Don Bosco, la politica e la questione sociale

Don Bosco ha fatto la politica? Sì, ma non come si può pensare nel senso immediato della parola. Lui stesso diceva che la sua politica era del Padre Nostro: le anime da salvare, i giovani
poveri da nutrire e educare.

Don Bosco e la politica
Don Bosco ha vissuto intensamente e con cosciente consapevolezza i problemi, anche per lui inediti, dei grossi cambiamenti culturali e sociali del suo secolo, particolarmente nei loro risvolti politici, e ha fatto una scelta meditata, che ha voluto facesse parte del suo spirito e caratterizzasse la sua missione.
Egli ha voluto coscientemente «non fare politica» di partito, e ha lasciato come patrimonio spirituale alla sua Congregazione di non farla, non perché egli fosse «apolitico», e cioè alienato dai grandi problemi umani della sua epoca e della società in cui viveva, ma perché volle dedicarsi alla riforma della società senza entrare nei movimenti politici. Non fu quindi un «disimpegnato»; anzi ha voluto che i suoi salesiani fossero veramente degli «impegnati». Ma occorre chiarire il senso di questo impegno politico.
Il termine «politica» può venir usato in due sensi: nel primo senso indica il campo dei valori e dei fini, che definiscono il «bene comune» in una visione globale della società; nel secondo senso indica il campo dei mezzi e dei metodi da seguire per raggiungere il «bene comune».
Il primo significato considera la politica nel senso più ampio della parola. A questo livello tutti hanno una responsabilità politica. Il secondo significato considera la politica come una serie di iniziative che, attraverso i partiti ecc., intendono orientare l’esercizio del potere a favore del popolo. A questo secondo livello la politica è connessa con un intervento nel governo del paese, che esula dall’impegno voluto da Don Bosco.
Egli riconosce in sé e nei suoi una responsabilità politica che riguarda il primo significato, in quanto vuol essere un impegno religioso educativo atto a creare una cultura che informi cristianamente la politica. In questo secondo senso Don Bosco ha fatto politica, anche se la presentava sotto altri termini, come «morale e civile educazione della gioventù».

Don Bosco e la questione sociale
Don Bosco presentì l’evoluzione sociale del suo tempo. «Fu tra quei pochi che aveva capito fin da principio, e lo disse mille volte, che il movimento rivoluzionario non era un turbine passeggero, perché non tutte le promesse fatte al popolo erano disoneste, e molte rispondevano alle aspirazioni universali, vive dei proletari. Per altra parte egli vedeva come le ricchezze incominciassero a divenire monopolio di capitalisti senza viscere di pietà, e i padroni, all’operaio isolato e senza difesa, imponessero dei patti ingiusti sia riguardo al salario, sia rispetto alla durata del lavoro; vedeva che la santificazione delle feste fosse sovente brutalmente impedita, e come queste cause dovessero produrre tristi effetti: la perdita della fede negli operai, la miseria delle loro famiglie e l’adesione alle massime sovversive. Perciò come guida e freno alle classi operaie, egli reputava partito necessario che il clero si avvicinasse ad esse» (MB IV, 80).
Il volgersi alla gioventù povera con l’intento di operare la salvezza morale e così cooperare alla costruzione cristiana della nuova società fu in lui appunto l’effetto e la conseguenza naturale e prima dell’intuizione che egli ebbe di questa società e del suo divenire.
Non si deve però ricercare nelle parole di Don Bosco la formula tecnica. Don Bosco parlò solo di abuso delle ricchezze. Ne parlò con tale insistenza, con tale forza di espressione e straordinaria originalità di concetto, da rivelare non soltanto l’acutezza della sua diagnosi dei mali del secolo, ma anche l’intrepidezza del medico che vuole sanarli. Il rimedio egli lo indicò nell’uso cristiano della ricchezza, nella coscienza della sua funzione sociale. Molto si abusa della ricchezza, ripeteva senza posa, bisogna ricordare ai ricchi il loro dovere prima che venga la catastrofe.

Giustizia e carità
Accennando all’opera compiuta in Torino dal Can. Cottolengo e da Don Bosco, un professore nell’Istituto di scienze politiche dell’Università di Torino ammette il bene compiuto da questi due santi, però poi esprime l’opinione che «questo aspetto del movimento caritativo piemontese, pur nei ragguardevoli risultati raggiunti, sia stato storicamente negativo» perché più di ogni altro avrebbe contribuito a frenare il progresso implicito nell’azione delle masse popolari che rivendicavano i propri diritti.
È sua opinione che «le attività di questi due santi piemontesi erano viziate dalla concezione di fondo che muoveva entrambi, per cui tutto veniva abbandonato nelle mani pietose di una provvidenza divina» (ivi). Essi sarebbero rimasti estranei ai movimenti reali delle masse ed ai loro diritti, legati com’erano all’immagine di una società fatta, per forza di cose, di nobiltà e popolo, di ricchi e di proletari, dove il benestante doveva essere misericordioso ed il povero umile e paziente. Insomma San G. B. Cottolengo e S. G. Bosco non si sarebbero resi conto del problema delle classi in trasformazione.
Non posso qui fermarmi a considerare il caso del Cottolengo. Faccio solo notare che il suo intervento rispondeva ad un’esperienza bruciante che lo portò subito a far qualcosa, come aveva fatto il Buon Samaritano del Vangelo (Lc 10, 29-37). Guai se il Buon Samaritano avesse aspettato il cambio della società per intervenire. L’uomo sulla strada di Gerico sarebbe morto! «La carità di Cristo ci sospinge» (2 Cor 5,14) sarà il programma d’azione di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Ognuno ha una sua missione nella vita. Un intervento sugli effetti del male non nega il riconoscimento del bisogno di andare alle cause. Ma è pur la cosa più urgente da compiere. E poi il Cottolengo non pensava solo a questo, ma a ben altro.
L’intervento, poi, di Don Bosco nella questione sociale è stato orientato da un’opzione fondamentale: per i poveri, per i fatti, e per il dialogo con chi, anche se d’altra sponda, poteva essere indotto a far qualcosa.

Il contributo di Don Bosco
Come sacerdote educatore, Don Bosco fece una scelta di campo, per la gioventù povera ed abbandonata, e superò l’idea puramente caritativa, preparando quella gioventù a rendersi capace di far valere onestamente i propri diritti.
La sua prima attività si volse prevalentemente a vantaggio dei poveri garzoni di bottega e manovali d’officina. I suoi interventi, che oggi potremmo definire di carattere sindacale, lo portarono a relazioni dirette con i padroni di questi giovani per stipulare con essi «contratti di locazione d’opera».
Poi, accortosi che questo aiuto non risolveva i problemi se non in casi limitati, cominciò ad impiantare laboratori d’arti e mestieri, piccole aziende dove i prodotti finiti sotto la guida di un capo d’arte andassero a vantaggio degli stessi allievi. Si trattava di organizzare in casa propria l’apprendistato, in modo che i giovani apprendisti potessero guadagnarsi il pane senza venire sfruttati dai padroni. Finalmente passò all’idea di un capo d’arte che fosse lui stesso non il padrone del laboratorio o un salariato della scuola, ma un religioso laico, maestro d’arte, che potesse dare al giovane apprendista, disinteressatamente, a pieno tempo e per vocazione, una formazione professionale e cristiana completa.
Le scuole professionali da lui sognate, e poi attuate dai suoi Successori, furono un importante contributo alla soluzione della questione operaia. Egli non fu il primo né il solo in quell’impresa; ci mise, tuttavia, del suo, specialmente con l’armonizzare la sua istituzione con l’indole dei tempi e con l’imprimerle il proprio metodo educativo.
Non c’è quindi da stupirsi dell’attenzione che grandi sociologi cattolici del secolo scorso manifestarono per Don Bosco.
Mons. Charles Emil Freppel (1827-1891), vescovo di Angers, uomo di grande cultura e Deputato alla Camera francese, il 2 febbraio 1884, pronunziando un discorso in Parlamento sulla questione operaia, ebbe a dire:
«Il solo Vincenzo de’ Paoli ha fatto di più per la soluzione delle questioni operaie dei suoi tempi che tutti gli scrittori del secolo di Luigi XIV. Ed in questo momento in Italia un religioso, Don Bosco, che voi avete visto a Parigi, riesce meglio nel preparare la soluzione della questione operaia di tutti gli oratori al Parlamento italiano. Questa è la verità, incontestabile» (cf. Journal officiel de la République française… Chambre. Débats parlementaires, 3 février 1884, p. 280).

Una testimonianza che non ha bisogno di commentari…




Quali sono le disposizioni per entrare nella Societa Salesiana

In varie parti del mondo si avvicinano i tempi quando alcuni giovani, attirati dalla grazia di Dio, si preparano di dire il loro “Fiat” alla sequela di Cristo, secondo il carisma che Dio ha istituito tramite san Giovanni Bosco. Quali sarebbero le disposizioni con le quali dovrebbero avvicinarsi a entrare a far parte della Società Salesiana di San Giovanni Bosco? Lo dice lo stesso santo in una sua lettera indirizzata ai suoi figli (MB VIII, 828-830).

            Il giorno di Pentecoste don Bosco indirizzava una lettera a tutti i salesiani, trattando del fine col quale si doveva entrare nella Pia Società di. San Francesco di Sales, ed annunziava che forse fra non molto questa sarebbe definitivamente approvata. Fra i documenti che possediamo non si ha traccia di tale assicurazione. Avendo però il suo autografo la data 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice 1867, sembra che la festa del giorno gli avesse dato l’ispirazione di scrivere e gli abbia mostrato più viva la visione dell’avvenire. Comunque sia, egli ne fece trarre varie copie, mutando poi la data egli stesso, e scrivendovi di proprio pugno l’indirizzo a don Bonetti ed ai miei figli di San Francesco di Sales abitanti in Mirabello; a don Lemoyne ed ai miei figli di San Francesco di Sales abitanti in Lanzo. Era pur sua la firma e il proscritto: Il Direttore legga e spieghi ove d’uopo.
            Ecco la copia destinata per i Salesiani dell’Oratorio.

            «A don Rua ed agli altri miei amati figli di San Francesco abitanti in Torino.

            La nostra Società sarà forse tra non molto definitivamente approvata e perciò io avrei bisogno di parlare ai miei amati figli con frequenza. La qual cosa non potendo fare sempre di persona procurerò almeno di farlo per lettera.

            Comincerò adunque dal dire qualche cosa intorno allo scopo generale della Società e poi passeremo a parlare altra volta delle osservanze particolari della medesima.

            Primo oggetto della nostra Società è la santificazione dei suoi membri. Perciò ognuno nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine. Chi ci entrasse per godere una vita tranquilla, aver comodità a proseguir gli studi, liberarsi dai comandi dei genitori, od esimersi dall’obbedienza di qualche superiore, egli avrebbe un fine storto e non sarebbe più quel sequere me (seguimi) del Salvatore, giacché seguirebbe la propria utilità temporale, non il bene dell’anima. Gli Apostoli furono lodati dal Salvatore e venne loro promesso un regno eterno, non perché abbandonarono il mondo, ma perché abbandonandolo si professavano pronti a seguirlo nelle tribolazioni; come avvenne di fatto, consumando la loro vita nelle fatiche, nella penitenza e nei patimenti, sostenendo in fine il martirio per la fede.

            Nemmeno con buon fine entra o rimane nella Società chi è persuaso di essere necessario alla medesima. Ognuno se lo imprima bene in mente e nel cuore: cominciando dal Superiore Generale fino all’ultimo dei soci, niuno è necessario nella Società. Dio solo ne deve essere il capo, il padrone assolutamente necessario. Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro capo, al loro vero padrone, al rimuneratore, a Dio, e per amor di lui ognuno deve farsi inscrivere nella Società, per amor di Lui lavorare, ubbidire, abbandonare quanto si possedeva al mondo per poter dire in fine della vita al Salvatore, che abbiamo scelto per modello: Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te; quid ergo erit nobis? (Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo? Mt 19,27)

            Mentre poi diciamo che ognuno deve entrare in Società guidato dal solo desiderio di servire a Dio con maggior perfezione e di fare del bene a sé stesso, s’intende fare a sé stesso il vero bene, bene spirituale ed eterno. Chi si cerca una vita comoda, una vita agiata, non entra con buon fine nella nostra Società. Noi mettiamo per base la parola del Salvatore che dice: “Chi vuole essere mio discepolo, vada a vendere quanto possiede nel mondo, lo dia ai poveri e mi segua.” Ma dove andare, dove seguirlo, se non aveva un palmo di terra ove riporre lo stanco suo capo? “Chi vuol farsi mio discepolo, dice il Salvatore, mi segua colla preghiera, colla penitenza e specialmente rinneghi sé stesso, tolga la croce delle quotidiane tribolazioni e mi segua. Abneget semetipsum tollat crucem suam quotidie, et sequatur me.” (Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Lc. 9,23). Ma fino a quando seguirlo? Fino alla morte e, se fosse mestieri, anche ad una morte di croce.

            Ciò è quanto nella nostra Società fa colui che logora le sue forze nel sacro ministero, nell’insegnamento od altro esercizio sacerdotale, fino ad una morte eziandio violenta di carcere, di esilio, di ferro, di acqua, di fuoco, fino a tanto che dopo aver patito, ed esser morto con Gesù Cristo sopra la terra, possa andare a godere con Lui in Cielo.

            Questo sembrami il senso di quelle parole di S. Paolo che dice a tutti i cristiani: Qui vult gaudere cum Christo, oportet pati cum Christo. (Chi vuole rallegrarsi con Cristo deve patire con Cristo)

            Entrato un socio con queste buone disposizioni deve mostrarsi senza pretese ed accogliere con piacere qualsiasi ufficio gli possa essere affidato. Insegnamento, studio, lavoro, predicazione, confessione in chiesa, fuori di chiesa, le più basse occupazioni devono assumersi con ilarità e prontezza d’animo, perché Dio non guarda la qualità dell’impiego, ma guarda il fine di chi lo copre. Quindi tutti gli uffizi sono egualmente nobili, perché egualmente meritori agli occhi di Dio.

            Miei cari figliuoli, abbiate fiducia nei vostri superiori: essi devono rendere stretto conto a Dio delle vostre opere; perciò essi studiano la vostra capacità, le vostre propensioni e ne dispongono in modo compatibile colle vostre forze, ma sempre come loro sembra tornare di maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime.

            Oh! se i nostri fratelli entreranno in Società con queste disposizioni, le nostre Case diventeranno certamente un paradiso terrestre. Regnerà la pace e la concordia tra gli individui di ogni famiglia, e la carità sarà la veste quotidiana di chi comanda, l’ubbidienza ed il rispetto precederanno i passi, le opere e perfino i pensieri dei Superiori. Si avrà insomma una famiglia di fratelli intorno al loro padre, per promuovere la gloria di Dio sopra la terra, per andare poi un giorno ad amarlo e lodarlo nell’immensa gloria dei beati in Cielo. Dio ricolmi voi e le vostre fatiche di benedizioni e la Grazia del Signore santifichi le vostre azioni e vi aiuti a perseverare nel bene.

Torino, 9 giugno 1867, giorno di Pentecoste.
Aff.mo in G. C., Sac. Bosco GIOVANNI
»




Essere amabili come don Bosco (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

5) Essere autentici
Nell’era digitale, le persone autentiche sono molto importanti. Non si mettono in mostra, non cercano di adattarsi a uno stampo, si sentono a proprio agio con chi sono e non hanno paura di mostrarlo. Esprimono i loro pensieri e sentimenti con totale onestà, senza preoccuparsi di ciò che gli altri potrebbero pensare, creando un ambiente di onestà e accettazione.
Nelle sue Memorie è registrata questa compiaciuta affermazione: «Io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, ero temuto per il mio coraggio e per la mia forza gagliarda».
«È inutile, – dirà a sua volta don Cafasso – vuol fare a suo modo; eppure bisogna lasciarlo fare; anche quando un progetto sarebbe da sconsigliare, a don Bosco riesce»; risentita per non averlo guadagnato alla sua causa, la Marchesa Barolo lo taccerà di «cocciuto, ostinato, superbo».
Sono buoni mattoni. Li sa usare bene per costruire un capolavoro.

La semplicità.
Molte persone hanno bisogno di fingere di essere diversi, di apparire più forti di quello che sono. Per voler essere quello che non sono.
I fiori semplicemente fioriscono. Leggeri silenziosi sono quello che sono. La persona semplice come gli uccelli del cielo. Il canto qualche volta, il silenzio più sovente, la vita sempre. Don Bosco vive come respira. È sempre lui. Mai doppio, mai pretenzioso, mai complesso. L’intelligenza non è arruffamento, complicazione, snobismo. La realtà è complessa senza dubbio. Non riusciremmo facilmente a descrivere un albero, un fiore, una stella, un sasso… Questo non impedisce loro di essere semplicemente quello che sono. La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce, non si preoccupa per sé stessa, non desidera essere vista…
Le Memorie raccontano che nel 1877, ad Ancona «don Bosco andò a celebrare verso le dieci nella chiesa del Gesù, ufficiata dai Missionari del Preziosissimo Sangue. Gli servì la messa un giovanetto, che per tutta la vita non dimenticò più quell’incontro. Vide egli entrare in sacrestia un «pretarello» basso, modesto nel viso e nell’atteggiamento, affatto sconosciuto. Però «in quel viso bruno» scorse un non so che di bontà attraente, che destò subito in lui un misto di curiosità e riverenza. Nel celebrare poi notò che aveva qualche cosa di speciale, d’invitante al raccoglimento e al fervore. Terminata la messa, dopo il ringraziamento, il prete gli pose la mano sul capo, gli regalò dieci centesimi, volle sapere chi fosse e che cosa facesse e gli disse alcune buone parole. A quarantotto anni di distanza quel giovane, che si chiamava Eugenio Marconi ed era alunno dell’Istituto Buon Pastore, doveva poi scrivere: «Oh la dolcezza di quella voce! l’affabilità, l’affetto racchiusi in quelle parole! Io rimasi confuso e commosso». Scoprì poco dopo che il «pretarello» era don Bosco e gli fu amico devoto per tutta la vita.
Il contrario del semplice non è il complicato, ma il falso. Semplicità è nudità, spoliazione, povertà. Senz’altra ricchezza che tutto. Senza altro tesoro che niente. Semplicità è libertà, leggerezza, trasparenza. Semplice come l’aria, libero come l’aria. Come una finestra aperta al grande soffio del mondo, all’infinita e silenziosa presenza di tutto.
Dove soffia lo Spirito del Vangelo: «Guardate gli uccelli che vivono in libertà: essi non seminano, non mietono e non mettono il raccolto nei granai… eppure il Padre vostro che è in cielo li nutre! Ebbene, voi non siete forse molto più importanti di loro?» (Mt 6,26).
Le Memorie Biografiche tranquillamente affermano: «Era evidente essersi egli gettato nelle braccia della divina Provvidenza, come un bambino in quelle di sua madre» (MB III, 36).
Tutto è semplice per Dio. Tutto è divino per i semplici. Anche il lavoro. Anche lo sforzo. 

6) Essere resistenti
La vita è piena di sorprese. Le cose non vanno sempre lisce e a volte affrontiamo sfide che mettono alla prova la nostra forza e la nostra determinazione. In questi momenti, la resilienza è una qualità potente. Si tratta di avere la forza mentale ed emotiva di riprendersi di fronte alle avversità, di andare avanti anche quando le cose si fanno difficili. Ed è qualcosa che le persone ammirano. Avere accanto qualcuno che incarna il coraggio può essere un’incredibile fonte di ispirazione. Il miglior titolo per una vita di don Bosco credo sia Giovannino Semprinpiedi.
Monsignor Cagliero ricorda: «Non ricordo di averlo visto un solo momento, nei 35 anni in cui stetti al suo fianco, scoraggiato, infastidito o inquieto per i debiti dei quali era sovente carico. Sovente diceva: «La Provvidenza è grande, e come pensa agli uccelli dell’aria, così penserà ai miei giovanetti».
“Guarda, io sono un povero prete, ma se rimanessi anche solo più con un pezzo di pane, lo farei a metà con te”. Era la frase più ripetuta da don Bosco.
I veri amici sono come le stelle… non sempre le vedi, ma sai che ci sono sempre.

7) Essere umili
Le persone umili non hanno bisogno di continui elogi o riconoscimenti per sentirsi bene con sé stesse e non sentono il bisogno di dimostrare il proprio valore agli altri. Inoltre, hanno una mente aperta e sono sempre disposte a imparare dagli altri, indipendentemente dal loro status o dalla loro posizione.
Don Bosco non si vergognò mai di chiedere l’elemosina. Umile e forte, come gli aveva chiesto la Maestra. A testa alta con tutti.

8) Diffondere la tenerezza
Michele Rua si affezionò a don Bosco, quel prete accanto al quale ci si sentiva allegri e come pieni di calore. Abitava alla Regia Fabbrica d’Armi, Michelino, dove suo papà era stato impiegato. Quattro dei suoi fratelli erano morti giovanissimi, e lui era molto gracile. Per questo sua madre non lo lasciava andare molte volte all’oratorio. Ma incontrò ugualmente don Bosco dai Fratelli delle Scuole Cristiane, dove andò a frequentare la terza elementare. Raccontò:
«Quando don Bosco veniva a dirci la Messa e a predicare, appena entrava in cappella pareva che una corrente elettrica passasse per tutti quei numerosi fanciulli. Saltavamo in piedi, uscivamo dai nostri posti, ci stringevamo attorno a lui. Ci voleva un gran tempo perché egli potesse arrivare in sacrestia. I buoni Fratelli non potevano impedire quell’apparente disordine. Quando venivano altri preti non capitava niente di simile».
Don Bosco era attraente come una calamita. C’è un episodio comico e tenero, raccontato nelle Memorie Biografiche di don Bosco con la leggerezza dei Fioretti:
«Una sera don Bosco camminando lungo un marciapiede in via Doragrossa, ora chiamata via Garibaldi, passò innanzi all’invetriata di un magnifico fondaco da panni il cui cristallo teneva tutta l’ampiezza della porta. Un buon giovanetto dell’Oratorio, il quale ivi serviva da fattorino, visto don Bosco, nel primo slancio del suo cuore, senza riflettere che l’invetriata era chiusa, corre per andarlo a riverire; ma dà col capo nel cristallo e lo riduce a pezzi. Al rovinoso cader dei vetri don Bosco si ferma e apre la vetrata; il fanciullo tutto mortificato gli si fa da presso; il padrone esce di bottega, alza la voce e grida; i passeggeri fanno crocchio. «Che cosa hai fatto?» domandò don Bosco al giovanetto; ed egli ingenuamente risponde: «Ho veduto Lei a passare e, pel gran desiderio di riverirla, non ho più badato che doveva aprire la vetriera e l’ho rotta» (Memorie Biografiche MB III, 169-170).
Era un senso di amicizia esplosivo, quello che i ragazzi provavano per don Bosco. Sulla linea di san Francesco di Sales, cantore dell’amicizia spirituale, don Bosco sentiva che l’amicizia fondata sulla benevolenza e sulla confidenza reciproca pareva essenziale al suo sistema preventivo.
L’amicizia per don Bosco è quel “tocco in più” che ha trasformato un metodo educativo simile ad altri in un capolavoro unico ed originale.
Don Rua, Monsignor Cagliero e gli altri lo chiamavano papà
In fin dei conti, la gentilezza è ciò che conta di più. È il modo in cui trattate gli altri, la compassione che mostrate e l’amore che diffondete che definisce davvero chi siete come persona. La gentilezza può essere semplice come un sorriso, una parola di incoraggiamento o una mano tesa. L’idea è quella di far sentire gli altri apprezzati e amati. I ragazzi di don Bosco testimonieranno con un’insistenza quasi monotona: «Mi voleva bene». Uno di loro, san Luigi Orione, scriverà: «Camminerei sui carboni ardenti per vederlo ancora una volta, e dirgli grazie».
Il ragazzo non riusciva a capacitarsi come don Bosco, che aveva incontrato per caso settimane prima in cortile, ricordasse ancora il suo nome. Si fece coraggio e gli domandò: “Don Bosco, come ha fatto a ricordarsi del mio nome?
I miei figli io non li dimentico mai!“, egli rispose.

Ad un ragazzo che lasciava l’Oratorio di sua spontanea volontà, don Bosco, incontrandolo, gli chiese:
“Che cosa hai in mano?”.
“Cinque lire che mia mamma mi ha fatto avere per comprare il biglietto del treno”.
“Tua mamma ti ha pagato il biglietto per il viaggio dall’Oratorio a casa tua, e va bene. Adesso prendi queste altre cinque lire. Sono per il tuo biglietto di ritorno. In qualunque momento ne avessi bisogno, vieni a trovarmi!”.
L’attenzione è una forma di gentilezza, come la disattenzione è lo sgarbo più grande che si possa fare. A volte è una violenza implicita, soprattutto se si tratta di bambini: la negligenza è giustamente considerata un abuso quando arriva a una soglia insopportabile, ma in piccole dosi fa parte delle ordinarie ignominie che molti bambini sono costretti a subire. La disattenzione è gelo: ed è difficile crescere nel gelo, dove l’unica consolazione è magari una televisione piena di sogni violenti o consumistici. L’attenzione è calore e affetto, che permette alle potenzialità migliori di svilupparsi e fiorire.
«Ho anche bisogno che si venga a conoscere l’importanza dei Cooperatori Salesiani. Finora pare una cosa da poco; ma io spero che con questo mezzo una buona parte della popolazione italiana diventi salesiana e ci apra la via a moltissime cose. L’Opera dei Cooperatori Salesiani… si dilaterà in tutti i paesi, si diffonderà in tutta la Cristianità, verrà un tempo in cui il nome di cooperatore vorrà dire vero cristiano… già mi par di vedere non solo famiglie, ma città e paesi interi a farsi Cooperatori Salesiani».
Dal momento che le previsioni di don Bosco si sono avverate, in questo secolo preparatevi a vederne delle belle!

9) Così don Bosco predicava Dio
Quelli che scrivono di lui sbagliano clamorosamente quando tentano di trasformarlo in un pedagogista o anche un geniale innovatore sociale. Certo don Bosco si occupò di opere caritative come molti altri, e ancora di giustizia sociale. La sua forza eccezionale è riposta, però, nel fatto che in tutto ciò che faceva egli contava unicamente e completamente su Dio.
«È mirabile davvero, esclamò uno dei presenti, il modo con cui procedono le cose. Don Bosco incomincia, e non si dà mai indietro».
 «Per questo, riprese don Bosco, non diamo mai indietro, perché noi andiamo sempre avanti sul sicuro. Prima d’intraprendere una cosa ci accertiamo che è volontà di Dio che le cose si facciano. Noi incominciamo le opere nostre con la certezza che è Dio che le vuole. Avuta questa certezza, noi andiamo avanti. Parrà che mille difficoltà s’incontrino per via; non importa; Dio lo vuole, e noi stiamo intrepidi in faccia a qualunque ostacolo. Io confido illimitatamente nella Divina Provvidenza; ma anche la Provvidenza vuol essere aiutata da immensi sforzi nostri».
I suoi sforzi hanno sempre il colore dell’infinito.
Perfino Nietzsche afferma che la percezione della vita interiore delle persone è istintiva. I giovani poi hanno una naturale attitudine per l’osservazione di ciò che sta dietro l’esterno di una persona.  Hanno delle antenne speciali per captare i segnali che non sono osservabili con mezzi ordinari. Sono in grado di percepire ciò che per gli altri è nascosto. 
La nostra antenna spirituale ci rende sensibili alla bellezza morale nelle persone, istintivamente ci fa notare la dimensione morale e spirituale della loro vita. 
Nel 1864 don Bosco arriva a Mornese con i suoi ragazzi, durante le passeggiate autunnali. È già notte. La gente gli viene incontro preceduta dal parroco don Valle e dal sacerdote don Pestarino. La banda suona, molti s’inginocchiano al passaggio di don Bosco chiedendo che li benedica. I giovani e la gente entrano in chiesa, si da la benedizione con il Santissimo, quindi tutti a cena.
Dopo, incoraggiati dagli applausi, i ragazzi di don Bosco danno un breve concerto di marce e musica allegra. In prima fila c’è Maria Mazzarello, 27 anni. Al termine, don Bosco dice poche parole: «Siamo tutti stanchi, e i miei ragazzi hanno voglia di fare una bella dormita. Domani però ci parleremo più a lungo».
Don Bosco a Mornese si ferma cinque giorni. Maria Mazzarello ogni sera riesce ad ascoltare la «buona notte» che dà ai suoi giovani. Scavalca le panchette per arrivare più vicino a quell’uomo. Qualcuno la rimprovera di questo come di un gesto sconveniente. E lei risponde: «Don Bosco è un santo, io lo sento».

È molto di più di una semplice sensazione. A quante donne cambierà la vita? Basta un movimento, un semplice movimento di quelli che compiono i bambini quando si slanciano in avanti con tutte le loro forze, senza timore di cadere o di morire, dimentichi del peso del mondo.
È di nuovo un problema di specchio: nessuno più di Gesù Cristo ha rivolto il suo viso verso le donne, come si volge lo sguardo verso le fronde degli alberi, come ci si china sull’acqua di un fiume per attingervi forza e voglia di proseguire il cammino. Le donne nella Bibbia sono numerose. Sono là all’inizio e sono là alla fine. Esse danno la luce a Dio, lo guardano crescere, giocare e morire, poi lo risuscitano coi gesti semplici dell’amore folle.

C’è ancora chi si affanna intorno alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. La più perfetta dimostrazione di Dio non è difficile.
Il bambino chiese alla mamma: «Secondo te, Dio esiste?».
«Sì».
 «Com’è?».
La donna attirò il figlio a sé.
Lo abbracciò forte e disse: «Dio è così».
«Ho capito».
Don Paolo Albera: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. […] Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace d’una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca, come quando si vuoi parlare senza pronunziar le parole; le parole stesse cadenzate in un modo piuttosto che in un altro; il portamento della persona e la sua andatura snella e spigliata: tutte queste cose operavano sui nostri cuori giovanili a mo’ di una calamita a cui non era possibile sottrarsi; e anche se l’avessimo potuto, non l’avremmo fatto per tutto l’oro del mondo, tanto si era felici di questo suo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale, senza studio né sforzo alcuno».

Sempre presente e vivo. Dio come compagnia, aria che si respira. Dio come l’acqua per i pesci. Dio come il nido caldo di un cuore che ama. Dio come il profumo della vita. Dio è ciò che sanno i bambini, non gli adulti.

Adesso andiamo a cambiare il mondo (Willy Wonka)




Essere amabili come don Bosco (1/2)

Essere amabili è una qualità umana che si coltiva, accettando la fatica che tante volte comporta. Per don Bosco non era una finalità a sé stessa, ma una via per condurre le anime a Dio. Intervento alla 42° edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana a Valdocco, Torino.

Tutte le cose belle di questo mondo sono incominciate da un sogno (Willy Wonka).
Non mollare il tuo (La mamma di Willy Wonka).

Uno scultore stava lavorando alacremente col suo martello e il suo scalpello su un grande blocco di marmo. Un ragazzino, che passeggiava leccando il gelato, si fermò davanti alla porta spalancata del laboratorio.
Il ragazzino fissò affascinato la pioggia di polvere bianca, di schegge di pietra piccole e grandi che ricadevano a destra e a sinistra.
Non aveva idea di ciò che stava accadendo; quell’uomo che picchiava come un forsennato la grande pietra gli sembrava un po’ strano.
Qualche settimana dopo, il ragazzino ripassò davanti allo studio e con sua grande sorpresa vide un grande e possente leone nel posto dove prima c’era il blocco di marmo.
Tutto eccitato, il bambino corse dallo scultore e gli disse: «Signore, dimmi, come hai fatto a sapere che c’era un leone nella pietra?».

Il sogno di don Bosco è lo scalpello di Dio.
Il semplice e singolare consiglio della Madonna nel sogno dei nove anni «Renditi umile, forte e robusto» divenne la struttura di una personalità unica e affascinante. E soprattutto uno “stile” che possiamo definire “salesiano”.

Tutti amavano don Bosco. Perché? Era attraente, leader nato, una vera calamita umana. Per tutta la vita sarà sempre un “conquistatore” di amici affezionati.
Giovanni Giacomelli che gli rimase amico per la vita ricorda: «Entrato in seminario un mese dopo gli altri, non conoscevo quasi nessuno, e nei primi giorni ero come sperso in mezzo ad una solitudine. Fu il chierico Bosco, che si avanzò a me la prima volta che mi vide solo, dopo il pranzo, e mi tenne compagnia tutto il tempo di ricreazione, raccontandomi varie cose graziose, per divagarmi dai pensieri che potessi avere di casa o dei parenti lasciati. Discorrendo con lui, venni a sapere che durante le vacanze era stato alquanto ammalato. Egli poi mi usò molte gentilezze. Tra le altre mi ricordo che, avendo io una berretta sproporzionatamente alta per cui vari compagni mi prendevano in giro, e ciò rincrescendo a me e a Bosco che veniva sovente con me, me la aggiustò egli stesso, avendo seco l’occorrente ed essendo molto abile nel cucire. D’allora in poi incominciai ad ammirare la bontà del suo cuore. La sua compagnia era edificante».
Possiamo rubare qualcuna delle sue qualità per diventare anche noi “amabili”?

1) Essere una forza positiva
Qualcuno che mantiene costantemente un atteggiamento positivo ci aiuta a vedere il lato positivo e ci spinge ad andare avanti.
«Quando Don Bosco visitò per la prima volta la misera tettoia, che doveva servire pel suo oratorio, dovette far attenzione per non rompersi la testa, perché da un lato non aveva che più di un metro di altezza; per pavimento aveva il nudo terreno, e quando pioveva l’acqua penetrava da tutte le parti. Don Bosco sentì correre tra i piedi grossi topi, e sul capo svolazzare pipistrelli». Ma per don Bosco era il più bel posto del mondo. E partì di corsa: «Corsi tosto da’ miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: “Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica andremo nel novello Oratorio che è colà in casa Pinardi. E loro additava il luogo”.

La gioia.
La gioia, uno stato d’animo positivo e felice, era la normalità della vita di don Bosco.
Più che mai vera per lui è l’espressione «La mia vocazione è un’altra. La mia vocazione è di essere felice nella felicità degli altri».
Davanti all’amore non vi è nessun adulto, solo dei bambini, questo spirito infantile che è abbandono, spensieratezza, libertà interiore.

«Passava da un punto all’altro del cortile, sempre riportando il vanto di abile giocatore, cosa che richiedeva sacrificio e fatica continua. “Innamorava il vederlo in mezzo a noi, diceva uno di questi allievi, ora già in età avanzata. Alcuni di noi erano senza, giubba, altri l’avevano, ma tutta a brandelli; questi a stento teneva ai fianchi i calzoni, quell’altro non aveva cappello, o le dita dei piedi sì affacciavano dalle scarpe rotte. Si era scarmigliati, talora sudici, screanzati, importuni, capricciosi, ed egli trovava le sue delizie stare coi più miserabili. Pei più piccini, aveva poi un affetto da madre. Talora due fanciulli per questioni di giuoco si ingiuriavano e si percuotevano. Don Bosco tosto si faceva presso di loro invitandoli a smettere. Accecati dalla rabbia alcuna volta non gli badavano, ed egli allora alzava la mano come in atto di percuoterli; ma ad un tratto si fermava, prendendoli per un braccio li divideva, e tosto quei birichini cessavano come per incanto da ogni alterco”.
Sovente schierava in due campi opposti i giovani per la barrarotta, e facendosi egli stesso capo di una parte, si incamminava un giuoco così animato che, parte giocatori e parte spettatori, tutti i giovani si infiammavano per quelle partite. Da un lato si voleva la gloria di vincere don Bosco, dall’altro si, faceva festa per la sicurezza della vittoria.
Non di rado egli sfidava tutti i giovani a sopravanzarlo nella corsa, e fissava la meta destinando il premio al vincitore. Ed eccoli allineati. Don Bosco solleva la veste al ginocchio: – Attenti, grida: Uno, due, tre! – E un nugolo di giovani si slancia, ma don Bosco è sempre il primo a toccar la meta. L’ultima di queste sfide ebbe luogo precisamente nel 1868 e don Bosco, non ostante le sue gambe enfiate, correva ancora con tanta rapidità da lasciarsi indietro 800 giovani fra i quali moltissimi di una snellezza meravigliosa. Noi presenti, non potevamo credere ai nostri occhi (MB III,127).

2) Preoccuparsi sinceramente degli altri
Una delle caratteristiche delle persone “attiranti” è l’attenzione e la preoccupazione genuina e sincera per gli altri. Non si tratta solo di chiedere a qualcuno come è andata la giornata e di ascoltare la sua risposta. Si tratta di ascoltare davvero, entrare in empatia e mostrare un interesse genuino per la vita degli altri. Don Bosco piangerà con il cuore in pezzi alla morte di don Calosso, di Luigi Comollo, alla vista dei primi ragazzi dietro le sbarre di una prigione.

Il giovane anticlericale
Di questo giovane daremo qualche cenno perché è come il rappresentante di cento e cento altri suoi compagni. Don Bosco nell’autunno, del 1860 entrava nella bottega da caffè, così detta della Consolata, perché presso al celebre Santuario di tal nome, e prendeva posto in una stanza appartata per leggere con tranquillità la corrispondenza che soleva recar seco. In quella bottega un cameriere disinvolto e cortese serviva gli avventori. Si chiamava Cotella Giovanni Paolo, nativo di Cavour (Torino), dell’età di 13 anni. Era fuggito da casa nell’estate di quell’anno stesso, perché insofferente de’ rimproveri e della severità de’ suoi genitori. Lasciamo a lui la descrizione del suo incontro con Don Bosco, come la narrò a D. Cerruti Francesco.
Una sera, raccontò egli, il padrone mi disse: «Porta una tazza di caffè ad un prete che è nella camera di là». «Io portare il caffè ad un prete?» soggiunsi tosto come trasecolato. I preti erano allora malveduti come adesso, anzi più, che adesso. Ne avevo sentite e lette di tutti i colori e mi era quindi formato dei preti un pessimo concetto.
Andato con aria beffarda: «Che vuole da me, lei prete?» chiesi malamente a Don Bosco. Ed egli guardandomi fisso: «Desidero da te, bravo giovane, una tazza di caffè» mi rispose con grande amabilità «ma ad un patto». «Quale?»  «Che me la porti tu stesso».
Quelle parole e quello sguardo mi vinsero e dissi fra me: «Questo non è un prete come gli altri».
Gli portai il caffè; una forza arcana mi teneva presso di lui, che prese ad interrogarmi, sempre colla più grande amorevolezza, sul mio paese natio, la mia età, le mie occupazioni e soprattutto perché fossi fuggito di casa. Poi: «Vuoi venire con me?» mi disse. «Dove?» «All’Oratorio di D. Bosco. Questo luogo e questo servizio non fanno per te». «E quando sarò là?» «Se ti piace, potrai studiare». «Ma lei mi terrà bene?» «Oh, pensa! Là si giuoca, si sta allegri, ci si diverte…» «Bene, bene» risposi «vengo. Ma quando? Subito? Domani?» «Di stasera» soggiunse D. Bosco.
Mi licenziai dal padrone, che avrebbe voluto mi fermassi ancora alcuni giorni, ed io, presi i miei pochi cenci, andai nella stessa sera all’Oratorio. Il domani Don Bosco scrisse a miei genitori per rassicurarli sul conto mio, e invitandoli a recarsi da lui per le necessarie intelligenze intorno al concorso loro per vitto e spese relative. Venne infatti mia madre cui, dopo aver ascoltato quanto espose intorno alle condizioni della famiglia: «Bene, concluse D. Bosco, facciamo così; lei paghi 12 lire al mese, il resto lo metterà D. Bosco».
Ammirai in questo, non solo la squisita carità, ma la prudenza di D. Bosco. La mia famiglia non era ricca, ma godeva di sufficiente benestare. Se quindi egli mi avesse accettato affatto gratuitamente, non avrebbe fatto bene, perché questo sarebbe stato di danno ad altri più bisognosi di me.
Per due anni i suoi parenti avevano mantenuto l’accordo con Don Bosco riguardo alla pensione, ma sul principio del terzo cessarono di pagare e più non ne vollero sapere: Il giovane, pur essendo vivace in sommo grado, era aperto, schietto, buono di cuore, di una condotta esemplare, e faceva molto profitto nello studio. Ora in quest’anno scolastico (1862 – 1863) essendo per entrare nella quarta classe, timoroso di dover troncare gli studi, se ne aperse con don Bosco, il quale gli rispose: «E che importa se i tuoi non vogliono più pagare? Non ci sono io? Sta’ sicuro che don Bosco non ti abbandonerà». E infatti, finché stette nell’Oratorio, don Bosco lo provvide di tutto il necessario.
Compiuta la quarta ginnasiale e superati felicemente gli esami, s’impiegò; e i primi denari che poté mettere insieme col suo lavoro, li mandò a costo di privazioni e a piccole rate a don Bosco per fare il saldo di quella poca pensione che i parenti nell’ultimo anno dell’Oratorio avevano tralasciato di pagare. Visse da buon cristiano, zelò la diffusione delle Letture Cattoliche, fu tra i primi ad aggregarsi all’unione degli ex allievi e si tenne sempre in affettuosa comunicazione con suoi antichi superiori.

3) Essere un buon ascoltatore
In un mondo in cui tutti sembrano parlare in continuazione, un buon ascoltatore si distingue. Una cosa è ascoltare ciò che qualcuno dice, ma ascoltare davvero – assorbire e capire – è un’altra cosa. Essere un buon ascoltatore non significa solo rimanere in silenzio mentre l’altra persona parla. Si tratta di partecipare alla conversazione, di fare domande di approfondimento e di mostrare un interesse genuino.

Il contatto come scambio di energia.
Aveva una delle qualità più rare: la “grazia di esistenza”. Una vita traboccante, come vino buono dal tino. Per cui migliaia di persone hanno detto: «Grazie perché ci sei!» e «Accanto a te io sono un altro!».
«Ascoltava i ragazzi colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti. Talora si alzava, o passeggiava con essi nella stanza. Finito il colloquio li accompagnava fino alla soglia, apriva egli stesso la porta, e li congedava dicendo: «Siamo sempre amici, neh!» (Memorie Biografiche VI, 439).

4) La bellezza dell’uomo buono
Per questo don Bosco è attraente. Il Cardinale Giovanni Cagliero riferiva il fatto seguente notato personalmente nell’accompagnare don Bosco. Dopo una conferenza tenuta a Nizza, don Bosco usciva dal presbitero della chiesa per avviarsi alla porta, tutto circondato dalla folla che non lo lasciava camminare. Un individuo dall’aspetto torvo stava immobile a guardarlo come se macchinasse un brutto tiro. Don Cagliero, che lo teneva d’occhio, inquieto per ciò che potesse succedere, vide l’uomo avvicinarsi. Don Bosco gli rivolse la parola: «Che cosa desiderate?» «Io? Nulla!»
«Eppure sembra che abbiate qualche cosa da dirmi!» «Io non ho nulla da dirle».
«Volete confessarvi?» «Confessarmi, io? Ma neppur per sogno!»
«Dunque che cosa fate qui?» «Sto qui perché… non posso andar via!»
«Ho capito… Signori, mi lascino un momento solo», disse don Bosco a quelli che lo circondavano. I vicini si tirarono in disparte, don Bosco sussurrò qualche parola all’orecchio di quell’uomo che, cadendo in ginocchio, si confessò in mezzo alla chiesa (cf. MB XIV, 37).

Papa Pio XI, il Pontefice che canonizzò don Bosco e che nell’autunno del 1883 era stato ospite di don Bosco, nella Casa Pinardi, ricorda: «Eccolo a rispondere a tutti: e aveva la parola esatta per tutto, così propria da meravigliare: prima infatti sorprendeva e poi troppo meravigliava».
Due cose ci fanno capire l’eternità: l’amore e lo stupore. Don Bosco le sintetizzava nella sua persona. La bellezza esteriore è la componente visibile di quella interiore. E si manifesta attraverso la luce che promana dagli occhi di ogni individuo. Non importa che questi sia malvestito o non si conformi ai nostri canoni dell’eleganza, oppure se non cerchi di imporsi all’attenzione delle persone che lo circondano. Gli occhi sono lo specchio dell’anima e, in qualche maniera, rivelano ciò che sembra occulto.
Ma, oltre alla capacità di brillare, essi posseggono un’altra qualità: fungono da specchio sia per le doti racchiuse nell’animo sia per gli uomini e le donne che sono oggetto dei loro sguardi.
Infatti riflettono chi li sta guardando. Come ogni specchio, gli occhi restituiscono il riflesso più intimo del volto che hanno davanti.

Un vecchio sacerdote già alunno a Valdocco, lasciò scritto nel 1889: “Quel che in don Bosco più spiccava era lo sguardo, dolce ma penetrantissimo, fino alle latebre del cuore, cui appena si poteva resistere fissandolo”. E aggiungeva: “In genere i ritratti e i quadri non riportano questa singolarità” (MB VI, 2-3).
Un altro ex-allievo, degli anni ’70, Pons Pietro, rivela nei suoi ricordi: “Don Bosco aveva due occhi che foravano e penetravano nella mente… Egli passeggiava adagio parlando e guardando tutti con due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzando di gioia i cuori” (MB XVII, 863).
Sapete di essere una buona persona quando le persone vengono sempre a chiedervi consigli e incoraggiamenti. La porta di don Bosco era sempre aperta per grandi e piccoli. La bellezza dell’uomo buono è una qualità difficile da definire, ma quando c’è, te ne accorgi: come un profumo. Tutti sappiamo che cos’è il profumo delle rose, ma nessuno si può alzare in piedi e spiegarlo.
Talora accadeva questo fenomeno, che un giovane udita la parola di don Bosco, non gli si staccava più dal fianco, assorto quasi in un’idea luminosa… Altri vegliavano di sera alla sua porta, picchiando leggermente ogni tanto, finché non venisse loro aperto, perché non volevano andare a dormire col peccato nell’anima.

(continua)




Il testamento di don Bosco

            Con il testamento, si sa, una persona dispone delle sue sostanze per il tempo successivo alla propria morte. Non si direbbe, quindi, argomento troppo simpatico quello che stiamo per trattare. Eppure serve a farci meglio apprezzare la grande serenità e prudenza di Don Bosco. Egli, sin da giovane, aveva sempre dinanzi a sé il pensiero della morte e ne parlava sovente.
            Nell’archivio salesiano centrale sono conservati vari successivi manoscritti del suo testamento olografo (ASC 112 – FdB N. 73).
            A Torino nel 1846 si ammalò al punto che si temeva per la sua stessa vita. Negli anni ’50 ci fu chi tentò di assassinarlo. E Don Bosco si teneva sempre preparato ad ogni evento.
            Il primo testamento olografo di Don Bosco che possediamo risale al 26 luglio 1856, quando Don Bosco stava per compiere 41 anni di età ed era ancora in vita sua madre. Incominciava con queste parole: «Nell’incertezza di vita in cui si trova ogni uomo che vive in questo mondo…, ecc.».
            Lasciava l’usufrutto dei suoi beni posseduti a Torino a Don Vittorio Alasonatti, economo della Casa di Valdocco e la proprietà al chierico Michele Rua, che già sin d’allora era il suo braccio destro.
            Ai parenti lasciava i beni di Castelnuovo, tenuto conto che la madre vivente doveva rimanerne usufruttuaria. Perduta nel novembre di quello stesso anno la madre, corresse così ciò che aveva scritto.: «Tutto quello che io possiedo a Castelnuovo d’Asti, lascio a mio fratello Giuseppe…».

I successivi manoscritti
            Nel febbraio del 1858, Don Bosco partiva la prima volta per Roma onde ottenere udienza dal Papa Pio IX e presentargli il suo progetto della Società Salesiana. Aveva stabilito di andarvi via mare e fare ritorno via terra attraversando la Toscana, gli Stati di Parma, Piacenza, Modena ed il Lombardo-Veneto. Si mise in viaggio sul primo mattino del 18 febbraio dopo una gelida notte in cui era caduta la neve, accompagnato dal fedelissimo chierico Michele Rua.
            Fece in treno solo il tratto Torino-Genova. Dovette poi imbarcarsi sull’Aventino, un battello a vapore che faceva servizio per Civitavecchia. Da Civitavecchia a Roma viaggiò su vettura postale. Il 21 febbraio giunse nella città dei Papi dove fu ospite del Conte De Maistre in via del Quirinale 49, alle Quattro Fontane, mentre Don Rua alloggiò presso i Rosminiani (MB V, 809-818).
            Ma prima di iniziare quel viaggio Don Bosco aveva provveduto, per l’occorrenza, non solo al passaporto ma anche a fare testamento.
            Un altro esemplare di testamento di Don Bosco porta la data del 7 gennaio 1869. In esso egli costituiva suo erede universale ed esecutore testamentario, per quanto riguardava le proprietà salesiane, il sacerdote Rua Michele e, in caso di sua morte, il sac. Cagliero Giovanni.
Il 29 marzo 1871 riconfermava con nuovo manoscritto suoi eredi Don Rua e Don Cagliero e, per le proprietà di Castelnuovo, i suoi parenti. Nello stesso anno, durante la malattia di Varazze, scrisse in data 22 dicembre 1871 una conferma del testamento precedente (MB X, 1334-133).

Il testamento del 1884
            Nel 1884 Don Bosco si accingeva a partire la decima volta per la Francia in cerca di denaro per la Basilica del Sacro Cuore a Roma. Era in cattivo stato di salute. Il Dott. Albertotti, chiamato a dissuaderlo dal viaggio, dopo averlo visitato aveva detto:
            — Se arriverà fino a Nizza senza morire, sarà un miracolo.
— Se io non tornerò più, pazienza -, aveva risposto Don Bosco, – vuol dire che prima di andare aggiusteremo le cose, ma andare bisogna (MB VII, 34).
            E così fece. Nel pomeriggio di quel 29 febbraio mandò a chiamare notaio e testimoni e dettò il proprio testamento, come se fosse sul punto di partire per l’eternità. Poi, fatti venire Don Rua e Don Cagliero, e indicando sul tavolo l’atto notarile, disse loro:
            — Qui c’è il mio testamento… Se non ritornerò più, come teme il medico, voi saprete già come stanno le cose.
            Don Rua uscì dalla camera con il cuore gonfio. A Don Cagliero il Santo fece cenno di fermarsi e gli lasciò in dono una scatoletta che conteneva l’anello nuziale di suo padre.
Il 7 dicembre di quell’anno Don Cagliero veniva consacrato Vescovo titolare di Magida e ripartiva per l’America il 3 febbraio 1885, come Vicario Apostolico in Patagonia.

Il testamento spirituale di Don Bosco
            Ma nell’Archivio Salesiano Centrale è pure conservato un manoscritto di Memorie di Don Bosco che coprono gli anni 1841-1886, conosciuto nella tradizione salesiana come il Testamento spirituale di Don Bosco. Ne citiamo un brano particolarmente significativo:
«Espressi così i pensieri di un Padre verso a’ suoi amati figli, ora mi rivolgo a me stesso per invocare la misericordia del Signore sopra di me nelle ultime ore della mia vita.
            — Io intendo di vivere e di morire nella santa cattolica religione che ha per capo il Romano Pontefice, Vicario di Gesù Cristo sopra la terra.
            — Credo e professo tutte le verità della fede che Dio ha rivelato alla santa Chiesa.
            — Dimando a Dio umilmente perdono di tutti i miei peccati specialmente di ogni scandalo dato al mio prossimo in tutte le mie azioni, in tutte le parole proferite a tempo non opportuno; dimando poi in modo particolare scusa degli eccessivi riguardi usati intorno a me stesso collo specioso pretesto di conservare la sanità…
            — So che voi, o amati figli, mi amate, e questo amore, questa affezione non si limiti a piangere dopo la mia morte; ma pregate pel riposo eterno dell’anima mia…
            — Le vostre preghiere siano con fine speciale al Cielo rivolte affinché io trovi misericordia e perdono al primo momento che io mi presenterò alla tremenda maestà del mio Creatore» (F. MOTTO, Memorie…, Piccola Biblioteca dell’ISS, n. 4, Roma, LAS, 1985, p. 57-58).
            È un documento che non ha bisogno di commento!




Don Bosco e il dialogo ecumenico

            L’ecumenismo è un movimento sorto agli inizi del secolo XX tra le chiese protestanti, condiviso poi da quelle Ortodosse e dalla stessa Chiesa Cattolica, che mira all’unità dei cristiani. Il Decreto sull’Ecumenismo del Concilio Vaticano II, afferma che da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica e che la divisione delle Chiese non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo. I tempi nostri, quindi, si differenziano non poco, a questo riguardo, da quelli di Don Bosco.
            Quando si parla di «Protestanti» in Piemonte il pensiero va anzitutto alla Chiesa Evangelica Valdese e cioè ai «Valdesi». E abbastanza nota la storia, a volte tragica ed eroica, di questo piccolo popolo-chiesa che trovò nelle valli pinerolesi rifugio, stabile dimora e il suo centro religioso. Meno noto è il forte spirito di proselitismo da parte dei Valdesi dopo l’Editto di emancipazione firmato da Re Carlo Alberto il 17 febbraio 1848, con il quale venivano loro riconosciuti i diritti civili e politici.
Tra le iniziative più vistose della loro crescente propaganda anti-cattolica, in Piemonte, e poi in tutta Italia, vi fu quella della stampa popolare, che, conseguentemente, suscitò viva reazione nell’Episcopato e corrispondenti iniziative di carattere apologetico in difesa della dottrina cattolica. In questo campo, dietro le direttive della Santa Sede e dei Vescovi piemontesi, si mosse anche Don Bosco fortemente preoccupato di preservare dall’eresia la gioventù e il popolo delle nostre terre.

Le «Letture Cattoliche» di Don Bosco
            Si può capire come Don Bosco abbia sentito il dovere di entrare nella mischia a difesa della fede nel popolo e tra la gioventù. S’impegnò in un’azione coraggiosa di stampa cattolica popolare, perché comprese ben presto che i Valdesi del Piemonte erano solo la testa di ponte del premeditato assedio protestante dell’Italia (G. SPINI, Risorgimento e Protestanti, Milano, Mondadori Ed., 1989, pp. 236-253).
            A questo proposito su «Il Secolo XIX» del 30 gennaio 1988 comparve un articolo di N. Fabretti, dal titolo: Don Bosco, santo “giovane”, dove, tra l’altro, lo si dichiarava: «ortodosso sino all’intolleranza, violento contro i protestanti che ritiene, se non si convertono, figli del diavolo e dannati», e «polemista furioso… che con le «Letture Cattoliche» svillaneggia ossessivamente Lutero e i protestanti e insulta pubblicamente i Valdesi». Ma queste accuse volgari non toccano il vero Don Bosco.
            Le «Letture Cattoliche», la cui pubblicazione ebbe inizio nel marzo del 1853, erano libretti popolari che Don Bosco mensilmente faceva stampare per l’educazione religiosa della gioventù e del popolo. Svolgendo una catechesi semplice, spesso in forma narrativa, egli con questi fascicoli periodici richiamava ai lettori la dottrina cattolica sui misteri della fede, sulla Chiesa, i sacramenti, la morale cristiana.
            Più che polemizzare direttamente con i Protestanti, metteva in rilievo le differenze che da essi ci separano, richiamandosi alla storia e alla teologia come erano a quel tempo conosciute. Sarà, però, inutile cercare in libretti da lui stampati, quali Avvisi ai Cattolici e Il Cattolico istruito nella sua religione, («Letture Cattoliche» 1853, n. 1, 2, 5, 8, 9, 12) gli elementi posti oggi più in risalto dalla dottrina sulla Chiesa. Essi riflettono piuttosto una catechesi che richiederebbe ormai una chiarificazione e una integrazione. Lo stile apologetico di Don Bosco, poi, rispecchiava quello di noti autori cattolici dai quali egli attingeva.
            Oggi, in clima ecumenico, certe iniziative possono apparire sproporzionate al pericolo, ma occorre tenere presente l’ambiente dell’epoca in cui la polemica partiva proprio dagli stessi Protestanti e «la controversia religiosa era sentita come una necessità quotidiana per evangelizzare il popolo» (V. VINAI, Storia dei Valdesi, Vol. III, Torino, Ed. Claudiana, 1980, p. 46).
            La letteratura protestante anticattolica dell’epoca, infatti, presentava il Cattolicesimo come ricettacolo di peccato, di ipocrisia religiosa, di superstizione, e di crudeltà verso Ebrei e Valdesi. Afferma, in proposito, un ben noto storico protestante: «Possiamo dire che nel 1847 l’Italia è circondata da una sorta di assedio protestante, stesole attorno dall’episcopalismo anglicano, dal presbiterianesimo scozzese e dall’evangelismo “libero” di Ginevra e di Losanna, con un appoggio anche da parte del protestantesimo americano. All’interno della penisola, oltre alle tradizionali comunità straniere, vi sono già due teste di ponte, costituite dai valdesi e dagli “evangelici” toscani. All’esterno, due comunità organizzate con propri organi di stampa a Londra e a Malta» (G. SPINI, o. c., p. 226).
Ma non basta. Don Bosco, oltre ad attentati di origine sospetta da lui subiti, venne svillaneggiato in vari numeri delle annate 1853-54 del settimanale protestante «La Buona Novella», con schemi ben pesanti alla sua persona («La Buona Novella», Annata 1853-54, Anno III, n. 1, pp. 8-11; n. 5, pp. 69-72; n. 11, pp. 166-168, n. 13, pp. 193-198; n. 27, pp. 423-424).
            Quelli erano tempi del «muro contro muro»!

Don Bosco intollerante?
            Don Bosco non meritava certo tali insulti. Luigi Desanctis, sacerdote cattolico passato alla Chiesa Valdese, con la sua presenza a Torino diede un grande impulso all’evangelizzazione protestante, polemizzando pure con le pubblicazioni di Don Bosco. Ma quando, per dissensi interni, finì per lasciare i Valdesi e orientarsi verso una Società Evangelica Italiana, ebbe molto da soffrire. Fu allora che Don Bosco gli scrisse per invitarlo a casa sua a condividere con lui «il pane e lo studio». Il Desanctis gli rispose che non credeva mai di trovare tanta generosità e gentilezza in un uomo che gli era apertamente nemico. «Non ci dissimuliamo – aggiungeva – V. S. combatte i miei princìpi come io combatto i suoi; ma mentre mi combatte mostra di amarmi sinceramente, porgendomi una mano benefica nel momento dell’afflizione. E così mostra di conoscere la pratica di quella carità cristiana, che in teoria è praticata così bene da tanti…» (ASC, Raccolta originale N. 1403-04).
            Anche se poi il Desanctis non si sentì di trarre le conseguenze logiche della sua situazione, rimane significativa questa lettera che scopre il vero Don Bosco, non certo «l’ortodosso sino all’intolleranza» o il «polemista furioso» definito dall’articolista di «Il Secolo XIX», bensì l’uomo di Dio interessato solo alla salvezza delle anime.




Don Bosco e gli animali

Don Bosco amava gli animali? Sono presenti nella sua vita? E che relazione aveva con loro? Alcune domande alle quali si prova di rispondere.

Uccelli, cani, cavalli, ecc.
            Nella stalla della «Casetta» dove Mamma Margherita si era trasferita con i figli e la suocera dopo l’inaspettata morte del marito Francesco, c’erano una vaccherella, un vitello ed un asinello. Nell’angolo della casa, un pollaio.
            Giovanni, appena ne fu in grado, portava la vaccherella al pascolo, ma si interessava con più gusto delle nidiate di uccelli. Lo ricorda egli stesso nelle sue «Memorie»: «io era peritissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci, praticissimo delle nidiate» (MO 30).
            Sono noti i vari incidenti di questo suo «mestiere». Ricordiamo quella volta quando il braccio gli restò impigliato nella fessura di un tronco d’albero, dove aveva scoperto un nido di cinciallegre; o quell’altra in cui poté osservare un cuculo far strage di una nidiata di usignoli. Altra volta vide la sua gazza morire di golosità per aver ingoiato troppe ciliege, noccioli inclusi. Un giorno per raggiungere una nidiata scovata su una vecchia quercia, scivolò e cadde pesantemente a terra. E un triste giorno, tornando da scuola, trovò ucciso dal gatto il suo merlo prediletto, allevato in gabbia ed addestrato a zufolare melodie.
            Quanto a gallinacei, risale a quegli anni il fatto della gallina misteriosa rimasta sotto il vaglio in casa dei nonni a Capriglio e da Giovanni liberata tra risate di sollievo. Pure di quegli anni è l’incidente del tacchino rubato da un mariuolo e fatto restituire con coraggio e un pizzico di fanciullesca imprudenza. Degli anni di Chieri è il trucco del pollo in gelatina portato in tavola e uscito dalla pentola vivo e starnazzante.
            Una vera amicizia strinse Giovanni con un cane al Sussambrino, il bracco da caccia del fratello Giuseppe. Lo addestrò ad abboccare al volo i tozzi di pane e a non mangiarli sino ad ordine ricevuto. Gli insegnò a salire e scendere per la scala a pioli del fienile e a fare salti e giochi da circo. Il bracco lo seguiva ovunque e quando Giovanni lo portò in regalo a parenti di Moncucco, la povera bestia, presa dalla nostalgia, ritornò a casa da sola in cerca dell’amico perduto.
            Da studente a Castelnuovo, Giovanni imparò pure ad andare a cavallo. Nell’estate del 1832, il prevosto don Dassano, che gli dava ripetizioni scolastiche, gli affidò la cura della stalla. Giovanni doveva condurre il cavallo a fare la passeggiata e, una volta fuori del paese, saltandogli in groppa, lo spingeva al galoppo.
            Novello sacerdote, invitato a predicare a Lauriano, a 30 km circa da Castelnuovo, partì a cavallo. Ma la cavalcata finì male. Sulla collina di Berzano la bestia, spaventata da un grosso stormo di uccelli, s’impennò ed il cavaliere finì a terra.
            Di cavalcate don Bosco ne fece poi parecchie altre nelle sue peregrinazioni per il Piemonte e nelle gite coi ragazzi. Basterebbe ricordare la trionfale salita a Superga nella primavera del 1846 su di un cavallo bardato di tutto punto, mandatogli apposta a Sassi da don G. Anselmetti.
            Molto meno trionfante fu la traversata appenninica a dorso d’asino nel viaggio a Salicetto Langhe nel novembre 1857. Il sentiero era stretto e scosceso, la neve alta. L’animale incespicava e cadeva ad ogni piè sospinto e don Bosco fu costretto a scendere e spingerlo avanti. La discesa fu ancor più avventurosa e solo il Signore sa come poté giungere al paese in tempo per la sacra missione.
            Quello non fu l’ultimo viaggio di don Bosco in groppa ad un asinello. Nel luglio del 1862 fece 6 chilometri di strada da Lanzo a Sant’Ignazio allo stesso modo. E così, probabilmente, altre volte.
            Ma una delle più gloriose cavalcate di don Bosco fu quella dell’ottobre 1864 da Gavi a Mornese. Arrivò in paese a tarda sera al suono festoso delle campane. La gente uscì di casa con i lumi accesi e s’inginocchiò al suo passaggio chiedendo la benedizione. Era l’osanna del popolo al santo dei giovani.

Gli animali nei sogni di don Bosco
            Se passiamo a considerare i sogni di don Bosco, vi troviamo una grande varietà di animali domestici e selvatici, pacifici e feroci, a rappresentare i giovani e le loro virtù e difetti, il demonio e le sue lusinghe, il mondo e le sue passioni.
            Nel sogno dei 9 anni, scomparsi i ragazzi, apparve a Giovannino una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi ed altri animali, trasformati poi tutti in mansueti agnelli. In quello dei 16 anni la maestosa Signora gli affidò un gregge; in quello dei 22 anni egli vide nuovamente i giovani trasformati in agnelli; e in quello, infine, del 1844, gli agnelli si mutarono in pastori!
            Nel 1861 don Bosco fece il sogno della passeggiata in Paradiso. In quella gita i giovani con lui si trovarono di fronte a dei laghi da attraversare. Uno di questi era pieno di bestie feroci pronte a divorare chiunque tentasse il passaggio.
            La vigilia dell’Assunta del 1862 egli sognò di trovarsi ai Becchi con tutti i suoi giovani, quando comparve sul prato un serpentaccio lungo 7-8 metri, che faceva inorridire. Ma una guida gli insegnò a prenderlo al laccio con una corda mutata poi in Rosario.
            Il 6 gennaio 1863 don Bosco raccontò ai ragazzi il famoso sogno dell’elefante comparso nel cortile di Valdocco. Era di grandezza smisurata e si divertiva amabilmente con i ragazzi. Li seguì in chiesa, ma si inginocchiò in senso contrario con il muso rivolto verso l’entrata. Poi uscì di nuovo in cortile ed improvvisamente, cambiato umore, con paurosi barriti si avventò contro i giovani per farne strazio. Allora la statuetta della Madonna collocata ancor oggi sotto il portico, si animò, si Ingrandì, e aperse il suo manto a protezione e salvezza di chi si rifugiava presso di lei.
            Nel 1864 don Bosco fece il sogno dei corvi svolazzanti sopra il cortile di Valdocco per beccare i ragazzi. Nel 1865 fu la volta di una pernice e di una quaglia, simboli rispettivamente di virtù e di vizio. Poi venne il sogno dell’aquila maestosa scesa a ghermire un ragazzo dell’Oratorio; e poi, ancora, quello del gattone dagli occhi di fuoco.
            Nel 1867 parve a don Bosco di veder entrare in camera sua un gran rospo schifoso, il demonio. Nel 1872 raccontò il sogno dell’usignolo. Nel 1876 quello delle galline, quello del toro furibondo, e quello pure del carro tirato da un maiale e da un rospo di enorme grandezza.
            Nel 1878 vide in sogno un gatto rincorso da due cagnacci. E così via.
Lasciando agli esperti discutere di questi sogni, noi sappiamo però che essi ebbero una grande funzione pedagogica nelle case di don Bosco e che soprattutto in alcuni di essi è difficile non vedere un intervento speciale di Dio.

Il cane grigio
            Ma se vogliamo arrivare alla soglia del mistero, dobbiamo ricordare il «Grigio», quel cane misterioso che tante volte comparve a proteggere don Bosco nei momenti di pericolo per la sua vita.
            Nelle sue «Memorie» don Bosco stesso scrive di lui: «Il cane grigio fu tema di molti discorsi e di varie supposizioni. Non pochi di voi l’avranno veduto ed anche accarezzato. Ora lasciando da parte le strane storielle che di questo cane si raccontano, io vi verrò esponendo quanto è pura verità» (MO 251). E passa a raccontare dei rischi incorsi nel tornare a Valdocco a tarda sera negli anni ’50 e come questo grosso cane spesso gli appariva improvvisamente al fianco e lo accompagnava sino a casa.
            Racconta, ad esempio, di quella sera del novembre 1854, quando lungo la via che dalla Consolata porta al Cottolengo (oggi via Consolata e via Ariosto perpendicolari a Corso Regina), si accorse di due malintenzionati che lo seguivano e che gli saltarono addosso per soffocarlo, quando comparve il cane, li assalì rabbiosamente e li costrinse ad una precipitosa fuga. Come ultima occasione, narra del Grigio comparsogli una notte sulla strada da Morialdo a Moncucco, mentre, solo, si avviava alla Cascina Moglia a trovare i suoi vecchi amici.
            Ma le sue «Memorie», scritte negli anni 1873-75 non potevano far cenno di quella che pare davvero l’ultima apparizione del Grigio, avvenuta la notte del 13 febbraio 1883. Mentre don Bosco da Ventimiglia, non avendo trovato alcuna carrozza, si dirigeva a piedi sotto una pioggia battente verso la nuova casa salesiana di Vallecrosia, proprio quando con la sua debole vista non sapeva più dove mettere i piedi, gli si fece incontro il suo vecchio amico, il fedelissimo Grigio, che non rivedeva più da vari anni. Il cane gli si avvicinò festosamente e poi, precedendolo, si mosse tra il fango e le fitte tenebre a fargli da guida. Giunto a Vallecrosia, e salutato don Bosco con la zampa, disparve (MB XVI, 35-36).
            Don Bosco, trovandosi a Marsiglia a pranzo in casa Olive, raccontò il fatto. La signora allora gli chiese come fosse possibile una tale comparsa, perché il cane avrebbe dovuto ormai avere troppi anni di età. E don Bosco, sorridendo, le rispose: «Sarà stato un figlio o un nipote di quello là!» (MB XVI, 36-37). Eluse quindi una domanda imbarazzante, non potendosi trattare di un fenomeno naturale, ma non disse trattarsi di una sua immaginazione. Era troppo sincero per farlo.
            Stando alle testimonianze di Giuseppe Buzzetti, Carlo Tomatis e Giuseppe Brosio, che vissero con don Bosco sin dai primi tempi, il Grigio assomigliava ad un cane da gregge o a un mastino da guardia. Nessuno, neppure don Bosco, seppe mai donde venisse o chi ne fosse il padrone. Carlo Tomatis disse qualcosa di più: «Era un cane di un aspetto veramente formidabile e certe volte Mamma Margherita nel vederlo, esclamava: “Oh, che brutta bestiaccia!”. Aveva un aspetto quasi di lupo, muso allungato, orecchie ritte, pelo grigio, altezza un metro» (MB IV, 712). Non per nulla incuteva spavento in quelli che non lo conoscevano. Eppure il Card. Cagliero testifica: «io vidi la cara bestia una sera d’inverno» (MB IV, 716).
            Cara bestia!!! per gli amici!…
            Una volta, invece di accompagnare don Bosco a casa, gli impedì di uscire. Era sera tarda e Mamma Margherita cercava di dissuadere il figlio dall’andar fuori, ma egli era deciso e pensò di farsi accompagnare da alcuni giovani più grandi. Sul cancello di casa trovarono il cane sdraiato. «Oh, il Grigio — disse don Bosco —, alzati e vieni anche tu!». Ma il cane, invece di obbedire emise un latrato pauroso e non si mosse. Per due volte don Bosco cercò di passar oltre e per due volte il Grigio gli impedì di passare. Allora intervenne Mamma Margherita: «Se ‘t veule nen scoteme me, scota almeno ‘l can, seurt nen!» (Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane, non uscire). E il cane l’ebbe vinta. Si seppe poi che degli assassini prezzolati lo attendevano fuori per togliergli la vita (MB IV, 714).
            Così il Grigio salvò spesso la vita a don Bosco. Ma non accettava mai cibo né ricompensa d’altro genere. Compariva all’Improvviso e spariva nel nulla a missione compiuta.
            Ma allora che razza di cane era mai il Grigio? Un giorno del 1872 don Bosco era ospite dei Baroni Ricci nella loro casa di campagna alla Madonna dell’Olmo presso Cuneo. La Baronessa Azeglia Fassati, sposa del Barone Carlo, portò il discorso sul Grigio e don Bosco: «Lasciamo stare ‘l Gris, è già da qualche tempo che non lo vedo più». Erano due anni perché nel 1870 aveva detto: «Questo cane è veramente cosa notabile nella mia vita! Dire che sia un angelo, farebbe ridere; ma neppure si può dire che sia un cane ordinario, perché l’ho visto ancora l’altro giorno» (MB X, 386). Sarà stata quella l’occasione di Moncucco?
            Ma in altra occasione ebbe ancora a dire: «Di quando in quando mi veniva il pensiero di cercare l’origine di quel cane… io non so altro che quell’animale fu per me una vera provvidenza» (MB IV, 718).
Come il cane di San Rocco! Certi fenomeni passano tra le maglie della ricerca scientifica. Per chi crede nessuna spiegazione è necessaria, per chi non crede nessuna spiegazione è possibile.




Mi par di essere in paradiso. La prima Messa di Natale a Valdocco

La prima Messa di Natale celebrata da don Bosco a Valdocco fu nel 1846. Dopo aver ottenuto il permesso di celebrarla nella povera cappella Pinardi, inizio la preparazione degli animi dei suoi ragazzi insegnandoli a fare sante Comunioni, visite al Santissimo Sacramento, e a imparare alcuni canti devoti. Don Lemoyne racconta.

            “La festa dell’Immacolata Concezione era una preparazione a quella del santo Natale. Grande era la fede di don Bosco per tutti i misteri di Nostra Santa Religione. Quindi per esternare, con più vivo slancio del cuore la sua divozione verso l’incarnazione del Verbo Divino, e per eccitarla e promuoverla maggiormente negli altri, aveva domandato alla Santa Sede la facoltà di amministrare la santa Comunione alla mezzanotte di Natale, nella cappella dell’Oratorio in tempo della solenne Messa cantata. Pio IX gliela concedeva per tre anni. Annunciata ai giovani la lieta notizia, preparò e fece imparare ai suoi cantori una piccola messa e alcune devote canzoncine che egli aveva composte in onore di Gesù Bambino, e intanto addobbava il meglio che potesse la sua chiesina. Oltre i giovani, invitati altri fedeli, incominciò la novena. Mons. Arcivescovo le aveva permesso di poter impartire la benedizione col Venerabile ogni volta che lo desiderasse; ma solo in tali occasioni poteva conservare nel tabernacolo la Santissima Eucaristia.
            Grande fu il concorso, avendo istillato nell’animo de’ suoi piccoli amici sentimenti di grande tenerezza verso il Divin pargoletto. Essendo egli solo sacerdote, alla sera dei nove giorni confessava molti che all’indomani desideravano di fare la Santa Comunione. Al mattino scendeva in chiesa per tempo affine di porgere questa comodità agli artigiani che dovevano recarsi al lavoro. Celebrata la Santa Messa, distribuiva la Santissima Eucaristia, quindi predicava, e dopo il canto delle profezie eseguito da alcuni catechisti da lui istruiti, dava la benedizione col Santissimo Sacramento.
            La sera poi di quella notte memoranda, dopo aver confessato fino alle 11, cantò una messa, amministrò la santa Comunione a più centinaia di persone e poi commosso fino alle lagrime si udiva esclamare. – Che consolazione! mi par di essere in paradiso! – Terminata la funzione, distribuiva una piccola cena ai giovinetti e li rimandava alle loro case per riposarsi.
            Egli dopo poche ore di sonno ritornava in chiesa, aspettando la turba più numerosa che non aveva potuto assistere alla solennità della notte, confessava, celebrava le altre due messe, comunicava e quindi ripigliava tutte le sue molteplici occupazioni dei giorni festivi.
            A questo modo per più anni si celebrò la novena e la festa del Santo Natale, fintanto che don Bosco non ebbe in casa altri preti.
            Ma queste prime feste Natalizie rivestirono un carattere speciale indimenticabile, perché segnarono come la definitiva presa di possesso della vaticinata casa Pinardi, essendovi ogni cosa ormai ordinata pel regolare svolgimento dell’Oratorio; e confermarono le promesse dei futuri vasti edifici che avrebbero narrata la bontà del Signore alle generazioni future. Don Bosco in questo giorno al recitare il divino uffizio, pieno la mente de’ suoi disegni, con quale affetto avrà esclamato: – Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio. Qual è il tuo nome, o Dio, tale sia la tua gloria fino agli estremi confini della terra! Di giustizia è ripiena la tua destra! (MB II, 582-585)”.

            Le Messe delle notti del Santo Natale saranno celebrate da don Bosco d’ora in poi fino agli ultimi anni di sua vita, con una gioia particolare che traspariva dal suo volto.
Pero non era solo questa gioia che eccitava in tutti una viva devozione, ma anche le esortazioni che faceva ai suoi piccoli amici per prepararsi bene al Natale. Diceva:

            “Domani incomincia la novena del santo Natale. Si racconta che un giorno un devoto del Bambino Gesù, viaggiando per una foresta in tempo d’inverno, udì come il gemito di un bambino e inoltratosi nel bosco verso il luogo donde udiva partire la voce, vide un bellissimo fanciullo che piangeva. Mosso a compassione disse:
– Povero bambino come mai ti trovi qui, così abbandonato in questa neve?
Ed il fanciullo rispose:
– Ohimè! come posso non piangere, mentre mi vedi così abbandonato da tutti? Mentre nessuno ha compassione di me?
Ciò detto disparve. Allora capì quel buon viaggiatore essere quel bambino Gesù stesso, che si lamentava dell’ingratitudine e della freddezza degli uomini.
Vi ho narrato questo fatto, perché procuriamo che Gesù non abbia a lagnarsi anche di noi. Perciò prepariamoci a far bene questa novena. Al mattino al tempo di Messa vi sarà il canto delle Profezie, poche parole di predica e poi la benedizione. Due cose io vi consiglio in questi giorni, per passare santamente la novena:
            1. Ricordatevi sovente di Gesù Bambino, dell’amore che vi porta e delle prove che vi ha dato del suo amore fino a morire per voi. Al mattino alzandovi subito al tocco della campana, sentendo il freddo, ricordatevi di Gesù Bambino che tremava pel freddo sulla paglia. Lungo il giorno animatevi a studiar bene la lezione, a far bene il lavoro, a stare attenti nella scuola per amore di Gesù. Non dimenticate che Gesù avanzava in sapienza, in età e in grazia appresso a Dio ed appresso agli uomini. E sovra tutto per amore di Gesù guardatevi dal cadere in qualsivoglia mancanza che possa disgustarlo.
            2. Andate spesso a trovarlo. Noi invidiamo i pastori che andarono alla capanna di Betlemme, che lo videro appena nato, che gli baciarono la manina, gli offersero i loro doni. Fortunati pastori, diciamo noi! Eppure nulla abbiamo da invidiare, poiché la stessa loro fortuna è pure la nostra. Lo stesso Gesù, che fu visitato dai pastori nella sua capanna si trova qui nel tabernacolo. L’unica differenza sta in ciò, che i pastori lo videro cogli occhi del corpo, noi lo vediamo solo colla fede, e non vi è cosa, che possiamo fargli più grata, che di andare spesso a visitarlo. E in qual modo andare a visitarlo? Primieramente colla frequente Comunione. Nell’Oratorio, in questa novena specialmente, ci fu sempre un grande impegno, un grande fervore per la Comunione e spero che lo stesso farete voi in quest’anno. Altro modo poi è di andare qualche volta in chiesa lungo il giorno, fosse anche per un sol minuto, recitando anche un solo Gloria Patri. Avete inteso?
Due cose adunque noi faremo per santificare questa novena. Quali sono? Chi sa ripeterle?
Ricordarci sovente del Bambino Gesù, avvicinarsi a lui colla S. Comunione e colla visita in chiesa (MB VI, 351-352)”.

Le parole di don Bosco sono valide anche oggi. Se hanno dato frutto nel passato, possono dare anche oggi, se le seguiamo con viva fede.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (5/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Conclusione
            Nell’epilogo della vita di Francesco Besucco don Bosco esplicita il nocciolo del suo messaggio:

             “Vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l’abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimente certo che se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. […] Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno. […] Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell’osservanza dei suoi precetti nei giorni della vita, perché possiamo poi un giorno andare a godere in cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia”.[1]

            È su questo punto, di fatto, che confluiscono i discorsi di don Bosco. Tutto il resto appare funzionale: la sua arte educativa, il suo accompagnamento affettuoso e creativo, i consigli offerti e il programma di vita, la devozione mariana e i sacramenti, tutto è orientato all’oggetto primo dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, al grande affare della salvezza eterna.[2]
            Dunque, nella pratica educativa del Santo torinese, l’esercizio mensile della buona morte prosegue una ricca tradizione spirituale, adattandola alla sensibilità dei suoi giovani e con una marcata preoccupazione educativa. Infatti, la revisione mensile della propria vita, il rendiconto sincero al confessore-direttore spirituale, l’incoraggiamento a porsi in uno stato di costante conversione, la riconferma del dono di sé a Dio e la formulazione sistematica di proponimenti concreti, orientati alla perfezione cristiana, ne sono i momenti centrali e costitutivi. Anche le litanie della buona morte non avevano altro scopo che alimentare la confidenza in Dio e offrire uno stimolo immediato per accostarsi ai sacramenti con speciale consapevolezza. Erano anche – come dimostrano le fonti narrative – efficace strumento psicologico per rendere familiare il pensiero della morte, non in modo angosciante, ma come incentivo a valorizzare costruttivamente e gioiosamente ogni momento della vita in vista della “beata speranza”. L’accento, infatti, era posto sul vissuto virtuoso e gioioso, sul “servite Domino in laetitia”.


[1] Bosco, Il pastorello delle Alpi, 179-181.

[2] Così si conclude la Vita di Domenico Savio: “E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo incontro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia”, Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (4/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

3. La morte come momento dell’incontro gaudioso con Dio
            Come tutte le considerazioni e le istruzioni contenute nel Giovane provveduto, anche la meditazione sulla morte è connotata da una spiccata preoccupazione didascalica.[1] Il pensiero della morte come momento che fissa tutta l’eternità deve stimolare il proposito sincero di una vita buona e virtuosa feconda di frutti:

             “Considera che il punto di morte è quel momento da cui dipende la tua eterna salute, o la tua eterna dannazione. […] Capisci ciò che ti dico? Voglio dire che da quel momento dipende l’andare per sempre in paradiso o all’inferno; o sempre contento, o sempre afflitto; o sempre figlio di Dio, o sempre schiavo del demonio; o sempre godere cogli angeli e coi santi in cielo, o gemere ed ardere per sempre coi dannati nell’inferno.
            Temi grandemente per l’anima tua e pensa che dal ben vivere dipende una buona morte ed un’eternità di gloria; perciò non perdere tempo onde fare una buona confessione, promettendo al Signore di perdonare ai tuoi nemici, di riparare lo scandalo dato, di essere più obbediente, di non perdere più tempo, di santificare le feste, di adempiere i doveri del tuo stato. Intanto posto innanzi al tuo Signore digli di cuore così: mio Signore, sino da questo punto io mi converto a voi; io vi amo, vi voglio servire e servirvi fino alla morte. Vergine santissima, madre mia, aiutatemi in quel punto. Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia”.[2]

            Tuttavia il discorso più completo e anche il più espressivo delle visioni e dei quadri culturali di don Bosco sul tema della morte lo troviamo nel suo primo testo narrativo, composto in memoria di Luigi Comollo (1844). Vi racconta la morte dell’amico “nell’atto che si pronunciavano i nomi di Gesù, e di Maria, sempre sereno, e ridente in volto, movendo egli un dolce sorriso a guisa di chi resta sorpreso alla vista di un maraviglioso, e giocondo oggetto, senza fare alcun movimento”.[3] Ma il placido trapasso così succintamente esposto era stato preceduto dalla descrizione dettagliata di una tormentata malattia finale: “Un’anima sì pura e di sì belle virtù adorna, qual era quella del Comollo, direbbesi nulla dover paventare all’avvicinarsi l’ora della morte. Eppure ne provò anch’egli grande apprensione”.[4] Luigi aveva trascorso l’ultima settimana di vita “sempre tristo, e melanconico, assorto nel pensiero dei Giudizi divini”. La sera del sesto giorno, “l’assalì un accesso di febbre convulsiva sì gagliardo, che gli tolse l’uso della ragione. Sulle prime faceva un lamento clamoroso come se fosse stato atterrito da qualche spaventevole oggetto; da lì a mezzora, tornato alquanto in sé, e guardando fisso gli astanti, proruppe in tale esclamazione, Ahi Giudizio! Quindi cominciò a dibattersi con forze tali, che cinque, o sei che eravamo astanti appena lo potevamo trattenere in letto”.[5] Dopo tre ore di delirio, “ritornò in piena cognizione di se stesso” e confidò all’amico Bosco il motivo delle sue agitazioni: gli era parso di trovarsi di fronte all’inferno spalancato, insidiato da “un’innumerevole turba di mostri”, ma era stato soccorso da una squadra “di forti guerrieri” e poi, condotto per mano da “una Donna” (“che io giudico essere la comune nostra Madre”), si era trovato “in un deliziosissimo giardino”, per questo ora si sentiva tranquillo. Così, “quanto grande era prima lo spavento, e il timore di comparire innanzi a Dio, altrettanto più allegro mostravasi di poi e desideroso che giungesse un tal momento; non più tristezza, o malinconia in volto, ma un aspetto tutto ridente, e gioviale, in guisa che sempre voleva cantare salmi, inni o laudi spirituali”.[6]
            Tensione e angoscia si risolvono in una gaudiosa esperienza spirituale: è la visione cristiana della morte sostenuta dalla certezza della vittoria sul nemico infernale per la potenza della grazia di Cristo, che schiude le porte dell’eternità beata, e per l’assistenza materna di Maria. In questa luce va interpretato il racconto del Comollo. Il “profondo abisso a guisa di fornace” presso il quale viene a trovarsi, la “turba di mostri di forma spaventevole” che tentano di precipitarlo nella voragine, i “forti guerrieri” che lo liberano “da tale frangente”, la lunga scala di accesso al “giardino maraviglioso” difesa “da tanti serpenti pronti a divorare chiunque vi ascendesse”, la Donna “vestita nella più gran pompa” che lo prende per mano, lo guida e lo difende: tutto va riportato a quell’immaginario religioso che racchiude sotto forma di simboli e metafore una solida teologia della salvezza, la convinzione della destinazione personale all’eternità felice e la visione della vita come viaggio verso la beatitudine, insidiato da nemici infernali ma sostenuto dal soccorso onnipotente della divina grazia e dal patrocinio di Maria. Il gusto romantico, che impregna di intensa emotività e drammaticità il dato di fede, si serve spontaneamente del simbolismo popolare tradizionale, tuttavia l’orizzonte è quello di una visione ampiamente ottimista e storicamente operativa della fede.
            Più oltre don Bosco riporta un ampio discorso di Luigi. È quasi un testamento in cui emergono principalmente due tematiche tra loro connesse. La prima è l’importanza di coltivare nel corso della vita il pensiero della morte e del giudizio. Gli argomenti sono quelli della predicazione e della pubblicistica devota corrente: “Non sai ancora se brevi, o lunghi saranno i giorni di tua vita; ma, checché ne sia sull’incertezza dell’ora, n’è certa la venuta; perciò fa in maniera che tutto il tuo vivere altro non sia che una preparazione alla morte, al Giudizio”. La maggior parte degli uomini non ci pensa seriamente “perciò allorché s’appressa il momento rimangono confusi, e chi muore in confusione per lo più va eternamente confuso! Felici quelli che passando i loro giorni in opere sante e pie si trovano apparecchiati per quel momento”.[7]
            Il secondo tema è il legame tra devozione mariana e buona morte. “Per tutto il tempo che militiamo in questo mondo di lacrime, non abbiamo patrocinio più possente che quello di Maria SS. […]. Oh! se gli uomini potessero essere persuasi qual contento arrechi in punto di morte essere stati divoti di Maria, tutti a gara cercherebbero nuovi modi con cui offerirle speciali onori. Sarà pur dessa, che col suo figlio tra le braccia formerà la nostra difesa contro il nemico dell’anima nostra all’ora estrema; s’armi pure contro di noi l’inferno, con Maria in nostra difesa, nostra sarà la vittoria”. Naturalmente tale devozione dev’essere corretta: “Guardati però bene dall’essere di quei tali, che per recitare a Maria qualche preghiera, per offerirle qualche mortificazione credono essere da lei protetti, mentre conducono una vita tutta libera, e scostumata. […] Sii tu sempre dei veri divoti di Maria coll’imitare le di lei virtù e proverai i dolci effetti di sua bontà, ed amore”.[8] Sono ragioni prossime a quelle presentate da Louis-Marie Grignion de Montfort (1673-1716) nel terzo capitolo del Traité de la vraie dévotion à la sainte Vierge (che tuttavia né il Comollo né Giovanni Bosco potevano conoscere).[9] Tutta la mariologia classica, veicolata dalla predicazione e dai libri ascetici, insisteva su tali aspetti: li troviamo in sant’Alfonso (Glorie di Maria);[10] prima di lui negli scritti dei gesuiti Jean Crasset e Alessandro Diaotallevi,[11] dall’opera del quale parrebbe che Comollo abbia tratto ispirazione per l’invocazione elevata prima della morte “con voce franca”:

             “Vergine santa Madre Benigna, cara madre del mio amato Gesù, voi che fra tutte le creature sola foste degna di portarlo nel Vergineo ed immacolato Seno, Deh per quel amore con cui l’allattaste, lo stringeste amorosamente fra le vostre braccia, per quel che soffriste allorché gli foste compagna nella sua povertà, allorché lo vedeste fra gli strapazzi, sputi, flagelli, e finalmente spasimare morendo in Croce; Deh per tutto questo ottenetemi il dono della fortezza, viva fede, ferma speranza, infiammata carità, con sincero dolore dei miei peccati, ed ai favori che mi avete ottenuti in tutto il tempo di mia vita, aggiungete la grazia che io possa fare una santa morte. Sì cara Madre pietosa assistetemi in questo punto che sto per presentare l’anima mia al Divin giudizio, presentatela Voi medesima nelle braccia del Vostro Divin Figlio; che se tanto mi promettete, ecco io con animo ardito, e franco appoggiato alla vostra clemenza, e bontà, presento per mezzo delle vostre mani, quest’anima mia a quella Maestà Suprema, la cui misericordia conseguire spero”.[12]

            Questo testo mostra la solidità dell’impianto teologico sottostante al sentimento religioso di cui è impregnato il racconto, e svela una devozione mariana “regolata”, una spiritualità austera e concretissima.
            I Cenni sulla vita di Luigi Comollo, con tutta la loro tensione drammatica, rappresentano la sensibilità di Giovanni Bosco seminarista e allievo del Convitto ecclesiastico. Negli anni successivi, col crescere dell’esperienza educativa e pastorale tra adolescenti e ragazzi, il Santo preferirà mettere in evidenza soltanto il lato gaudioso e rasserenante della morte cristiana. Lo vediamo soprattutto nelle biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, ma ne troviamo esempi già nel Giovane provveduto dove, narrando la santa morte di Luigi Gonzaga, si afferma: “Le cose che ci possono turbare in punto di morte sono specialmente i peccati della vita passata e il timore dei castighi divini per l’altra vita”, ma se lo imitiamo conducendo una vita virtuosa, “veramente angelica”, potremo accogliere con gaudio l’annuncio della morte come lui, cantare il Te Deum pieni di “allegrezza” – “Oh che gioia, ce ne andiamo: Laetantes imus” – e “nel bacio di Gesù crocifisso placidamente spirò. Che bel morire!”.[13]
            Tutte e tre le Vite concludono con l’invito a tenersi preparati per fare una buona morte. Nella pedagogia di don Bosco, come se è accennato, il tema veniva declinato con accenti particolari, in funzione della conversione del cuore “franca e risoluta”[14] e del dono totale di sé a Dio, che genera un vissuto ardente, fecondo di frutti spirituali, di impegno etico ed insieme gaudioso. È questa la prospettiva nella quale, in queste biografie, don Bosco presenta l’esercizio della buona morte:[15] è uno strumento eccellente per educare alla visione cristiana della morte, per stimolare un’efficace e periodica revisione del proprio stile di vita e delle proprie azioni, per incoraggiare un atteggiamento di costante apertura e cooperazione all’azione della grazia, fruttuoso di opere, per disporre positivamente l’animo all’incontro col Signore. Non a caso i capitoli conclusivi raffigurano le ultime ore dei tre protagonisti come un’attesa fervente e tranquilla dell’incontro. Don Bosco ci riporta i dialoghi sereni, le “commissioni” affidate ai morenti[16], gli addii. L’istante della morte poi è descritto quasi come un’estasi beata.
            Domenico Savio negli ultimi momenti di vita si fa leggere dal padre le preghiere della buona morte:

             “Ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma infine di ciascuna parte voleva dire da solo: «Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me». Giunto alle parole: «Quando finalmente l’anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi». «Ebbene, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore!». Poscia parve prendere di nuovo un po’ di sonno a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ridente: «Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi… Oh! che bella cosa io vedo mai…». Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento”.[17]

            Michele Magone spira “placidamente”, “colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra”, dopo aver baciato il crocifisso e invocato: “Gesù, Giuseppe e Maria io metto nelle vostre mani l’anima mia”.[18]
            I momenti conclusivi della vita di Francesco sono connotati da fenomeni straordinari e ardori incontenibili: “Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell’infermeria”; “elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così: Lodate Maria […]. Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona, che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così: O Gesù d’amor acceso […]. Sembrava divenuto un angiolo cogli angioli del paradiso”.[19]

(continua)


[1] Cf. Bosco, Il giovane provveduto, 36-39 (considerazione per il martedì: La morte).

[2] Ibid., 38-39.

[3] [Giovanni Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto  nel Seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù. Scritti da un suo collega, Torino, Tipografia Speirani e Ferrero, 1844, 70-71.

[4] Ibid., 49.

[5] Ibid., 52-53.

[6] Ibid., 53-57.

[7] Ibid., 61.

[8] Ibid., 62-63.

[9] L’opera di Grignion de Monfort venne scoperta solo nel 1842 e pubblicata a Torino per la prima volta quindici anni più tardi: Trattato della vera divozione a Maria Vergine del ven. servo di Dio L. Maria Grignion de Montfort. Versione dal francese del C. L., Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1857.

[10] Seconda parte, capo IV (Vari ossequi di divozione verso la divina Madre colle loro pratiche), dove l’Autore afferma che per ottenere la protezione di Maria “vi bisognano due cose: la prima che le offeriamo i nostri ossequi coll’anima monda da’ peccati […]. La seconda condizione è che perseveriamo nella sua divozione” (Le glorie di Maria di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Torino, Giacinto Marietti, 1830, 272).

[11] Jean Crasset, La vera devozione verso Maria Vergine stabilita e difesa. Venezia, nella stamperia Baglioni, 1762, 2 voll.; Alessandro Diotallevi, Trattenimenti spirituali per chi desidera d’avanzarsi nella servitù e nell’amore della Santissima Vergine, dove si ragiona sopra le sue feste e sopra gli Evangelii delle domeniche dell’anno applicandoli alla medesima Vergine con rari avvenimenti, Venezia, presso Antonio Zatta,

1788, 3 voll.

[12] [Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo, 68-69; cf. Diotallevi, Trattenimenti spirituali…, vol. II, pp. 108-109 (Trattenimento XXVI: Colloquio dove l’anima supplica la B. Vergine che voglia esserle Avvocata nella gran causa della sua salute).

[13] Bosco, Il giovane provveduto, 70-71.

[14] Cf. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 24.

[15] Ad esempio, cf. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 106-107: “Il mattino di sua partenza fece coi suoi compagni l’esercizio della buona morte con tale trasporto di divozione nel confessarsi e nel comunicarsi, che io, che ne fui testimonio, non so come esprimerlo. Bisogna, egli diceva, che faccia bene questo esercizio, perché spero che sarà per me veramente quello della mia buona morte”.

[16] “Ma prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione […]. Quando sarai in paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che niuno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa abbia a perdersi”, Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 82.

[17] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 118-119.

[18] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 83. Don Zattini vedendo quella morte serena non trattenne la commozione e “profferì queste gravi parole: O morte! tu non sei un flagello per le anime innocenti; per costoro tu sei la più grande benefattrice che loro apri la porta al godimento dei beni che non si perderanno mai più. Oh perché io non posso essere in tua vece, o amato Michele?” (ibiId., 84).

[19] Giovanni Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1864, 169-170.