non c’è più verso di rattopparli. Perdono calze e camicie. Portano via gli arnesi di casa per i loro divertimenti e mi fanno girare tutto il giorno per ritrovarli. Io, in mezzo a questa confusione, ci perdo la testa, Vedi! Quasi, quasi, me ne ritorno ai Becchi».
            Don Bosco fissò in volto sua mamma, senza parlare. Poi le indicò il Crocifisso appeso alla parete. Mamma Margherita capì. I suoi occhi si riempirono di lacrime.
            — Hai ragione, hai ragione, esclamò; e tornò alle sue faccende, per altri sei anni, fino alla sua morte (G.B. LEMOYNE, Mamma Margherita, Torino, SEI, 1956, p. 155-156).
            Mamma Margherita nutriva una profonda devozione alla Passione di Cristo, a quella Croce che dava senso, forza e speranza a tutte le sue croci. Lo aveva insegnato lei a suo figlio. Le bastò uno sguardo al Crocifisso!… Per lei la vita era una missione da compiere, il tempo un dono di Dio, il lavoro un contributo umano al disegno del Creatore, la storia dell’uomo cosa sacra perché Dio, nostro Signore, Padre e Salvatore, è al centro, al principio e alla fine del mondo e dell’uomo.
Lei aveva insegnato tutto questo a suo figlio con la parola e con l’esempio. Madre e figlio: una fede ed una speranza riposte in Dio solo, e una carità ardente che bruciò nel loro cuore sino alla morte.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (3/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

2. Le litanie della buona morte nel contesto della spiritualità giovanile promossa da don Bosco
            Un discorso a parte meritano le litanie della buona morte inserite nel Giovane provveduto, che costituivano soltanto un momento dell’esercizio, quello emotivamente più intenso. Il cuore della pratica mensile, infatti, era rappresentato dall’esame di coscienza, dalla confessione ben fatta, dalla comunione fervente, dalla decisione di darsi totalmente a Dio e dalla formulazione di proponimenti operativi di carattere morale e spirituale. Nei volumi di predicazione o nei manualetti dei secoli precedenti non troviamo testi analoghi alla sequenza litanica del Giovane provveduto, la cui composizione don Bosco attribuisce a “una donzella protestante convertita alla Religione Cattolica nell’età di anni 15, e morta di anni 18 in odore di santità”.[1] Egli l’aveva attinta da libri di pietà pubblicati in quegli anni in Piemonte.[2] La preghiera, “indulgenziata da Pio VII, ma circolante già alla fine del Settecento”,[3] poteva servire come strumento efficace di mozione degli affetti in forza della drammatizzazione immaginativa degli ultimi istanti di vita: collocava il fedele sul letto di morte invitandolo a passare in rassegna le varie parti del corpo e i sensi corrispondenti, considerati nello stato in cui si sarebbero trovati al momento dell’agonia, per scuoterlo, per stimolare la confidenza nella divina misericordia e spingerlo a propositi di conversione e perseveranza. Era un esercizio nel quale lo spirito romantico trovava gusto e che don Bosco riteneva particolarmente indicato sul piano emotivo e spirituale, come risulta da alcuni suoi testi narrativi. La formula ebbe grande fortuna nel corso dell’Ottocento: la troviamo riprodotta in varie raccolte di preghiere anche fuori dei confini piemontesi.[4] Ci pare interessante riportarla nella sua interezza:

            Gesù Signore, Dio di bontà, Padre di misericordia, io mi presento dinanzi a Voi con cuore umiliato e contrito: vi raccomando la mia ultima ora e ciò che dopo di essa mi attende.
            Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me.
            Quando le mie mani tremole e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore, misericordioso ecc.
            Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall’orror della morte imminente fisseranno in Voi gli sguardi languidi e moribondi, misericordiosoecc.
            Quando le mie labbra fredde e tremanti pronunzieranno per l’ultima volta il vostro Nome adorabile, misericordiosoecc.
            Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione ed il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine, misericordiosoecc.
            Quando le mie orecchie, presso a chiudersi per sempre a’ discorsi degli uomini, si apriranno per intendere la vostra voce, che pronunzierà l’irrevocabile sentenza, onde verrà fissata la mia sorte per tutta l’eternità, misericordiosoecc.
            Quando la mia immaginazione agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze, ed il mio spirito turbato dalla vista delle mie iniquità, dal timore della vostra giustizia, lotterà contra l’angelo delle tenebre, che vorrà togliermi la vista consolatrice delle vostre misericordie e precipitarmi in seno alla disperazione, misericordiosoecc.
            Quando il mio debole cuore oppresso dal dolor della malattia sarà sorpreso dagli orrori di morte, e spossato dagli sforzi che avrà fatto contro a’ nemici della mia salute, misericordioso ecc.
            Quando verserò le mie ultime lacrime, sintomi della mia distruzione, ricevetele in sacrificio di espiazione, acciocché io spiri come una vittima di penitenza, ed in quel terribile momento, misericordioso ecc.
            Quando i miei parenti ed amici, stretti a me d’intorno, s’inteneriranno sul dolente mio stato, e v’invocheranno per me, misericordioso ecc.
            Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi, ed il mondo intero sarà sparito da me, ed io gemerò nelle angosce della estrema agonia e negli affanni di morte, misericordioso ecc.
            Quando gli ultimi sospiri del cuore sforzeranno l’anima mia ad uscire dal corpo, accettateli come figli di una santa impazienza di venire a Voi, e Voi misericordioso ecc.
            Quando l’anima mia sull’estremità delle labbra uscirà per sempre da questo mondo e lascerà il mio corpo pallido, freddo e senza vita, accettate la distruzione del mio essere, come un omaggio che io vengo a rendere alla vostra divina maestà ed allora, misericordioso ecc.
            Quando finalmente l’anima mia comparirà dinanzi a Voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto; degnatevi ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi: misericordioso ecc.
Orazione: Oh Dio, che condannandoci alla morte, ce ne avete nascosto il momento e l’ora, fatte ch’io passando nella giustizia e nella santità tutti i giorni della vita, possa meritare di uscire di questo mondo nel vostro santo amore, per i meriti del Nostro Signor Gesù Cristo, che vive e regna con Voi nell’unità dello Spirito Santo. Così sia.[5]

            Il razionalismo settecentesco e il gusto barocco per il macabro e il funereo, presente ancora nell’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso Maria de’ Liguori,[6] è superato nell’Ottocento dalla sensibilità romantica che preferisce percorrere la via del sentimento, la quale, “per giungere all’intelletto, va prima direttamente al cuore, e facendo sentire al cuore la forza e la bellezza della religione, fissa l’attenzione dell’intelletto, e ne agevola il consentimento”, come scriveva mons. Angelo Antonio Scotti.[7] Dunque anche nella considerazione della morte si riteneva cosa ottima insistere sulle leve emotive e sugli affetti per suscitare una risposta generosa al dono assoluto di sé fatto dal divin Salvatore per la salvezza dell’umanità. Gli autori spirituali e i predicatori ritenevano importante e necessario descrivere “gli affanni e le oppressioni che sono inseparabili dagli sforzi che naturalmente l’anima deve fare nel rompere i legami del corpo”,[8] insieme alla raffigurazione della morte serena dei giusti. Volevano calare la fede nella concretezza dell’esistenza per stimolare la riforma dei costumi e il proposito d’una più genuina e fervente vita cristiana: “Certamente la speranza di meritare una buona agonia ed una santa morte è stata e sarà sempre la più potente molla per indurre gli uomini ad abbandonare il vizio; siccome lo spettacolo di un uomo malvagio, che tal muoia qual visse, è una grande lezione per tutti i mortali”.[9]
            La sequenza delle litanie della buona morte inserita nel Giovane provveduto va considerata, dunque, del tutto funzionale al buon esito del ritiro mensile e agli ideali di vita cristiana che il Santo proponeva ai giovani, oltre che particolarmente adatta alla sensibilità emotiva e culturale di quel preciso momento storico. Se oggi la lettura di quelle formule genera il senso d’inquietudine rievocato da Delumeau e offre una rappresentazione “nel complesso affliggente” della pedagogia religiosa di don Bosco,[10] questo avviene soprattutto perché esse sono estrapolate dai loro quadri di riferimento. Invece, come si rileva dalla pratica educativa dell’Oratorio e dalle testimonianze narrative lasciate da don Bosco, non solo l’animo di quei giovani trovava gusto e stimolo nel recitarle, ma esse contribuivano efficacemente a rendere l’esercizio della buona morte fecondo di frutti morali e spirituali. Per sondarne la primitiva fecondità educativa, dobbiamo ancorarle all’insieme della sostanziosa proposta di vita cristiana presentata da don Bosco e al vissuto fervido e operoso, stimolante dell’Oratorio.
            L’orizzonte globale di riferimento si può cogliere già nelle piccole meditazioni che introducono il Giovane provveduto, dove don Bosco intende soprattutto presentare “un metodo di vita breve e facile, ma sufficiente” perché i giovani lettori possano “diventare la consolazione dei parenti, l’onore della patria, buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del Cielo”.[11] Innanzitutto egli li incoraggia ad “alzare lo sguardo”, a contemplare la bellezza del creato e la dignità altissima dell’uomo, la più sublime delle creature, dotato di un’anima spirituale fatta per amare il Signore, per crescere nella virtù e nella santità, destinato al Paradiso, alla comunione eterna con Dio.[12] La considerazione dell’illimitato amore divino, rivelatoci nel sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità, e della particolare predilezione di Dio verso i ragazzi e i giovani, deve muoverli a corrispondere con generosità, a “indirizzare ogni azione” al raggiungimento del fine per il quale sono stati creati, con fermo proposito di far tutte quelle cose che possono piacere al Signore ed evitare “quelle che lo potrebbero disgustare”.[13] E poiché la salvezza di una persona “dipende ordinariamente dal tempo della gioventù”, è indispensabile iniziare da subito a servire il Signore: “Se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona la nostra morte e principio di una eterna felicità. Al contrario se i vizi prenderanno possesso di noi in gioventù, per lo più continueranno in ogni età nostra fino alla morte. Caparra troppo funesta di una infelicissima eternità”.[14]
            Don Bosco dunque invita gli adolescenti a darsi “per tempo a Dio”, a impegnarsi con gioia nel suo servizio, superando il pregiudizio che la vita cristiana sia triste e malinconica: “Non è vero, sarà malinconico colui che serve il demonio, il quale comunque si sforzi per mostrarsi contento, tuttavia avrà sempre il cuor che piange, dicendogli: tu sei infelice perché nemico d’Iddio […]. Coraggio adunque, miei cari, datevi per tempo alla virtù, e vi assicuro, che avrete sempre un cuore allegro e contento, e conoscerete quanto sia dolce servire al Signore”.[15]
            La vita cristiana consiste essenzialmente nel servire il Signore in “santa allegria”; è questa una delle idee più feconde e peculiari del patrimonio spirituale e pedagogico di don Bosco: “Se farai così, quante consolazioni proverai in punto di morte! Al contrario se non attendi a servire Dio, quanti rimorsi proverai alla fine de’ tuoi dì”.[16] Chi tramanda la conversione, chi consuma i propri giorni nell’ozio o in dissipazioni inutili e dannose, nei peccati o nei vizi, rischia di non avere più l’occasione, il tempo e la grazia per tornare a Dio con pericolo di eterna dannazione.[17] La morte infatti può sorprenderlo quando meno se l’aspetta: “Guai a chi si trova in disgrazia di Dio in quel momento”.[18] Ma la misericordia divina offre al peccatore pentito il sacramento della Penitenza, mezzo sicuro per riacquistare la grazia e con essa la pace del cuore. Celebrato regolarmente e con le dovute disposizioni, il sacramento non solo diventa strumento efficace di salvezza, ma anche momento educativo privilegiato in cui il confessore, “fedele amico dell’anima”, può dirigere con sicurezza il giovane sulla via della salvezza e della santità. La Confessione si prepara con un buon esame di coscienza, chiedendo luce al Signore: “Illuminatemi colla vostra grazia, affinché io conosca ora i miei peccati come li farete a me noti quando presenterommi al vostro giudizio. Fate, o mio Dio, che li detesti con vero dolore”.[19] La regolare celebrazione del sacramento garantisce la serenità necessaria per trascorrere una vita veramente felice: “A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte”.[20]
            L’amicizia con Dio riacquistata con la Confessione trova il suo vertice nella Comunione eucaristica, momento privilegiato nel quale il giovane offre tutto se stesso perché Dio possa “prendere possesso” del suo cuore e diventarne il padrone incontrastato. Nell’atto in cui si apre senza riserve all’azione santificatrice e trasfigurante della grazia, egli sperimenta la gioia ineffabile che accompagna un’esperienza spirituale genuina ed è portato a desiderare ardentemente la comunione eterna con Dio: “Se voglio qualche cosa di grande, vo a ricevere l’ostia santa in cui trovasi corpus quod pro nobis traditum est, cioè quello stesso corpo, sangue, anima e divinità, che Gesù Cristo offerse al suo eterno Padre per noi sopra la croce. Che cosa mi manca per essere felice? nulla in questo mondo: mi manca solo di poter godere, svelato in cielo colui, che ora con occhio di fede miro e adoro sull’altare”.[21]
            Nonostante il forte accento emotivo che connota il sentimento religioso ottocentesco, la spiritualità proposta da don Bosco è assai concreta. Infatti egli presenta la conversione come un processo di appropriazione delle promesse battesimali, che inizia nel momento in cui il giovane, in “maniera franca e risoluta”, decide di corrispondere alla divina chiamata,[22] di staccare il cuore dall’affetto al peccato per poter amare Dio sopra ogni cosa e lasciarsi docilmente plasmare dalla grazia. La conversione si traduce quindi in un vissuto operoso e ardente, animato dalla carità, in una positiva e gioiosa tensione alla perfezione, cominciando dalle piccole cose quotidiane. Il fervore della carità ispira una mortificazione “positiva” dei sensi, centrata sul superamento di sé, sulla riforma di vita, sul puntuale compimento dei doveri, sulla cordialità e sul servizio verso il prossimo. Tale mortificazione non ha nulla di afflittivo, perché è generosa aderenza al vissuto con i suoi imprevisti e le sue difficoltà, è capacità di sopportazione nelle contrarietà quotidiane, è tenuta nelle fatiche, è sobrietà e temperanza, è fortezza d’animo. Ogni occasione dunque può diventare espressione dell’amor di Dio, un amore che spinge la persona a vivere e operare “alla sua presenza”, a far tutto e tutto sopportare per amor suo.
            La carità anima in modo particolare la preghiera, poiché, attraverso le piccole pratiche, le giaculatorie, le visite e le devozioni, alimenta il desiderio di comunione affettuosa, si traduce nell’offerta incondizionata di sé, in gioioso adeguamento alla divina volontà, in desiderio dell’unione mistica e in anelito all’eterna comunione del Paradiso.
            Don Bosco sintetizza la sua proposta in formule semplificatrici, ma non ne abbassa il livello e ricorda costantemente ai giovani che è necessario decidersi risolutamente: “Di quante cose adunque abbiamo bisogno per farci santi? Di una cosa sola: Bisogna volerlo. Sì; purché voi vogliate, potete essere santi: non vi manca altro che il volere”. Lo dimostrano gli esempi di santi “che hanno vissuto in condizione bassa, e tra i travagli d’una vita attiva”, ma si sono santificati, semplicemente “facendo bene tutto ciò, che dovevano fare. Essi adempievano tutti i loro doveri verso Dio, tutto soffrendo pel suo amore, a lui offerendo le loro pene, i loro travagli: questa è la grande scienza della salute eterna e della santità”.[23]
            L’esperienza di Michele Magone, allievo dell’Oratorio di Valdocco, è illuminante. “Abbandonato a se stesso – scrive don Bosco – era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male”; il Signore lo invitò a seguirlo; “ascoltò egli l’amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corrispondervi”.[24] Decisivo è il momento nel quale il ragazzo, dopo aver preso coscienza della propria situazione e superato, con l’aiuto dell’educatore, il profondo senso di angoscia e di colpa che lo tormentava, sente che “è tempo di romperla col demonio” e decide di “darsi a Dio” attraverso una buona confessione e un fermo proposito.[25] Don Bosco racconta le emozioni e le riflessioni dell’adolescente nella notte successiva alla confessione: riportato in grazia di Dio e rassicurato sulla sua eterna salvezza,[26] sperimenta una gioia incontenibile.

             “È difficile, soleva dire, di esprimere gli affetti che occuparono il mio povero cuore in quella notte memoranda. La passai quasi intieramente senza prendere sonno. Rimaneva qualche momento assopito, e tosto l’immaginazione facevami vedere l’inferno aperto pieno di demoni. Cacciava tosto questa tetra immagine riflettendo che i miei peccati erano stati tutti perdonati, e in quel momento sembravami di vedere una grande quantità di angeli che mi facessero vedere il paradiso, e mi dicessero: – Vedi che grande felicità ti è riserbata, se sarai costante nei tuoi proponimenti!
            Giunto poi alla metà del tempo stabilito per il riposo, io era così pieno di contentezza, di commozione e di affetti diversi, che per dare qualche sfogo all’animo mio mi alzai, mi posi ginocchioni, e dissi più volte queste parole: Oh quanto mai sono disgraziati quelli che cadono in peccato! ma quanto più sono infelici coloro che vivono nel peccato. Io credo che se costoro gustassero anche un solo momento la grande consolazione che provasi da chi si trova in grazia di Dio, tutti andrebbero a confessarsi per placare l’ira di Dio, dare tregua ai rimorsi della coscienza, e godere della pace del cuore. O peccato, peccato! che terribile flagello sei tu a coloro che ti lasciano entrare nel loro cuore! Mio Dio, per l’avvenire non voglio mai più offendervi; anzi vi voglio amare con tutte le forze dell’anima mia; che se per mia disgrazia cadessi anche in un piccolo peccato andrò tosto a confessarmi”.[27]

            Troviamo qui le chiavi interpretative dell’orizzonte di senso in cui don Bosco colloca la funzione pedagogica e spirituale dell’esercizio della buona morte.

(continua)


[1] Bosco, Il giovane provveduto, 140.

[2] Troviamo la stessa formula, con varianti minime, in un opuscoletto anonimo intitolato Mezzi da praticarsi e risoluzioni da farsi dopo una buona confessione per mantenersi nella grazia di Dio riacquistata, Vigevano, s.e., 1842, 33-36. Cf. anche Il cristiano in chiesa, ovvero affettuose orazioni per la Messa, per la Confessione e Comunione e per l’adorazione del Santissimo Sacramento. Operetta spirituale del P. Fulgenzio M. Riccardi di Torino, Min. Oss., Torino, G.B. Paravia 1845, dove l’attribuzione della sequenza è, nella dicitura, simile a quella i don Bosco: “Litanie per ottenere una buona morte composte da una Damigella nata tra i Protestanti, convertitasi alla Religione Cattolica all’età di quindici anni, e morta di diciotto in istima universale di santità” (ibid., 165).

[3] Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS, 1981, 340. Cf. anche Michel Bazart, Don Bosco et l’exercice de la bonne mort, in «Chahiers Salésiens» N. 4, Avril 1981, 7-24.

[4] Ad esempio, la si trova, con qualche rielaborazione stilistica e piccole amplificazioni, sotto il titolo di “Gemiti e suppliche per la buona morte”, in Giuseppe Riva, Manuale di Filotea. Ventunesima edizione nuovamente riveduta ed aumentata, Milano, Serafino Majocchi, 1874, 926-927.

[5] Bosco, Il giovane provveduto, 138-142.

[6] Si veda per esempio la prima considerazione “Ritratto d’un uomo da poco tempo morto”, in Alfonso Maria de Liguori, Opere ascetiche, vol. 8, Apparecchio alla morte, Torino, Giacinto Marietti, 1825, 10-19.

[7] Angelo Antonio Scotti, Osservazioni sulle false dottrine e sulle funeste conseguenze dell’opera del Lauvergne intitolata “De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé”. Dissertazione letta nell’Accademia di Religione Cattolica in Roma il dì 4 luglio 1844, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1844, 3. Scotti polemizza con l’autore francese, medico e scienziato, che ritiene falsa l’affermazione che solo i veri cattolici muoiono serenamente: anche gli atei o gli adepti di altre religioni o addirittura gli individui immorali e pessimi possono morire serenamente, mentre capita non di rado che uomini santi, persone di grande virtù e asceti, specialmente tra i cattolici, subiscano agonie strazianti e disperate, poiché tutto dipende dal tipo di malattia, dalla lucidità cerebrale, dallo stato di debilitazione fisiologica o psichica e dalle angosce indotte dal fanatismo religioso, cf. Hubert Lauvergne, De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé sour le rapport humanitaire, physiologique et religieux, 2 vol., Paris, Librairie de J.-B. Baillière et C. Gosselin, 1842.

[8] Giovanni Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1859, 116.

[9] Scotti, Osservazioni sulle false dottrine, 14-15.

[10] Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II, 341.

[11] Bosco, Il giovane provveduto, 7.

[12] Cf. ibid., 10.

[13] Ibid., 10-11.

[14] Ibid., 6.

[15] Ibid., 13.

[16] Ibid., 32.

[17] Cf. ibid., 32-34.

[18] Ibid., 38.

[19] Ibid., 93.

[20] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.

[21] Ibid., 69.

[22] Giovanni Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1861, 4-5.

[23] Giovanni Bosco, Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino. Torino, P. De-Agostini, 1853, 6-7

[24] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 5.

[25] Ibid., 20-21.

[26] “Terminata [la Confessione] prima di partire dal confessore gli disse: «Vi sembra che i miei peccati mi siano tutti perdonati? se io morissi in questa notte sarei salvo?». – Va’ pure tranquillo, gli fu risposto. Il Signore che nella sua grande misericordia ti aspettò finora perché avessi tempo a fare una buona confessione, ti ha certamente perdonati tutti i peccati; e se nei suoi adorabili decreti egli volesse chiamarti in questa notte all’eternità tu sarai salvo” (ibid., 21).

[27] Ibid., 21-22.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (2/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

1. L’esercizio della buona morte nelle istituzioni salesiane e la secolare tradizione delle “Praeparationes ad mortem

            Fin dagli inizi dell’Oratorio stabilito in Valdocco (1846-47), don Bosco propose ai giovani l’esercizio mensile della buona morte come mezzo ascetico mirato a stimolare – attraverso una visione cristiana della morte – un costante atteggiamento di conversione e di superamento dei limiti personali e assicurare, con una confessione e una comunione ben fatte, le condizioni spirituali e psicologiche favorevoli per un fecondo cammino di vita cristiana e di costruzione delle virtù, in docile cooperazione con l’azione della grazia di Dio. La pratica in quel tempo si faceva nella maggior parte delle parrocchie, delle istituzioni religiose ed educative. Era per il popolo l’equivalente del ritiro mensile. Negli Oratori salesiani si teneva l’ultima domenica di ogni mese, e consisteva, come leggiamo nel Regolamento, “in un’accurata preparazione, per ben confessarsi e comunicarsi, e raggiustare le cose spirituali e temporali, come se ci trovassimo al fine di vita”.[1]
            L’esercizio diverrà pratica comune in tutte le istituzioni educative salesiane. Nei collegi e negli internati si eseguiva l’ultimo giorno del mese, in comune tra educatori e ragazzi.[2] Le stesse Costituzioni salesiane, fin dalla prima stesura, ne stabilivano la normatività: “L’ultimo di ciascun mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui lasciando, per quanto sarà possibile, gli affari temporali, ognuno si raccoglierà in se stesso, farà l’esercizio della buona morte, disponendo le cose spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’eternità”.[3]
            Lo svolgimento era semplice. I ragazzi, raccolti in cappella, pronunciavano comunitariamente le formule proposte nel Giovane provveduto, che fornivano il significato spirituale e teologico essenziale della pratica. Innanzitutto si recitava la preghiera di papa Benedetto XIII “per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa” e ottenere, per i meriti della passione di Cristo, di non essere tolti “tantosto da questo mondo”, in modo da avere ancora un congruo “spazio di penitenza” e prepararsi a “un transito felice ed in grazia […], affinché io vi ami [Signore Gesù] con tutto il cuore, vi loda, e benedica in eterno”. Poi si leggeva l’orazione a san Giuseppe per implorare “un intero perdono” dei propri peccati, la grazia di imitare le sue virtù, di camminare “sempre per la via che conduce al Cielo” ed essere difeso “da’ nemici dell’anima in quell’ultimo punto di vita; di modo che consolato dalla dolce speranza di volare […] a possedere l’eterna gloria in Paradiso spiri pronunziando i SS. nomi di Gesù, di Giuseppe e di Maria”. Infine un lettore enunciava le litanie della buona morte ad ognuna delle quali si rispondeva con la giaculatoria “Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me”.[4] All’esercizio devoto seguiva la confessione personale e la comunione “generale”. Per l’occasione erano invitati confessori “straordinari”, affinché tutti avessero opportunità e piena libertà di sistemare le cose di coscienza.
            I religiosi salesiani, oltre alle orazioni recitate in comune cogli allievi, facevano un esame di coscienza più articolato. Il 18 settembre 1876, don Bosco spiegò ai discepoli il modo di renderlo fruttuoso:

             “Gioverà tanto fare un confronto tra mese e mese: ho fatto del profitto in questo mese? oppure vi fu in me regresso? Poi venire ai particolari: in questa virtù, in quest’altra, come mi sono diportato?
            E specialmente si dia una rivista a ciò che forma soggetto di voti ed alle pratiche di pietà: riguardo all’obbedienza come mi sono diportato? ho progredito? L’ho fatta proprio bene, per esempio, quell’assistenza che mi si diede da fare? come l’ho fatta? In quella scuola come mi sono impegnato? Riguardo alla povertà, sia negli abiti, nei cibi, nelle celle, ho niente che non sia da povero? ho desiderato golosità? mi son lamentato quando mi mancava qualche cosa? Poi venire alla castità: non ho dato in me luogo a pensieri cattivi? mi son distaccato sempre più dall’amore dei parenti? mi son mortificato nella gola, negli sguardi, ecc.?
            E così far passare le pratiche di pietà e notare specialmente se vi fu tiepidezza ordinaria, se si siano fatte le pratiche senza slancio.
            Questo esame, o più lungo o più corto, si faccia sempre. Siccome vi sono vari che hanno occupazioni da cui non possono esimersi in nessun giorno del mese, queste occupazioni sarà lecito tenerle, ma ciascuno in detto giorno faccia proprio [in modo] di eseguire queste considerazioni e di fare buoni propositi speciali”.[5]

            L’obiettivo, dunque, era quello di stimolare un monitoraggio regolare della propria vita in funzione perfettiva. Questo ruolo primario di stimolo e sostegno alla crescita virtuosa spiega perché don Bosco, nell’introduzione alle Costituzioni, sia giunto ad affermare che la pratica mensile della buona morte, insieme agli esercizi spirituali annuali, costituisce “la parte fondamentale delle pratiche di pietà, quella che in certo modo tutte le abbraccia”, e abbia concluso dicendo: “Credo che si possa dire assicurata la salvezza di un religioso, se ogni mese si accosta ai SS. Sacramenti, e aggiusta le partite di sua coscienza, come dovesse di fatto da questa vita partire per l’eternità”.[6]
            Col tempo l’esercizio mensile venne ulteriormente perfezionato, come leggiamo in una nota inserita nelle Costituzioni promulgate da don Michele Rua dopo il X Capitolo Generale:

             “a. L’esercizio della buona morte si faccia in comune, ed oltre a quello che prescrivono le nostre Costituzioni si tengano presenti queste regole: I) Oltre la meditazione solita del mattino, si faccia ancora una mezz’ora di meditazione alla sera, e questa versi su qualche novissimo; II) Si faccia come una rivista mensile della coscienza, e la confessione di quel giorno sia più accurata del solito, come se di fatto fosse l’ultima della vita, e si riceva la S. Comunione come per viatico; III) Finita la messa e le preghiere solite, si recitino le preghiere indicate nel manuale di pietà; IV) Si pensi almeno per mezz’ora al progresso od al regresso che si è fatto nella virtù nel mese passato, specialmente per ciò che riguarda i proponimenti fatti negli esercizi spirituali, l’osservanza delle Regole, e si prendano ferme risoluzioni di vita migliore; V) Si rileggano in quel giorno tutte, o almeno in parte, le Costituzioni della Pia Società; VI) Sarà anche bene di scegliere un santo protettore del mese che si sta per cominciare.
            b. Se taluno per le sue occupazioni non può fare l’esercizio della buona morte in comune, né attendere a tutte le accennate opere di pietà, col permesso del Direttore compia quelle soltanto che sono compatibili col suo impiego, rimandando le altre ad un giorno più comodo”.[7]

            Queste indicazioni rivelano la sostanziale continuità e sintonia con la secolare tradizione della preparatio ad mortem ampiamente documentata dalla produzione libraria fin dagli inizi del XVI secolo. Gli evangelici appelli all’attesa vigilante e operativa (cf. Mt 24,44; Lc 12,40), al tenersi preparati in vista del giudizio che fisserà la sorte eterna tra i “benedetti” o i “maledetti” (Mt 25,31-46), uniti al monito quaresimale “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”, nel corso dei secoli hanno costantemente alimentato le considerazioni dei maestri di spirito e dei predicatori, hanno ispirato le rappresentazioni artistiche, si sono tradotti in rituali, pratiche devote e penitenziali, hanno suggerito propositi e amorosi aneliti alla comunione eterna con Dio. Hanno anche suscitato timori, ansie, talvolta angosce, in base alle sensibilità spirituali e alle visioni teologiche delle varie epoche.
            Le dotte riflessioni sapienziali del De praeparatione ad mortem di Erasmo e di altri umanisti,[8] permeate di genuino spirito evangelico ma tanto erudite da sembrare esercizi retorici, tra Seicento e primo Settecento avevano lasciato progressivamente spazio alle esortazioni morali dei predicatori e alle considerazioni meditative degli spirituali. Un opuscolo del cardinale Giovanni Bona affermava che la migliore preparazione alla morte è quella remota, attuata attraverso una vita virtuosa in cui quotidianamente ci si esercita a morire a se stessi e fuggire ogni forma di peccato, a vivere secondo la legge di Dio in comunione orante con lui;[9] esortava a pregare costantemente per ottenere la grazia di una morte felice; suggeriva di dedicare un giorno al mese di preparazione prossima alla morte nel silenzio e nella meditazione, purificando l’anima con una “diligentissima e dolorosa confessione”, dopo un accurato esame del proprio stato, e accostandosi alla comunione per modum Viatici, con intensa devozione;[10] invitava poi a concludere la giornata immaginandosi sul letto di morte, nel momento estremo:

             “Rinnoverai più intensi atti di amore, di ringraziamento e di desiderio di vedere Dio; chiederai perdono di tutto; dirai: «Signore Gesù Cristo, in quest’ora della mia morte, poni la tua passione e la tua morte tra il tuo giudizio e l’anima mia. Padre, nelle tue mani affido il mio spirito. Aiutatemi santi di Dio, accorrete o angeli per sostenere la mia anima e offrirla al cospetto dell’Altissimo» […]. Poi immaginerai che la tua anima sia condotta all’orrendo giudizio di Dio e che, per le preghiere dei santi, ti sia prolungata la vita in modo da poter fare penitenza: quindi proponendo con forza di vivere più santamente, in futuro ti considererai e ti comporterai come morto al mondo e vivente solo per Dio e per la penitenza”.[11]

            Giovanni Bona chiudeva la sua Praeparatio ad mortem con un’aspirazione devota incentrata sul desiderio del Paradiso permeata da intenso afflato mistico.[12] Il cardinale cistercense era stato allievo dei gesuiti. Da essi aveva attinto l’idea della giornata mensile di preparazione alla morte.
            La meditazione sulla morte faceva parte integrale degli esercizi spirituali e delle missioni popolari: certa è la morte, incerto è il momento del suo arrivo, bisogna tenersi pronti perché quando essa verrà Satana moltiplicherà i suoi assalti per rovinarci eternamente: “Che conseguenza adunque ne viene? […] Fare adesso in vita abiti buoni. Non contentarmi solamente di vivere in grazia di Dio, né di star un sol momento in peccato; ma fare abitualmente, con l’esercizio continuo d’opere buone, una tal vita, che nell’ultimo momento non abbi il Demonio con qualche tentazione a farmi perdere per tutta l’Eternità”.[13]
            A partire dal Seicento e per tutto il Settecento i predicatori calcarono l’importanza del tema, modulando le loro riflessioni secondo le sensibilità proprie del gusto barocco, con forte accentuazione degli aspetti drammatici, senza però sviare l’attenzione degli uditori dalla sostanza: l’accettazione serena della morte, l’appello alla conversione del cuore, la costante vigilanza, il fervore nelle opere virtuose, l’offerta di sé a Dio e l’anelito alla comunione eterna d’amore con lui. Progressivamente l’esercizio della buona morte assunse un’importanza sempre più ampia, fino a diventare una delle pratiche ascetiche principali del cattolicesimo. Il modello di svolgimento è offerto, ad esempio, in un opuscolo seicentesco di un anonimo gesuita:

             “Scegliete un giorno d’ogni mese de’ più liberi da ogni altro affare, nel qual dovrete con particolar diligenza impiegarvi nell’Orazione, Confessione, Communione e visita del Santissimo Sacramento.
            L’Orazione di questo giorno dovrà in due volte arrivare a due ore: e la materia di essa potrà esser questa ch’accenneremo. Nella prim’ora concepite quanto più vivamente potrete lo stato, nel quale vi troverete già moribondo […]. Considerate quello, che moribondo vorreste aver fatto, prima verso Dio, secondo verso voi stesso, terzo verso il prossimo, mescolando in questa meditazione diversi affetti ferventi, e di pentimento, e di propositi, e di domande al Signore, per impetrar da lui virtù d’emendarvi. La seconda Orazione avrà per materia i motivi più forti che si ritrovino, per accettar volentieri da Dio la morte […]. Gli affetti di questa Meditazione saranno d’offerta della vita propria al Signore, di protesta, che se potessimo allungarla, oltre il suo divinissimo beneplacito, non lo faremmo; di domanda, per offerir questo sacrificio con quello spirito d’amore, che richiede il rispetto dovuto alla sua amorevolissima Provvidenza, e disposizione.
            La Confessione dovrà esser fatta da voi con più particolare diligenza, e come se fosse l’ultima volta, che vi andaste a mondar nel sangue preziosissimo di Gesù Cristo […].
            Anche la Comunione dovrà farsi con più straordinaria preparazione, e come se vi comunicaste per Viatico, adorando quel Signore, che sperate di dover adorare per tutta l’Eternità; ringraziandolo della vita, che vi ha concessa, chiedendogli perdono d’averla sì malamente impiegata; offerendovi pronto a terminarla, perché egli così vuole, e domandandogli finalmente grazia, che v’assista in questo gran passo, affinché l’anima vostra appoggiata al suo Diletto, da questo Deserto passi sicura al Regno”.[14]

            L’impegno per la diffusione dell’esercizio della buona morte non limitava le considerazioni dei predicatori e dei direttori di spirito al tema dei novissimi, quasi a voler fondare l’edificio spirituale unicamente sul timore dell’eternità dannata. Questi autori conoscevano i danni psicologici e spirituali che l’affanno e l’angoscia per la propria salvezza producevano sugli animi più sensibili. Le raccolte di meditazioni prodotte tra la fine del Seicento e metà Settecento, non solo insistevano sulla misericordia di Dio e sull’abbandono in lui, per condurre il fedele allo stato permanente di serenità spirituale che è proprio di chi ha integrato la coscienza della propria finitudine temporale in una solida visione di fede, ma spaziavano su tutti i temi della dottrina e della pratica cristiana, della morale privata e pubblica: verità della fede e soggetti evangelici, vizi e virtù, sacramenti e preghiera, opere di carità spirituale e materiale, ascetica e mistica. La considerazione del destino eterno dell’uomo si allargava alla proposta di un vissuto cristiano esemplare e ardente, che si traducesse in cammini spirituali orientati alla santificazione personale e all’affinamento del vissuto quotidiano e sociale, sullo sfondo di una teologia sostanziosa e di un’antropologia cristiana raffinata.
            Un esempio tra i più eloquenti è fornito dai tre volumi del gesuita Giuseppe Antonio Bordoni, che raccolgono le meditazioni proposte ogni settimana per oltre vent’anni ai confratelli della Compagnia della buona morte, da lui istituita nella chiesa dei Santi Martiri di Torino (1719). L’opera fu molto apprezzata per la solidità teologica, la forma priva di orpelli retorici, la ricchezza di esempi concreti ed ebbe decine di ristampe fino alle soglie del Novecento.[15] All’ambiente religioso torinese sono legati anche i Discorsi sacri e morali per l’esercizio della buona morte – più segnati dal gusto del tempo ma altrettanto solidi – predicati, nella seconda metà del Settecento, dal sacerdote Giorgio Maria Rulfo direttore spirituale della Compagnia dell’Umiltà formata da signore della nobiltà sabauda.[16]
            La pratica proposta da san Giovanni Bosco agli allievi dell’Oratorio e delle istituzioni educative salesiane aveva, dunque, una solida tradizione spirituale di riferimento.

(continua)


[1] Giovanni Bosco, Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 44.

[2] Cf. Giovanni Bosco, Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 63 (parte II, capo II, art. 4): “[…] Una volta al mese si farà da tutti l’esercizio della buona morte, preparandovisi con qualche sermoncino od altro esercizio di pietà”.

[3] [Giovanni Bosco], Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales secondo il Decreto di approvazione del 3 aprile 1874, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 81 (cap. XIII, art. 6). Lo stesso stabilivano le Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice, con una dicitura molto simile: “La prima Domenica o il primo Giovedì del mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui, lasciando per quanto   è possibile gli affari temporali, ognuna si raccoglierà in se stessa, farà l’Esercizio della buona morte, disponendo le cose sue spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’Eternità. Si faccia qualche lettura acconcia al bisogno, e ove si possa la Superiora procuri dal Direttore una predica od una conferenza sull’argomento”, Regole o Costituzioni per le Figlie di Maria SS. Ausiliatrice aggregate alla Società salesiana (ed. 1885), Titolo XVII, art. 5, in Giovanni Bosco, Costituzioni per l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872-1885). Testi critici a cura di Cecilia Romero, Roma, LAS, 1983, 325.

[4] Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri degli esercizi di cristiana pietà per la recita dell’uffizio della Beata Vergine e de principali vespri dell’anno coll’aggiunta di una scelta di laudi sacre ecc., Torino, Tipografia Paravia e Comp. 1847, 138-142.

[5] Archivio Salesiano Centrale, A0000409 Prediche di don Bosco – Esercizi Lanzo 1876, quaderno XX, ms di Giulio Barberis, pp. 10-11.

[6] Giovanni Bosco, Ai Soci Salesiani, in Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales (ed. 1877), 38.

[7] Costituzioni della Società di san Francesco di Sales precedute dall’introduzione scritta dal Fondatore sac. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia Salesiana, 1907, 227- 231.

[8] Des. Erasmi Roterodami liber cum primis pius, de praeparatione ad mortem, nunc primum et conscriptus et aeditus…, Basileae, in officina Frobeniana per Hieronymum Frobenium & Nicolaum Episcopium 1533, 3-80 (Quomodo se quisque debeat praeparare ad mortem). Cf. anche Pro salutari hominis ad felicem mortem praeparatione, hinc inde ex Scriptura sacra, et sanctis, doctis, et christianissimis doctoribus, ad cujusdam petitionem, et aliorum etiam utilitatem, a Sacrarum literarum professore Ludovico Bero conscripta et nunc primum edita, Basileae, per Joan. Oporinum, 1549.

[9] Giovanni Bona, De praeparatione ad mortem…, Roma, in Typographia S. Michaelis ad Ripam per Hieronimum Maynardi, 1736, 11-13.

[10] Ibid., 67-73.

[11] Ibid., 74-75.

[12] Ibid., 126-132: “Affectus animae suspirantis ad Paradisum”.

[13] Carlo Ambrogio Cattaneo, Esercizi spirituali di sant’Ignazio, Trento, per Gianbatista Monauni, 1744, 74.

[14] Esercizio di preparazione alla morte proposto da un religioso della Compagnia di Gesù per indirizzo di chi desidera far bene un tal passo, Roma, per gl’Eredi del Corbelletti [1650], ff. 3v-6v.

[15] Giuseppe Antonio Bordoni, Discorsi per l’esercizio della buona morte, Venezia, nella stamperia di Andrea Poletti, 1749-1751, 3 vol.; l’ultima edizione è quella torinese di Pietro Marietti in 6 volumi (1904-1905).

[16] Giorgio Maria Rulfo, Discorsi sacri, e morali per l’esercizio della buona morte, Torino, presso i librai B.A. Re e G. Rameletti, 1783-1784, 5 vol.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (1/5)

La celebrazione annuale della memoria di tutti i defunti ci mette davanti agli occhi una realtà che nessuno può negare: il fine della nostra vita terrena. Per tanti, parlare della morte sembra una cosa macabra, da evitare assolutamente. Ma non era così per san Giovanni Bosco; per tutta la sua vita aveva coltivato l’Esercizio della Buona Morte fissando a questo scopo l’ultimo giorno del mese. Chi sa che non sia questo il motivo che il Signore lo ha preso con sé nell’ultimo giorno di gennaio del 1888 trovandolo preparato…

            Jean Delumeau, nell’introduzione della sua opera su La paura in Occidente, racconta l’angoscia da lui provata all’età di dodici anni quando, novello alunno interno di un collegio salesiano, ascoltò per la prima volta le “inquietanti sequenze” delle litanie della buona morte, seguite da un Pater ed Ave “per quello tra noi che sarà il primo a morire”. A partire da quell’esperienza, dai suoi antichi timori, dai suoi difficili sforzi per abituarsi alla paura, dalle sue meditazioni d’adolescente sui fini ultimi, dalla personale paziente ricerca della serenità e della gioia nell’accettazione, lo storico francese ha elaborato un progetto di indagine storiografica focalizzato sul ruolo della “colpevolizzazione” e sulla “pastorale della paura” nella storia dell’Occidente e ha tratto la chiave interpretativa “di un panorama storico assai ampio: per la Chiesa – scrive – la sofferenza e l’annientamento (provvisorio) del corpo sono da temere meno che il peccato e l’inferno. L’uomo non può nulla contro la morte, ma – coll’aiuto di Dio – gli è possibile evitare le pene eterne. Da quel momento un nuovo tipo di paura – teologica – si sostituiva a un’altra che era anteriore, viscerale e spontanea: si trattava di una medicazione eroica, ma sempre di una medicazione, giacché introduceva uno sfogo là dove non c’era che vuoto; di questo genere fu la lezione che i religiosi incaricati della mia educazione cercarono d’insegnarmi”[1].
            Anche Umberto Eco ricordava con ironica simpatia l’esercizio della buona morte che gli veniva proposto nell’Oratorio di Nizza Monferrato:

             “Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull’inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal Giovane provveduto di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un’immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte – se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l’Esercizio della Buona Morte […]. Puro sadismo, si dirà. Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. […] Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita – e con cui l’uomo saggio viene a patti per tutta la vita”[2].

            Nelle case salesiane la pratica mensile della buona morte, con la recita delle litanie inserite da don Bosco nel Giovane provveduto, rimase in uso dal 1847 fino alle soglie del Concilio.[3] Delumeau narra che tutte le volte che gli capitava di leggere quelle litanie ai suoi studenti del Collège de France constatava quanto ne rimanessero sbalorditi: “È la prova – scrive – d’un cambiamento rapido e profondo di mentalità da una generazione all’altra. Essendo rapidamente invecchiata dopo essere stata a lungo attuale, questa preghiera per una buona morte è diventata documento di storia nella misura in cui riflette una lunga tradizione di pedagogia religiosa”.[4] Lo studioso delle mentalità, infatti, ci insegna come i fenomeni storici, per evitare forvianti anacronismi, devono sempre essere affrontati in relazione alla loro coerenza interna e con rispetto dell’alterità culturale, alla quale si deve ricondurre ogni rappresentazione mentale collettiva, ogni credenza e pratica culturale o cultuale delle società antiche. Fuori di quei quadri antropologici, di quell’insieme di conoscenze e di valori, di modi di pensare e di sentire, di abitudini e modelli di comportamento diffusi in un determinato contesto culturale, che plasmano la mentalità collettiva, è impossibile attuare un approccio critico corretto.
            Per quanto ci riguarda, il racconto di Delumeau è documento di come l’anacronismo non insidia soltanto lo storico. Anche il pastore e l’educatore rischiano di perpetuare pratiche e formule fuori degli universi culturali e spirituali che le generarono: così esse, oltre ad apparire per lo meno strane alle giovani generazioni, possono risultare persino controproducenti, essendo venuti meno l’orizzonte di senso globale e le “attrezzature mentali” e spirituali che le rendevano significative. Questa è stata la sorte della preghiera della buona morte riproposta, per oltre un secolo, agli allievi delle opere salesiane in tutto il mondo, poi – intorno al 1965 – del tutto abbandonata, senza alcuna forma di sostituzione che ne salvaguardasse gli aspetti positivi. L’abbandono non era dovuto soltanto alla sua obsolescenza. Era anche un sintomo di quel processo in atto di eclisse della morte nella cultura occidentale, una sorta di “interdetto” e di “proibizione” oggi fortemente denunciato dagli studiosi e dai pastori.[5]
            Il nostro contributo intende indagare il significato e il valore educativo dell’esercizio della buona morte nella pratica di don Bosco e delle prime generazioni salesiane, mettendolo in relazione con una feconda tradizione secolare, per poi individuarne la peculiarità spirituale attraverso le testimonianze narrative lasciate dal Santo.

(continua)


[1] Jean Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino, SEI, 1979, 42-44.

[2] Umberto Eco, “La bustina di Minerva: Dov’è andata la morte?”, in L’Espresso, 29 novembre 2012.

[3] Le “Preghiere per la buona morte” sono ancora riportate, con poche varianti sostanziali, nel riveduto manuale di preghiera per le istituzioni educative salesiane d’Italia, che sostituiva definitivamente il Giovane Provveduto, usato fino a quel momento: Centro Compagnie Gioventù Salesiana, In preghiera. Manuale di pietà ispirato al Giovane Provveduto di san Giovanni Bosco, Torino, Opere Don Bosco, 1959, 360-362.

[4] Delumeau, La paura in Occidente, 43.

[5] Cf. Philippe Ariés, Storia della morte in Occidente, Milano, BUR, 2009; Jean-Marie R. Tillard, La morte: enigma o mistero? Magnano (BI), Edizioni Qiqajon, 1998.




I libri itineranti di don Bosco

In una lettera-circolare di don Bosco del luglio 1885 scriveva: “Il buon libro entra persino nelle case ove non può entrare il sacerdote… Talora rimane polveroso sovra un tavolino o in una biblioteca. Nessuno pensa a lui. Ma vien l’ora della solitudine, o della mestizia, o del dolore, o della noia, o della necessità di svago, o dell’ansia dell’avvenire, e questo amico fedele depone la sua polvere, apre i suoi fogli e…”.

“Senza libri non c’è lettura e senza lettura non c’è conoscenza; senza conoscenza non c’è libertà”, leggo su internet, non so se scritto da qualche nostalgico o affezionato ai libri o da qualche buon conoscitore di Cicerone.
Don Bosco dal canto suo, appena terminati gli studi, si è fatto subito scrittore e qualche suo libro è poi diventato un autentico best seller con decine e decine di edizioni e ristampe. Una volta poi fondata la congregazione, ha invitato i suoi giovani collaboratori a fare altrettanto, servendosi di una tipografia in proprio avviata nella stessa casa di Valdocco. In un tempo in cui tre quarti degli Italiani erano analfabeti così scriveva nella succitata circolare: “Un libro in una famiglia, se non è letto da colui a cui è destinato o donato, è letto dal figlio o dalla figlia, dall’amico o dal vicino. Un libro in un paese talora passa nelle mani di cento persone. Iddio solo conosce il bene che produce un libro in una città, in una biblioteca circolante, in una società d’operai, in un ospedale, donato come pegno di amicizia”. E aggiungeva: “In meno di trent’anni sommano circa a venti milioni i fascicoli o volumi da noi sparsi tra il popolo. Se qualche libro sarà rimasto trascurato, altri avranno avuto ciascuno un centinaio di lettori, e quindi il numero di coloro ai quali i nostri libri fecero del bene si può credere con certezza di gran lunga maggiore del numero dei volumi pubblicati”.
Con un po’ di fantasia potremmo dire che in qualche modo la rete editoriale di don Bosco annunciava oggi tanto il libro online, che sta lì a disposizione di tutti, che cammina da solo, quasi vagabondo, quanto l’e-book, l’unico che nella perdurante crisi della lettura in Italia in questi anni fa registrare nuovi acquirenti e nuovi lettori grazie anche al suo costo ridotto.

La concorrenza
La concorrenza alla lettura di un libro è forte: oggi si passano ore ed ore con gli occhi fissi su Facebook, WhatsApp e Instagram, blog e piattaforme di ogni genere per mandare e ricevere messaggini, per vedere e spedire foto, per guardare filmati e ascoltare musica. Di per sé potrebbero essere tutte cose belle, buone e giuste, ma possono sostituire la lettura di un buon libro?
Qualche dubbio è legittimo. I social per lo più sono promotori di una sorta di cultura dell’effimero, del transitorio, del frammentario – anche senza pensare subito all’alluvione delle fake news – dove ogni nuova comunicazione elimina quello precedente. Lo dicono i nomi stessi: SMS “servizio di un breve messaggio” o Twitter, cinguettio di uccello, Instagram, ossia immagine veloce pubblicata sul momento. Essi trasmettono rapide informazioni, brevissime condivisioni di esperienze e stati d’animo con persone con cui sei già in contatto. I libri, i buoni libri invece, quelli pensati e meditati, sono in grado di suscitare interrogativi, di farci percepire in profondità la bellezza che si trova nella natura e nell’arte in tutte le sue forme, nella solidarietà fra gli uomini, nella passione e nel cuore che mettiamo in ogni nostra azione. E non solo, perché è proprio una vasta cultura generale, data soprattutto dai libri di storia in particolare, quella che offre alle classi dirigenziali la duttilità, la capacità di orientamento, l’ampiezza di orizzonti che, unite alle competenze, servono per compiere le scelte di portata generale e di natura complessiva che loro competono. Del deficit di tale cultura ce ne stiamo rendendo conto proprio in questi giorni.

La biblioteca di don Bosco
Don Bosco con la diffusione dei suoi libri, con la biblioteca di Valdocco ricca di 15 mila libri, con la sua tipografia, con le biblioteche delle singole case salesiane, con uno stuolo di salesiani che hanno scritti libri per la gioventù, ha fatto crescere migliaia di giovani come “onesti cittadini e buoni cristiani”. Quanto è malinconico oggi venire a conoscenza che circa mezzo milione di ragazzi in Italia frequentano istituti scolastici privi di biblioteca! Certo è più facile e immediatamente redditizio costruire nuovi supermercati, nuovi centri commerciali, cinema all’avanguardia, catene multinazionali che trattano tecnologia e innovazione.
Libri cartacei o i libri online – oggi le biblioteche grazie alla tecnologia offrono interessantissimi servizi a distanza di vario genere – non fa differenza: purché facciano crescere in umanità. Ad una condizione però: che siano leggibili e a disposizione di tutti, anche dei non nativi digitali, anche di chi non ha gli strumenti dell’ultimissima generazione, anche a chi vive in situazioni disagiate. Lo ha scritto don Bosco nella lettera succitata: “Rammentatevi che s. Agostino divenuto Vescovo, benché esimio maestro di belle lettere ed oratore eloquente, preferiva le improprietà di lingua e la niuna eleganza di stile, al rischio di non essere inteso dal popolo”. È quanto continuano a fare attualmente i figli di don Bosco, con libri, con libretti divulgativi, con video e materiali postati nel web, che continuano a girare, oggi come ieri, in tutte le lingue ovunque, fino agli estremi confini della terra.




Don Bosco e i marenghi

            Nel 1849 il tipografo G. B. Paravia pubblicava Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità preceduto dalle quattro operazioni dell’aritmetica ad uso degli artigiani e della gente di campagna per cura del sacerdote Bosco Gioanni. Il manuale includeva un’appendice sulle monete più usate in Piemonte e le principali monete estere.
            Eppure solo qualche anno prima don Bosco conosceva così poco le monete nobili in uso nel Regno di Sardegna da confondere una doppia di Savoia con un marengo. Era agli inizi della sua attività oratoriana e sino allora doveva averne viste ben poche monete d’oro. Ricevutane un giorno una, corse a spenderla per i suoi birichini, ordinando merce varia per il valore di un marengo. Il negoziante, pratico ed onesto, consegnandogli la merce ordinata, gli diede pure il resto di circa nove lire.
            — Ma come — chiede don Bosco —, non vi ho dato un marengo?
            — No — risponde il bottegaio — la vostra moneta è una pezza da 28 e mezzo! (MB II, 93)
            Sin dagli inizi non c’era in don Bosco alcuna avidità di denaro, ma solo ansia di bene!

Doppie di Savoia e marenghi
            Quando nel maggio del 1814 Re Vittorio Emanuele I rientrò in possesso dei suoi Stati, volle ripristinare l’antico sistema monetano basato sulla Lira di Piemonte di venti soldi di dodici denari ciascuno, sistema che durante l’occupazione francese era stato sostituito da quello decimale. Prima di allora 6 lire facevano uno scudo d’argento e 24 una doppia di Savoia d’oro. Non mancavano naturalmente i sottomultipli, tra i quali la monetina di rame detta il Mauriziotto del valore di 5 soldi, così chiamata perché portava sul rovescio l’immagine di S. Maurizio.
            Ma l’uso di contare in franchi si era ormai talmente diffuso che il Re nel 1816 decise di adottare anch’egli il sistema monetario decimale, creando la Lira nuova di Piemonte di valore uguale al franco, con relativi multipli e sottomultipli, dalla pezza d’oro da 100 lire alla monetina di rame da 1 centesimo.
            La doppia di Savoia tuttavia continuò il suo corso per molti anni ancora. Nata nel 1755 da un editto di Carlo Emanuele III, fu chiamata, dopo la creazione della lira nuova, pezza da ventinove o da ventotto e mezzo, appunto perché corrispondeva a lire nuove 28,45. Era più volentieri chiamata Galin-a (gallina) perché, mentre recava sul dritto l’immagine del Sovrano con tanto di codino, sul rovescio mostrava un uccellacelo ad ali spiegate che, nell’intenzione dell’artista, doveva rappresentare un’aquila, ma panciuto com’era, sembrava piuttosto una gallina.
            Anche la pezza da venti franchi, chiamata marengo perché fatta coniare da Napoleone a Torino nel 1800 dopo la vittoria di Marengo, rimase in circolazione per un bel po’ assieme alle monete d’oro sabaude. Portava sul diritto il busto di Minerva e sul rovescio il motto: LibertàEgalitéEridania. Corrispondeva alla moneta francese chiamata napoleone d’oro. Il termine «Eridania» stava a indicare la terra dove scorre il Po, il leggendario Eridano.
            Il nome di marengo si usò poi indifferentemente anche per la pezza d’oro da 20 lire nuove di Vittorio Emanuele I, mentre marenghino era la moneta d’oro da 10 lire, con metà valore quindi del marengo, fatta coniare più tardi da Carlo Alberto. Marengo e marenghino furono termini spesso usati uno per l’altro, come franco e lira. Così usava pure don Bosco. Nella prefazione al «Galantuomo» del 1860 (l’almanacco-strenna agli abbonati delle «Letture Cattoliche») se ne ha un esempio. Don Bosco vi recita la parte di un venditore di bibite al seguito dell’esercito sardo nella guerra del ’59. Alla battaglia di Magenta, egli racconta, perde la borsa dei soldi e il capitano della compagnia lo risarcisce con un gruzzolo di «quindici luccicanti marenghini».
            Scrivendo il 22 maggio 1866 al Cav. Federico Oreglia, da lui mandato a Roma a raccogliere offerte per la nuova chiesa di Maria Ausiliatrice, gli dice:
            «In quanto al suo soggiorno in Roma stia a tempo illimitato, cioè finché abbia diecimila franchi da portare a casa per la chiesa e per pagare il panettiere […].
            Dio benedica lei, Sig. Cavaliere, e benedica le sue fatiche e faccia che ogni sua parola salvi un’anima e guadagni un marengo. Amen» (E 459).
            Significativo augurio di don Bosco ad un collaboratore generoso!

Napoleoni con e senza cappello
            Dal 1° maggio 1866, oltre alla moneta aurea, corrispondente al napoleone d’oro che portava sul diritto l’immagine di Napoleone col cappello, venne ad avere corso forzoso, nell’ormai costituito Regno d’Italia, una moneta cartacea dello stesso valore nominale, ma di valore reale ben inferiore. Il popolo la chiamò subito napoleone col capo scoperto perché portava l’effige di Vittorio Emanuele II senza cappello.
            Lo sapeva bene anche don Bosco quando ebbe da restituire al Conte Federico Calieri un mutuo di 1000 franchi da lui fattogli in 50 napoleoni d’oro. Non si lasciò sfuggire l’occasione di prendere due piccioni con una fava, approfittando della confidenza che gli veniva concessa. La Contessa Carlotta infatti gli aveva già promesso da sua parte un’offerta per la nuova chiesa. Scrisse adunque alla Contessa in data 29 giugno 1866: «Le dirò che dopo dimani scade il mio debito verso il sig. Conte ed io debbo procurare di pagare il debito per acquistarmi il credito. Quando Ella era in Casa Collegno mi disse che in questa epoca avrebbe fatto un’oblazione per la chiesa e per l’altare di S. Giuseppe, ma non fissò precisamente la somma. Abbia dunque la bontà di dirmi:
            se la sua carità comporta che faccia oblazioni in questo momento per noi e quali;
            dove dovrei indirizzare il danaro per il sig. Conte;
            se il sig. Conte per avventura ha pagamenti che possa far con biglietti, oppure, siccome è cosa ragionevole, debba cangiare i biglietti in napoleoni secondo ho ricevuto» (E 477).
            Come si può facilmente capire, don Bosco fa assegnamento sull’offerta della Contessa e propone il saldo del proprio debito verso il Conte, se non risulterà di svantaggio a nessuno, in napoleoni cartacei. La risposta venne e consolante. Il denaro doveva venir inviato a Cesare, il figlio dei Conti Callori, e poteva essere in moneta cartacea. Scrive difatti don Bosco a Cesare in data 23 luglio:
            «Prima che termini questo mese porterò i mille franchi a sua casa come mi scrive e farò in modo di portare altrettanti napoleoni ma tutti col capo scoperto. Perché se portassi cinquanta napoleoni col cappello in testa, forse metterebbero in combustione fin Giove, Saturno e Marte» (E 489).
            E poco dopo egli effettuerà il saldo molto conveniente, mentre la Contessa nel contempo gli donerà 1000 franchi per il pulpito della nuova chiesa (E 495). Se c’è un debito da pagare, c’è la Provvidenza che si dà da fare!

Soldi e mutte
            Ma don Bosco non maneggiava soltanto marenghi e napoleoni. Nelle sue tasche si trovavano più di frequente spiccioli vari, monete di rame, che gli servivano per le spese ordinarie come prendere la vettura quando usciva da Torino, fare piccoli acquisti ed elemosine e, magari, compiere qualche gesto che oggi chiameremmo carismatico, come quando versò nelle mani del capomastro Bozzetti i primi otto soldi per la costruzione della nuova chiesa di Maria Ausiliatrice.
            Otto soldi, pari a 4 monete da 10 centesimi o ad 8 da 5, corrispondevano ad una «mutta» del sistema antico, moneta battuta in rame con qualche parte di argento, del valore iniziale di 20 soldi piemontesi, ridottosi ben presto ad otto soldi. Era l’antica lira piemontese venuta al mondo per opera di Vittorio Amedeo III nel 1794 ed abolita solo nel 1865. La parola «mutta» — in piem. mota (leggi: muta) —, in sé, significa «zolla» o «formella». Si chiamavano «mote» le formelle fatte con corteccia di quercia, usate per la concia del cuoio, e, dopo l’uso, utilizzate ancora per ardere o mantenere il fuoco acceso. Queste formelle, prima grosse come un pagnottone, si erano ridotte per l’avarizia dei produttori a sì minime proporzioni che il popolino finì per chiamare «mote» le lirette di Vittorio Amedeo.
            Stando alle «Memorie Biografiche» certi zelatori protestanti per allontanare i ragazzi dall’Oratorio di don Bosco, li attiravano dicendo loro: «Che cosa andate a fare all’Oratorio? Venite con noi, vi divertirete come vi piace e avrete in regalo due mutte e un bel libro» (MB III, 402) Due mutte bastavano per farsi una buona merenda.
            Ma anche don Bosco si conquistava la gente con le mutte. Trovandosi un giorno seduto a cassetta vicino al vetturino che bestemmiava a gran forza per far correre i cavalli, gli promise una mutta se si fosse trattenuto dal bestemmiare fino a Torino e riuscì nel suo intento (MB VII, 189). Dopo tutto con una mutta il povero cocchiere poteva comprarsi almeno un litro di vino da bere con i colleghi, e nello stesso tempo far tesoro delle parole udite contro il vizio della bestemmia.

Il santo dei milioni
Don Bosco nella sua vita maneggiò grandi somme di denaro, raccolte a prezzo di enormi sacrifici, umilianti questue, laboriose lotterie, incessanti peregrinazioni. Con questo denaro egli diede pane, vestito, alloggio e lavoro a tanti poveri ragazzi, comperò case, aprì ospizi e collegi, costruì chiese, avviò non indifferenti iniziative tipografiche ed editoriali, lanciò le missioni salesiane in America e, infine, già affranto dagli acciacchi della vecchiaia, eresse ancora a Roma, in obbedienza al Papa, la Basilica del Sacro Cuore, opera questa che fu la cagione non ultima della sua morte prematura.
            Non tutti compresero lo spirito che lo animava, non tutti apprezzarono le sue multiformi attività e la stampa anticlericale si sbizzarrì in ridicole insinuazioni.
            Il 4 aprile 1872 il periodico satirico torinese «Il Fischietto», che soprannominava don Bosco «Dominus Lignus», lo disse fornito di «fondi favolosi». Il 31 ottobre 1886 il giornale romano «La Riforma», organo politico crispino, pubblicava un articolo sulle sue spedizioni missionarie, presentando ironicamente il prete di Valdocco come «vera stoffa da industriale», come l’uomo che aveva capito «che il buon mercato è la chiave della riuscita di tutte le più grandi imprese moderne», e continuava dicendo: «Don Bosco ha in sé qualcosa di quell’industria che ora si vuol chiamare, per antonomasia, dei fratelli Bocconi». Erano questi i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi, ideatori dei grandi magazzini di vendita al minuto aperti a Milano in quegli anni e chiamati poi «La Rinascente». Luigi Pietracqua, romanziere e commediografo dialettale, a pochi giorni dalla scomparsa di don Bosco firmava sul giornale «’L Birichin» di Torino un sonetto satirico, che così iniziava:
            «Don Bòsch l’é mòrt — L’era na testa fin-a, Capace ‘d gavé ’d sangh d’ant un-a rava, Perchè a palà ij milion chiel a contava, E… sensa guadagneje con la schin-a!».
            (Don Bosco è morto — Era un uomo astuto, Capace di cavar sangue da una rapa, Perché contava i milioni a palate, E… senza guadagnarli col proprio sudore).
            E continuava esaltando a suo modo il miracolo di don Bosco che da tutti prendeva denaro riempiendosi la borsa divenuta ormai grossa come un tino (E as fasìa 7 borsòt gròss com na tina). Arricchito a questo modo, non aveva più bisogno di lavorare, si limitava soltanto a gabbare i gonzi con preghiere, croci e sante messe. Il sonettista blasfemo conchiudeva chiamando don Bosco: «San Milion».
            Chi conosce lo stile di povertà in cui visse e morì il Santo, può facilmente capire di qual bassa lega fosse l’umorismo del Pietracqua. Don Bosco fu infatti un abilissimo amministratore del denaro che la carità dei buoni gli procurava, ma non tenne mai nulla per sé. Il mobiglio della sua cameretta a Valdocco consisteva in un lettuccio di ferro, un tavolino, una sedia, e, più tardi, un sofà, senza tendine alla finestra, senza tappeti, senza neppure lo scendiletto. Nell’ultima malattia, tormentato dalla sete, quando gli provvidero acqua di seltz per dargli sollievo, non voleva berla credendola una bevanda costosa. Fu necessario assicurarlo che costava solo sette centesimi la bottiglia. «Disse ancora a don Viglietti: — Fammi anche il piacere di osservare nelle tasche dei miei abiti; vi sono il portafoglio e il portamonete. Credo che non vi sia più niente; ma caso mai vi fosse danaro, consegnalo a don Rua. Voglio morire in modo che si dica: Don Bosco è morto senza un soldo in tasca» (MB XVIII, 493).
            Così moriva il Santo dei Milioni!




Anime e cavalli di forza

Don Bosco scriveva di notte al lume di candela, dopo una giornata trascorsa tra preghiere, colloqui, riunioni, studio, parlate, visite di cortesia. Sempre pratico, tenace, con una prodigiosa visione del futuro.

“Da mihi animas, cetera tolle” è il motto che ha ispirato tutta la vita e l’azione di don Bosco a partire dall’oratorio voltante di Torino (1844) fino alle ultime iniziative sul letto di morte (gennaio 1888) per l’andata dei salesiani in Inghilterra e in Ecuador. Ma per lui le anime non erano disgiunte dai corpi, tant’è che fin dagli anni cinquanta si era proposto di consacrare la vita perché i giovani fossero “felici in terra come poi in cielo”. Felicità che, in terra, per i suoi giovani “poveri ed abbandonati” consisteva nell’avere un tetto, una famiglia, la scuola, un cortile, amicizie e attività piacevoli (gioco, musica teatro, gite…) e soprattutto una professione che garantisse loro un sereno futuro.
Si spiegano così i laboratori di “arti e mestieri” di Valdocco – le future scuole professionali – che don Bosco ha creato dal nulla: un’autentica startup, per dirla in termini attuali. Si era proposto lui stesso inizialmente come primo istruttore di sartoria, legatoria, calzoleria… ma il progresso non si fermava e don Bosco voleva essere all’avanguardia.

La disponibilità di forza motrice
A partire dal 1868, per iniziativa del sindaco di Torino, Giovanni Filippo Galvagno, una parte delle acque del torrente Ceronda, che nasceva a 1350 m di quota, vennero captate dal Canale Ceronda per essere distribuite a varie industrie che sorgevano nell’area nord del capoluogo piemontese, quella di Valdocco per intendersi. Suddiviso poi il canale in due rami all’altezza del quartiere di Lucento, quello di destra, ultimato nel 1873, dopo aver superato con un ponte-canale la Dora Riparia, proseguiva correndo parallelo all’attuale corso Regina Margherita e via San Donato per andare poi a scaricarsi nel Po. Don Bosco, sempre vigile a quanto avveniva in città, immediatamente chiese al Municipio “la concessione di almeno 20 cavalli di forza d’acqua” del canale che sarebbe passato appunto a lato di Valdocco. Accolta la domanda, fece costruire a sue spese le due bocche di presa e di restituzione dell’acqua, dispose le macchine nei laboratori in modo da poter ricevere facilmente la forza motrice e fece studiare da un ingegnere i motori necessari allo scopo. Quando tutto era pronto, il 4 luglio 1874 chiese alle autorità di procedere, a proprie spese, all’allacciamento. Per vari mesi non ebbe risposta, per cui il 7 novembre rinnovò la richiesta. La risposta questa volta pervenne abbastanza celermente. Sembrava positiva, ma chiedeva prima alcune precisazioni. Don Bosco rispose nei seguenti termini:

“Illustrissimo Sig. Sindaco,
Mi affretto di trasmettere a V. S. Ill.ma gli schiarimenti che compiacquesi dimandare colla sua lettera del 19 andante mese, ed ho l’onore di notificarle che l’industria cui verrà applicata la forza motrice dell’acqua della Ceronda sono:
1° La tipografia per cui sono impiegati operai non meno di numero 100.
2° Fabbrica di paste con operai non meno di 26.
3° Fondaria di caratteri tipografici, estortili, calcografia con operai oltre 30.
4° Labo[rato]rio in ferro mercé un martinetto con operai non meno di 30.
5° Falegnami, ebanisti, tornitori con una sega idraulica: operai non meno di 40.
Totale degli operai oltre a 220”.

Il numero comprendeva istruttori e giovani allievi. Stante la situazione, essi, oltre ad essere soggetti a inutili fatiche fisiche, non avrebbero potuto reggere la concorrenza. Infatti don Bosco aggiungeva: “Questi lavori ora si compiono mercé il dispendio di una macchina a vapore per la tipografia, ma per gli altri laboratorii si fanno a forza di braccia, in guisa che non si potrebbe sostenere la concorrenza di chi usa l’acqua motrice”.
E per evitare possibili ritardi e timori da parte delle pubbliche autorità offriva immediatamente una cauzione: “Non si dissente di depositare una cartella del debito pubblico per cauzione, appena si possa conoscere di quale ventura essa debba essere”.

Pensava sempre in grande… ma si accontentava del possibile
Si doveva pensare al futuro, a nuovi laboratori, a nuove macchine e dunque la richiesta di energia elettrica sarebbe necessariamente aumentata. Don Bosco allora alzò la richiesta e ne addusse le ragioni esistenziali e congiunturali:
“Ma mentre accetto la forza teorica di dieci cavalli, mi trovo nella necessità di osservare che tale forza è affatto insufficiente al mio bisogno, giacché il progetto di esecuzione, che si sta effettuando, basava sopra la forza di 30 [?] come ebbi l’onore di esporre nella lettera del novembre u. s. Per questo la prego di prendere in considerazione i lavori di costruzione già in corso, la natura di questo istituto, che vive di sola beneficienza, il numero degli operai che si occupano, l’essere noi stati dei primi ad iscriversi, e quindi volerci concedere, se non la forza di 30 cavalli promessa, almeno quella maggiore quantità di forza che fosse ancora disponibile…”.
“A buon intenditor poche parole” si direbbe.

Un imprenditore di successo
Non ci è pervenuta la quantità di acque concesse all’Oratorio in quella occasione. Resta il fatto che don Bosco dimostra ancora una volta quelle doti di capace imprenditore che tutti all’epoca gli hanno riconosciuto e che gli riconoscono tuttora: una storia di integrità morale, un giusto mix tra umiltà e fiducia in sé stesso, determinazione e coraggio, capacità comunicative e fiuto del futuro. Ovviamente quale carburante di tutte le sue ambizioni e aspirazioni stava una sola passione: quella per le anime. Aveva sì molti collaboratori, ma, in qualche modo, tutto cadeva sulle sue spalle. Ne sono la prova tangibile le migliaia di lettere, di cui abbiamo qui pubblicato una inedita, corretta e ricorretta più volte: lettere che solitamente scriveva di sera o di notte al lume di candela, dopo una giornata trascorsa tra preghiere, colloqui, riunioni, studio, parlate, visite di cortesia. Se di giorno architettava il suo progetto, di notte era poi capace di sognarne gli sviluppi. E questi sarebbero poi venuti nei decenni seguenti, con le centinaia di scuole professionali salesiane sparse nel mondo, con decine di migliaia di ragazzi (e poi di ragazze) che in esse avrebbero trovato un trampolino per un futuro carico di speranza.




Don Bosco e la sua data di nascita

Gli archivi parlano del 16 agosto: ma c’è una curiosa e affettuosa interpretazione.

I dati d’archivio
Il Registro dei battesimi della Parrocchia di Sant’Andrea in Castelnuovo d’Asti parla chiaro nella scrittura latina del parroco don Sismondo. Ne diamo qui la traduzione italiana:
«17 agosto 1815. — Bosco Giovanni Melchiorre, figlio di Francesco Luigi e di Margherita Occhiena coniugi Bosco, nato ieri sera e questa sera battezzato solennemente dal Reverendissimo don Giuseppe Festa, Vicecurato. Furono padrini Occhiena Melchiorre di Capriglio e Bosco Maddalena, vedova del fu Secondo Occhiena, di Castelnuovo.
Giuseppe Sismondo, Parroco e Vicario Foraneo».

Dunque, secondo l’Atto ufficiale di battesimo, don Bosco nacque la sera del 16 agosto 1815. Eppure don Bosco nelle sue «Memorie» afferma:
«Il giorno consacrato a Maria Assunta in cielo fu quello della mia nascita, l’anno 1815; in Murialdo, borgata di Castelnuovo d’Asti».
La differenza sembra evidente, anche se don Bosco non scrisse di esser nato il 15 di agosto, ma semplicemente «il giorno consacrato a Maria Assunta in cielo».
Fino alla morte di don Bosco si interpretò sempre quel «giorno consacrato a Maria Assunta in cielo» nel suo significato più ovvio e cioè di «15 agosto», senza che don Bosco vi facesse osservazione.
Così si può leggere sul Bollettino Salesiano del gennaio 1879, così nel libro su Don Bosco e la Società Salesiana pubblicato dal Du Boys a Parigi nel 1884, così persino sulla pergamena posta nella cassa di don Bosco il 2 febbraio 1888 e firmata anche da don Rua.
Subito dopo la morte di don Bosco, però, i Salesiani sentirono l’urgenza di raccogliere tutte le possibili testimonianze su di lui in vista di un Processo di Beatificazione e Canonizzazione. In questo clima di ricerche si recò a Castelnuovo d’Asti il salesiano castelnovese Don Secondo Marchisio, con l’intento di interrogare sul posto le persone più anziane dei Becchi, di Castelnuovo e di Moncucco su ciò che ricordavano della giovinezza di don Bosco. Dopo circa tre mesi di lavoro, nell’ottobre del 1888 don Marchisio se ne tornava a Torino con un ricco materiale di testimonianze. Tra il resto, si era fatto anche il dovere di consultare l’archivio parrocchiale di Castelnuovo dove aveva visto l’atto di battesimo che indicava il 16 agosto, e non il 15, come data di nascita di don Bosco.
Viene quindi naturale chiederci se si sia sbagliato don Bosco o il suo parroco o se i parenti abbiano denunciato una data per un’altra, come a volte avveniva, o se, addirittura, come alcuni ipotizzano, don Bosco non abbia volontariamente ritoccato la data per far cadere la propria nascita nel giorno dell’Assunta. Per dare una risposta a queste domande, conviene prima richiamarci all’ambiente popolare di quel tempo.

La Madonna d’agosto nel calendario del popolo
Nei nostri paesi del Piemonte, e non in quelli soltanto, la gente non soleva un tempo indicare i giorni festivi con una data del calendario ma con il nome di un santo, di una festa, di una sagra, di un avvenimento.
Il primo di gennaio era semplicemente chiamato «il giorno della strenna» (él dì dla strena), gli ultimi di quel mese «i giorni della merla» (ij dì dla merla), e così avanti. Il 3 febbraio era quello della benedizione della gola; il 6 giugno, a Torino, il giorno del miracolo; il 23-24, la festa di san Giovanni; l’8 settembre, la Madonna di settembre, ecc.
Non c’era allora tutta quella preoccupazione che oggi si ha per le cifre del calendario. Le date di nascita, di battesimo e di morte si trovavano solo nei registri parrocchiali che, fino al 1866, erano gli unici registri anagrafici esistenti e, per di più, sino al 1838, scritti solo in latino.
In questa situazione si può capire come i tre giorni del ferragosto, 14-15-16, fossero semplicemente indicati come «la Madonna d’agosto» (La Madòna d’agost).
Quella dell’Assunta era una delle festività più importanti e più sentite dell’anno, e la devozione alla Madonna d’agosto era tra le più radicate e celebrate in tutto il Piemonte. Basti pensare che le cattedrali di Asti, Ivrea, Novara, Saluzzo e Tortona, sono dedicate all’Assunta e che, ancor oggi, in tutto il territorio delle diocesi piemontesi, ben 201 (duecento e una!) chiese parrocchiali sono intitolate all’Assunta. Per far solo qualche nome, ricordiamo tra i paesi più vicini a Castelnuovo la parrocchia di Arignano, quella di Lauriano, di Marentino, di Riva presso Chieri, di Villafranca d’Asti. E non sarà inutile ricordare che la diocesi di Acqui ha 9 parrocchie dedicate all’Assunta, quella di Alba ne ha 10, Alessandria 9, Aosta 5, Asti 4, Biella 9, Casale 9, Cuneo 4, Fossano 3, Ivrea 12, Mondovì 18, Novara 34, Pinerolo 6, Saluzzo 12, Susa 7, Torino 16, Vercelli 18, Tortona 28, 16 delle quali in territorio piemontese.
Come si può quindi immaginare, la festa della Madonna d’agosto si celebrava ovunque solennissimamente con processioni e sagre che duravano al minimo tre giorni. Ancor oggi a Castelnuovo Don Bosco la Festa dell’Assunta (èl dì dla Madòna — si noti la somiglianza con la frase di don Bosco «il giorno consacrato a Maria Assunta in cielo» —) viene celebrata con grande solennità. Dopo una novena devota di preghiera, tutti accorrono alla Madonna del Castello per la processione, autorità e popolazione del paese. Seguono otto giorni di allegria con giostre e carrozzoni in piazza. Manco a dirlo, la festa di San Rocco, al 16 agosto, non è considerata festa a sé, ma fusa praticamente con quella dell’Assunta.

La data di nascita di don Bosco

È solo considerando queste usanze e divozioni che si può venire a capire la datazione della sua nascita da parte di don Bosco. Mamma Margherita deve aver sempre detto a suo figlio Giovanni: «Tu sei nato alla Madonna d’agosto». Non ne abbiamo, evidentemente, documentazione scritta, ma chi conosce l’ambiente e il linguaggio non può davvero immaginare espressione diversa sulle sue labbra. E quando nel 1873, per ordine di Pio IX, don Bosco si accinse finalmente a compilare le sue «Memorie», italianizzando, con un dialettalismo tra i tanti, così frequenti nel suo scritto, l’espressione piemontese della madre (a la Madòna d’agost), scrisse: «Il giorno consacrato a Maria Assunta in cielo fu quello della mia nascita l’anno 1815».
Don Eugenio Ceria, biografo di don Bosco, da buon piemontese, dà alla frase l’interpretazione che abbiamo fatta nostra: «Giova ricordare che in Piemonte di cosa avvenuta poco prima o poco dopo il 15 agosto, si dice spesso, senza troppo precisare, che avvenne alla Madonna d’agosto, e ognuno vede la facile conseguenza».

Atto di nascita di don Bosco

Don Michele Molineris, attento raccoglitore di usi locali, rimane dello stesso parere, mentre don Teresio Bosco avanza una nuova possibile interpretazione: «Sua mamma gli aveva detto tante volte: — Tu sei nato nel giorno della Madonna —, e don Bosco ripeterà per tutta la sua vita che era nato il 15 agosto 1815, festa dell’Assunta. Non andò mai a consultare il registro parrocchiale dove è scritto che nacque il 16 agosto? Un errore della madre? Una distrazione del parroco? Probabilmente né l’uno né l’altra. A quei tempi i parroci esigevano dai loro cristiani che portassero i neonati al battesimo nelle prime ventiquattro ore. Molti papà per non rischiare la vita del bimbo, glielo portavano qualche giorno dopo, e per non provocare la sfuriata del parroco posticipavano il giorno della nascita. Così capitò a Giuseppe Verdi, contemporaneo di don Bosco e a tanti altri. E i figli credevano più alle madri che ai registri».
Chi scrive questo articolo sa di essere nato il 27 agosto; eppure i documenti anagrafici gli assegnano come giorno di nascita il 28. Non sarà quindi il primo a negare la possibilità dell’ipotesi di don Teresio, secondo la quale don Bosco può essere veramente nato il 15.
Ciò che rimane inaccettabile invece è l’ipotesi che si sia trattato di un accorgimento di don Bosco, per potere, manipolando la data di nascita, costruirsi una leggenda, una sorta di biografia esemplare che avrebbe avuto come primo fatto provvidenziale la nascita dell’eroe il 15 di agosto, giorno esatto dell’Assunta.
Don Bosco era, senz’altro, un abilissimo narratore, che sapeva all’occorrenza colorire ed amplificare i particolari di un fatto per suscitare interesse, stupore o ilarità nei suoi giovani ascoltatori, o arrotondare le cifre per dischiudere le borse e far riflettere sull’inarrestabile sviluppo della sua opera, ma non era un vendifrottole, né un ingenuo. Chi lo può immaginare così sprovveduto da ignorare che presto o tardi la vera data della sua nascita sarebbe stata conosciuta?
Dovrebbe piuttosto essere chiaro a chi conosce il Santo dei Becchi, che egli non era uomo da fissarsi sul significato «cronachistico» delle date, ma su quello religioso. Per lui la storia umana, anche quella sua personale, era storia sacra, storia provvidenziale di salvezza. Vedeva un piano divino nella propria vita e voleva che i suoi lo ricordassero a loro incoraggiamento.

Per tirare le somme
Possiamo quindi riassumere e concludere dicendo che la data del 16 agosto, fornita dal registro parrocchiale è, molto probabilmente, quella esatta; ma non si può escludere del tutto che don Bosco sia di fatto nato il 15.
Comunque sia, don Bosco sapeva di essere nato «alla Madonna d’agosto» e ne era felice.
Le due date del 15 e del 16 non erano, nell’accezione popolare del tempo, sostanzialmente separate. Si trattava di una sola festività, quella dell’Assunta. Si poteva quindi parlare in tutti e due i casi di «giorno consacrato a Maria SS. Assunta in cielo».
Non ci risulta che don Bosco abbia espressamente parlato di «15 agosto», ma è possibile, tanto più che non è da escludersi che credesse esatta quella data.
Certo così credettero i discepoli prima della sua morte, interpretando in senso stretto affermazioni come questa: «io son nato alla Madonna di agosto» (Non ci si dimentichi che con don Bosco, in conversazione privata, i più parlavano ancora in piemontese).
La santa Mamma Margherita alla sua entrata in seminario gli aveva anche detto: «Quando sei venuto al mondo, ti ho consacrato alla Beata Vergine Maria; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre: ora ti raccomando di esserle tutto suo: ama i compagni divoti di Maria; e, se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga la divozione di Maria». E così fece don Bosco per tutta la vita.
In un rigido mattino d’inverno, il 31 gennaio 1888, don Bosco chiudeva il suo pellegrinaggio terreno a Valdocco al suono dell’Ave Maria. Sarà quello il termine di un lungo faticoso cammino intrapreso in una calda sera d’estate alla «Madonna d’agosto» sul Colle dei Becchi.




Don Bosco e la raccolta differenziata dei rifiuti porta a porta

Chi l’avrebbe mai detto? Don Bosco ecologista anzitempo? Don Bosco pioniere della raccolta differenziata dei rifiuti a domicilio 140 anni fa?

Si direbbe di sì, stando almeno ad una delle lettere che abbiamo recuperato negli anni scorsi e che si trova nel IX volume dell’epistolario (no. 4144). Si tratta di una circolare a stampa del 1885 che nel suo piccolo – la città di Torino dell’epoca – anticipa e, ovviamente a suo modo, “risolve” i grandi problemi che affronta la nostra società, quella cosiddetta dei “consumi” e dell’“usa e getta”.

Il destinatario
Trattandosi di una lettera circolare il destinatario è generico, una persona conosciuta o meno. Don Bosco con furbizia ne “cattura” subito l’attenzione definendola “benemerita e caritativa”. Fatta tale premessa, don Bosco indica al suo corrispondente un dato di fatto sotto gli occhi di tutti:

La S. V. saprà che le ossa, avanzate dalla mensa e generalmente dalle famiglie gettate nella spazzatura come oggetto d’ingombro, riunite in grande quantità riescono in quella vece utili alla umana industria, e sono perciò ricercate dagli uomini dell’arte [= industria] pagate alcuni soldi per miriagramma. Una società di Torino, colla quale mi sono messo in rapporto, ne acquisterebbe in qualsivoglia quantità”. Dunque ciò che darebbe fastidio, tanto in casa che fuori casa, magari per le strade della città, viene saggiamente utilizzato con vantaggio di tanti.

Un’alta finalità
A questo punto don Bosco lancia la sua proposta: “In vista di ciò e in conformità di quanto si va già praticando in alcuni paesi a favore di altri Istituti di beneficenza, io sono venuto nel pensiero di ricorrere alle benestanti e benevole famiglie di questa illustre città, e pregarle, che invece di lasciare che vada a male e torni disutile questo rifiuto della loro tavola, lo vogliano cedere gratuitamente a benefizio dei poveri orfanelli raccolti ne’ miei Istituti, e specialmente a vantaggio delle Missioni di Patagonia, dove i Salesiani con ingenti spese e con pericolo della propria vita stanno ammaestrando ed incivilendo le tribù selvagge, per far loro godere i frutti della Redenzione e del verace progresso. Simile ricorso e siffatta preghiera io fo pertanto alla S. V. benemerita, convinto che vorrà prenderli in benigna considerazione ed esaudirli.

Il progetto sembrava appetibile da più parti: le famiglie si liberavano di parte dei rifiuti da tavola, la ditta era interessata a raccoglierli per riutilizzarli diversamente (prodotti alimentari per animali, concimi per la campagna ecc.); don Bosco ne ricavava denaro per le missioni… e la città rimaneva più pulita.

Una perfetta organizzazione
La situazione era chiara, l’obiettivo era alto, i vantaggi erano di tutti, ma non potevano bastare. Occorreva procedere alla raccolta di ossa “porta a porta” in tutta la città. Don Bosco non si scompone. Settantenne, ha ormai dalle sue profonde intuizioni, lunga esperienza ma anche grande capacità manageriali. Ecco allora organizzare tale “impresa” facendo attenzione ad evitare i sempre possibili abusi nelle varie fasi dell’operazione-raccolta: “A quelle famiglie, che avranno la bontà di aderire a questa umile mia domanda, sarà consegnato un apposito sacchetto, ove riporre le ossa mentovate, le quali verrebbero spesso ritirate e pesate da persona a ciò incaricata dalla società acquisitrice, rilasciandone un buono di ricevuta, il quale per caso di controllo colla società medesima sarebbe di quando in quando ritirato a nome mio. Così alla S. V. non resterà altro da fare che impartire gli ordini opportuni, affinché questi inutili avanzi della sua mensa, che andrebbero dispersi, siano riposti nel sacchetto medesimo, per essere consegnati al raccoglitore e quindi venduti ed usufruiti dalla carità. Il sacchetto porterà le lettere iniziali O. S. (Oratorio Salesiano), e la persona che passerà a vuotarlo presenterà pure un qualche segno, per farsi conoscere dalla S. V. o dai suoi famigli[ari]”.
Che dire? Se non che il progetto sembra valido in tutte le sue parti, addirittura migliore di qualche analogo progetto delle nostre città di terzo millennio!

Gli incentivi
Ovviamente la proposta andava sostenuta con qualche incentivo, non certo di tipo economico o promozionale, bensì morale e spirituale. Quale? Eccolo: “la S. V. si renderà benemerita delle opere sopraccennate, avrà la gratitudine di migliaia di poveri giovinetti, e quello che maggiormente importa ne riceverà la ricompensa da Dio promessa a tutti coloro, che si adoperano al benessere morale e materiale del loro simile”.

Una modulistica precisa
Da uomo concreto escogita un mezzo, che diremmo modernissimo, per riuscire nella sua impresa: chiede ai suoi destinatari di rimandargli indietro il tagliando, messo in calce alla lettera, che porta il suo indirizzo: “La pregherei ancora di volermene assicurare per mia norma e pel compimento delle pratiche a farsi, col distaccare e rimandarmi la parte di questo stampato, la quale porta il mio indirizzo. Appena avuta la sua adesione darò ordine che le sia consegnato il mentovato sacchetto”.
Don Bosco chiude la sua lettera con la consueta formula di ringraziamento e di augurio, che tanto tornava gradito ai suoi corrispondenti.
Don Bosco, oltre che essere un grande educatore, un lungimirante fondatore, un uomo di Dio, è stato anche un genio della carità cristiana.




Lo sguardo di don Bosco

Ma chi lo crederebbe? Con quella vista, don Bosco… vedeva tante cose!
Un vecchio sacerdote, già alunno a Valdocco, lasciò scritto nel 1889: «Quel che in don Bosco più spiccava era lo sguardo, dolce ma penetrantissimo fino alle latebre del cuore, cui appena si poteva resistere fissandolo. Onde si può dire che l’occhio suo attirava, atterriva, atterrava all’uopo e che nel mio giro del mondo non conobbi persona, che più di lui s’imponesse con lo sguardo. In genere i ritratti e i quadri non riportano questa singolarità, e me ne fanno di lui un dabben uomo».
Un altro ex-allievo degli anni ’70, Pons Pietro, rivela nei suoi ricordi: «Don Bosco aveva due occhi che foravano e penetravano nella mente… Egli passeggiava adagio parlando e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzando di gioia i cuori».
Il salesiano don Pietro Fracchia, allievo di don Bosco, ricordava un suo incontro con il Santo seduto allo scrittoio. Il giovane osò chiedergli perché scriveva così con la testa bassa e si voltava verso destra accompagnando la penna. Don Bosco, sorridendo, gli rispose: «La ragione è questa, vedi! Da quest’occhio don Bosco non ci vede più, e da quest’altro poco, poco, poco!» — «Ci vede poco? Ma allora come va che l’altro giorno in cortile, mentre io ero lontano da lei, mi lanciò uno sguardo vivissimo, luminoso, penetrante come un raggio di sole?» — «Ma va là… ! Voialtri pensate e vedete subito chissà che cosa…!».
Eppure era così. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Don Bosco con il suo occhio scrutatore, tutto penetrava e indovinava nei giovani: il carattere, l’ingegno, il cuore. Qualcuno di essi cercava appositamente di sfuggire la sua presenza perché non riusciva a sopportarne lo sguardo. Don Domenico Belmonte assicurava di aver personalmente costatato il fatto: «Tante volte don Bosco guardava un giovane in modo così particolare, che i suoi occhi dicevano ciò che il labbro in quel momento non esprimeva, e gli facevano comprendere ciò che desiderava da lui».
Spesso egli seguiva con lo sguardo un giovane in cortile, mentre conversava con altri. Ad un tratto lo sguardo del ragazzo s’incontrava con quello di don Bosco e l’interessato capiva. Gli si avvicinava per chiedergli che cosa volesse da lui e don Bosco glielo diceva all’orecchio. Magari era un invito alla confessione.
Un alunno una notte non poteva prender sonno. Sospirava, mordeva le lenzuola, piangeva. Il compagno che dormiva vicino a lui, svegliato da quell’agitazione, gli chiese: «Che cos’hai?… Ma che cos’hai?» — «Che cos’ho? Ieri sera don Bosco mi ha guardato!» — «Oh, bella! E mica una novità. Non c’è per questo da disturbare tutta la camerata!» — Al mattino lo contò a don Bosco e don Bosco gli rispose: «Domanda un po’ a lui che cosa ne dice la sua coscienza!». Il resto lo si può immaginare.

Ancora testimonianze in Italia, Spagna e Francia

Don Bosco a 71 anni – Sampierdarena, 16 marzo 1886

Don Michele Molineris, nella sua Vita episodica di don Bosco pubblicata postuma al Colle nel 1974, riporta un’altra serie di testimonianze sullo sguardo di don Bosco. Ne riferiamo solo tre, anche per ricordare questo studioso del Santo che, oltre al resto, ebbe una conoscenza unica dei luoghi e delle persone della fanciullezza di Giovanni Bosco. Ma veniamo alle testimonianze da lui raccolte.
Mons. Felice Guerra ricordando personalmente la vivacità dello sguardo di don Bosco, dichiarò che esso penetrava come spada a doppio taglio fino a scandagliare i cuori e commuovere le coscienze. Eppure «da un occhio non ci vedeva e anche l’altro gli serviva poco!».
Don Giovanni Ferrés, parroco a Gerona in Spagna, che vide don Bosco nel 1886, lasciò scritto che «aveva gli occhi vivissimi, sguardo penetrante… Guardandolo mi sentivo forzato a ripiegarmi sopra di me e ad esaminare come stessi di anima».
Il Sig. Accio Lupo, usciere del Ministero Francesco Crispi, che aveva introdotto don Bosco nell’ufficio dello statista, lo ricordava come «un prete emaciato… dagli occhi penetranti!».

E ricordiamo infine impressioni raccolte dai suoi viaggi in Francia. Il Cardinal Giovanni Cagliero riferiva il fatto seguente notato personalmente nell’accompagnare don Bosco. Dopo una conferenza tenuta a Nizza, don Bosco usciva dal presbitero della chiesa per avviarsi alla porta, tutto circondato dalla folla che non lo lasciava camminare. Un individuo dall’aspetto torvo stava immobile a guardarlo come se macchinasse un brutto tiro. Don Cagliero, che lo teneva d’occhio, inquieto per ciò che potesse succedere, vide l’uomo avvicinarsi. Don Bosco gli rivolse la parola: «Che cosa desiderate? — «Io? Nulla!» — «Eppure sembra che abbiate qualche cosa da dirmi!» — «Io ho nulla da dirle» — «Volete confessarvi?» — «Confessarmi, io? Ma neppur per sogno!» — «Dunque che cosa fate qui?» — «Sto qui perché… non posso andar via!» — «Ho capito… Signori, mi lascino un momento solo», disse don Bosco a quelli che lo circondavano. I vicini si tirarono in disparte, don Bosco sussurrò qualche parola all’orecchio di quell’uomo che, cadendo in ginocchio, si confessò là in mezzo alla chiesa.
Più curioso fu il fatto di Tolone, accaduto durante il viaggio di don Bosco in Francia nel 1881.
Dopo una conferenza nella chiesa parrocchiale di Santa Maria, don Bosco, con un piatto d’argento in mano, fece il giro della chiesa a questuare. Un operaio, nell’atto in cui don Bosco gli presentava il piatto, voltò la faccia dall’altra parte alzando sgarbatamente le spalle. Don Bosco, passando oltre, gli diede uno sguardo amorevole e gli disse: «Dio vi benedica! — L’operaio allora si mise la mano in tasca e depose un soldo nel piatto. Don Bosco, fissandolo in faccia, gli disse: — Dio vi ricompensi —. L’altro, rifatto il gesto, offrì due soldi. E don Bosco: — Oh, mio caro, Dio vi rimeriti sempre di più! — Quell’uomo, ciò udito, cavò fuori il portamonete e donò un franco. Don Bosco gli diede uno sguardo pieno di commozione e si avviò. Ma quel tale, quasi attratto da una forza magica, lo seguì per la chiesa, gli andò appresso nella sacrestia, uscì dietro di lui in città e non cessò di stargli alle spalle finché non lo vide scomparire». Potenza di uno sguardo di don Bosco!
Disse Gesù: «Gli occhi sono come la lampada per il corpo; se i tuoi occhi sono buoni tu sarai totalmente nella luce».
Gli occhi di don Bosco erano totalmente nella Luce!