Rettori Maggiori della Congregazione Salesiana

La Congregazione Salesiana, fondata nel 1859 da San Giovanni Bosco, ha avuto alla sua guida un superiore generale chiamato, già dai tempi di don Bosco, Rettor Maggiore. La figura del Rettore Maggiore è centrale nella leadership della congregazione, fungendo da guida spirituale e centro di unità non solo dei salesiani ma anche dell’intera Famiglia Salesiana. Ogni Rettore Maggiore ha contribuito in modo unico alla missione salesiana, affrontando le sfide del loro tempo e promuovendo l’educazione e la vita spirituale dei giovani. Facciamo un breve riassunto dei Rettori Maggiori e delle sfide che hanno dovuto affrontare.

San Giovanni Bosco (1859-1888)
San Giovanni Bosco, fondatore della Congregazione Salesiana, incarnò qualità distintive che hanno plasmato l’identità e la missione dell’ordine. La sua profonda fede e fiducia nella Divina Provvidenza lo resero un leader carismatico, capace di ispirare e guidare con visione e determinazione. La sua dedizione instancabile all’educazione dei giovani, specialmente dei più bisognosi, si manifestò attraverso l’innovativo Sistema Preventivo, basato su ragione, religione e amorevolezza. don Bosco promosse un clima di famiglia nelle case salesiane, favorendo relazioni sincere e fraterne. La sua capacità organizzativa e il suo spirito imprenditoriale portarono alla creazione di numerose opere educative. La sua apertura missionaria spinse la Congregazione oltre i confini italiani, diffondendo il carisma salesiano nel mondo. La sua umiltà e semplicità lo resero vicino a tutti, guadagnandosi la fiducia e l’affetto di collaboratori e giovani.
San Giovanni Bosco affrontò molte difficoltà. Dovette superare l’incomprensione e l’ostilità di autorità civili ed ecclesiastiche, che spesso diffidavano del suo metodo educativo e della sua rapida crescita. Affrontò gravi difficoltà economiche nel sostenere le opere salesiane, spesso contando solo sulla Provvidenza. Gestire giovani difficili e formare collaboratori affidabili fu un compito arduo. Inoltre, la sua salute, logorata dall’intenso lavoro e dalle continue preoccupazioni, fu un limite costante. Nonostante tutto, affrontò ogni prova con fede incrollabile, amore paterno per i giovani e una determinazione instancabile, portando avanti la missione con speranza.

1. Beato Michele Rua (1888-1910)
Il ministero di Rettor Maggiore del Beato Michele Rua si caratterizza come fedeltà al carisma di don Bosco, consolidamento istituzionale e espansione missionaria. È stato nominato da don Bosco come successore per ordine del papa Leone XIII, nell’udienza del 24.10.1884. Dopo la confermazione del Papa, nel 24.09.1885, don Bosco ha reso pubblica la sua scelta davanti al Capitolo Superiore.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– agì come “regola vivente” del sistema preventivo, mantenendo integro lo spirito educativo di don Bosco attraverso formazione, catechesi e direzione spirituale; fu un continuatore del fondatore;
– diresse la Congregazione in crescita esponenziale, gestendo centinaia di case e migliaia di religiosi, con visite pastorali in tutto il mondo nonostante problemi di salute;
– fronteggiò calunnie e crisi (come lo scandalo del 1907) difendendo l’immagine salesiana;
– promosse le Figlie di Maria Ausiliatrice e i Cooperatori, rafforzando la struttura tripartita voluta da don Bosco;
– sotto la sua guida, i Salesiani passarono da 773 a 4.000 membri, e le case da 64 a 341, estendendosi in 30 nazioni.

2. Don Paolo Albera (1910-1921)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Paolo Albera si distingue per fedeltà al carisma di don Bosco ed espansione missionaria globale. Eletto nel Capitolo Generale 11.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– mantenne integro il sistema preventivo, promuovendo la formazione spirituale dei giovani salesiani e la diffusione del Bollettino Salesiano come strumento di evangelizzazione;
– affrontò le sfide della Prima Guerra Mondiale, con salesiani mobilitati (oltre 2.000 chiamati alle armi, 80 di loro morti in guerra) e case trasformate in ospedali o caserme, mantenendo coesione nella Congregazione; questo conflitto causò la sospensione del Capitolo Generale previsto e interruppe molte attività educative e pastorali;
– affrontò le conseguenze di questa guerra che generò un aumento della povertà e del numero di orfani, richiedendo un impegno straordinario per accogliere e sostenere questi giovani nelle case salesiane;
– aprì nuove frontiere in Africa, Asia e America, inviando 501 missionari in nove spedizioni ad gentes e fondando opere in Congo, Cina e India.

3. Beato Filippo Rinaldi (1922-1931)
Il ministero di Rettor Maggiore del Beato Filippo Rinaldi si caratterizza per fedeltà al carisma di don Bosco, espansione missionaria e innovazione spirituale. Eletto nel Capitolo Generale 12.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– mantenne integro il sistema preventivo, promuovendo la formazione interiore dei salesiani;
– inviò oltre 1.800 salesiani in tutto il mondo, fondò istituti missionari e riviste, aprendo nuove frontiere in Africa, Asia e America;
– istituì l’associazione degli Ex-allievi e il primo Istituto secolare salesiano (Volontarie di don Bosco), adattando lo spirito di don Bosco alle esigenze del primo Novecento;
– rianimò la vita interiore della Congregazione, esortando a una “confidenza illimitata” in Maia Ausiliatrice, eredità centrale del carisma salesiano;
– enfatizzò l’importanza della formazione spirituale e dell’assistenza agli emigrati, promuovendo opere di previdenza e associazioni tra lavoratori;
– durante il suo rettorato, i membri passarono da 4.788 a 8.836 e le case da 404 a 644, evidenziando la sua capacità organizzativa e il suo zelo missionario.

4. Don Pietro Ricaldone (1932-1951)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Pietro Ricaldone si caratterizza per consolidamento istituzionale, impegno durante la Seconda Guerra Mondiale e collaborazione con le autorità civili. Eletto nel Capitolo Generale 14.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– potenziò le case salesiane e i centri di formazione, fondò l’Università Pontificia Salesiana (1940) e curò la canonizzazione di don Bosco (1934) e Madre Mazzarello (1951);
– affrontò la Guerra Civile Spagnola (1936-1939) che rappresentò una delle principali difficoltà, con persecuzioni che colpirono duramente le opere salesiane nel paese;
– successivamente affrontò la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) causò ulteriori sofferenze: molti salesiani furono deportati o privati della libertà, e le comunicazioni tra la Casa Generalizia di Torino e le comunità sparse nel mondo furono interrotte; inoltre, l’avvento di regimi totalitari in Europa orientale portò alla soppressione di diverse opere salesiane;
– durante la guerra, aprì le strutture salesiane a sfollati, ebrei e partigiani, mediando per la liberazione di prigionieri e proteggendo chi era in pericolo;
– promosse la spiritualità salesiana attraverso opere editoriali (es. Corona patrum salesiana) e iniziative a favore dei giovani marginalizzati.

5. Don Renato Ziggiotti (1952-1965)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Renato Ziggiotti (1952-1965) si caratterizza per espansione globale, fedeltà al carisma e impegno conciliare. Eletto nel Capitolo Generale 17.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– fu il primo Rettor Maggiore a non aver conosciuto personalmente don Bosco e a rinunciare all’incarico prima della morte, dimostrando grande umiltà;
– durante il suo mandato, i salesiani passarono da 16.900 a oltre 22.000 membri, con 73 ispettorie e quasi 1.400 case in tutto il mondo;
– promosse la costruzione della Basilica di San Giovanni Bosco a Roma e del santuario sul Colle dei Becchi (Colle don Bosco), oltre al trasferimento del Pontificio Ateneo Salesiano nella capitale;
– fu il primo Rettor Maggiore a partecipare attivamente alle prime tre sessioni del Concilio Vaticano II, anticipando il rinnovamento della Congregazione e il coinvolgimento dei laici;
– compì un’impresa senza precedenti: visitò quasi tutte le case salesiane e Figlie di Maria Ausiliatrice, dialogando con migliaia di confratelli, nonostante le difficoltà logistiche.

6. Don Luigi Ricceri (1965-1977)
​Il ministero di Rettor Maggiore di don Luigi Ricceri si caratterizza per rinnovamento conciliare, centralizzazione organizzativa e fedeltà al carisma salesiano. Eletto nel Capitolo Generale 19.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– adattamento post-conciliare: guidò la Congregazione nell’attuazione delle indicazioni del Concilio Vaticano II, promuovendo il Capitolo Generale Speciale (1966) per il rinnovamento delle Costituzioni e la formazione permanente dei salesiani;
– trasferì la Direzione Generale da Valdocco a Roma, separandola dalla “Casa Madre” per integrarla meglio nel contesto ecclesiale;
– la revisione delle Costituzioni e dei Regolamenti fu un compito complesso, mirato a garantire l’adeguamento alle nuove direttive ecclesiali senza perdere l’identità originaria;
– potenziò il ruolo dei Cooperatori e degli Ex-allievi, rafforzando la collaborazione tra i diversi rami della Famiglia salesiana.

7. Don Egidio Viganò (1977-1995)
​ Il ministero di Rettor Maggiore di don Egidio Viganò si caratterizza per fedeltà al carisma salesiano, impegno conciliare e espansione missionaria globale. Eletto nel Capitolo Generale 21.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– la sua partecipazione come esperto al Concilio Vaticano II influenzò significativamente il suo operato, promuovendo l’aggiornamento delle Costituzioni salesiane in linea con le direttive conciliari e guidò la Congregazione nell’attuazione delle indicazioni del Concilio Vaticano II;
–  collaborò attivamente con il papa san Giovanni Paolo II, divenendone confessore personale, e partecipò a 6 sinodi dei vescovi (1980-1994), rafforzando il legame tra la Congregazione e la Chiesa universale;
– profondamente legato alla cultura latinoamericana (dove trascorse 32 anni), ampliò la presenza salesiana nel Terzo Mondo, con un focus su giustizia sociale e dialogo interculturale;
– fu il primo rettor maggiore eletto per tre mandati consecutivi (su dispensa papale);
– potenziò il ruolo dei Cooperatori e degli Ex-allievi, promuovendo la collaborazione tra i diversi rami della Famiglia salesiana;
–  rafforzò la devozione a Maria Ausiliatrice, riconoscendo l’Associazione dei Devoti di Maria Ausiliatrice come parte integrante della Famiglia Salesiana;
– la sua dedizione alla ricerca scientifica e al dialogo interdisciplinare lo portò a essere considerato il “secondo fondatore” dell’Università Pontificia Salesiana;
– sotto la sua guida, la Congregazione avviò il “Progetto Africa”, espandendo la presenza salesiana nel continente africano che diede molti frutti.

8. Don Juan Edmundo Vecchi (1996-2002)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Juan Edmundo Vecchi si distingue per fedeltà al carisma salesiano, impegno nella formazione e apertura alle sfide del post-Concilio. Eletto nel Capitolo Generale 24.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– è il primo Rettor Maggiore non italiano: figlio di immigrati italiani in Argentina, rappresentò un cambio generazionale e geografico nella guida della Congregazione, aprendo a una prospettiva più globale;
– promosse la formazione permanente dei salesiani, sottolineando l’importanza della spiritualità e della preparazione professionale per rispondere alle esigenze dei giovani;
– promosse una rinnovata attenzione all’educazione dei giovani, enfatizzando l’importanza della formazione integrale e dell’accompagnamento personale;
– attraverso le Lettere Circolari, esortò a vivere la santità nella quotidianità, legandola al servizio giovanile e alla testimonianza di don Bosco;
– durante la sua malattia, continuò a testimoniare fede e dedizione, offrendo riflessioni profonde sull’esperienza della sofferenza e dell’anzianità nella vita salesiana.

9. Don Pascual Chávez Villanueva (2002-2014)
​Il ministero di Rettor Maggiore di don Pascual Chávez Villanueva si distingue per fedeltà al carisma salesiano, impegno nella formazione e l’impegno nelle sfide della globalizzazione e delle trasformazioni ecclesiali. Eletto nel Capitolo Generale 25.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– promosse la rinnovata attenzione alla comunità salesiana come soggetto evangelizzatore, con priorità alla formazione spirituale e all’inculturazione del carisma nei contesti regionali;
– rilanciò l’impegno verso i giovani più vulnerabili, ereditando l’approccio di don Bosco, con particolare attenzione agli oratori di frontiera e alle periferie sociali;
– curò la formazione permanente dei salesiani, sviluppando studi teologici e pedagogici legati alla spiritualità di don Bosco, preparando il bicentenario della sua nascita;
– guidò la Congregazione con un approccio organizzativo e dialogante, coinvolgendo le diverse regioni e promuovendo la collaborazione tra centri di studio salesiani;
– promosse una maggiore collaborazione con i laici, incoraggiando la corresponsabilità nella missione salesiana e affrontando le resistenze interne al cambiamento.

10. Don Ángel Fernández Artime (2014-2024)
Il ministero di don Ángel Fernández Artime si distingue per fedeltà al carisma salesiano, e al papato. Eletto nel Capitolo Generale 27.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– guidò la Congregazione con un approccio inclusivo, visitando 120 paesi e promuovendo l’adattamento del carisma salesiano alle diverse realtà culturali, mantenendo saldo il legame con le radici di don Bosco;
– rafforzò l’impegno verso i giovani più vulnerabili, delle periferie, ereditando l’approccio di don Bosco;
– affrontò le sfide della globalizzazione e delle trasformazioni ecclesiali, promuovendo la collaborazione tra centri di studio e rinnovando gli strumenti di governo della Congregazione;
– promosse una maggiore collaborazione con i laici, incoraggiando la corresponsabilità nella missione educativa e pastorale;
– dovete affrontare la pandemia di COVID-19 che ha richiesto adattamenti nelle opere educative e assistenziali per continuare a servire i giovani e le comunità in difficoltà;
– dovete affrontare la gestione delle risorse umane e materiali in un periodo di crisi vocazionale e cambiamenti demografici;
– sposto la Casa Generalizia dalla Pisana all’opera fondata da don Bosco, Sacro Cuore di Roma;
– il suo impegno culminò nella nomina a Cardinale (2023) e a Pro-Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata (2025), segnando un riconoscimento della sua influenza nella Chiesa universale.

I Rettori Maggiori della Congregazione Salesiana hanno svolto un ruolo fondamentale nella crescita e nello sviluppo della congregazione. Ognuno di loro ha portato il proprio contributo unico, affrontando le sfide del loro tempo e mantenendo vivo il carisma di san Giovanni Bosco. La loro eredità continua a ispirare le generazioni future di salesiani e giovani in tutto il mondo, garantendo che la missione educativa di don Bosco rimanga rilevante e vitale nel contesto contemporaneo.

Presentiamo sottostante anche una statistica di questi rettorati.

 Rettor Maggiore Nato il Inizio mandato Rettor Maggiore Eletto a … anni Fine mandato Rettor Maggiore Rettor Maggiore per… Ha vissuto per… anni
BOSCO Giovanni 16.08.1815 18.12.1859 44 31.01.1888 (†) 28 anni e 1 mese 72
RUA Michele 09.06.1837 31.01.1888 50 06.04.1910 (†) 22 anni e 2 mesi 72
ALBERA Paolo 06.06.1845 16.08.1910 65 29.10.1921 (†) 11 anni e 2 mesi 76
RINALDI Filippo 28.05.1856 24.04.1922 65 05.12.1931 (†) 9 anni e 7 mesi 75
RICALDONE Pietro 27.07.1870 17.05.1932 61 25.11.1951 (†) 19 anni e 6 mesi 81
ZIGGIOTTI Renato 09.10.1892 01.08.1952 59 27.04.1965 († 19.04.1983) 12 anni e 8 mesi 90
RICCERI Luigi 08.05.1901 27.04.1965 63 15.12.1977 († 14.06.1989) 12 anni e 7 mesi 88
VIGANO Egidio 29.06.1920 15.12.1977 57 23.06.1995 (†) 17 anni e 6 mesi 74
VECCHI Juan Edmundo 23.06.1931 20.03.1996 64 23.01.2002 (†) 5 anni e 10 mesi 70
VILLANUEVA Pasqual Chavez 20.12.1947 03.04.2002 54 25.03.2014 11 anni e 11 mesi 76
ARTIME Angel Fernandez 21.08.1960 25.03.2014 53 31.07.2024 10 anni 4 mesi 64



Don Bosco e la musica

            Per l’educazione dei suoi giovani Don Bosco si servì molto della musica. Sin da ragazzo amava il canto. Avendo egli una bella voce, il Sig. Giovanni Roberto, capo-cantore della parrocchia, gli insegnò il canto fermo. In pochi mesi Giovanni poté salire sull’orchestra ed eseguire parti musicali con ottimo risultato. Nello stesso tempo incominciò ad esercitarsi a suonare una “spinetta”, che era lo strumento a corde pizzicate a mezzo di tastiera, ed anche il violino (MB I, 232).
            Sacerdote a Torino, fece da maestro di musica ai suoi primi oratoriani, formando a poco a poco dei veri cori che attiravano, con il loro canto, la simpatia degli ascoltatori.
            Dopo l’apertura dell’ospizio, avendo ormai ragazzi interni, iniziò la scuola di canto gregoriano e, con il tempo, portò pure i suoi piccoli cantori nelle chiese della città e fuori Torino ad eseguire il loro repertorio.
            Egli stesso compose lodi sacre come quella a Gesù Bambino, “Ah, si canti in suon di giubilo…”. Avviò pure allo studio della musica alcuni suoi discepoli, tra i quali si distinse don Giovanni Cagliero, che poi si rese celebre per le sue creazioni musicali guadagnandosi la stima degli esperti. Nel 1855 Don Bosco organizzò la prima banda strumentale dell’Oratorio.
            Non andava, tuttavia, avanti alla buona Don Bosco! Già negli anni ’60 incluse in un suo Regolamento un capitolo sulle scuole serali di musica, nel quale diceva, fra l’altro:
“Da ogni allievo musico si esige formale promessa di non andare a cantare né a suonare nei pubblici teatri, né in altro trattenimento in cui possa essere compromessa la Religione ed il buon costume” (MB VII, 855).

La musica dei ragazzi
            Ad un religioso francese che aveva fondato un Oratorio festivo e gli chiedeva se conveniva insegnare la musica ai ragazzi, rispose: “Un Oratorio senza musica è come un corpo senz’anima!” (MB V, 347).
            Don Bosco parlava il francese abbastanza bene sia pure con una certa libertà di grammatica e di espressione. In proposito riuscì celebre una sua risposta sulla musica dei ragazzi. L’Abate L. Mendre di Marsiglia, Curato della parrocchia di San Giuseppe, gli portava grande affetto. Un giorno gli sedeva a fianco durante un trattenimento nell’Oratorio di San Leone. I piccoli musici facevano ogni tanto qualche stecca. L’abate, che di musica se ne intendeva assai, friggeva e scattava ad ogni stonatura. Don Bosco gli sussurrò all’orecchio nel suo francese: “Monsieur Mendre, la musique de les enfants elle s’écoute avec le coeur et non avec les oreilles” (Signor abate Mendre, la musica dei ragazzi si ascolta con il cuore e non con le orecchie). L’abate ricordò poi infinite volte quella risposta, che rivelava la saggezza e la bontà di Don Bosco (MB XV, 76 n.2).
            Tutto questo non significa, però, che Don Bosco anteponesse la musica alla disciplina nell’Oratorio. Era sempre amabile ma non passava facilmente sopra alle mancanze di obbedienza. Per alcuni anni aveva permesso ai giovani bandisti che nella festa di Santa Cecilia andassero in luogo da lui designato a fare una passeggiata ed un pranzetto campestre. Ma nel 1859, a causa di accaduti inconvenienti, cominciò a proibire tale svago. I giovani non protestarono apertamente, ma una metà di essi, sobillati da un capo che aveva loro promesso di ottenerne licenza da Don Bosco, e sperando impunità, si decisero di uscire ugualmente dall’Oratorio ed organizzare di loro iniziativa un pranzo fuori casa prima della Festa di Santa Cecilia. Avevano preso questa decisione pensando che Don Bosco non se ne sarebbe accorto e non avrebbe preso provvedimenti. Si recarono, quindi, negli ultimi giorni di ottobre, a pranzare in una vicina trattoria. Dopo il pranzo andarono ancora a girovagare in città ed alla sera ritornarono a cenare nello stesso posto, rientrando poi a Valdocco mezzo brilli a notte tarda. Solo il sig. Buzzetti, invitato all’ultimo momento, si era rifiutato di unirsi a quei disubbidienti e ne avvertì Don Bosco. Questi, con tutta calma, dichiarò sciolta la banda musicale e ordinò al Buzzetti di ritirare e chiudere a chiave tutti gli strumenti e pensare a nuovi allievi da avviare alla musica strumentale. All’indomani mattina, poi, mandò a chiamare ad uno ad uno tutti i musici riottosi rammaricandosi con ciascuno di loro che lo costringevano ad essere molto severo. Poi li rimandò dai loro parenti o tutori raccomandandone qualcuno più bisognoso in opifici cittadini. Solo uno di quei birichini fu poi riaccettato perché Don Rua aveva assicurato Don Bosco trattarsi di un ragazzo inesperto che si era lasciato ingannare dai compagni. E Don Bosco lo tenne ancora qualche tempo in prova!
            Ma con i dispiaceri non bisogna dimenticare le consolazioni. Il 9 giugno 1868 fu una data memorabile nella vita di Don Bosco e nella storia della Congregazione. La nuova Chiesa di Maria Ausiliatrice, da lui fatta costruire con immensi sacrifici, veniva finalmente consacrata. Chi fu presente ai solennissimi festeggiamenti ne rimase profondamente commosso. Una folla strabocchevole stipava la bella chiesa di Don Bosco. L’Arcivescovo di Torino, Mons. Riccardi, compì il solenne rito della consacrazione. Alla funzione serale del giorno seguente, durante i Vespri solenni, il coro di Valdocco intonò la grandiosa antifona musicata da don Cagliero: Sancta Maria succurre miseris. La folla dei fedeli ne rimase elettrizzata. Tre cori poderosi l’avevano eseguita in modo perfetto. Centocinquanta tenori e bassi cantavano nella navata presso l’altare di San Giuseppe, duecento soprani e contralti stavano in alto lungo la ringhiera sotto la cupola, un terzo coro, composto di altri cento tenori e bassi, erano collocati sull’orchestra che allora sovrastava il fondo della chiesa. I tre cori, collegati da un congegno elettrico, mantenevano la sincronia ai comandi del Maestro. Il biografo, presente all’esecuzione, ebbe poi a scrivere:
            “Nel momento in cui tutti i cori riuscirono a fare una sola armonia, si provò una specie di incantesimo. Le voci si collegavano insieme e l’eco le rimandava per tutte le direzioni in modo che l’uditorio si sentiva immerso in un mare di voci, senza che potesse discernere come e donde veniva. Le esclamazioni, che si udirono poi, indicavano come tutti si fossero sentiti soggiogati da così alta maestrìa. Don Bosco stesso non poté trattenere l’intensa commozione. Ed egli che mai in chiesa, durante la preghiera, si permetteva di dire una parola, rivolse gli occhi umidi di pianto ad un canonico suo amico e a bassa voce gli disse: “Caro Anfossi, non ti pare di essere in Paradiso?” (MB IX, 247-248).




Gran santo, gran manager

            Non è facile scegliere fra le centinaia di lettere inedite di don Bosco che abbiamo recuperato in questi ultimi decenni quelle che più meritano di essere presentate e commentate. Questa volta ne prendiamo una molto semplice, ma che in poche righe sintetizza tutto un progetto di opera educativa salesiana e ci offre tante altre interessanti notizie. Si tratta di quella scritta il 7 maggio 1877 ad un personaggio trentino, un certo Daniele Garbari, che a nome di due fratelli gli aveva più volte richiesto come poteva fondare un istituto educativo nella sua terra, come quelli che don Bosco stava fondando in tutta Italia, Francia e Argentina.

Pregiatissimo sig. Garbari,

La mia assenza da Torino fu cagione del ritardo a riscontrare alle sue lettere, che ho regolarmente ricevuto. Godo assai che questa nostra istituzione sia ben accolta in questi suoi paesi. Più sarà conosciuta e più sarà ben voluta dagli stessi governi; perciocché si voglia o non si voglia, ma i fatti ci assicurano che i giovanetti pericolanti bisogna aiutarli per farne buoni cittadini o mantenerli nel disonore entro le carceri.
Riguardo poi ad impiantare un istituto simile a questo nella città o nei paesi di Trento non occorre gran cosa per cominciare:
1° Un locale capace di ricoverare un certo numero di fanciulli, ma che abbiano nell’interno i rispettivi opifici o laboratori.
2° Qualche cosa che possa somministrare un po’ di pane al direttore ed alle altre persone che lo coadiuvano nell’assistenza e direzione.
I ragazzi sono sostenuti:
1° da quel poco di pensione mensile che taluni di essi possono pagare, oppure pagano i parenti o altre persone che li raccomandano.
2° Dal po’ di guadagno che dà il lavoro.
3° Dai sussidi dei municipi, dal governo, congregazioni di carità, e dalle oblazioni dei privati. In questa guisa si reggono tutte le nostre case di artigianelli, e coll’aiuto di Dio siamo andati avanti bene. Bisogna però ritenere per base che noi siamo sempre stati e saremo sempre per l’avvenire estranei ad ogni cosa che si riferisca alla politica.
Nostro scopo dominante è di raccogliere fanciulli pericolanti per farne dei buoni cristiani ed onesti cittadini. Questa sia la prima cosa da far bene comprendere alle autorità civili e governative.
Come prete poi io debbo essere in pieno accordo coll’autorità ecclesiastica; perciò quando si trattasse di concretare la cosa, io scriverei direttamente all’Arcivescovo di Trento, il quale per certo non opporrà difficoltà.
Eccole il mio pensiero preliminare. Continuando la pratica ed occorrendo altro lo scriverò. La prego di ringraziare da parte mia tutte quelle persone che mostransi a me benevole.
Ho voluto scrivere io stesso colla mia brutta calligrafia, altra volta cederò la penna al mio segretario, affinché più facilmente si possa leggere lo scritto.

Mi creda colla massima stima e gratitudine con cui ho l’onore di professarmi Di V. S. Stimabil.mo

Umile servitore Sac. Gio. Bosco Torino, 7 maggio 1877

Immagine positiva dell’opera salesiana
            Anzitutto la lettera ci informa come don Bosco, dopo l’approvazione pontificia della congregazione salesiana (1874), l’apertura della prima casa salesiana in Francia (1875) e la prima spedizione missionaria in America Latina (1875), era sempre occupatissimo nel visitare e sostenere le sue opere già esistenti e nell’accettare o meno le moltissime che gli venivano proposte in quegli anni da ogni parte. All’epoca della lettera aveva il pensiero di aprire le prime case delle Figlie di Maria Ausiliatrice oltre quella di Mornese – ben sei nel biennio 1876-1877 – e soprattutto gli interessava stabilirsi a Roma, dove da oltre 10 anni tentava inutilmente di avere una sede. Niente da fare. Un altro piemontese doc come don Bosco, un “prete del movimento” come lui, non era gradito in riva al Tevere, nella Roma Capitale già zeppa di invisi piemontesi, da certe autorità pontificie e da certo clero romano. Per tre anni dovette “accontentarsi” della “periferia” romana, vale a dire dei Castelli Romani e di Magliano Sabino.

            Paradossalmente capitava il contrario presso le amministrazioni cittadine e le stesse autorità di governo del Regno d’Italia, dove don Bosco contava, se non amici – avevano idee troppo distanti – almeno grandi estimatori. E per un motivo molto semplice, cui ogni governo era interessato: gestire il neonato paese Italia con cittadini onesti, operosi, rispettosi della legge, anziché popolare le carceri di “criminali” vagabondi, incapaci di mantenere sé e la propria famiglia con un proprio dignitoso lavoro. A distanza di tre decenni, nel 1900, il celebre antropologo e criminologo ebreo Cesare Lombroso avrebbe dato pienamente ragione a don Bosco quando scriveva: “Gli istituti salesiani rappresentano uno sforzo colossale e genialmente organizzati per prevenire il delitto, l’unico anzi che si sia fatto in Italia”. Come ben dice la lettera in questione, l’immagine delle opere salesiane in cui, senza schierarsi con i vari partiti politici, si educavano i ragazzi a diventare “buoni cristiani e onesti cittadini” era positiva, e ciò anche nell’impero austro-ungarico, cui all’epoca appartenevano il Trentino e la Venezia Giulia.

Tipologia di una casa salesiana
            Nel prosieguo della lettera don Bosco passava a presentare la struttura di una casa di educazione: ambienti dove poter ospitare i ragazzi (e sottintendeva almeno 5 cose: cortile per giocare, aule per studiare, refettorio per mangiare, camerata per dormire, chiesa per pregare) e “opifici o laboratori” dove insegnare un mestiere con cui i giovani potevano vivere ed avere un futuro una volta lasciato l’istituto. Quanto alle risorse economiche indicava tre cespiti: le minime pensioni mensili che i genitori-parenti dei ragazzi potevano pagare, il piccolo guadagno dei laboratori artigianali, i sussidi della beneficienza pubblica (governo, municipi) e soprattutto privata. Era esattamente l’esperienza di Valdocco. Ma don Bosco qui taceva una cosa importante: la totale consacrazione alla missione educativa del direttore e dei suoi stretti collaboratori, preti e laici, i quali al prezzo di un tozzo di pane e di un letto spendevano le 24 ore del giorno in lavoro, preghiera, insegnamento e assistenza. Così almeno si faceva nelle case salesiane dell’epoca, apprezzatissime tanto dalle autorità civili, quanto da quelle religiose, i vescovi anzitutto, senza il cui assenso evidentemente non si poteva fondare una casa “che educava evangelizzando e evangelizzava educando” come quella salesiana.

Risultato
            Non sappiamo se ci fu un seguito di questa lettera. Di certo il progetto di fondazione salesiana del sig. Garbari non andò in porto. E così decine di altre proposte di fondazioni. Ma è storicamente accertato che tanti altri istitutori, sacerdoti e laici, in tutta Italia si ispirarono all’esperienza di don Bosco fondando opere similari, ispirate al suo modello educativo e al suo sistema preventivo.
            Il Garbari dovette ritenersi comunque soddisfatto: don Bosco gli aveva suggerito una strategia che a Torino e altrove funzionava… e poi aveva nelle proprie mani un suo autografo, che per quanto di difficile “decifrazione”, era sempre quello di un santo. Tant’è che lo ha conservato gelosamente e oggi è custodito nell’Archivio Salesiano Centrale di Roma.




Un interessante caso giudiziario a Valdocco

Una lettera al pretore della città di Torino del 18 aprile 1865 apre un interessante ed inedito spiraglio sulla vita quotidiana della Valdocco dell’epoca.


Fra i giovani accolti a Valdocco negli anni sessanta, quando ormai erano stati aperti quasi tutti i laboratori per artigiani, spesso orfani, ve ne erano alcuni inviati dalla pubblica sicurezza. Dunque l’Oratorio non accoglieva solo ragazzi buoni e dei giovani vivaci ma di buon cuore, ma anche giovani difficili, problematici, con alle spalle esperienze decisamente negative.

Siamo forse abituati a pensare che a Valdocco, con la presenza di don Bosco, le cose andassero sempre bene, soprattutto negli anni cinquanta e primi anni sessanta quando l’opera salesiana non si era ancora diffusa e don Bosco viveva a contatto diretto e costante con i ragazzi. Invece successivamente, con una grande massa eterogenea di giovani, educatori, apprendisti artigiani, giovani studenti, novizi, studenti di filosofia e di teologia, allievi delle scuole serali, lavoratori “esterni”, sarebbero potute sorgere delle difficoltà nella gestione disciplinare della comunità di Valdocco.

Un fatto piuttosto grave
Una lettera al pretore della città di Torino del 18 aprile 1865 apre un interessante ed inedito spiraglio sulla vita quotidiana della Valdocco dell’epoca. La riproduciamo e poi la commentiamo.

Al Signor Pretore Urbano della città di Torino

Viste le citatorie da intimarsi al chierico Mazzarello assistente nel laboratorio dei legatori della casa detta Oratorio di San Francesco di Sales; viste parimenti quelle dà intimarsi ai giovani Parodi Federico, Castelli Giovanni, Guglielmi Giuseppe e consideratone attentamente il tenore il sac. Bosco Gioanni direttore di questo stabilimento nel desiderio di sciogliere la questione con minori disturbi delle autorità della pretura urbana crede di poter intervenire a nome di tutti nella causa relativa al giovane Boglietti Carlo, pronto a dare a chi che sia le più ampie soddisfazioni.
Prima di accennare il fatto in questione sembra opportuno di notare che l’articolo 650 del codice penale sembra interamente estraneo all’oggetto di cui si tratta, imperciocché interpretato nel senso preteso la pretura urbana si verrebbe ad introdurre nel regime domestico delle famiglie, i genitori e chi ne fa le veci non potrebbero più correggere la propria figliuolanza neppure impedire un’insolenza ed un’insubordinazione, [cose] che tornerebbero a grave danno della moralità pubblica e privata.
Inoltre per tenere in freno certi giovanetti per lo più inviati dall’autorità governativa, si ebbe facoltà di usare tutti quei mezzi che si fossero giudicati opportuni, e in casi estremi di mandare il braccio della pubblica sicurezza siccome si è fatto più volte.
Venendo ora al fatto del Boglietti Carlo si deve con rincrescimento ma francamente asserire, che egli fu più volte paternamente inutilmente avvisato; che egli si dimostrò non solo incorreggibile, ma insultò, minacciò ed imprecò il suo assistente, chierico Mazzarello in faccia ai suoi compagni. Quell’assistente d’indole mitissima, e mansuetissima ne rimase talmente spaventato, che d’allora in poi fu sempre ammalato senza aver mai più potuto ripigliare i suoi doveri e vive tuttora da ammalato.
Dopo quel fatto il Boglietti fuggì dalla casa senza nulla dire ai suoi superiori a cui era indirizzato e fece solamente palese la sua fuga per mezzo della sorella, quando seppe che si voleva consegnare nelle mani della questura. La qual cosa non si fece per conservargli la propria onoratezza.
Intanto si fa istanza affinché siano riparati i danni che l’assistente ha sofferto nell’onore e nella persona almeno finché possa ripigliare le sue ordinarie occupazioni.
Che le spese di questa causa siano a conto di lui. Che né esso Boglietti Carlo, né il sig. Caneparo Stefano suo parente o consigliere non vengano più nel mentovato stabilimento a rinnovare gli atti d’insubordinazione e gli scandali già altre volte cagionati.
[Sac. Gio Bosco]

Che dire? Anzitutto che la lettera documenta come fra i giovani accolti a Valdocco negli anni sessanta, quando ormai erano stati aperti quasi tutti i laboratori per artigiani, spesso orfani, ve ne erano alcuni inviati dalla pubblica sicurezza. Dunque l’Oratorio non accoglieva solo ragazzi come Domenico Savio o Francesco Besucco o anche Michele Magone, vale a dire degli ottimi, dei buoni e dei giovani vivaci ma di buon cuore, ma anche giovani difficili, problematici, con alle spalle esperienze decisamente negative.
Ai giovanissimi educatori salesiani di Valdocco era affidato l’arduo compito di ri­educarli, autorizzati anche a far ricorso a “tutti quei mezzi che si fossero giudicati opportuni”. Quali? Di certo il Sistema Preventivo di don Bosco, di cui l’esperienza in atto da due decenni a Valdocco dimostrava la validità. Ma alla prova dei fatti, “in casi estremi”, per i giovani più incorreggibili, si dovette ricorrere a quella stessa forza pubblica che ve li aveva portati.

Nel caso in questione
Don Bosco, di fronte alla citazione in giudizio di un suo giovane chierico e di alcuni ragazzi dell’Oratorio, si sente in dovere di intervenire direttamente presso l’autorità costituita per la difesa del suo giovane educatore, per la salvaguardia dell’immagine positiva del suo Oratorio e per la tutela della propria autorevolezza educativa. Con estrema chiarezza indica al pretore le possibili conseguenze negative, per sé, per le famiglie e per la società in genere, della rigida, ed a suo giudizio ingiustificata, applicazione di un articolo del codice penale.
Da ottimo avvocato, con una spericolata arringa giuridico­educativa, don Bosco trasforma in tal modo la sua difesa in accusa e l’accusatore in imputato, al punto da fare immediata istanza di indennizzo dei danni fisici e morali causati al giovane assistente Mazzarello, ammalatosi e costretto al riposo forzato.

L’esito della vertenza
Non è dato conoscerlo, probabilmente si concluse con un nulla di fatto. Ma tutta la vicenda ci rivela una serie di atteggiamenti e comportamenti non solo poco conosciuti di don Bosco, ma in qualche modo sempre attuali. Veniamo così a conoscere che pur sotto gli occhi vigili di don Bosco il Sistema Preventivo poté talora andare incontro a degli insuccessi. Il primo interesse da salvaguardare doveva sempre essere quello del singolo giovane, ovviamente a condizione che non entrasse in conflitto con il superiore interesse di altri compagni. Inoltre l’immagine positiva dell’opera salesiana andava difesa anche nelle opportune sedi giudiziali. Nel qual caso saggiamente andavano però messe in conto le possibili conseguenze, onde non trovarsi di fronte a spiacevoli sorprese.




Dov’è nato don Bosco?

            Nel primo anniversario della morte di don Bosco i suoi Antichi Alunni vollero continuare a celebrare la Festa della Riconoscenza, come avevano fatto ogni anno al 24 giugno, organizzandola per il nuovo Rettor Maggiore, don Rua.
            Il 23 giugno del 1889, dopo aver posto una lapide-ricordo nella Cripta di Valsalice dove don Bosco era sepolto, il giorno 24 festeggiarono don Rua a Valdocco.
            Il prof. Alessandro Fabre, exallievo degli anni 1858-66, presa la parola, disse fra l’altro:
            «Non le sarà discaro di sapere, ottimo sig. don Rua, che abbiamo deciso di aggiungere come appendice l’inaugurazione pel 15 agosto prossimo venturo di un’altra lapide, di cui è già data la commissione e qui riprodotto il disegno, e che porremo sulla casa ove nacque e molti anni abitò il nostro caro don Bosco, perché rimanga segnalato ai contemporanei ed ai posteri il luogo dove prima palpitò per Dio e per gli uomini il cuore di quel Grande che del suo nome, delle sue virtù, delle sue istituzioni ammirabili doveva riempire più tardi l’Europa e il mondo».
            Come si vede, l’intenzione degli Antichi Alunni era di porre una lapide sulla Casetta dei Becchi, da tutti creduta la casa natia di don Bosco, perché egli l’aveva sempre indicata come la sua casa. Ma poi, trovando la Casetta in rovina, furono indotti a ritoccare la bozza dell’iscrizione e a collocare la lapide sulla vicina casa di Giuseppe con la seguente dicitura dettata dal Prof. Fabre stesso:
            L’11 agosto, pochi giorni prima del compleanno di don Bosco, gli Antichi Alunni si recarono ai Becchi per scoprire la lapide. Tenne il discorso d’occasione il Teol. Felice Reviglio, Curato di S. Agostino, uno dei primissimi allievi di don Bosco. Parlando della Casetta egli disse: «La casa stessa qui presso ove nacque, che è quasi del tutto rovinata…» è «un vero monumento dell’evangelica povertà di don Bosco».
            Della «completa rovina» della Casetta aveva già fatto cenno il Bollettino Salesiano nel marzo del 1887 (BS 1887, marzo, p. 31), e di tale situazione parlavano, evidentemente, don Reviglio e l’iscrizione sulla lapide («una casa ora demolita»). L’iscrizione copriva pietosamente il fatto increscioso che la Casetta, non ancora di proprietà salesiana, pareva ormai inesorabilmente perduta.
            Ma don Rua non si diede per vinto e nel 1901 si offerse di restaurarla a spese dei salesiani nella speranza di poterla poi ottenere dagli eredi di Antonio e Giuseppe Bosco, come avvenne nel 1919 e 1926 rispettivamente.
            A lavori ultimati una lapide fu posta sulla «Casetta» con l’iscrizione seguente: IN QUEST’UMILE CASETTA ORA PIAMENTE restaurata nacque don giovanni bosco il dì 16 agosto 1815
            Poi anche l’iscrizione sulla casa di Giuseppe venne così corretta: «Nato qui presso in una casa ora ristorata… ecc.», con relativa sostituzione della lapide.
            Quando poi, nel 1915 si celebrò il centenario della nascita di don Bosco, il Bollettino pubblicò la foto della Casetta, precisando: «E quella ove il 16 agosto 1815 nacque il Venerabile Giovanni Bosco. Essa fu salvata dalla rovina alla quale l’edacità del tempo l’aveva condannata, con una provvida riparazione generale, l’anno 1901».
            Negli anni ’70 le ricerche d’archivio compiute dal Comm. Secondo Caselle, convinsero i Salesiani che don Bosco era, sì, vissuto dal 1817 al 1831 alla Casetta acquistata da suo padre, casa sua quindi, come egli aveva sempre detto, ma era nato alla cascina Biglione, di cui il padre era massaro abitandovi con la famiglia, fino alla sua morte avvenuta l’11 maggio 1817, sul sommo del Colle ove ora sorge il Tempio a San Giovanni Bosco.
            La lapide sulla casa di Giuseppe era stata cambiata, mentre quella sulla Casetta venne sostituita dall’attuale iscrizione marmorea: questa è la mia casa Don Bosco
            Rimane così sfatata l’opinione recentemente espressa, secondo la quale gli Antichi Alunni, nel 1889, con le parole: «Nato qui presso in una casa ora demolita» non intendevano parlare della Casetta dei Becchi.

I toponimi dei Becchi
            Abitavano i Bosco alla Cascina Biglione quando nacque Giovanni?
            Qualcuno ha affermato che è permesso dubitarne, perché, quasi certamente abitavano, invece, in un’altra casa di proprietà Biglione al «Meinito». Prova ne sarebbe il Testamento di Francesco Bosco, stilato dal notaio C. G. Montalenti l’8 maggio del 1817, dove si legge: «…in casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore nella regione del Monastero borgata di Meinito…» (S. CASELLE, Cascinali e Contadini del Monferrato: i Bosco di Chieri nel secolo XVIII, Roma, LAS, 1975, p. 94).
            Che dire di questa opinione?
            Oggi «Meinito» (o «Mainito») è solo più il sito di una cascina posta a sud del Colle Don Bosco, al di là della strada provinciale che da Castelnuovo va in direzione di Capriglio, ma un tempo indicava un territorio più esteso, contiguo a quello chiamato Sbaraneo (o Sbaruau). E Sbaraneo non era altro che il vallone ad est del Colle.
«Monastero», poi, non corrispondeva solo all’attuale zona boschiva a ridosso del Mainito, ma copriva un’area molto vasta, dal Mainito alla Barosca, tanto è vero che la stessa «Casetta» dei Becchi venne registrata nel 1817 in «regione di Cavallo, Monastero» (S. CASELLE, o. c., p. 96).
            Quando non c’erano ancora mappe con lotti numerati, cascine e poderi venivano individuati a base di toponimi o nomi di luogo, derivati da cognomi di antiche famiglie o da caratteristiche geografiche e storiche.
            Essi servivano da punti di riferimento, ma non corrispondevano all’attuale significato di «regione» o «borgata» se non molto approssimativamente, e venivano usati con molta libertà di scelta da parte dei notai.
            La più antica Carta del Castelnovese, conservata nell’archivio comunale e gentilmente postaci a disposizione, risale al 1742 e viene chiamata «Carta napoleonica» probabilmente per il maggior uso fattone durante l’occupazione francese. Un estratto di questa mappa, curato nel 1978 con elaborazione fotografica del testo originale dai Sigg. Polato e Occhiena, che confrontarono i documenti d’archivio con i lotti numerati sulla Carta napoleonica, dà l’indicazione di tutti i terreni di proprietà dei Biglione sin dal 1773 e lavorati dai Bosco dal 1793 al 1817. Da questo «Estratto» risulta che i Biglione non possedevano alcun terreno o casa al Mainito. E d’altra parte non è sinora reperibile altro documento che provi il contrario.
            E allora che significato possono avere quelle parole «in casa del Signor Biglione… in regione Monastero borgata di Meinito»?
            Anzitutto è bene sapere che solo nove giorni dopo, lo stesso notaio che redasse il testamento di Francesco Bosco, scriveva nell’inventario della sua eredità: «…in casa del Signor Giacinto Biglione abitata degli infranominati pupilli [i figli di Francesco] regione di Meinito…» (S. CASELLE, o. c., p. 96), promuovendo così in pochi giorni Mainito da «borgata» a «regione». E poi è curioso constatare che anche la Cascina Biglione propriamente detta, in documenti diversi risulta a Sbaconatto, a Sbaraneo o Monastero, al Castellero, e chi più ne ha più ne metta.
            E allora come la mettiamo? Tenuto conto di tutto, non è difficile accorgersi che si tratta sempre della stessa zona, il Monastero, che al suo centro aveva come punti di riferimento Sbaconatto e Castellerò, ad est lo Sbaraneo, a sud il Mainito. Il notaio Montalenti scelse «Meinito» come altri scelsero «Sbaraneo» o «Sbaconatto» o «Castellero». Ma il sito e la casa erano sempre gli stessi!
            Sappiamo, inoltre, che i Sigg. Damevino, proprietari della Cascina Biglione dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca; ma, come assicurano gli anziani del luogo, non possedettero mai case al Mainito. Eppure avevano acquistato le proprietà che i Biglione avevano venduto al Sig. Giuseppe Chiardi nel 1818.
            Non resta che concludere che il documento stilato dal notaio Montalenti l’8 maggio 1817, se pur non contiene errori, si riferisce alla Cascina Biglione propriamente detta, ove il 16 agosto 1815 nacque don Bosco, l’11 maggio 1817 morì suo padre e, ai giorni nostri, fu costruito il grandioso Tempio a san Giovanni Bosco.
            L’esistenza, infine, di una fantomatica casa dei Biglione abitata dai Bosco al Mainito e poi demolita non si sa quando né da chi né perché prima del 1889, come da qualcuno si è ipotizzato, non ha (almeno sinora) alcuna vera prova in suo favore. Gli stessi Antichi Alunni quando posero sulla lapide dei Becchi le parole «Nato qui presso…» (si veda il nostro articolo di gennaio) non potevano certo riferirsi al Mainito che dista oltre un chilometro dalla Casa di Giuseppe!

Cascine, massari e mezzadri
            Francesco Bosco, massaro della Cascina Biglione, desiderando mettersi in proprio, acquistò terreni e la casetta dei Becchi, ma la morte lo colse all’improvviso l’11 maggio 1817 prima di aver potuto pagare tutti i relativi debiti contratti. Nel novembre la vedova, Margherita Occhiena, si trasferì con i figli e la suocera nella «Casetta» fatta ristrutturare allo scopo. Prima di allora quella Casetta, già contrattata dal marito sin dal 1815 ma non ancora pagata, consisteva solo di «una crotta e stalla accanto, coperta a coppi, in cattivo stato» (S. CASELLE, Cascinali e contadini […], p. 96-97), e quindi inabitabile da una famiglia di cinque persone, con animali ed attrezzi da lavoro. Nel febbraio del 1817 era stato stilato l’atto notarile di vendita, ma il debito rimaneva ancora aperto. Margherita dovette risolvere la situazione come tutrice di Antonio, Giuseppe e Giovanni Bosco, ormai piccoli proprietari ai Becchi.
            Non era la prima volta che i Bosco passavano dalla condizione di massari a quella di piccoli proprietari e viceversa. Ce ne ha data ampia documentazione il compianto Comm. Secondo Caselle.
            Il trisavolo di don Bosco, Giovanni Pietro, già massaro alla Cascina Croce di Pane, tra Chieri e Andezeno, proprietà dei Padri Barnabiti, nel 1724 andò massaro alla Cascina di San Silvestro presso Chieri, appartenente alla Prevostura di San Giorgio. E che egli abitasse proprio nella Cascina di San Silvestro con i familiari risulta dai «Registri del Sale» del 1724. Suo nipote, Filippo Antonio, orfano di padre e preso in casa dal figlio maggiore di Giovanni Pietro, Giovanni Francesco Bosco, fu adottato da un pro-zio, da cui ereditò casa, giardino e 2 ettari di terreno a Castelnuovo. Ma, per la critica situazione economica in cui venne a trovarsi, dovette vendere la casa e gran parte delle sue terre e trasferirsi con la famiglia nella frazione Morialdo, come massaro della Cascina Biglione, ove morì nel 1802.
            Paolo, suo figlio di primo letto, divenne così il capo-famiglia e il massaro, come risulta dal censimento del 1804. Ma qualche anno dopo lasciò la cascina al fratellastro Francesco e andò a stabilirsi a Castelnuovo dopo essersi presa la sua parte di eredità e aver operato delle compra-vendite. Fu allora che Francesco Bosco, figlio di Filippo Antonio e di Margherita Zucca, divenne massaro della Cascina Biglione.
            Che cosa s’intendeva in quei luoghi per «cascina», per «massaro» e per «mezzadro»?
            La parola «cascina» (in piemontese: cassin-a) indica in sé una casa colonica o l’insieme di un’azienda agricola; ma nei luoghi di cui parliamo, l’accento era posto sulla casa, cioè sul caseggiato agricolo adibito in parte ad abitazione e in parte a rustico per l’allevamento del bestiame, ecc. Il «massaro» (in piemontese: massé) in sé è il conduttore della cascina e dei poderi, mentre il «mezzadro» (in piemontese: masoé) è solo il coltivatore di terre di un padrone con cui divide i raccolti. Ma in pratica in quei luoghi il massaro era anche mezzadro e viceversa, tanto che la parola massé non era gran ché usata, mentre masoé indicava generalmente anche il massaro.
            I Sigg. Damevino, proprietari della Cascina «Bion» o Biglione al Castellero dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca e, come ci assicurò il sig. Angelo Agagliate, avevano 5 massari o mezzadri, uno alla Cascina Biglione, due alla Scajota e due alla Barosca. Naturalmente i vari massari abitavano nella cascina loro propria.
            Ora, se un contadino era massaro, ad es., della Cascina Scajota, proprietà dei Damevino, non lo si diceva «abitante in casa Damevino», ma semplicemente «alla Scajota». Se Francesco Bosco avesse abitato nella supposta casa dei Biglione al Mainito, non lo si sarebbe, quindi, detto, abitante «in casa del signor Biglione» anche se questa casa fosse ai Biglione appartenuta. Se il notaio scrisse: «In casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore» era segno che Francesco abitava con la famiglia alla Cascina Biglione propriamente detta.
            E questa è un’ulteriore conferma ai precedenti articoli che smentiscono l’ipotesi dalla nascita di don Bosco al Mainito «in una casa ora demolita».
            Concludendo, non si può dare esclusiva importanza al significato letterale di certe espressioni, ma occorre vagliarne il vero senso nell’uso locale del tempo. In studi di questo genere il lavoro del ricercatore locale è complementare a quello dello storico accademico, e particolarmente importante, perché il primo, favorito dalla conoscenza dettagliata del territorio, può fornire al secondo, il materiale occorrente per le sue conclusioni generali, ed evitargli erronee interpretazioni.




Come trovare le risorse per costruire una chiesa

Un segreto da individuare
Si sa, la fama di don Bosco e delle sue capacità realizzatrici si diffondeva in Italia. Visto infatti che riusciva in tante imprese, molti gli chiedevano consigli su come riuscire a fare altrettanto.
Come trovare i fondi per costruire una chiesa? Glielo chiese espressamente la signora Marianna Moschetti di Castagneto di Pisa (oggi Castagneto Carducci-Livorno) nel 1877. La risposta di don Bosco l’11 aprile, nella sua brevità e semplicità, è ammirevole.

Punto di partenza: conoscere la situazione
Anzitutto con la saggezza pratica che gli veniva dall’educazione familiare e dall’esperienza di fondatore-costruttore-realizzatore di tanti progetti, don Bosco mette le mani avanti e intelligentemente scrive che “sarebbe necessario potersi parlare per esaminare quali progetti si possono fare e quali probabilità vi abbia di poterli effettuare”. Senza un sano realismo i migliori progetti rimangono un sogno. Il santo però non vuole scoraggiare subito la sua corrispondente, per cui aggiunge immediatamente “quello che mi pare bene nel Signore”.

In nomine Domini
Incomincia bene, si direbbe, con questo “nel Signore”. Difatti il primo, e dunque il più importante consiglio che dà alla signora, è quello di “Pregare ed invitare altri a pregare e fare delle Comunioni a Dio, come mezzo efficacissimo per meritarci le sue grazie”. La chiesa è la casa del Signore, che non mancherà di benedire un progetto di chiesa se sarà avanzato da chi confida in Lui, da chi Lo prega, da chi vive la vita cristiana e si serve dei mezzi indispensabili. Una vita di grazia merita certamente le grazie del Signore (don Bosco ne è convinto), anche se tutto è grazia: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”.

La collaborazione di tutti
La chiesa è la casa di tutti; certo il parroco ne è il primo responsabile, ma non l’unico. Dunque i laici devono sentirsi corresponsabili e fra loro i più sensibili, i più disponibili, magari i più capaci (quelli che oggi potrebbero far parte del Consiglio pastorale e del Consiglio economico di ogni parrocchia). Ecco allora il secondo consiglio di don Bosco: “Invitare il Parroco a mettersi alla testa di due comitati numerosi, per quanto è possibile. Uno di uomini, l’altro di donne. Ciascun membro di questo comitato si firmi per un’oblazione divisa in tre rate, una per anno”.
Notiamo: due comitati, uno maschile e uno femminile. Certo, l’epoca vedeva normalmente separate le associazioni maschili e femminili di una parrocchia; ma perché anche non vedervi una giusta e leale “concorrenza” nel fare il bene, nel gestire un progetto con le proprie forze, ciascun gruppo “a suo modo”, con le sue strategie? Don Bosco sapeva quanto lui stesso era economicamente debitore al mondo femminile, alle marchese, alle contesse, alle nobildonne in genere: solitamente più religiose dei mariti, più generose nelle opere di carità, più disponibili “a soccorrere le necessità della Chiesa”. Puntare su di loro era saggezza.

Allargare la cerchia
Ecco infatti don Bosco aggiungere subito: “Nel tempo stesso ognuno cerchi oblatori in danaro, in lavoro, o in materiali. Per esempio invitare chi faccia fare un altare, il pulpito, i candelieri, una campana, i telai delle finestre, la porta maggiore, le minori, i vetri ecc. Ma una cosa sola caduno”. Bellissimo. Ognuno si doveva impegnare in qualche cosa che poteva giustamente ritenere un suo personale dono alla chiesa in costruzione.
Don Bosco non aveva fatto studi di psicologia, ma sapeva – come sanno tutti i parroci e non solo loro – che solleticando il legittimo orgoglio delle persone si può ottenere molto anche in fatto di generosità, di solidarietà, di altruismo. Del resto in tutta la sua vita aveva avuto bisogno di altri: per studiare da fanciullo, per andare alle scuole di Chieri da giovane, per entrare in seminario da chierico, per iniziare la sua opera da prete, per svilupparla da fondatore.

Un segreto
Don Bosco fa poi il misterioso con la sua corrispondente: “Se potessi parlare col Parroco potrei in confidenza suggerire altro mezzo; ma mi rincresce affidarlo alla carta”. Di che si trattava? Difficile dirlo. Si potrebbe pensare alla promessa d’indulgenze speciali per tali benefattori, ma sarebbe occorso rivolgersi a Roma e don Bosco sapeva quanto questo fatto poteva suscitare difficoltà con il vescovo e con altri parroci impegnati pure loro sugli stessi fronti edilizi. Forse più probabile era un invito, riservatissimo, di cercare l’appoggio di autorità politiche perché ne sostenessero la causa. Il suggerimento sarebbe però stato meglio farlo oralmente, per non compromettersi né di fronte alle autorità civili, né a quelle religiose, in tempi di durissima opposizione fra loro, con la Sinistra storica al potere, più anticlericale della precedente Destra.
Che poteva dire di più? Una cosa importante per entrambi: la preghiera. E difatti così si commiata dalla sua corrispondente: “Io pregherò che ogni cosa vada bene. L’unico mio appoggio è sempre stato il ricorso a Gesù Sacramentato, ed a Maria Ausiliatrice. Dio la benedica e preghi per me che le sarò sempre in G.C.”.




Don Bosco e “la Consolata”

            Il più antico pilone nella zona dei Becchi pare risalire al 1700. Fu eretto al fondo della piana verso il «Mainito», ove confluivano le famiglie che abitavano nell’antica «Scaiota», divenuta poi cascina agricola salesiana, oggi ristrutturata e trasformata in Casa dei giovani che ospita gruppi giovanili pellegrini al Tempio e alla Casetta di Don Bosco.
            È il pilone della Consolata, con una statua della Vergine Consolatrice degli afflitti, sempre onorata con fiori campestri portati dai devoti. Giovannino Bosco sarà passato tante volte davanti a quel pilone, togliendosi il cappello e mormorando un’Ave come la mamma gli aveva insegnato.
            Nel 1958 i Salesiani restaurarono il vecchio pilone e, con una solenne funzione religiosa, lo inaugurarono ad un rinnovato culto della comunità e della popolazione, come risulta dalla Cronaca di quell’anno conservata nell’archivio dell’Istituto «Bernardi Semeria».
            Quella statua della Consolata potrebbe quindi essere la prima immagine di Maria Santissima che Don Bosco venerò nella fanciullezza presso casa sua.

Alla «Consolata» di Torino
            Già da studente e da seminarista a Chieri Don Bosco dev’essere andato a Torino a venerare la Vergine Consolatrice (MB I, 267-68). Ma risulta con certezza che, novello sacerdote, egli celebrò la sua seconda Santa Messa proprio nel Santuario della Consolata «per ringraziare – come egli scrisse – la Gran Vergine Maria degli innumerevoli favori che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù» (MO 115).
            Ai tempi dell’Oratorio vagante senza fissa dimora, Don Bosco andava con i suoi ragazzi in qualche chiesa di Torino per la messa domenicale, e per lo più si recavano alla Consolata (MB II, 248; 346).
            Nel mese di maggio degli anni 1846-47, per ringraziare la Vergine Consolatrice di aver finalmente fatto trovar loro sede stabile, vi portò i suoi giovani a fare la Santa Comunione mentre i buoni Padri Oblati di Maria Vergine, che officiavano il Santuario, si prestarono ad ascoltarne le confessioni (MB II, 430).
            Quando, nell’estate del 1846, Don Bosco si ammalò gravemente, i suoi ragazzi non solo mostrarono in lacrime il loro dolore, ma temendo che i mezzi umani non sarebbero bastati alla sua guarigione, si alternarono dal mattino alla sera nel Santuario della Consolata a pregare Maria SS. di conservare loro l’amico e padre infermo.
            Ci fu chi fece anche dei voti infantili e chi digiunò a pane ed acqua perché la Madonna li esaudisse. Furono esauditi e Don Bosco promise a Dio che fin l’ultimo suo respiro sarebbe stato per loro.
            Le visite di Don Bosco e dei suoi ragazzi alla Consolata continuarono. Invitato una volta a cantare con i suoi giovani una Messa nel Santuario, arrivò all’ora convenuta con la «Schola cantorum» improvvisata portandosi lo spartito di una «messa» da lui stessa composta per l’occasione.
            Organista nel santuario era il celebre maestro Bodoira che Don Bosco invitò all’organo. Questi non degnò neanche di uno sguardo lo spartito di Don Bosco, ma quando poi si accinse a suonarne la musica, non ci capì proprio nulla e, abbandonato indispettito il posto di organista, se ne andò.
            Don Bosco allora si sedette all’organo ed accompagnò la Messa seguendo la sua composizione tempestata di segni che solo lui poteva capire. I giovani che prima si erano smarriti alle note del celebre organista, proseguirono sino alla fine senza una stecca e le loro voci argentine attirarono l’ammirazione e la simpatia di tutti i fedeli presenti alla funzione (MB II, 148).
            Dal 1848 sino al 1854 Don Bosco accompagnava in processione i suoi ragazzi per le vie di Torino sino alla Consolata. I suoi birichini cantavano lungo il percorso lodi alla Vergine per poi partecipare alla Santa Messa da lui celebrata.
            Alla morte di Mamma Margherita, avvenuta il 25 novembre 1856, Don Bosco il mattino stesso andò a celebrare la Santa Messa di suffragio nella cappella sotterranea del Santuario della Consolata, fermandosi poi a pregare lungamente dinanzi all’immagine di Maria Consolatrice, supplicandola di far Essa da madre a lui ed ai suoi figli. E Maria SS. esaudì le sue preghiere (MB V, 566).
            Don Bosco al Santuario della Consolata non solo ebbe più volte occasione di celebrare la Santa Messa, ma un giorno volle anche servirla. Entrato nel santuario per farvi una visita, sentì il segnale dell’inizio della Messa e si accorse che mancava il ministrante. Si alzò, andò in sacrestia, prese il messale e servì con devozione la Messa (MB VII, 86).
            E la frequenza di Don Bosco al Santuario non cessò mai più soprattutto in occasione della Novena e della festa della Consolata.

Statuetta della Consolata nella Cappella Pinardi
            Il 2 settembre 1847 Don Bosco acquistò al prezzo di 27 lire una statuetta di Maria Consolatrice collocandola nella Cappella Pinardi.
            Nel 1856, nei lavori di demolizione della Cappella, Don Francesco Giacomelli, compagno di seminario e grande amico di Don Bosco, volendo ritenere per sé ciò che egli chiamava il più insigne monumento della fondazione dell’Oratorio, trasportò la statuetta ad Avigliana nella sua casa paterna.
            Nel 1882 sua sorella fece costruire presso casa un pilone con nicchia e vi collocò la preziosa reliquia.
            Quando i Salesiani vennero a sapere, dopo l’estinzione della famiglia Giacomelli, del pilone di Avigliana, riuscirono a riavere l’antica statuetta, che il 12 aprile 1929 ritornava all’Oratorio di Torino dopo 73 anni dal giorno in cui Don Giacomelli l’aveva tolta dalla prima cappella (E. GIRAUDI, L’Oratorio di Don Bosco, Torino, SEI, 1935, p. 89-90).
            Oggi la storica piccola statua rimane l’unico ricordo del passato nella nuova Cappella Pinardi, formandone il tesoro più caro e prezioso.
            Don Bosco, che diffuse il culto a Maria Ausiliatrice in tutto il mondo, non dimenticò mai la prima sua devozione alla Vergine, venerata sin da fanciullo presso il pilone dei Becchi sotto l’effigie della «Consolata». Giunto a Torino, giovane sacerdote diocesano, nel periodo eroico del suo «Oratorio», attinse dalla Vergine Consolatrice nel suo Santuario luce e consiglio, coraggio e conforto per la missione che il Signore gli aveva affidato.
            Anche per questo è considerato a pieno titolo uno dei Santi Torinesi.




Edmond Obrecht. Ho pranzato con un santo

Nella biografia di un famoso abate, l’emozione dell’incontro con don Bosco.

Oggi è abbastanza facile conoscere un santo da altare, è successo più volte anche a me. Ne ho incontrati vari: il cardinale di Milano Ildefonso Schuster (che mi ha cresimato) ed i papi Giovanni XXIII e Paolo VI; con madre Teresa ho conversato, con papa Giovanni Paolo II ho pure pranzato. Ma un secolo fa non era così facile, per cui aver avvicinato personalmente un santo da altare era un’esperienza che rimaneva impressa nella mente e nel cuore del fortunato. Così è avvenuto per l’abate trappista francese dom Edmond Obrecht (1852­1935). Nel lontano 1934, allorché fu canonizzato don Bosco, tre giorni dopo la solenne cerimonia, confidò al direttore del settimanale cattolico statunitense Louisville Record la sua grande soddisfazione di aver conosciuto personalmente il nuovo santo, di avergli stretto la mano, anzi di aver pranzato con lui.
Che cosa era successo? L’episodio è raccontato nella sua biografia.

Quattro ore con don Bosco
Nato in Alsazia nel 1852, Edmond Obrecht a 23 anni si era fatto frate trappista. Appena fatto prete nel 1879, padre Edmond fu mandato a Roma come segretario del Procuratore generale delle tre Osservanze Trappiste che nel 1892 sarebbero state riunite in un solo Ordine con la casa generalizia la Trappa delle Tre Fontane nella capitale italiana.
Nel soggiorno romano aveva la giornata di domenica libera e ne approfittava per andare a celebrare dai confratelli cistercensi nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Titolare era il Vicario di Roma, cardinale Lucido Maria Parocchi, per cui padre Edmond ebbe modo di servirlo varie volte nei solenni pontificali e entrare in confidenza con lui.
Ora il 14 maggio 1887 era prevista la consacrazione della Chiesa del S. Cuore di Roma, accanto all’attuale stazione Termini: una magnifica chiesa che a don Bosco era costata un patrimonio e per la quale aveva dato “corpo e anima” pur di riuscire a portarla a termine. Vi riuscì e nonostante la salute ormai decisamente compromessa (sarebbe morto otto mesi dopo) volle presenziare alla solenne cerimonia di consacrazione.
Per tale lunghissima celebrazione (cinque ore a porte chiuse) il card. Parocchi si fece accompagnare da padre Edmond. Un’esperienza decisamente indimenticabile per lui. Scriverà 50 anni dopo: “Durante quella lunga cerimonia ebbi il piacere e l’onore di sedermi accanto a don Bosco nel presbiterio della chiesa e dopo la consacrazione fui ammesso allo stesso tavolo suo e del cardinale. È stata l’unica volta nella mia vita in cui sono venuto a stretto contatto con un santo canonizzato e la profonda impressione che mi fece ha indugiato ancora nella mia mente per tutti questi lunghi anni”. Padre Edmond aveva sentito parlare molto di don Bosco, che in tempi di rottura delle relazioni diplomatiche della Santa Sede con il nuovo Regno d’Italia, godeva di una forte stima ed entratura presso i politici del tempo: Zanardelli, Depretis, Nicotera. I giornali del resto avevano parlato dei suoi interventi per comporre alcune gravi questioni relative alla nomina di nuovi vescovi ed all’entrata in possesso dei beni delle singole diocesi.
Dom Edmond non si accontentò di quella indimenticabile esperienza. Successivamente in occasione di un viaggio passò da Torino e volle soffermarsi per visitare la grande opera salesiana di don Bosco. Ne restò ammirato e non poté che gioire anche il giorno della sua beatificazione (2 giugno 1929).

Post Scriptum
Il giorno prima della consacrazione della chiesa del S. Cuore, il 13 maggio 1887, papa Leone XIII aveva dato udienza per un’ora a don Bosco in Vaticano. Si era mostrato molto cordiale con lui e aveva pure scherzato sul fatto che don Bosco data l’età si dichiarava prossimo alla morte (ma era più giovane del papa!), don Bosco però aveva un pensiero che forse non osò esprimere al papa in persona. Lo fece pochi giorni dopo, il 17 maggio, sul piede di partenza da Roma: gli chiese se poteva saldare in tutto o in parte la spesa della facciata della chiesa: una bella cifra, 51 000 lire [230 mila euro]. Coraggio o impudenza? Estrema confidenza o semplice sfacciataggine? Resta il fatto che pochi mesi dopo, il 6 novembre, don Bosco tornava alla carica chiedendo un intervento di monsignor Francesco della Volpe, prelato domestico del papa, per ottenere – scriveva – “la somma di 51 mila franchi, che la carità del Santo Padre fece sperare di pagare Egli stesso… il nostro Economo va a Roma per regolare appunto le spese di questa costruzione; egli passerà presso la E. V. per quella migliore risposta che potrà avere”. Garantiva che “I nostri orfanelli oltre a trecento mila pregano ogni giorno per Sua Santità”. E concludeva: “Compatisca questa mia povera e brutta scrittura. Non posso più scrivere”.
Povero don Bosco: in maggio in quella chiesa, celebrando davanti all’altare di Maria Ausiliatrice, aveva pianto più volte perché vedeva avverato il sogno dei nove anni; ma sei mesi dopo il suo cuore era ancora in angoscia perché alla morte che sentiva vicina lasciava un forte debito per chiudere i conti di quella stessa chiesa.
Per essa si spese veramente per vari anni, “fino all’ultimo respiro”. Lo sanno ben pochi delle decine di migliaia di persone che ogni giorno vi passano davanti, uscendo dalla stazione Termini in via Marsala.




Don Bosco e la lingua italiana

            Il Piemonte del primo ’800 era ancora zona periferica rispetto al resto d’Italia. La lingua parlata era il piemontese. Si ricorreva all’italiano solo in casi particolari, come si indossa un vestito nelle grandi occasioni. Le classi alte usavano piuttosto il francese nello scrivere e ricorrevano al dialetto nella conversazione.
            Nel 1822 re Carlo Felice approvò un Regolamento per le scuole con disposizioni particolari per l’insegnamento della lingua italiana. Tali disposizioni però non furono granché efficaci, dato soprattutto il metodo con cui venivano applicate.
            Non c’è quindi da meravigliarsi se anche a don Bosco l’uso corretto della lingua italiana sia costato non poca fatica. Non per nulla nel manoscritto delle sue Memorie è facile incontrare parole piemontesi italianizzate o parole italiane usate nel significato dialettale come nei casi seguenti:
«Mi accorsi che […] faceva la comparsa di uno sfrosadore» (ASC 132 / 58A7), dove sfrosadore (piemontese: sfrosador) sta per frodatore, e così: «Don Bosco co’ suoi figli poteva ad ogni momento eccitare una rivoluzione» (ASC 132 / 58E4), dove figli (piemontese: fieuj) sta per giovani. E così via.
            Se don Bosco riuscì poi a scrivere con proprietà di linguaggio, unita a semplicità e chiarezza, lo si deve, tra l’altro, al paziente uso del vocabolario consigliatogli da Silvio Pellico (MB III, 314-315).

Una correzione
            Un esempio significativo lo si può avere nella correzione di una frase del primo sogno da lui descritto nelle sue Memorie: «Renditi sano, forte e robusto».
            Don Bosco, rivedendo il manoscritto, tirò una righetta sopra la parola “sano” e scrisse al suo posto: “umile” (ASC 132 / 57A7).
            Che cosa sentì veramente don Bosco in sogno e perché poi cambiò quella parola? Si è parlato di un cambio di significato fatto a scopo didascalico, come pare fosse uso a volte di don Bosco nel narrare e scrivere i suoi sogni. Ma non potrebbe trattarsi invece di una semplice precisazione del significato originale?
            A 9 anni Giovannino Bosco parlava e sentiva solo in piemontese. Aveva appena cominciato a studiare «gli elementi di lettura e scrittura» alla scuola di don Lacqua a Capriglio. In casa e in borgata si usava unicamente il dialetto. In chiesa Giovannino sentiva il Parroco o il Cappellano leggere il Vangelo in latino e spiegarlo in piemontese.
            E quindi più che ragionevole supporre che in sogno Giovannino abbia udito sia «l’Uomo venerando» sia la «Donna di maestoso aspetto» esprimersi in dialetto. Bisogna allora ripensare in dialetto le parole da lui udite nel sogno. Non: «umile, forte, robusto», ma piuttosto: «san, fòrt e robust» nell’accento caratteristico locale.
            In tale circostanza questi aggettivi non potevano avere un significato puramente letterale ma figurato. Ora «san», in senso figurato, vuole dire: senza magagne, retto nella condotta morale, ossia buono (C. ZALLI, Dizionario Piemontese-Italiano, Carmagnola, Tip. di P. Barbié, 2 a ed, 1830, vol. II, p. 330, usato da don Bosco); «fòrt e robust» significano gagliardo e cioè dotato di resistenza in senso fisico e morale (C. ZALLI, o. c., vol. I, 360; vol. II, 309).
            Don Bosco non dimenticherà più quei tre aggettivi «san, fòrt e robust» e quando stenderà le sue Memorie, mentre di primo acchito li tradurrà letteralmente, ripensandoci poi sopra, troverà più opportuno precisare meglio il significato della prima parola. Quel san (= buono) per un ragazzo di 9 anni voleva dire ubbidiente, docile, non capriccioso, non superbietto, in una sola parola: «umile»!
            Si tratterebbe quindi di una precisazione, non di un cambio di significato.

Conferme a questa interpretazione
            Don Bosco, stilando le sue Memorie, pose candidamente l’accento sui difettucci della sua fanciullezza. Due passi presi dalle stesse Memorie lo confermano.
            L’uno riguarda l’anno della prima Confessione e Comunione a cui Mamma Margherita aveva preparato il suo Giovanni: Scrive Don Bosco: «Ritenni e procurai di praticare gli avvisi della pia genitrice; e mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nella ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provavo prima grande ripugnanza, volendo sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o mi dava buoni consigli» (ASC 132 / 60B5).
            L’altro si può trovare poco oltre, dove don Bosco parla delle difficoltà incontrate con il fratellastro Antonio per darsi allo studio. È un particolare per noi divertente ma che tradisce il caratteraccio di Antonio e il caratterino di Giovannino. Antonio dunque gli avrebbe detto un giorno, vedendolo in cucina, seduto al tavolo, tutto intento sui libri: «Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso e non ho mai veduto questi libri». E don Bosco aggiunge: «Dominato in quel momento dall’afflizione e dalla rabbia, risposi quello che non avrei dovuto. “Tu parli male, gli dissi. Non sai che il nostro asino è più grosso di te e non andò mai a scuola? Vuoi tu divenire simile a lui?” A quelle parole saltò sulle furie, e soltanto colle gambe, che mi servivano assai bene, potei fuggire e scampare da una pioggia di busse e di scappellotti» (ASC 132 / 57B5).
            Questi particolari fanno meglio comprendere il monito del sogno e nello stesso tempo possono spiegare il motivo della «precisazione» linguistica cui abbiamo fatto cenno.
            Nell’interpretare, quindi, i manoscritti di don Bosco sarà utile non dimenticare il problema della lingua, perché don Bosco parlava e scriveva correttamente in italiano, ma la lingua materna era quella in cui egli pensava.
            A Roma l’8 maggio 1887, in un ricevimento in suo onore interrogato quale fosse la lingua che maggiormente gli piaceva, ebbe a dire: «La lingua che più mi piace è quella che m’insegnò mia madre, perché mi costò poca fatica l’impararla e provo con essa maggior facilità a esprimere le mie idee, e poi non la dimentico tanto facilmente come le altre lingue!» (MB XVIII, 325).




Il sogno dei dieci diamanti

Uno dei sogni più famosi di don Bosco fu quello chiamato “Sogno dei dieci diamanti” fatto nel settembre 1881. È un sogno ammonimento che non perderà mai nulla del suo valore, sicché sarà sempre vera la dichiarazione fatta da don Bosco ai superiori: «I mali minacciati saranno prevenuti, se noi predicheremo sopra le virtù e i vizi ivi notati.». Don Lemoyne c’è lo racconta nelle Memorie Biografiche (XV, 182-184).

Quasi per rialzare l’animo a Don Bosco, sicché il peso di tante contrarietà piccole e grandi non glielo accasciasse, il cielo, diremmo così, si abbassava di tratto in tratto fino a lui sotto forma d’illustrazioni superne, che lo confermavano nella incoraggiante certezza della missione affidatagli dall’alto. Nel mese di settembre egli ebbe uno de’ suoi sogni più importanti, che, prospettandogli le sorti della Congregazione in un prossimo avvenire, gliene svelava i grandiosi incrementi, ma insieme gli scopriva i pericoli che minacciavano di annientarla, se non si correva in tempo ai ripari. Le cose vedute e udite lo impressionarono talmente, che non si contentò di esporle a voce, ma le mise anche per iscritto. L’originale oggi è smarrito; ce ne sono per altro pervenute numerose copie, che tutte concordano a meraviglia.

Spiritus Sancti gratia, illuminet sensus et corda nostra. Amen.

Ad ammaestramento della Pia Società Salesiana.
Il dieci settembre anno corrente (1881), giorno che S. Chiesa consacra al glorioso Nome di Maria, i Salesiani, raccolti in S. Benigno Canavese, facevano gli Esercizi Spirituali.
Nella notte del 10 all’11, mentre dormiva, la mente si trovò in una gran sala splendidamente ornata. Mi sembrava di passeggiare coi Direttori delle nostre Case, quando apparve tra noi un uomo di aspetto così maestoso, che non potevamo reggerne la vista. Datoci uno sguardo senza parlare, si pose a camminare a distanza di qualche passo da noi. Egli era così vestito: Un ricco manto a guisa di mantello gli copriva la persona. La parte più vicina al collo era come una fascia che si rannodava davanti, ed una fettuccia gli pendeva sul petto. Sulla fascia stava scritto a caratteri luminosi: Pia Salesianorum Societas anno 1881 (Società Salesiana nell’anno 1881), e sulla striscia d’essa fascia portava scritte queste parole: Qualis esse debet (Come dovrebbe essere). Dieci diamanti di grossezza e splendore straordinario erano quelli che c’impedivano di fermare lo sguardo, se non con gran pena, sopra quell’Augusto Personaggio. Tre di quei diamanti erano sul petto, ed era scritto sopra di uno Fides (Fede), sull’altro Spes (Speranza), e Charitas (Carità) su quello che stava sul cuore. Il quarto diamante era sulla spalla destra, ed aveva scritto Labor (Lavoro); sopra il quinto nella spalla sinistra si leggeva Temperantia (Temperanza). Gli altri cinque diamanti ornavano la parte posteriore del manto, ed erano così disposti: uno più grosso e più folgoreggiante stava in mezzo come il centro di un quadrilatero, e portava scritto Obedientia (Obbedienza). Sul primo a destra si leggeva Votum Paupertatis (Voto di povertà). Sul secondo più abbasso Praemium (Premio). Nella sinistra sul più elevato era scritto Votum Castitatis (Voto di castità). Lo splendore di questo mandava una luce tutta speciale, e mirandolo traeva e attraeva lo sguardo come la calamita tira il ferro. Sul secondo a sinistra più abbasso stava scritto Ieiunium (Digiuno). Tutti questi quattro ripiegavano i luminosi loro raggi verso il diamante del centro.
Questi brillanti tramandavano dei raggi che a guisa di fiammelle si alzavano e portavano scritto qua e colà varie sentenze.

Sulla Fede si elevavano le parole: Sumite scutum Fidei, ut adversus insidias diaboli certare possitis (Prendete lo scudo della fede, per combattere le insidie ​​del demonio). Altro raggio aveva: Fides sine operibus mortua est. Non auditores, sed factores legis regnum Dei possidebunt (La fede senza le opere è morta. Non chi ascolta, ma chi pratica la legge possederà il regno di Dio).

Sui raggi della Speranza: Sperate in Domino, non in hominibus. Semper vestra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia (Sperate nel Signore, non negli uomini. I vostri cuori siano sempre fissi dove le sono vere gioie).

Sui raggi della Carità: Alter alterius onera portate, si vultis adimplere legem meam. Diligite et diligemini. Sed diligite animas vestras et vestrorum. Devote divinum officium persolvatur; missa attente celebretur; Sanctum Sanctorum peramanter visitetur (Portate gli uni i pesi degli altri, se volete compiere la mia legge. Amate e sarete amati. Ma amate le anime vostre e le altrui. Recitate devotamente l’ufficio divino, celebrate la santa Messa con attenzione, visitate con amore il Santo dei Santi).

Sulla parola Lavoro: Remedium concupiscentiae, arma potens contra omnes insidias diaboli (Rimedio contro la concupiscenza, un’arma potente contro tutte le tentazioni del demonio).

Sulla Temperanza: Si lignum tollis, ignis extinguitur. Pactum constitue cum oculis tuis, cum gula, cum somno, ne huiusmodi inimici depraedentur animas vestras. Intemperantia et castitas non possunt simul cohabitare (Se rimuovi la legna il fuoco si spegne. Fa’ un patto con i tuoi occhi, con la gola e col sonno, affinché tali nemici non depredino le vostre anime. Intemperanza e castità non possono coesistere insieme).

Sui raggi dell’Obbedienza: Totius aedificii fundamentum, et sanctitatis compendium (È la base e il coronamento dell’edificio della santità).

Sui raggi della Povertà: Ipsorum est Regnum coelorum. Divitiae spinae. Paupertas non verbis, sed corde et opere conficitur. Ipsa coeli ianuam aperiet et introibit (È dei poveri il regno dei Cieli. Le ricchezze sono spine. La povertà non si vive a parole, ma con l’amore e con i fatti. Essa ci apre le porte del Cielo).

Sui raggi della Castità: Omnes virtutes veniunt pariter cum illa. Qui mundo sunt corde, Dei arcana vident, et Deum ipsum videbunt. (Tutte le virtù si accompagnano ad essa. Coloro che sono puri nel cuore vedono i misteri di Dio e vedranno Dio stesso).

Sui raggi del Premio: Si delectat magnitudo praemiorum, non deterreat multitudo laborum. Qui mecum patitur, mecum gaudebit. Momentaneum est quod patimur in terra, aeternum est quod delectabit in coelo amicos meos (Se vi attrae la grandezza dei Premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche. Chi soffre con Me, con Me godrà. È momentaneo ciò che soffiamo sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo).

Sui raggi del Digiuno: Arma potentissima adversus insidias inimici. Omnium Virtutum Custos. Omne genus daemoniorum per ipsum eiicitur (È l’arma più potente contro le insidie del demonio. Il custode di tutte le virtù. Col digiuno si scaccia ogni sorta di demoni).

Un largo nastro a color di rosa serviva d’orlo nella parte inferiore del manto, e sopra questo nastro era scritto: Argumentum praedicationis. Mane, meridie et vespere. Colligite fragmenta virtutum et magnum sanctitatis aedificium vobis constituetis. Vae vobis qui modica spernitis, paulatim decidetis. (Argomento di predicazione. Al mattino, a mezzogiorno e a sera.
Fate tesoro delle piccole azioni virtuose e vi costruirete un grande edificio di santità.
Guai a voi che disprezzate le piccole cose. A poco a poco andrete in rovina).

Fino allora i Direttori erano chi in piedi, chi in ginocchio, ma tutti attoniti e niuno parlava. A questo punto Don Rua come fuor di sé disse: Bisogna prendere nota per non dimenticare. Cerca una penna e non la trova; cava fuori il portafoglio, fruga e non ha la matita. Io mi ricorderò, disse Don Durando. Io voglio notare, aggiunse Don Fagnano, e si pose a scrivere col gambo di una rosa. Tutti miravano e comprendevano la scrittura. Quando Don Fagnano cessò di scrivere, Don Costamagna continuò a dettare così: La Carità capisce tutto, sopporta tutto, vince tutto; predichiamola colle parole e coi fatti.

Mentre Don Fagnano scriveva, scomparve la luce, e tutti ci trovammo in folte tenebre. Silenzio, disse Don Ghivarello, inginocchiamoci, preghiamo, e la luce verrà. Don Lasagna cominciò il Veni Creator, poi il De Profundis, Maria Auxilium Christianorum, a cui tutti rispondemmo. Quando fu detto: Ora pro nobis, riapparve una luce, che circondava un cartello in cui si leggeva: Pia Salesianorum Societas qualis esse periclitatur anno salutis 1900. (La Pia Società Salesiana quale pericolo corre di diventare nell’anno 1900). Un istante dopo la luce divenne più viva a segno che potevamo vederci e conoscerci a vicenda.
In mezzo a quel, bagliore apparve di nuovo il Personaggio di prima, ma con aspetto malinconico simile a colui che comincia a piangere. Il suo manto era divenuto scolorato, tarlato e sdrucito. Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece in profondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti.
Respicite (guardate) Egli ci disse, et intelligite (comprendete). Ho veduto che i dieci diamanti erano divenuti altrettanti tarli che rabbiosi rodevano il manto.
Pertanto al diamante della Fides erano sottentrati: Somnus et accidia (Il sonno e l’accidia).
A Spes: Risus et scurrilitas (Risate e banalità sconce).
A Charitas: Negligentia in divinis perficiendis. Amant et quaerunt quae sua sunt, non quae Iesu Christi. (Negligenza nel darsi alle cose di Dio. Amano e cercano ciò che è loro gusto, non le cose di Gesù Cristo).
A Temperantia: Gula, et quorum Deus venter est (Gola: loro dio è il ventre).
A Labor: Somnus, furtum, et otiositas (Sonno, furto e ozio).
Al posto dell’Obedientia eravi nient’altro che un guasto largo e profondo senza scritto.
A Castitas: Concupiscentia oculorum et superbia vitae (La concupiscenza degli occhi e superbia della vita).
A Povertà era succeduto: Lectus, habitus, potus et pecunia (Letto, vestito, bevande e denaro).
A Praemium: Pars nostra erunt quae sunt super terram (Nostra eredità saranno i beni della terra).
A Ieiunium eravi un guasto, ma niente di scritto.
A quella vista fummo tutti spaventati. Don Lasagna cadde svenuto, Don Caglierò divenne pallido come una camicia, e appoggiandosi sopra una sedia gridò: Possibile che le cose siano già a questo punto? Don Lazzero e Don Guidazio stavano come fuori di sé, e si porsero la mano per non cadere. Don Francesia, il conte Cays, Don Barberis e Don Leveratto erano inginocchiati pregando con in mano la corona del SS. Rosario.
In quel tempo si fa intendere una cupa voce: Quomodo mutatus est color optimus! (Come è svanito quello splendido colore!)

Ma nell’oscurità succedette un fenomeno singolare. In un istante ci trovammo avvolti in folte tenebre, nel cui mezzo apparve tosto una luce vivissima, che aveva forma di corpo umano. Non potevamo tenerci sopra lo sguardo, ma potevamo scorgere che era un avvenente giovanetto vestito di abito bianco lavorato con fili d’oro e d’argento. Tutto attorno all’abito vi era un orlo di luminosissimi diamanti. Con aspetto maestoso, ma dolce ed amabile si avanzò alquanto verso di noi, e ci indirizzò queste parole testuali:
Servi et instrumenta Dei Omnipotentis, attendite et intelligite. Confortamini et estote robusti. Quod vidistis et audistis, est coelestis admonitio, quae nunc vobis et fratribus vestris facta est; animadvertite et intelligite sermonem. Iaculo, praevisa minus feriunt, et praeveniri possunt. Quot sunt verbo signata, tot sint argumenta praedicationis. Indesinenter praedicate opportune et importune. Sed quae praedicatis, constanter facite, adeo ut opera vestra sint velut lux, quae sicuti tuta traditio ad fratres et filios vestros pertranseat de generatione in generationem. Attendite et intelligite. Estate oculati in tironibus acceptandis, fortes in colendis, prudentes in admittendis. Omnes probate, sed tantum quod bonum est tenete. Leves et mobiles dimittite. Attendite et intelligite. Meditatio matutina et vespertina sit indesinenter de observantia constitutionum. Si id feceritis, numquam vobis deficiet Omnipotentis auxilium. Spectaculum facti eritis mundo et Angelis, et tunc gloria vestra erit gloria Dei. Qui videbunt saeculum hoc exiens et alterum incipiens, ipsi dicent de vobis: A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. Tunc omnes fratres vestri et filii vestri una voce cantabunt: Non nobis, Domine, non nobis; sed Nomini tuo da gloriam.

(Servi e strumenti di Dio Onnipotente, ascoltate e intendete. Siate forti e animosi. Quanto avete veduto e udito è un avviso del Cielo, inviato ora a voi e ai vostri fratelli; fate attenzione e intendete bene quello che vi si dice. I colpi previsti fanno minor ferita e si possono prevenire. De parole indicate, siano tanti argomenti di predicazione. Predicate incessantemente, a tempo e fuori tempo. Ma le cose che predicate fatele sempre, sicché le vostre opere siano come una luce, che sotto forma di sicura tradizione s’irradii sui vostri fratelli e figli di generazione in generazione. Ascoltate bene e intendete. Siate oculati nell’accettare i novizi, forti nel coltivarli, prudenti nell’ammetterli [alla professione]. Provateli tutti, ma tenete soltanto il buono. Mandate via i leggieri e volubili. Ascoltate bene e intendete. Da meditazione del mattino e della sera sia costantemente nell’osservanza regolare. Se ciò farete, non vi verrà meno giammai l’aiuto dell’Onnipotente. Diverrete spettacolo al mondo e agli Angeli e allora la vostra gloria sarà gloria di Dio. Chi vedrà la fine di questo secolo e il principio dell’altro dirà di voi: Dal Signore è stato ciò fatto, ed è ammirabile agli occhi nostri. Allora tutti i fratelli e figli vostri canteranno: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà gloria.)

Queste ultime parole furono cantate, ed alla voce di chi parlava si unì una moltitudine di altre voci così armoniose, sonore, che noi rimanemmo privi di sensi e per non cadere svenuti ci siamo uniti agli altri a cantare. Al momento che finì il canto si oscurò la luce. Allora mi svegliai, e mi accorsi che si faceva giorno.

Pro memoria. Questo sogno durò quasi l’intera notte, e sul mattino mi trovai stremato di forze. Tuttavia pel timore di dimenticarmene mi sono levato in fretta e presi alcuni appunti, che mi servirono come di richiamo a ricordare quanto qui ho esposto nel giorno della Presentazione di Maria SS. al Tempio.
Non mi fu possibile ricordar tutto. Tra le molte cose ho pur potuto con sicurezza rilevare che il Signore ci usa grande misericordia.

La nostra Società è benedetta dal Cielo, ma Egli vuole che noi prestiamo l’opera nostra. I mali minacciati saranno prevenuti, se noi predicheremo sopra le virtù e sopra i vizi ivi notati; se ciò che predichiamo, lo pratichiamo, lo tramanderemo ai nostri fratelli con mia tradizione pratica di quanto si è fatto e faremo.
Ho potuto eziandio rilevare che ci sono imminenti molte spine, molte fatiche, cui terranno dietro grandi consolazioni. Circa il 1890 gran timore, circa il 1895 gran trionfo.
Maria Auxilium Christianorum ora pro nobis (Maria Aiuto dei Cristiani, prega per noi).

Don Rua mise subito in pratica l’ammonimento del Personaggio, che delle cose rivelate si facesse materia di predicazione; poiché tenne ai Confratelli dell’Oratorio una serie di conferenze, nelle quali commentò loro minutamente le due parti del sogno. Il tempo a cui Don Bosco riferiva la doppia eventualità dei trionfi o delle sconfitte, corrispondeva nella Congregazione a quello che nella vita umana è il principio dell’adolescenza, momento delicato e pericoloso, da cui dipende per lo più tutto l’avvenire. Nell’ultimo decennio del secolo scorso il moltiplicarsi delle case e dei soci e l’estendersi dell’opera salesiana in tante nazioni differenti potevano senza dubbio dar luogo a taluno di quei deviamenti dalla linea retta che, se non si arrestano con prontezza, conducono sempre più lontano dalla strada maestra. Ma allo scomparire di Don Bosco la Provvidenza ci aveva fatto trovare nel suo successore la mente illuminata e la volontà energica che per quella fase critica si richiedevano. Don Rua, che si poteva dire benissimo la personificazione vivente di tutto il bello e buono rappresentato nella prima parte del sogno, fu davvero scolta vigile e duce indefesso e autorevole a disciplinare e guidare le novelle schiere per legittimo cammino.
La portata del sogno non ha limite di tempo. Don Bosco diede l’allarme per un momento speciale che doveva seguire alla sua morte; ma il qualis esse debet (Come dovrebbe essere) e il
qualis esse periclitatur (quale pericolo corre) contengono un ammonimento che non perderà mai nulla del suo valore, sicché sarà sempre vera la dichiarazione fatta da Don Bosco ai Superiori: «I mali minacciati saranno prevenuti, se noi predicheremo sopra le virtù e i vizi ivi notati.»