Profeti del perdono e della gratuità

In questi tempi, dove le notizie, giorno dopo giorno, ci comunicano esperienze di conflitto, di guerra e di odio, quanto è grande il rischio che noi come credenti finiamo per essere coinvolti in una lettura degli eventi che si riduce solamente a livello politico oppure ci limitiamo a prendere posizione a favore di una parte o dell’altra con degli argomenti che hanno a che fare con la nostra maniera di vedere le cose, con la nostra maniera di interpretare la realtà.

Nel discorso di Gesù che segue le beatitudini c’è una serie di “piccole/grandi lezioni” che il Signore offre. Sempre iniziano con il versetto “avete inteso che fu detto”. In una di queste il Signore richiama l’antico detto “occhio per occhio e dente per dente” (Mt 5,38).
Fuori dalla logica del Vangelo, questa legge non solo non è contestata, ma può anche essere presa come una regola che esprime il modo ristabilire i conti con coloro che ci hanno offeso. Ottenere vendetta è percepita come diritto‚ Fino a essere anche un dovere.
Gesù si presenta davanti a questa logica con una proposta completamente differente, totalmente opposta. A quello che abbiamo inteso, Gesù ci dice: “Ma io vi dico” (Mt 5,39). E qui come cristiani dobbiamo fare molta attenzione. Le parole di Gesù che seguono sono importanti non solamente per sé stesse, ma perché esprimono in una maniera molto sintetica tutto il suo messaggio. Gesù non viene per dirci che c’è un altro modo di interpretare la realtà. Gesù non si avvicina a noi per allargare lo spettro delle opinioni a proposito delle realtà terrene, in modo particolare quella che toccano la nostra vita. Gesù non è un’altra opinione, ma lui stesso incarna la proposta alternativa alla legge della vendetta.
La frase “ma io vi dico” è di fondamentale importanza perché adesso non è più la parola pronunciata, ma la persona stessa di Gesù. Quello che Gesù ci comunica lui lo vive. Quando Gesù dice “di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra” (Mt 5,39), queste stesse parole le ha vissute in prima persona. Sicuramente non possiamo dire di Gesù che predica bene ma vi fa male nel suo messaggio.
Per ritornare ai nostri tempi, queste parole di Gesù rischiano di essere percepite come le parole di una persona debole, reazioni di chi non è più capace di reagire ma soltanto di subire. E in effetti quando noi guardiamo a Gesù che si offre completamente sul legno della Croce, questa è l’impressione che possiamo avere. Eppure, sappiamo benissimo che col sacrificio sulla croce e frutto di un vissuto che parte dalla frase “ma io vi dico”. Perché tutto ciò che Gesù ci ha detto, lui ha finito per assumerlo in pieno. E assumendolo in pieno è riuscito a passare dalla croce alla vittoria. Quella di Gesù è una logica che apparentemente comunica una personalità perdente. Ma sappiamo benissimo che il messaggio che Gesù ci ha lasciato, e che lui lo ha vissuto pienamente, e la medicina di cui questo mondo oggi ne ha proprio bisogno.

Essere profeti del perdono significa assumere il bene come risposta al male. Significa avere la determinazione che la potenza del maligno non condizionerà il mio modo di vedere e di interpretare la realtà. Il perdono non è la risposta del debole. Il perdono è il segno più eloquente di quella libertà che è capace di riconoscere le ferite che il male lascia dietro di sé, ma che quelle stesse ferite non saranno mai una polveriera che fomenta la vendetta e l’odio.
Reagire al male con il male non fa altro che allargare ed approfondire le ferite dell’umanità. La pace e la concordia non crescono sul terreno dell’odio ed è la vendetta.

Essere profeti della gratuità richiede da noi la capacità di guardare al povero e all’ingente non con la logica del profitto, ma con la logica della carità. Il povero non sceglie di essere povero, ma chi sta bene alla possibilità di scegliere di essere generoso, buono e pieno di compassione. Quanto sarebbe differente il mondo se i nostri leader politici in questo scenario dove stanno crescendo i conflitti le guerre, abbiano la sensatezza di guardare a coloro che pagano il prezzo in queste divisioni, e sono i poveri, di emarginati quelli che non possono scappare perché non ce la fanno.
Se partiamo da una lettura puramente orizzontale, c’è da disperarsi. Non ci rimane altro che rimanere chiusi nelle nostre mormorazioni nelle nostre critiche. Eppure, no! Noi siamo educatori dei giovani. Sappiamo bene che questi giovani in questo nostro mondo stanno cercando punti di riferimento di un’umanità sana, di leaders politici capace di interpretare la realtà con dei criteri di giustizia e di pace. Ma quando i nostri giovani guardano attorno, sappiamo bene che colgono solamente il vuoto di una visione povera della vita.
Noi che siamo impegnati per la educazione dei giovani abbiamo una grossa responsabilità. Non basta commentare il buio che lascia un’assenza quasi completa di leadership. Non basta commentare che non ci sono proposte che hanno la capacità di infiammare la memoria dei giovani. Spetta ad ognuno e ad ognuna di noi accendere quella candela di speranza in questo buio, offrire esempi di umanità riuscita nella quotidianità.
Davvero vale la pena oggi essere profeti del perdono e della gratuità.




La sindrome di Filippo e quella di Andrea

Nel racconto del vangelo di Giovanni, capitolo 6, versetti 4-14, che presenta la moltiplicazione dei pani, abbiamo alcuni dettagli sui quali mi soffermo un po’ a lungo tutte quelle volte che io medito o commento questo brano.

Tutto inizia quando davanti alla “grande” folla affamata, Gesù invita i discepoli a prendere la responsabilità di darle da mangiare.
I dettagli di cui parlo sono, il primo, quando Filippo dice che non è possibile assumere questa chiamata a causa della quantità di gente presente. Andrea, invece, mentre fa notare che “c’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci” per poi sottovalutare questa stessa possibilità con un semplice commento: “ma che cos’è questo per tanta gente?” (v.9).
Desidero semplicemente condividere con voi, carissimi lettrici e lettori, come noi cristiani, che abbiamo la chiamata di condividere la gioia della nostra fede, alcune volte, senza saperlo, possiamo essere contagiati dalla sindrome di Filippo o da quella di Andrea. Qualche volta forse anche da ambedue!
Nella vita della Chiesa, come anche nella vita della Congregazione e della Famiglia Salesiana le sfide non mancano e non mancheranno mai. La nostra non è una chiamata a formare un gruppo di persone dove si cerca soltanto di stare bene, senza disturbare e senza essere disturbati. Non è una esperienza fatta di certezze prefabbricate. Fare parte del corpo di Cristo non ci deve distrarre e neanche toglierci dalla realtà del mondo, così com’è. Al contrario, ci spinge ad esserne pienamente coinvolti nelle vicende della storia umana. Ciò significa innanzitutto guardare la realtà con soltanto con gli occhi umani, ma anche, e soprattutto, con gli occhi di Gesù. Siamo invitati a rispondere guidato dall’amore che trova la sua fonte nel cuore di Gesù, cioè vivere per gli altri come Gesù ci insegna e ci mostra.

La sindrome di Filippo
La sindrome di Filippo è sottile e per questo motivo che è anche molto pericolosa. L’analisi che fa Filippo è giusta e corretta. La sua risposta all’invito di Gesù non è sbagliata. Il suo ragionamento segue una logica umana molto lineare e senza difetti. Guardava la realtà con i suoi occhi umani, con una mente razionale e, a conti fatti, non percorribile. Davanti a questo modo “ragionato” di procedere, l’affamato smette di interpellarmi, il problema è suo, non mio. Per essere più precisi alla luce di ciò che viviamo quotidianamente: il rifugiato poteva stare a casa sua, non deve disturbarmi; il povero e il malato se la vedono loro e non spetta a me essere parte del loro problema, tantomeno per trovare loro la soluzione. Ecco la sindrome di Filippo. È un seguace di Gesù, però la sua maniera di vedere e interpretare la realtà ancora è ferma, non sfidata, lontana anni luce di quella del suo maestro.

La sindrome di Andrea
Segue la sindrome di Andrea. Non dico che è peggio della sindrome di Filippo, ma ci manca poco per essere più tragica. È una sindrome fine e cinica: vede qualche possibile opportunità, però non va oltre. C’è una piccolissima speranza, però umanamente non è percorribile. Allora si giunge a squalificare sia il dono come anche il donatore. E il donatore a chi in questo caso tocca “sfortuna”, è un ragazzo che è semplicemente pronto a condivider quello che ha!
Due sindromi che sono ancora con noi, nella Chiesa e anche tra noi pastori e educatori. Stroncare una piccola speranza è più facile che dare spazio alla sorpresa di Dio, una sorpresa che può far sbocciare una seppur piccola speranza. Lasciarsi condizionare da clichés dominanti per non esplorare opportunità che sfidano letture ed interpretazioni riduttive, è una tentazione permanente. Se non stiamo attenti, diventiamo profeti ed esecutori della nostra stessa rovina. A forza di restare chiusi in una logica umana, “accademicamente” raffinata e “intellettualmente” qualificata, lo spazio ad una lettura evangelica diventa sempre più limitato, e finisce per sparire.
Quando questa logica umana e orizzontale è messa in crisi, per difendersi uno dei segni che suscita è quello del “ridicolo”. Chi osa sfidare la logica umana perché lascia entrare l’aria fresca del Vangelo, sarà riempito di ridicolo, attaccato, preso in giro. Quando questo è il caso, stranamente possiamo dire che siamo davanti ad una strada profetica. Le acque si muovono.

Gesù e le due sindromi
Gesù supera le due sindromi “prendendo” i pani considerati pochi e per conseguenza irrilevanti. Gesù apre la porta a quello spazio profetico e di fede che ci è chiesto di abitare. Davanti alla folla non possiamo accontentarci di fare letture e interpretazioni autoreferenziali. Seguire Gesù implica andare oltre il ragionamento umano. Siamo chiamati a guardare alle sfide con i suoi occhi. Quando Gesù ci chiama, da noi non chiede soluzioni ma donazione di tutto noi stessi, con ciò che siamo e ciò che abbiamo. Eppure, il rischio è che davanti alla sua chiamata rimaniamo fermi, per conseguenza schiavi, del nostro pensiero e avidi di ciò che crediamo di possedere.
Solo nella generosità fondata sull’abbandono alla sua Parola arriviamo a raccogliere l’abbondanza dell’agire provvidenziale di Gesù. “Essi quindi li raccolsero e riempirono dodici ceste di pezzi che di quei cinque pani d’orzo erano avanzati a quelli che avevano mangiato” (v.13): il piccolo dono del ragazzo fruttifica in maniera sorprendente solo perché i due sindromi non hanno avuto l’ultima parola.
Papa Benedetto così commenta questo gesto del ragazzo: “Nella scena della moltiplicazione, viene segnalata anche la presenza di un ragazzo, che, di fronte alla difficoltà di sfamare tanta gente, mette in comune quel poco che ha: cinque pani e due pesci. Il miracolo non si produce da niente, ma da una prima modesta condivisione di ciò che un semplice ragazzo aveva con sé. Gesù non ci chiede quello che non abbiamo, ma ci fa vedere che se ciascuno offre quel poco che ha, può compiersi sempre di nuovo il miracolo: Dio è capace di moltiplicare il nostro piccolo gesto di amore e renderci partecipi del suo dono” (Angelus, 29 luglio 2012).
Davanti alle sfide pastorali che abbiamo, davanti a tanta sete e fame di spiritualità che i giovani esprimono, cerchiamo di non aver paura, di non restare attaccati alle nostre cose, ai nostri modi di pensare. Offriamo quel poco che abbiamo a Lui, affidiamoci alla luce della sua Parola e che questa e solo questa sia il criterio permanente delle nostre scelte e la luce che guida le nostre azioni.

Foto: Miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci, vetrata dell’Abbazia Tewkesbury di Gloucestershire (Regno Unito), opera del 1888, realizzata dalla Hardman & Co




Messaggio di don Fabio Attard nella festa del Rettor Maggiore

Carissimi confratelli, carissimi collaboratori e collaboratrici delle nostre Comunità Educative Pastorali, carissimi giovani,

            Permettetemi di condividere con voi questo messaggio che viene dal profondo del mio cuore. Lo comunico con tutto l’affetto, l’apprezzamento e la stima che nutro per ognuno e ognuna di voi mentre siete impegnati nella missione di essere educatori, pastori e animatori dei giovani in tutti i continenti.
            Siamo tutti consapevoli che l’educazione dei giovani chiede sempre di più persone adulte significative, persone che hanno una spina dorsale moralmente solida, capace di trasmettere speranza e visione per il loro futuro.
            Mentre tutti ci troviamo impegnati a camminare con i giovani, accogliendoli nelle nostre case, offrendo loro opportunità educative di ogni tipo e di ogni genere, nella varietà degli ambienti che noi portiamo avanti, siamo anche consapevoli delle sfide culturali, sociali ed economici che dobbiamo affrontare.
            Accanto a queste sfide che fanno parte di ogni processo educativo pastorale, in quanto si tratta sempre di un dialogo continuo con le realtà terrene, riconosciamo che, come conseguenza delle situazioni di guerre e conflitti armati in varie parti del mondo, la chiamata che viviamo sta diventando più complessa e difficile. Tutto questo ha il suo effetto sull’impegno che noi stiamo portando avanti. È incoraggiante vedere che malgrado le difficoltà che dobbiamo affrontare, siamo determinati a continuare a vivere con convinzione la nostra missione.
            In questi ultimi mesi, il messaggio di Papa Francesco e adesso la parola di Papa Leone XIV continuamente stanno invitando il mondo a guardare in faccia questa dolorosa situazione che sembra come uno spirale che cresce in maniera spaventosa. Sappiamo che le guerre non producono mai pace. Siamo consapevoli, e alcuni di noi lo stanno vivendo in prima fila, che ogni conflitto armato e ogni guerra porta con sé sofferenza, dolore e aumenta ogni tipo povertà. Tutti conosciamo che coloro che alla fine pagano il prezzo di tali situazioni sono gli sfollati, gli anziani, i bambini e i giovani che si trovano senza presente e senza futuro.
            Per questo motivo carissimi confratelli e carissimi nostri collaboratori e giovani di tutto il mondo, vorrei gentilmente chiedervi che per la festa del Rettor Maggiore, che è una tradizione che risale al tempo di Don Bosco, ogni comunità attorno al giorno della festa del Rettor Maggiore celebri la santa Eucaristia per la pace.
            È un invito alla preghiera che trova la sua fonte nel sacrificio di Cristo, crocifisso e risorto. Una preghiera come testimonianza perché nessuno rimanga indifferente in una situazione mondiale scossa da un crescente numero di conflitti.
            Questo nostro è un gesto di solidarietà con tutti coloro, specialmente salesiani, laici e giovani, che in questo momento particolare, con grande coraggio e determinazione continuano a vivere la missione salesiana in mezzo a situazioni segnate da guerre. Sono salesiani, laici e giovani che chiedono e apprezzano la solidarietà di tutta la Congregazione, solidarietà umana, solidarietà spirituale, solidarietà carismatica.
            Mentre da parte mia e da parte di tutto il Consiglio Generale stiamo facendo tutto il possibile a essere molto vicini in maniera concreta a tutti, credo che in questo momento particolare vada dato tale segno di vicinanza e di incoraggiamento da parte di tutta la Congregazione.
            A voi carissimi nostri fratelli e carissime nostre sorelle in Myanmar, Ucraina, Medio Oriente, Etiopia, Est della Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Haiti e Centro America, vogliamo dirvi ad alta voce che siamo con voi. Vi ringraziamo per la vostra testimonianza. Vi assicuriamo la nostra vicinanza umana e spirituale.
            Continuiamo a pregare per il dono della pace. Continuiamo a pregare per questi nostri confratelli, laici e giovani che, vivendo in situazioni molto difficili, continuano a sperare e a pregare affinché la pace emerga. Il loro esempio, la donazione di sé stessi e la loro appartenenza al carisma di Don Bosco, è per noi una testimonianza forte. Essi, insieme a tante persone consacrate, sacerdoti e laici impegnati, sono i martiri moderni, cioè testimoni dell’educazione e dell’evangelizzazione, che malgrado tutto, come veri pastori e ministri della carità evangelica, continuano ad amare, credere e sperare per un futuro migliore.
            Tutti noi, questa chiamata alla solidarietà, la assumiamo con tutto il nostro cuore. Grazie.

Prot. 25/0243 Roma, 24 giugno 2025
don Fabio ATTARD,
Rettor Maggiore

Foto: shutterstock.com




Quando il Signore bussa

Un confratello mi ha detto: «Padre, abbiamo solo bisogno della tua vicinanza, del tuo ascolto, della tua preghiera. Questo ci consola, ci incoraggia e ci dà forza e speranza perché continuiamo a servire i giovani, poveri e feriti, impauriti e terrorizzati!»

Il 25 marzo 2025 la Chiesa celebra la solennità dell’annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria. Una delle solennità più significative per la fede cristiana. In questa solennità noi facciamo memoria dell’iniziativa di Dio che entra a far parte di quella storia umana che lui stesso ha creato. In quel giorno nella Santa Eucaristia noi recitiamo il credo e quando professiamo che il Figlio di Dio si è fatto uomo noi credenti ci inginocchiamo come segno di stupore per questa iniziativa meravigliosa di Dio davanti alla quale non ci resta che metterci in ginocchio.
Nella esperienza dell’annunciazione Maria ha paura: “Non temere Maria” le dice l’Angelo. Dopo che ha espresso le sue domande, essendo assicurata che si tratta del progetto di Dio per lei, Maria risponde con una semplice frase che rimane per noi oggi un richiamo è un invito. Maria, la Benedetta tra le donne, dice semplicemente: “Sia fatto di me secondo la tua parola”.
Il 25 marzo passato il Signore ha bussato sulla porta del mio cuore attraverso la chiamata che i miei fratelli al Capitolo Generale 29° mi hanno rivolto. Mi hanno chiesto di mettermi disponibile per assumere la missione di essere Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco, la Congregazione di San Francesco di Sales. Confesso che lì per lì sentivo il peso dell’invito, momenti che disorientano perché quello che il Signore stava chiedendomi non era una cosa leggera. Il punto è che quando arriva la chiamata, noi come credenti entriamo in quello spazio sacro dove sentiamo forte il fatto che è Lui che prende l’iniziativa. La strada davanti a noi è solo quella di semplicemente abbandonarsi nelle mani di Dio, senza se e senza ma. E tutto questo naturalmente non è facile.

«Vedrai come il Signore lavora»
In queste prime settimane mi sto ancora chiedendo come Maria che senso ha tutto questo? Poi pian piano comincio ad arrivare quella consolazione che una volta mi diceva un mio Ispettore: “quando il Signore chiama è Lui che prende l’iniziativa, da Lui dipende quello che si fa. Tu solo tieniti pronto e disponibile. Vedrai come il Signore lavora.”
Alla luce di questa esperienza personale ma di portata assai ampia, perché si tratta della Congregazione Salesiana e della Famiglia Salesiana, mi sono immediatamente rivolto ai miei cari fratelli Salesiani. Fin dal primo momento ho chiesto loro che mi accompagnino con la loro preghiera, la loro vicinanza il loro sostegno.
Devo confessare che queste prime settimane già sento che questa missione deve ispirarsi a Maria. Lei dopo l’annunzio dell’Angelo si mise in cammino a aiutare sua cugina Elisabetta. E così mi sono messo a servire i miei fratelli, ascoltarli, condividendo e rassicurando loro il sostegno di tutta la Congregazione, specialmente per coloro che vivono in situazioni di guerre, conflitti e povertà estreme.
Mi ha colpito il commento di un ispettore che con i suoi confratelli sta vivendo una situazione estremamente difficile. Dopo un colloquio molto fraterno mi disse: “Padre, abbiamo solo bisogno della tua vicinanza, del tuo ascolto, della tua preghiera. Questo ci consola, ci incoraggia e ci dà forza e speranza perché continuiamo a servire i giovani, poveri e feriti, impauriti e terrorizzati!” Dopo questo commento siamo rimasti in silenzio, lui e io, con qualche lacrima che scendeva dai suoi occhi e devo dire anche dai miei.
Finito l’incontro sono rimasto solo nel mio ufficio. Mi sono chiesto se questa missione che il Signore mi chiede di accettare non è forse quella di rendermi fratello accanto ai miei fratelli che soffrono ma sperano? Che combattono a fare il bene per i poveri e non hanno nessuna intenzione di smettere? Sentivo dentro di me una voce che mi diceva che vale la pena dire ‘sì’ quando il Signore bussa, costi quel che costi!




Discorso del Rettor Maggiore alla chiusura del Capitolo Generale 29

Carissimi confratelli,

            Arriviamo alla fine di questa esperienza del XXIX Capitolo Generale con un cuore colmo di gioia e di gratitudine per tutto quello che abbiamo potuto vivere, condividere e progettare. Il dono della presenza dello Spirito di Dio che ogni giorno abbiamo supplicato nella preghiera mattutina come anche durante i lavori per mezzo della conversazione nello Spirito, è stata la forza centrale dell’esperienza del Capitolo Generale. Il protagonismo dello Spirito lo abbiamo cercato e ci è stato donato abbondantemente.
            La celebrazione di ogni Capitolo Generale è come una pietra miliare nella vita di ogni congregazione religiosa. Questo vale anche per noi, per la nostra amatissima Congregazione Salesiana. È un momento che dà continuità al cammino che da Valdocco continua a essere vissuto con impegno e portato avanti con zelo e determinazione nelle varie parti del mondo.
            Arriviamo alla fine di questo Capitolo Generale con l’approvazione di un Documento Finale che ci servirà come carta di navigazione per i prossimi sei anni – 2025-2031. Il valore di tale Documento Finale lo vedremo e lo sentiremo nella misura che la stessa dedicazione nell’ascolto, la stessa premura di lasciarci accompagnare dallo Spirito Santo che hanno segnato queste settimane riusciamo a mantenerle dopo la conclusione di questa esperienza di pentecoste salesiana.
            Fin dall’inizio da quando il Rettor Maggiore don Angel Fernández Artime ha reso pubblica la Lettera di Convocazione del Capitolo Generale 29, 24 settembre 2023, ACG 441, chiare erano le motivazioni che dovevano guidare i lavori pre-capitolari e dopo anche i lavori dello stesso Capitolo Generale. Il Rettor Maggiore scrive che:

Il tema scelto è frutto di una ricca e profonda riflessione che abbiamo portato avanti nel Consiglio Generale sulla base delle risposte ricevute dalle Ispettorie e della visione che abbiamo della Congregazione in questo momento. Siamo stati piacevolmente sorpresi dalla grande convergenza e armonia che abbiamo trovato in tanti contributi delle Ispettorie, che avevano molto a che fare con la realtà che vediamo nella Congregazione, con il cammino di fedeltà che esiste in molti settori e anche con le sfide del presente. (ACG 441)

            Il processo di ascolto delle Ispettorie che ha portato all’individuazione del tema di questo Capitolo Generale è già una indicazione chiara di una metodologia di ascolto. Alla luce di quanto abbiamo vissuto in queste settimane si conferma il valore del processo dell’ascolto. La maniera come abbiamo prima individuato e poi interpretato le sfide che la Congregazione è determinata di affrontare ha evidenziato quel clima salesiano tipico nostro, spirito di famiglia, che non vuole evitare le sfide, che non cerca di uniformare il pensiero, ma che fa tutto il possibile per arrivare a quello spirito di comunione dove ognuno di noi possa riconoscere la via per essere il don Bosco oggi.
            Il punto focale delle sfide individuate ha a che fare con il “riferimento alla centralità di Dio (come Trinità) e di Gesù Cristo come Signore della nostra vita, senza mai dimenticare i giovani e il nostro impegno nei loro confronti” (ACG 441). Lo svolgimento dei lavori del Capitolo Generale testimonia non solo il fatto che abbiamo la capacità di individuare le sfide ma abbiamo anche trovato il modo di far emergere quella concordia e unità, riconoscendo a facendo tesoro del fatto che ci troviamo in continenti e contesti diversi, culture e lingue diverse. In più, questo clima conferma che quando noi oggi guardiamo la realtà con gli occhi e con il cuore di don Bosco, quando siamo davvero appassionati di Cristo e dedicati ai giovani, allora scopriamo che la diversità diventa ricchezza, che camminare insieme è bello anche se faticoso, che solo insieme possiamo affrontare le sfide senza paura.
            In un mondo frammentato da guerre, confitti e ideologie spersonalizzanti, in un mondo segnato da pensieri e modelli economici e politici che tolgono il protagonismo ai giovani, la nostra presenza è un segno, un «sacramento» di speranza. I giovani, senza distinzione di colore della pelle, di appartenenza religiosa o etnica, ci chiedono di promuovere proposte e luoghi di speranza. Sono figlie e figlio di Dio che da noi aspettano che siamo servi umili.
            Un secondo punto che è stato confermato e ribadito da questo Capitolo Generale è la condivisa convinzione che “se nella nostra Congregazione mancassero la fedeltà e la profezia, saremmo come la luce che non brilla e il sale che non dà sapore.” (ACG 441). Il punto qui non è tanto se vogliamo essere più autentici o meno, ma il fatto stesso che questa è l’unica strada che abbiamo ed è quella che qui in queste settimane è stata fortemente ribadita: crescere nella autenticità!
            Il coraggio mostrato in alcuni momenti del Capitolo Generale è una eccellente premessa per il coraggio che ci sarà chiesto nel futuro su altri temi che da questo Capitolo Generale sono usciti. Sono sicuro che questo coraggio qui ha trovato un terreno fertile, un ecosistema sano e promettente e che augura bene per il futuro. Avere coraggio significa non lasciare che la paura abbia l’ultima parola. La parabola dei talenti ce lo insegna in maniera chiara. A noi il Signore ci ha dato un solo talento: il carisma salesiano, concentrato nel Sistema Preventivo. Ad ognuno di noi sarà chiesto cosa abbiamo fatto di questo talento.

            Insieme, siamo chiamati a farlo fruttificare in contesti sfidanti, nuovi e inediti. Non abbiamo nessun motivo per seppellirlo. Abbiamo tante motivazioni, tante grida dei giovani che ci spingono ad «uscire» a seminare speranza. Questo passo coraggioso, pieno di convinzione lo ha già vissuto don Bosco a suo tempo e che oggi ci chiede di viverlo come lui e con lui.

Vorrei commentare alcuni punti che si trovano già nel Documento Finale e che credo che possano servire come frecce che ci incoraggiano nel cammino dei prossimi sei anni.

1. Conversione personale
            Il nostro cammino come Congregazione Salesiana dipende da quelle scelte personali, intime e profonde che ognuno di noi decide di fare. Allargando lo sfondo contro il quale bisogna riflettere sul tema della conversione personale, è importante ricordare come in questi anni dopo il Concilio Vaticano II, la Congregazione ha fatto un cammino di riflessione spirituale, carismatica e pastorale che è stato magistralmente commentato da don Pascual Chávez nei suoi interventi settimanali. Questa lettura e questo contributo arricchisce ulteriormente quella riflessione importante che ci ha lasciato il Rettor Maggiore don Egidio Viganó nella sua ultima lettera alla Congregazione: Come rileggere oggi il carisma del fondatore (ACG 352, 1995). Se oggi parliamo di un «cambio di epoca», don Viganó nel 1995 scriveva:

La rilettura del carisma del nostro Fondatore ci tiene impegnati ormai da ben trent’anni. Due grandi fari di luce ci hanno aiutato in questo impegno: il primo è il Concilio Ecumenico Vaticano II, il secondo è il cambio epocale di quest’ora di accelerazione della storia” (ACG 352, 1995).

            Faccio riferimento a questo cammino della Congregazione con le sue ricchezze e patrimonio perché il tema della conversione personale è quello spazio dove questo cammino della Congregazione trova la sua conferma e la sua ulteriore spinta. La conversione personale non è un affare intimistico, autoreferenziale. Non si tratta di una chiamata che tocca solo me in maniera distaccata da tutto e da tutti. La conversione personale è quell’esperienza singolare da dove poi uscirà e emergerà una rinnovata pastorale. Il cammino della Congregazione lo possiamo constatare perché trova nel cuore di ognuno di noi il suo punto di partenza. Da qui possiamo notare quel continuo e convinto rinnovamento pastorale. Papa Francesco in una frase condensa questa urgenza: “l’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, e la comunione «si configura essenzialmente come comunione missionaria»” (Christifideles laici n.32, Evangelii gaudium 23).
            Questo ci porta scoprire che quando stiamo insistendo sulla conversione personale dobbiamo fare attenzione a non cadere, da una parte, in una interpretazione intimistica della esperienza spirituale e dall’altra a non sottovalutare quello che è il fondamento di ogni cammino pastorale.
            In questa chiamata di rinnovata passione per Gesù, invito ogni salesiano e ogni comunità a prendere sul serio le scelte e gli impegni concreti che come Capitolo Generale abbiamo creduto urgenti per una più autentica testimonianza educativo pastorale. Crediamo che non possiamo crescere pastoralmente senza quell’atteggiamento di ascolto alla Parola di Dio. Riconosciamo che i vari impegni pastorali che abbiamo, le necessità sempre più crescenti che ci si presentano e che testimoniano una povertà che non si arresta mai, rischiano di toglierci il tempo necessario di «stare con Lui». Questa sfida già la troviamo fin dall’inizio della nostra Congregazione. Si tratta di avere chiare le priorità che rafforzano la nostra spina dorsale spirituale e carismatica che dà anima e credibilità alla nostra missione.
            Don Alberto Caviglia, quando commenta il tema della “Spiritualità Salesiana” nelle sue Conferenze sullo Spirito Salesiano scrive:

La meraviglia più grande che hanno avuto coloro che studiarono don Bosco per il processo di canonizzazione… fu la scoperta dell’incredibile lavoro di costruzione dell’uomo interiore.
Il Card. Salotti (…) riferendosi agli studi che andava facendo, diceva al S. Padre che «nello studiare i voluminosi processi di Torino, più che la grandezza esteriore dell’opera sua colossale, lo ha colpito la vita interiore dello spirito, da cui nacque e si alimentò tutto il prodigioso apostolato del Ven. Don Bosco».
Molti conoscono soltanto l’opera esterna che sembra così rumorosa, ma ignorano in gran parte quell’edificio sapiente, sublime di perfezione cristiana che egli aveva eretto pazientemente nell’anima sua coll’esercitarsi ogni giorno, ogni ora nella virtù propria del suo stato.

            Carissimi fratelli, qui abbiamo il nostro don Bosco. È questo don Bosco che oggi noi siamo chiamati a scoprire. L’Articolo n.21 delle nostre Costituzioni ce lo dice in maniera molto chiara:

Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia. Profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, ricolmo dei doni dello Spirito Santo, viveva “come se vedesse l’invisibile”.
Questi due aspetti si sono fusi in un progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani. Lo realizzò con fermezza e costanza, fra ostacoli e fatiche, con la sensibilità di un cuore generoso. “Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù…Realmente non ebbe a cuore altro che le anime” (Cost. 21).

            Mi piace qui ricordare un invito di Madre Teresa alle sue consorelle qualche anno prima di morire. La sua dedicazione e quella delle sue consorelle ai poveri è nota a tutti. Però ci fa bene ascoltare queste sue parole scritte alle sue consorelle:

Finché non riuscirai a sentire Gesù nel silenzio del tuo cuore, non riuscirai a sentirlo dire «Ho sete» nel cuore dei poveri. Non rinunciare mai a questo contatto intimo e quotidiano con Gesù come persona viva e reale, non solo come idea. (“Until you can hear Jesus in the silence of your own heart, you will not be able to hear him saying, “I thirst” in the hearts of the poor. Never give up this daily intimate contact with Jesus as the real living person – not just the idea”, in https://catholiceducation.org/en/religion-and- philosophy/the-fulfillment-jesus-wants-for-us.html)

            Solo ascoltando nel profondo del cuore a chi ci chiama a seguirlo, Gesù Cristo, possiamo davvero ascoltare con un cuore autentico coloro che ci chiamano a servirli. Se la motivazione radicale del nostro essere servi non trova le sue radici nella persona di Cristo, l’alternativa è che le nostre motivazioni siano nutriti dal terreno del nostro ego. E la conseguenza è che poi la nostra stessa azione pastorale finisce per inflazionare lo stesso ego. L’urgenza di recuperare lo spazio mistico, il terreno sacro dell’incontro con Dio, un terreno nel quale dobbiamo togliere i sandali delle nostre certezze e delle nostre maniere di interpretare la realtà con le sue sfide, in queste settimane è stato ribadito più volte e in varie maniere.
            Carissimi fratelli, qui abbiamo il primo passo. Qui diamo prova se vogliamo davvero essere figli autentici di don Bosco. Qui diamo prova se davvero amiamo e imitiamo don Bosco.

2. Conoscere don Bosco non solo amare don Bosco
            Siamo consapevoli che un’altra sfida centrale che abbiamo come Salesiani è quella di comunicare la buona novella con la nostra testimonianza e attraverso le nostre proposte educativo pastorali in una cultura che sta subendo un cambio radicale. Se nell’occidente parliamo della indifferenza alla proposta religiosa frutto della sfida della secolarizzazione, notiamo come in altri continenti la sfida prende altre forme, prima di tutto il cambio verso una cultura globalizzata che sposta radicalmente le scale di valori e stili di vita. In un mondo fluido e iperconnesso, quello che abbiamo conosciuto ieri, oggi è radicalmente cambiato: in breve qui si tratta del tema più volte accennato del cambio di epoca.
            Avendo questo cambiamento i suoi effetti a tutto campo, è positivo vedere come la Congregazione dal CGS (1972) fino ad oggi è in un continuo cammino di ripensamento e riflessione sulla sua proposta educativo pastorale. È un processo che risponde alla domanda “cosa farebbe don Bosco oggi, in una cultura secolarizzata e globalizzata come la nostra?”
            In tutto questo movimento riconosciamo come fin dalle sue origini la bellezza e la forza del carisma salesiano risiedono proprio nella sua capacità interna di dialogare con la storia dei giovani che in ogni epoca siamo chiamati a incontrare. Ciò che noi contempliamo a Valdocco, terra santa salesiana, è il soffio dello Spirito che ha guidato don Bosco e che riconosciamo che continua a guidare anche noi oggi. Le Costituzioni iniziano precisamente con questa fondante e fondamentale certezza:

Lo Spirito Santo suscitò, con l’intervento materno di Maria, san Giovanni Bosco.
Formò in lui un cuore di padre e di maestro, capace di una dedizione totale: “Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”.
Per prolungare nel tempo la sua missione lo guidò nel dar vita a varie forze apostoliche, prima fra tutte la nostra Società.
La Chiesa ha riconosciuto in questo l’azione di Dio, soprattutto approvando le Costituzioni e proclamando santo il Fondatore.
Da questa presenza attiva dello Spirito attingiamo l’energia per la nostra fedeltà e il sostegno della nostra speranza. (Cost. 1)

            Il carisma salesiano racchiude un invito innato a metterci di fronte ai giovani nello stesso modo in cui don Bosco si metteva di fronte a Bartolomeo Garelli… «suo amico»!
            Tutto questo sembra molto facile a dirlo, si presenta come un’esortazione amicale. In realtà, nasconde dentro di sé l’urgente invito a noi, figli di don Bosco, affinché nell’oggi della storia, là dove noi ci troviamo, riproponiamo il carisma salesiano in modo adeguato e significativo. Però, c’è una condizione indispensabile che ci permette di fare questo cammino: la conoscenza vera e seria di don Bosco. Non possiamo dire di «amare» veramente don Bosco, se non siamo impegnati seriamente a «conoscere» don Bosco.
            Spesso il rischio è di accontentarci con una conoscenza di don Bosco che non riesce a connettersi con le sfide attuali. Attrezzati solo con una conoscenza superficiale di don Bosco, siamo davvero poveri di quel bagaglio carismatico che ci rende autentici figli suoi. Senza conoscere don Bosco non possiamo e non arriviamo a incarnare don Bosco nelle culture dove siamo. Ogni sforzo che presume solo questa povertà di conoscenza carismatica risulta solamente in operazioni carismatiche di cosmesi, che alla fine sono un tradimento della stessa eredità di don Bosco.
            Se desideriamo che il carisma salesiano sia in grado di dialogare con la cultura attuale, le culture attuali, dobbiamo continuamente approfondirlo per sé stesso e alla luce delle sempre nuove condizioni in cui viviamo. Il bagaglio che abbiamo ricevuto all’inizio della nostra fase formativa iniziale se non è seriamente approfondito, oggi non è sufficiente, semplicemente è inutile, se non addirittura dannoso.
            In questa direzione, la Congregazione ha fatto e sta facendo un enorme sforzo per rileggere la vita di don Bosco, il carisma salesiano alla luce delle attuali condizioni sociali e culturali, in tutte le parti del mondo. È un patrimonio che abbiamo, ma corriamo il rischio di non conoscerlo perché non riusciamo a studiarlo come merita. La perdita di memoria rischia non solo farci perdere il contatto con il tesoro che abbiamo, ma rischia di farci anche credere che questo tesoro non esista. E questo sarà davvero tragico non tanto e soltanto per noi Salesiani, ma per quelle folle di giovani che ci stanno aspettando.
            L’urgenza di tale approfondimento non è solo di natura intellettualistica ma tocca la sete che esiste per una seria formazione carismatica dei laici nelle nostre CEP. Il Documento Finale questo tema lo tratta spesso e in maniera sistematica. I laici che oggi partecipano con noi alla missione salesiana sono persone desiderose di una più chiara proposta formativa salesianamente significativa. Non possiamo vivere questi spazi di convergenza educativo pastorale se il nostro linguaggio e il nostro modo di comunicare il carisma non hanno la capacità conoscitiva e la preparazione giusta per suscitare curiosità e attenzione da parte di coloro che vivono con noi la missione salesiana.
            Non basta dire che amiamo don Bosco. Il vero «amore» per don Bosco implica l’impegno di conoscerlo e studiarlo e non solo alla luce del suo tempo, ma anche alla luce del grande potenziale della sua attualità, alla luce del nostro tempo. Il Rettor Maggiore don Pascual Chávez, aveva invitato tutta la Congregazione e la Famiglia Salesiana perché i tre anni che hanno preceduto il «Bicentenario della nascita di don Bosco 1815-2013» fossero tempo di approfondimento della storia, pedagogia e spiritualità di don Bosco (Don Pascual CHÁVEZ, Aguinaldo 2012, “Conoscendo e imitando don Bosco, facciamo dei giovani la missione della nostra vita” ACG 412).
È un invito che è più che mai attuale. Questo Capitolo Generale è una chiamata e un’opportunità per rafforzare tale conoscenza del nostro Padre e Maestro.
            Riconosciamo carissimi fratelli, che a questo punto questo tema si collega con quello precedente – la conversione personale. Se non conosciamo don Bosco e se non lo studiamo, non possiamo comprendere le dinamiche e le fatiche del suo cammino spirituale e per conseguenza le radici delle sue scelte pastorali. Arriviamo ad amarlo solo superficialmente, senza la vera capacita di imitarlo come l’uomo profondamente santo. Soprattutto sarà impossibile inculturare oggi il suo carisma nei diversi contesti e nelle diverse situazioni. Solo rafforzando la nostra identità carismatica, potremo offrire alla Chiesa e alla società una testimonianza credibile e una proposta educativo pastorale significativa e rilevante ai giovani oggi.

3. Il cammino continua
            In questa terza parte vorrei incoraggiare tutte le Ispettorie a mantenere vive le attenzioni in alcuni settori che attraverso le varie Delibere e impegni concreti abbiamo voluto dare un segno di continuità.
            Il campo dell’animazione e il coordinamento dell’emarginazione e del disagio giovanile è stato un settore nel quale in questi decenni la Congregazione si è molto impegnata. Credo che la risposta da parte delle Ispettorie alla povertà crescente è un segno profetico che ci contraddistingue e che trova tutti noi determinati a continuare a rafforzare la risposta salesiana a favore dei più poveri.
            L’impegno della Ispettorie nel campo della promozione di ambienti sicuri continua a trovare una risposta sempre più crescente e professionale nelle Ispettorie. Lo sforzo in questo campo è una testimonianza che questa strada è quella giusta per affermare l’impegno per la dignità di tutti, specialmente i più vulnerabili.
            Il campo della ecologia integrale emerge come una chiamata per un maggior lavoro educativo e pastorale. La crescita dell’attenzione nelle comunità educative pastorali per i temi ambientali ci chiede un impegno sistematico per promuovere cambiamento di mentalità. Le varie proposte di formazione in questo ambito già presenti nella Congregazione vanno riconosciute, accompagnate e ulteriormente rafforzate.
            Ci sono poi due aree che vorrei invitare la Congregazione a considerare attentamente per i prossimi anni. Fanno parte di una visione più larga dell’impegno della Congregazione. Credo che siano due aree che avranno delle conseguenze sostanziali sui nostri processi educativo pastorali.

3.1 Intelligenza artificiale – una missione reale in un mondo artificiale
            Come Salesiani di don Bosco, siamo chiamati a camminare con i giovani in ogni ambiente in cui vivono e crescono, anche nel vasto e complesso mondo digitale. Oggi l’Intelligenza Artificiale (IA) si presenta come un’innovazione rivoluzionaria, in grado di plasmare il modo in cui le persone imparano, comunicano e costruiscono relazioni. Tuttavia, per quanto rivoluzionaria possa essere, l’IA rimane esattamente questo: artificiale. Il nostro ministero, radicato nell’autentica connessione umana e guidato dal Sistema Preventivo, è profondamente reale. L’intelligenza artificiale può assisterci, ma non può amare come noi. Può organizzare, analizzare e insegnare in modi nuovi, ma non potrà mai sostituire la dimensione relazionale e quella pastorale che definiscono la nostra missione salesiana.
            Don Bosco era un visionario, che non temeva l’innovazione, sia a livello ecclesiale come a livello educativo, culturale e sociale. Quando questa innovazione serviva al bene dei giovani don Bosco andava avanti con una velocità sorprendente. Sfruttava la stampa, i nuovi metodi educativi e i laboratori per elevare i giovani e prepararli alla vita. Se fosse tra noi oggi, senza dubbio guarderebbe all’IA con occhio critico e creativo. La vedrebbe non come un fine ma come un mezzo, uno strumento per amplificare l’efficacia pastorale senza perdere di vista la persona umana, sempre al centro.
            L’IA non è solo uno strumento: è parte della nostra missione di Salesiani che vivono nell’era digitale. Il mondo virtuale non è più uno spazio separato ma una parte integrante della vita quotidiana dei giovani. L’IA può aiutarci a rispondere alle loro esigenze in modo più efficiente e creativo, offrendo percorsi di apprendimento personalizzati, mentorship virtuale e piattaforme che favoriscono connessioni significative.
            In questo senso, l’IA diventa sia uno strumento che una missione, in quanto ci aiuta a raggiungere i giovani dove si trovano, spesso immersi nel mondo digitale. Pur abbracciando l’IA, dobbiamo riconoscere che è solo un aspetto di una realtà più ampia che comprende i social media, le comunità virtuali, la narrazione digitale e molto altro. Insieme, questi elementi formano una nuova frontiera pastorale che ci sfida a essere presenti e proattivi. La nostra missione non è semplicemente quella di utilizzare la tecnologia, ma di evangelizzare il mondo digitale, portando il Vangelo in spazi dove altrimenti potrebbe essere assente.
            La nostra risposta all’IA e alle sfide digitali deve essere radicata nello spirito salesiano di ottimismo e impegno proattivo. Continuiamo a camminare con i giovani, anche nel vasto mondo digitale, con cuori pieni di amore perché appassionati a Cristo e radicati nel carisma di don Bosco. Il futuro è luminoso quando la tecnologia è al servizio dell’umanità e quando

la presenza digitale è piena di autentico calore salesiano e impegno pastorale. Abbracciamo questa nuova sfida, fiduciosi che lo spirito di don Bosco ci guiderà in ogni nuova opportunità.

3.2 L’Università Pontificia Salesiana
            L’Università Pontificia Salesiana (UPS) è l’Università della Congregazione Salesiana, l’Università che appartiene a tutti noi. Costituisce una struttura di grande e strategica importanza per la Congregazione. La sua missione consiste nel far dialogare il carisma con la cultura, l’energia dell’esperienza educativa e pastorale di don Bosco con la ricerca accademica, così da elaborare una proposta formativa di alto profilo a servizio della Congregazione, della Chiesa e della società.
            Fin dagli inizi la nostra Università ha avuto un ruolo insostituibile nella formazione di tanti confratelli per ruoli di animazione e di governo e tuttora svolge questo compito prezioso. In un’epoca caratterizzata da disorientamento diffuso circa la grammatica dell’umano e il senso dell’esistenza, dalla disgregazione del legame sociale e dalla frammentazione dell’esperienza religiosa, da crisi internazionali e fenomeni migratori, una Congregazione come la nostra è urgentemente chiamata ad affrontare la missione educativa e pastorale usufruendo delle solide risorse intellettuali che si elaborano all’interno di una università.
            Come Rettor Maggiore e come Gran Cancelliere dell’UPS desidero ribadire che le due priorità fondamentali per l’Università della Congregazione sono la formazione di educatori e pastori, salesiani e laici, a servizio dei giovani e l’approfondimento culturale – storico, pedagogico e teologico – del carisma. Intorno a questi due assi portanti, che richiedono dialogo interdisciplinare e attenzione interculturale, l’UPS è chiamata a sviluppare il proprio impegno di ricerca, di insegnamento e di trasmissione del sapere. Mi rallegro pertanto che in vista del 150° anniversario dello scritto di don Bosco sul Sistema Preventivo sia stato avviato, in collaborazione con la Facoltà “Auxilium” delle FMA, un serio progetto di ricerca per mettere a fuoco l’ispirazione originaria della prassi educativa di don Bosco e per esaminare come essa ispiri oggi le pratiche pedagogiche e pastorali nella diversità dei contesti e delle culture.
            Il governo e l’animazione della Congregazione e della Famiglia Salesiana trarranno certamente benefici dal lavoro culturale dell’Università, così come lo studio accademico riceverà linfa preziosa mantenendo uno stretto contatto con la vita della Congregazione e il suo servizio quotidiano ai giovani più poveri di ogni parte del mondo.

3.3 150 anni – il viaggio continua
            Siamo chiamati rendere grazie e lode a Dio in questo anno giubilare della speranza perché in quest’anno ricordiamo l’impegno missionario di don Bosco che nell’anno 1875 trova un momento molto significativo di sviluppo. La riflessione che nella Strenna 2025 ci ha offerto il Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio, ci ricorda il tema centrale del 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco: riconoscere, ripensare e rilanciare.
            Alla luce del Capitolo Generale 29° che stiamo concludendo ci aiuta a mantenere vivo questo invito nel sessennio che ci spetta. Come dice il testo della Strenna 2025, siamo chiamati ad essere riconoscenti perché “la riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere.”
            Alla riconoscenza aggiungiamo il dovere del ripensare la nostra fedeltà, perché “la fedeltà comporta la capacità, di cambiare nell’obbedienza, verso una visione che viene da Dio e dalla lettura dei «segni dei tempi» … Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore?”
            Infine il coraggio di rilanciare, ricominciare ogni giorno. Come stiamo facendo in questi giorni, guardiamo lontano per “accogliere le nuove sfide, rilanciando la missione con speranza. (Perché la) Missione è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede.”

4. Conclusione
            Alla fine di questo discorso conclusivo vorrei presentare una riflessione di Tomáš HALÍK, tratta dal suo libro Il pomeriggio del cristianesimo (HALÍK, Tomáš, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare (Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2022). L’autore nell’ultimo capitolo del libro che porta il nome “La società della via”, presenta quattro concetti ecclesiologici.
            Credo che questi quattro concetti ecclesiologici possono aiutarci a interpretare positivamente le grandi opportunità pastorali che ci attendono. Questa riflessione la propongo con la consapevolezza che ciò che propone l’autore si trova intimamente legato al cuore del carisma salesiano. Colpisce e sorprende il fatto che più noi ci addentriamo a fare una lettura carismatico pastorale come anche pedagogica e culturale della realtà attuale, si conferma sempre di più la convinzione che il nostro carisma ci fornisce una solida base affinché i vari processi che stiamo accompagnando trovino la loro giusta collocazione in un mondo dove i giovani stanno aspettando che si offra loro speranza, gioia e ottimismo. È bene che riconosciamo con grande umiltà ma allo stesso tempo con un grande senso di responsabilità come il carisma di don Bosco continui a fornire linee guida oggi, non solo per noi, ma per tutta la Chiesa.

Chiesa come popolo di Dio in pellegrinaggio nella storia. Questa immagine delinea una Chiesa in movimento e alle prese con incessanti cambiamenti. Dio plasma la forma della Chiesa nella storia, le si rivela per mezzo della storia e le impartisce i suoi insegnamenti attraverso gli avvenimenti storici. Dio è nella storia (Id. p. 229).

            La nostra chiamata ad essere educatori e pastori consiste proprio nel camminare con il gregge in questa fase della storia, in questa società in continuo cambiamento. La nostra presenza nei vari “cortili della vita delle persone” è la presenza sacramentale di un Dio che vuole incontrare coloro che lo cercano senza saperlo. In questo contesto, “il sacramento della presenza” acquista per noi un valore inestimabile perché si intreccia con le vicende storiche dei nostri giovani e di tutti coloro che si rivolgono a noi nelle varie espressioni della missione salesiana – il CORTILE.

La ‘scuola’ è la seconda visione della Chiesa – scuola di vita e scuola di sapienza. Viviamo in un’epoca in cui nello spazio pubblico di molti Paesi europei non domina né una religione tradizionale né l’ateismo, ma prevalgono piuttosto agnosticismo, apateismo e analfabetismo religioso… In questa epoca è urgentemente necessario che la società cristiana si trasformi in una ‘scuola’ seguendo l’ideale originario delle università medievali, sorte come comunità di docenti e alunni, comunità di vita, preghiera e insegnamento (Id. pp. 231-232).

            Ripercorrendo il progetto educativo pastorale di don Bosco dalle sue origini, scopriamo come questa seconda proposta tocchi direttamente l’esperienza che attualmente offriamo ai nostri giovani: la scuola e la formazione professionale sia come luoghi sia come cammini esperienziali. Sono percorsi educativi come strumento indispensabile per dare vita a un processo integrale dove cultura e fede si incontrano. Per noi oggi questo spazio è una eccellente opportunità dove possiamo testimoniare la buona notizia nell’incontro umano e fraterno, educativo e pastorale con tante persone e, soprattutto, con tanti bambini e ragazzi perché essi sentano accompagnati verso un futuro dignitoso. L’esperienza educativa per noi pastori è uno stile di vita che comunica saggezza e valori in un contesto che incontra e va oltre la resistenza e che fa sciogliere la indifferenza con la empatia e la vicinanza. Camminare insieme promuove uno spazio di crescita integrale ispirato alla saggezza e ai valori del Vangelo – la SCUOLA.

La Chiesa come ospedale da campo…Troppo a lungo, faccia a faccia con le malattie della società, la Chiesa si è limitata a fare la morale; ora si trova davanti al compito di riscoprire e applicare il potenziale terapeutico della fede. La missione diagnostica dovrebbe essere svolta da quella disciplina per la quale ho proposto il nome di cairologia – l’arte di leggere e interpretare i segni dei tempi, l’ermeneutica teologica dei fatti della società e della cultura. La cairologia dovrebbe dedicare la sua attenzione alle epoche di crisi e di cambiamento dei paradigmi culturali. Dovrebbe sentirle come parte di una ‘pedagogia di Dio’, come il tempo opportuno per approfondire la riflessione sulla fede e rinnovarne la prassi. In un certo senso, la cairologia sviluppa il metodo del discernimento spirituale, che è una componente importante della spiritualità di sant’Ignazio e dei suoi discepoli; lo applica quando approfondisce e valuta lo stato attuale del mondo e i nostri compiti in esso (Id. pp. 233-234).

            Questo terzo criterio ecclesiologico va al cuore dell’approccio salesiano. Non siamo presenti nella vita dei bambini e dei giovani per condannarli. Ci rendiamo disponibili per offrire loro uno spazio sano di comunione (ecclesiale), illuminato dalla presenza di un Dio misericordioso che non pone condizioni a nessuno. Elaboriamo e comunichiamo le varie proposte pastorali proprio con questa visione di facilitare l’incontro dei giovani con una proposta spirituale capace di illuminare i tempi in cui vivono, di offrire loro una speranza per il futuro. La proposta della persona di Gesù Cristo non è frutto di uno sterile confessionalismo o cieco proselitismo, ma la scoperta di una relazione con una persona che offre amore incondizionato a tutti. La nostra testimonianza e quella di tutti coloro che vivono l’esperienza educativo pastorale, come comunità, è il segno più eloquente e il messaggio più credibile dei valori che vogliamo comunicare per poterli condividere – la CHIESA.

Il quarto modello di Chiesa… è necessario che la Chiesa istituisca dei centri spirituali, luoghi di adorazione e contemplazione, ma anche di incontro e dialogo, dove sia possibile condividere l’esperienza della fede. Molti cristiani sono preoccupati del fatto che in un gran numero di Paesi si stia sfilacciando la rete delle parrocchie, che è stata costituita alcuni secoli fa in una situazione socio-culturale e pastorale completamente diversa e nell’ambito di una differente interpretazione di sé della Chiesa (Id. pp. 236-237).

            Il quarto concetto è quello di una “casa” capace di comunicare accoglienza, ascolto e accompagnamento. Una “casa” in cui si riconosce la dimensione umana della storia di ogni persona e, allo stesso tempo, si offre la possibilità di permettere a questa umanità di raggiungere la sua maturità. Don Bosco chiama giustamente “casa” il luogo in cui la comunità vive la sua chiamata perché, accogliendo i nostri giovani, sa assicurare le condizioni e le proposte pastorali necessarie affinché questa umanità cresca in modo integrale. Ogni nostra comunità, “casa”, è chiamata ad essere testimone dell’originalità dell’esperienza di Valdocco: una “casa” che intercetta la storia dei nostri giovani, offrendo loro un futuro dignitoso – la CASA.

            Nelle nostre Costituzioni, Art. 40 troviamo la sintesi di tutti questi “quattro concetti ecclesiologici”. È una sintesi che serve come invito e anche come incoraggiamento per il presente e il futuro delle nostre comunità educativo pastorali, delle nostre ispettorie, della nostra amatissima Congregazione Salesiana:

L’oratorio di don Bosco criterio permanente
            Don Bosco visse una tipica esperienza pastorale nel suo primo oratorio, che fu per i giovani casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria.
            Nel compiere oggi la nostra missione, l’esperienza di Valdocco rimane criterio permanente e di discernimento e rinnovamento di ogni attività e opera.

            Grazie.
            Roma, 12 aprile 2025




Con don Bosco. Sempre

Non è indifferente celebrare un Capitolo generale in un luogo o in un altro. Certamente, a Valdocco, nella “culla del carisma”, abbiamo l’opportunità di riscoprire la genesi della nostra storia e ritrovare l’originalità che costituisce il cuore della nostra identità di consacrati e apostoli dei giovani.

Nella cornice antica di Valdocco, in cui tutto parla delle nostre origini, sono quasi obbligato a fare memoria di quel dicembre del 1859, in cui don Bosco aveva preso una decisione incredibile, unica nella storia: fondare una congregazione religiosa con dei ragazzi.
Li aveva preparati, ma erano pur sempre giovanissimi. «Da molto tempo pensavo di fondare una Congregazione. Ecco giunto il momento di venire al concreto» spiegò con semplicità don Bosco. «Veramente questa Congregazione non nasce adesso: esisteva già per quell’insieme di Regole che voi avete sempre osservato per tradizione… Si tratta ora di andare avanti, di costituire normalmente la Congregazione e di accettarne le Regole. Sappiate però che vi saranno iscritti soltanto coloro che, dopo averci riflettuto seriamente, vorranno fare a suo tempo i voti di povertà, castità e obbedienza… Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra».
All’uscita dalla riunione ci fu un silenzio insolito. Ben presto, quando le bocche si aprirono, si poté costatare che don Bosco aveva avuto ragione a procedere con lentezza e prudenza. Alcuni borbottavano tra i denti che don Bosco voleva fare di loro dei frati. Cagliero misurava a grandi passi il cortile in preda a sentimenti contraddittori.
Ma il desiderio di «rimanere con don Bosco» ebbe il sopravvento nella maggioranza. Cagliero uscì nella frase che sarebbe diventata storica: «Frate o non frate, io rimango con don Bosco».
Alla «conferenza di adesione», che si tenne la sera del 18 dicembre, erano in 17.
Don Bosco convocò il primo Capitolo Generale il 5 settembre 1877 a Lanzo Torinese. I partecipanti erano ventitré e il Capitolo durò tre giorni interi.
Oggi, per il Capitolo numero 29, i capitolari sono 227. Sono arrivati da tutte le parti del mondo, in rappresentanza di tutti i salesiani.
All’apertura del primo Capitolo generale, Don Bosco disse ai nostri confratelli: «Il Divin Salvatore dice nel santo Vangelo che dove sono due o tre congregati nel suo nome, ivi si trova Egli stesso in mezzo a loro. Noi non abbiamo altro fine in queste radunanze che la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime redente dal prezioso Sangue di Gesù Cristo».  Possiamo quindi essere certi che il Signore sarà in mezzo a noi e che condurrà Egli le cose in modo tale che tutti si sentano a proprio agio.

Un cambiamento d’epoca
L’espressione evangelica: «Gesù chiamò quelli che voleva con sé e li mandò a predicare» (Mc 3,14-15), dice che Gesù sceglie e chiama quelli che vuole. Tra questi ci siamo anche noi. Il Regno di Dio si rende presente e quei primi Dodici sono un esempio e un modello per noi e per le nostre comunità. I Dodici sono persone comuni, con pregi e difetti, non formano una comunità di puri e neppure un semplice gruppo di amici.
Sanno, come ha detto Papa Francesco, che “Viviamo un cambiamento d’epoca più che un’epoca di cambiamenti”.  A Valdocco, in questi giorni, si respira un clima di grande consapevolezza. Tutti i confratelli sentono che questo è un momento di grande responsabilità.
Nella vita della maggioranza dei confratelli, delle ispettorie e della Congregazione ci sono molte cose positive, ma questo non basta e non può servire da “consolazione”, perché il grido del mondo, le grandi e nuove povertà, la lotta quotidiana di tante persone – non soltanto povere ma anche semplici e laboriose – si alza forte come richiesta di aiuto. Sono tutte domande che ci devono provocare e scuotere e non lasciarci tranquilli.
Con l’aiuto delle ispettorie attraverso la consultazione, crediamo di aver individuato da un lato i principali motivi di preoccupazione e dall’altro i segni di vitalità della nostra Congregazione, declinati sempre con i tratti culturali specifici di ogni contesto.
Durante il Capitolo proponiamo di concentrarci su cosa significhi per noi essere veramente salesiani appassionati di Gesù Cristo, perché senza questo offriremo buoni servizi, faremo del bene alle persone, aiuteremo, ma non lasceremo una traccia profonda.
La missione di Gesù continua e si rende visibile oggi nel mondo anche attraverso noi, suoi inviati. Siamo consacrati per costruire ampi spazi di luce per il mondo di oggi, per essere profeti. Siamo stati consacrati da Dio e posti alla sequela del suo amato Figlio Gesù, per vivere veramente come conquistati da Dio. Perciò ancora una volta l’essenziale si gioca tutto nella fedeltà della Congregazione allo Spirito Santo, vivendo, con lo spirito di Don Bosco, una vita consacrata salesiana incentrata in Gesù Cristo.
La vitalità apostolica, come vitalità spirituale, è impegno a favore dei giovani, dei ragazzi, nelle più svariate povertà, pertanto non ci si può fermare a offrire solo servizi educativi. Il Signore ci chiama a educare evangelizzando, portando la Sua presenza ed accompagnando la vita con opportunità di futuro.
Siamo chiamati a cercare nuovi modelli di presenza, nuove espressioni del carisma salesiano in nome di Dio. Questo sia fatto in comunione con i giovani e con il mondo, tramite “un’ecologia integrale”, nella formazione di una cultura digitale nei mondi abitati dai giovani e dagli adulti.
Ed è forte il desiderio e l’aspettativa che questo sia un Capitolo generale coraggioso, in cui si dicano le cose, senza perdersi in frasi corrette, ben confezionate, ma che non toccano la vita.
In questa missione non siamo soli. Sappiamo e sentiamo che la Vergine Maria è un modello di fedeltà.
È bello tornare con la mente e con il cuore al giorno della solennità dell’Immacolata Concezione del 1887 quando, due mesi prima della sua morte, Don Bosco disse ad alcuni Salesiani che, commossi, lo guardavano e ascoltavano: «Finora abbiamo camminato sul certo. Non possiamo errare; è Maria che ci guida».
Maria Ausiliatrice, la Madonna di Don Bosco, ci guida. Lei è la Madre di tutti noi ed è Lei che ripete, come a Cana di Galilea in quest’ora del CG29: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
La nostra Madre Ausiliatrice ci illumini e ci guidi, come fece con Don Bosco, ad essere fedeli al Signore e a non deludere mai i giovani, soprattutto quelli più bisognosi.




Nuovo Rettor Maggiore: Fabius Attard

Abbiamo la gioia di annunciare che don Fabius Attard è il nuovo Rettor Maggiore, l’undicesimo successore di don Bosco.

Brevissime informazioni del nuovo Rettor Maggiore:
Nato: 23.03.1959 a Gozo (Malta), diocesi di Gozo.
Noviziato: 1979-1980 a Dublin.
Professione perpetua: 11.08.1985 a Malta.
Ordinazione presbiterale: 04.07.1987 a Malta.
Ha svolto diversi incarichi pastorali e formativi all’interno della sua ispettoria di origine.
È stato per 12 anni il Consigliere generale per la Pastorale Giovanile, 2008-2020.
Dal 2020 è stato il Delegato del Rettor Maggiore per la Formazione Permanente dei salesiani e dei laici in Europa.
Ultima comunità di appartenenza: Roma CNOS.
Lingue conosciute: Maltese, Inglese, Italiano, Francese, Spagnolo.

Auguriamo un fruttuoso apostolato a don Fabio e le assicuriamo le nostre preghiere.




Siamo noi don Bosco, oggi

«Tu porterai a termine il lavoro che sto iniziando; io farò gli schizzi, tu disegnerai i colori» (Don Bosco)

Cari amici e lettori, membri della Famiglia Salesiana, nel saluto di questo mese sul Bollettino Salesiano mi concentrerò su un importantissimo evento che sta vivendo la Congregazione Salesiana: il 29° Capitolo Generale. Nel cammino della Congregazione Salesiana ogni sei anni si compie questa assise, la più importante che possa vivere la Congregazione.
Molte cose fanno parte della nostra vita, e molti eventi importanti questo anno giubilare ci sta donando; desidero però concentrarmi su questo perché, anche se apparentemente è lontano da noi, riguarda tutti noi.
Don Bosco, Il nostro Fondatore, era consapevole che non tutto sarebbe finito con lui, ma che il suo sicuramente sarebbe stato solo l’inizio di un lungo cammino da percorrere. A sessant’anni, un giorno del 1875, disse a don Giulio Barberis, uno dei suoi più stretti collaboratori: “Tu porterai a termine il lavoro che sto iniziando; io farò gli schizzi, tu disegnerai i colori […] Farò una copia approssimativa della Congregazione e lascerò a quelli che verranno dopo di me il compito di renderla bella”.
Con questa felice e profetica espressione, don Bosco disegnava il cammino che tutti siamo chiamati a compiere; ed in forma massima sta compiendo il Capitolo Generale dei Salesiani di don Bosco in questi tempi a Valdocco.

La profezia delle caramelle
Il mondo di oggi non è quello di don Bosco, ma c’è una caratteristica comune: è un tempo di profonde mutazioni. L’umanizzazione completa, equilibrata e responsabile nelle sue componenti materiali e spirituali era il vero obiettivo di don Bosco. Si preoccupava di riempire lo “spazio interiore” dei ragazzi, formare “teste ben fatte”, “cittadini onesti”. In questo è quanto mai attuale. Il mondo oggi ha bisogno di don Bosco.
All’inizio, per tutti c’è una domanda molto semplice: «Vuoi una vita qualunque o vuoi cambiare il mondo?» Ma si può ancora parlare di mete e di ideali, oggi? Quando smette di correre il fiume diventa una palude. Anche l’uomo.
Don Bosco non ha smesso di camminare. Oggi lo fa con i nostri piedi.
Aveva una convinzione riguardo ai giovani: «Questa porzione la più delicata e la più preziosa della umana società, su cui si fondano le speranze di un felice avvenire, non è per sé stessa di indole perversa… perché se accade talvolta che già siano guasti in quella età, il sono piuttosto per inconsideratezza, che non per malizia consumata. Questi giovani hanno veramente bisogno di una mano benefica, che prenda cura di loro, li coltivi, li guidi…»
Nel 1882 in una conferenza ai Cooperatori a Genova: «Col ritirare, istruire, educare i giovanetti pericolanti si fa un bene a tutta la società civile. Se la gioventù è bene educata avremo col tempo una generazione migliore». È come dire: solo l’educazione può cambiare il mondo.
Don Bosco aveva una capacità di visione quasi spaventosa. Non dice mai “finora”. Ma sempre “d’ora in poi”.
Guy Avanzini, eminente professore di Università, continua a ripetere: «La pedagogia del Ventunesimo secolo sarà salesiana, o non sarà».
Una sera del 1851, da una finestra del primo piano, don Bosco gettò tra i ragazzi una manciata di caramelle. Si accese una grande allegria, e un ragazzo vedendolo sorridere alla finestra gli gridò: «O don Bosco, se potesse vedere tutte le parti del mondo, e in ciascuna di esse tanti oratori!».
Don Bosco fissò nell’aria il suo sguardo sereno e rispose: «Chissà che non debba venire il giorno in cui i figli dell’oratorio non siano sparsi davvero per tutto il mondo».

Guardare distante
Ma cosa è un Capitolo Generale? Perché occupare queste righe su un tema che è specificamente delle Congregazione Salesiana?
Le costituzioni di vita dei Salesiani di don Bosco, all’articolo 146, così definiscono il Capitolo Generale:
“Il Capitolo generale è il principale segno dell’unità della Congregazione nella sua diversità. È l’incontro fraterno nel quale i salesiani compiono una riflessione comunitaria per mantenersi fedeli al Vangelo e al carisma del Fondatore e sensibili ai bisogni dei tempi e dei luoghi.
Per mezzo del Capitolo generale l’intera Società, lasciandosi guidare dallo Spirito del Signore, cerca di conoscere, in un determinato momento della storia, la volontà di Dio per un migliore servizio alla Chiesa”
.
Il Capitolo Generale non è quindi un fatto privato dei salesiani consacrati, ma un’importantissima assise che tutti ci riguarda, che tocca tutta la Famiglia Salesiana e coloro che hanno don Bosco dentro di loro, perché al centro ci sono le persone, la missione, il Carisma di don Bosco, la Chiesa e ciascuno di noi, di voi.
Al centro c’è la fedeltà a Dio e a don Bosco, nella capacità di vedere i segni dei tempi e dei differenti luoghi. Fedeltà che è un continuo movimento, rinnovamento, capacità di guardare lontano e di tenere, allo stesso tempo, i piedi ben piantati per terra.
Per questo si sono radunati circa 250 confratelli salesiani, da ogni parte del mondo, per pregare, pensare, confrontarsi e guardare distante…in fedeltà a don Bosco.
E poi dalla costruzione di questa visione, eleggere il nuovo Rettor Maggiore, il successore di don Bosco e il suo Consiglio Generale.
Non è una cosa fuori dalla tua vita, caro amico\a che leggi, ma dentro la tua esistenza e nel tuo “affetto” a don Bosco. Perché dirti questo? Perché tu accompagni tutto questo con la tua preghiera. La preghiera allo Spirito Santo che aiuti tutti i capitolari a conoscere la volontà di Dio per un migliore servizio alla Chiesa.
Penso che il CG29, ne sono certo, sarà tutto questo. Una esperienza di Dio per ripulire altre parti dello schizzo che Don Bosco ci ha lasciato, come sempre è stato fatto in tutti i Capitoli generali della storia della Congregazione, sempre fedeli al suo disegno.
Sicuri che anche oggi possiamo continuare a essere illuminati per essere fedeli al Signore Gesù nella fedeltà al carisma originale, con i volti, la musica e i colori di oggi.
Non siamo soli in questa missione e sappiamo e sentiamo che Maria, la Madre Ausiliatrice dei cristiani, l’Ausiliatrice della Chiesa, modello di fedeltà, sosterrà i passi di tutti noi.




Servi buoni fedeli e coraggiosi

In questo anno Giubilare, in questo mondo difficile, siamo invitati a metterci in piedi, ripartire e percorrere in novità di vita il nostro cammino di uomini e di credenti.

            Il profeta Isaia si rivolge a Gerusalemme con queste parole: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te» (Is. 60,1). L’invito del profeta – ad alzarsi perché viene la luce – appare sorprendente, perché è gridato all’indomani del duro esilio e delle numerose persecuzioni che il popolo ha sperimentato.
            Questo invito, oggi, risuona anche per noi che celebriamo questo anno Giubilare. In questo mondo difficile, anche noi siamo invitati a metterci in piedi, ripartire e percorrere in novità di vita il nostro cammino di uomini e di credenti.
            Tanto più ora che abbiamo avuto la grazia, si perché di grazia si tratta, di celebrare nel ricordo liturgico la Santità di Giovanni Bosco. Non facciamoci l’abitudine: don Bosco è un grande uomo di Dio, geniale e coraggioso, un infaticabile apostolo perché discepolo innamorato profondamente del Cristo. Per noi un padre!
            Nella vita avere un padre è importantissimo, nella fede, alla sequela del Cristo, è uguale: avere un grande padre è un dono inestimabile. Lo senti dentro di te e la sua esperienza credente smuove la tua vita. Se è così per don Bosco, perché non può esser cosi anche per me?
            Una domanda esistenziale che ci mette in movimento e ci cambia, nello spirito del Giubileo, diventando persone “rinnovate”, “cambiate”. Questo è il senso profondo della festa di don Bosco che abbiamo appena celebrato, per tutti noi: imitare non solo ammirare!
In questo anno Giubilare che stiamo vivendo, con il tema della Speranza, presenza di Dio, che ci accompagna, don Bosco è un riferimento chiaro e forte!
            Parlando della Speranza don Bosco scrive, come ho ripreso nel testo della Strenna per quest’anno:
            «Il salesiano» – diceva don Bosco, e parlando del salesiano parla ad ognuno di noi che leggiamo – «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime»; il sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica è il pensiero del paradiso come riflesso della buona coscienza con cui lavora e vive. «In ogni nostro ufficio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che Egli tiene minutissimo conto di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbondante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevole, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,2l)».
            «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo». E quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta la Congregazione, sembra suggerire addirittura una dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi un senso comunitario del paradiso!
            In piedi, Salesiani! Così ci chiede don Bosco.

«Salve, salvando salvati»
            Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito Santo.
            Don Bosco ha saputo tradurre nella sua vita l’energia della speranza sui due versanti: l’impegno per la santificazione personale e la missione di salvezza per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteristica centrale del suo spirito – la santificazione personale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando salvati». Sembra un gioco mnemonico detto così semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è profondo e indica come i due versanti della santificazione personale e della salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.
            Monsignor Erik Varden afferma: «Qui e ora, la speranza si manifesta come un barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà. In una poesia, Péguy descrive la speranza come la fiamma della lampada del santuario. Questa fiamma, dice, “ha attraversato la profondità delle notti”. Ci permette di vedere ciò che è ora, ma anche prevedere ciò che potrebbe essere. Sperare significa scommettere la propria esistenza sulla possibilità del divenire. È un’arte da praticare assiduamente nell’atmosfera fatalista e deterministica in cui viviamo”.
            Che Dio ci doni di poter vivere così questo anno Giubilare!
            Che possiamo tutti camminare in questo mese con questa visione che “brilla nelle tenebre”, con la Speranza nel cuore che è la presenza di Dio.
            Vi raccomando, in questo mese, la preghiera per la nostra Congregazione Salesiana, che si raduna in Capitolo Generale, accompagnateci tutti con la vostra preghiera ed il vostro pensiero, perché possiamo esser fedeli, come Salesiani, a quanto voleva don Bosco.




Strenna 2025. Ancorati alla speranza, pellegrini con i giovani

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI
1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO
1.1 Il Giubileo
1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana
2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA
2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana
2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna
2.3 Caratteristiche della speranza
2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica
2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro
2.3.3 La speranza non è un fatto privato
3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE
3.1 La speranza è un invito alla responsabilità
3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.
3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione
3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato
3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare
4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA
4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza
4.2 La speranza è arte della pazienza
5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO
5.1 Dio è l’origine della nostra speranza
5.1.1 Breve richiamo al sogno
5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza
5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco
5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco
5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine
6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

INTRODUZIONE. ANCORATI ALLA SPERANZA, PELLEGRINI CON I GIOVANI

Carissime sorelle e fratelli appartenenti ai diversi gruppi della Famiglia Salesiana di don Bosco, vi giunga il saluto più cordiale all’inizio di questo nuovo anno 2025!

Non è senza emozione che mi rivolgo a tutti e a ciascuno in questo tempo di grazia segnato da due importanti avvenimenti per la vita della Chiesa e per quella della nostra Famiglia: il Giubileo dell’anno 2025, iniziato solennemente il 24 dicembre scorso con l’apertura della porta santa della Basilica di San Pietro in Vaticano, e la ricorrenza del 150° anniversario della prima spedizione missionaria voluta dal nostro padre don Bosco, partita l’11 novembre 1875 alla volta dell’Argentina e di altri paesi del continente americano.

Si tratta di due importanti eventi che trovano nella speranza il loro punto di incontro. Infatti, papa Francesco ha indicato esattamente questa virtù come prospettiva nell’indire il Giubileo; allo stesso modo l’esperienza missionaria è foriera di speranza per tutti: per coloro che sono partiti (e partono) e per coloro che sono stati raggiunti dai missionari.

L’anno che ci è donato si presenta, dunque, ricco di spunti per la nostra crescita concreta e quotidiana, affinché la nostra umanità diventi feconda nell’attenzione agli altri… Questo avverrà solo nei cuori che mettono Dio al centro, al punto tale da poter affermare: «Prima di me ho messo te».

In questo mio commento cercherò di mettere in evidenza questi elementi, per approfondire, in chiave carismatica, quanto la Chiesa è invitata a vivere lungo questo anno, e porre l’accento su ciò che per noi, Famiglia di don Bosco, deve guidarci verso nuovi orizzonti.

1. INCONTRO A CRISTO NOSTRA SPERANZA PER RINNOVARE IL SOGNO DI DON BOSCO

Il titolo della Strenna comporta l’intreccio di due eventi: il giubileo ordinario dell’anno 2025 e il 150° anniversario della prima spedizione missionaria inviata da don Bosco in Argentina.

La concomitanza, che oso definire “provvidenziale”, dei due eventi rende il 2025 un anno decisamente straordinario per tutti noi e per i Salesiani di Don Bosco ancora di più. Infatti, nei mesi di febbraio, marzo e aprile ci sarà la celebrazione del Capitolo Generale 29° che porterà, tra le altre cose, all’elezione del nuovo Rettor Maggiore e del nuovo Consiglio generale.

Eventi globali e particolari, quindi, che ci coinvolgono a diverso titolo e che vogliamo vivere con profondità e intensità. Perché è proprio grazie a questi eventi che possiamo sperimentare la gioia di andare incontro a Cristo e l’importanza di rimanere ancorati alla speranza.

1.1 Il Giubileo

«Spes non confundit! La speranza non delude!»[1].

Così papa Francesco ci presenta il Giubileo. Che meraviglia! Che indicazione “profetica”!

Il Giubileo un pellegrinaggio per rimettere al centro della nostra vita e della vita del mondo Gesù Cristo. Perché lui è la nostra speranza. Lui è la Speranza della Chiesa e del mondo intero!

Siamo tutti consapevoli che oggi il mondo ha bisogno di quella speranza che ci mette in relazione con Gesù Cristo e con gli altri fratelli e sorelle. Serve quella speranza che ci rende pellegrini, che ci mette in movimento e che ci fa camminare.

Parliamo della speranza come riscoperta della presenza di Dio. Scrive Papa Francesco: «La speranza ricolmi il cuore!»[2], non solo scaldi il cuore, ma lo riempia, lo riempia in una misura traboccante!

1.2 L’anniversario della prima spedizione missionaria salesiana

E di questa speranza traboccante erano pieni i cuori dei partecipanti alla prima spedizione missionaria Salesiana in Argentina 150 anni fa.

Don Bosco da Valdocco getta il cuore oltre ogni confine, mandando i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda oltre ogni sicurezza umana, li manda per portare avanti ciò che lui aveva cominciato. Si mette in cammino con gli altri, sperando e infondendo speranza. Li manda e basta e i primi (giovani) confratelli partono e vanno. Dove? Nemmeno loro sanno! Ma si affidano alla speranza, obbediscono. Perché è la presenza di Dio che ci guida.

In quell’obbedienza ricca di entusiasmo trova nuova energia anche la nostra attuale speranza e ci spinge a metterci in cammino come pellegrini.

Ecco perché questo anniversario va celebrato: perché ci aiuta a riconoscere un dono (non una conquista personale, ma un dono gratuito, del Signore), ci permette di ricordare e, dal ricordo, di prendere forza per affrontare e costruire il futuro.

Viviamo quindi, oggi, per rendere possibile questo futuro e facciamolo nell’unico modo che riteniamo grande: condividendo con i giovani e con tutte le persone dei nostri ambienti (cominciando dai più poveri e dimenticati) il viaggio per andare incontro a Cristo nostra sola Speranza.

2. IL GIUBILEO: CRISTO NOSTRA SPERANZA

Giubileo è camminare insieme, ancorati in Cristo nostra speranza. Ma cosa vuol dire davvero?

Riprendo gli elementi della Bolla di indizione del Giubileo 2025 che mettono in evidenza alcune caratteristiche della speranza.

2.1 Pellegrini, ancorati alla speranza cristiana

Siamo convinti che niente e nessuno potrà separarci da Cristo[3]. Perché è a lui che vogliamo e dobbiamo rimanere aggrappati, ancorati. Non possiamo camminare senza la nostra ancora.

L’ancora della speranza è, dunque, Cristo stesso, che porta le sofferenze e le ferite dell’umanità sulla croce in presenza del Padre.

L’ancora, infatti, ha la forma della croce, e per questo veniva raffigurata anche nelle catacombe per simboleggiare l’appartenenza dei fedeli defunti a Cristo Salvatore.

Quest’ancora è già saldamente attaccata al porto della salvezza. Il nostro compito è quello di attaccare la nostra vita ad essa, la corda che lega la nostra nave all’àncora di Cristo.

Noi navighiamo sulle onde agitate del mare e abbiamo bisogno di ancorarci a qualcosa di solido. Ma il compito ormai non è più quello di gettare l’àncora e di fissarla al fondo marino. Il compito è quello di attaccare la nostra nave alla corda che, per così dire, pende dal Cielo, là dove l’àncora di Cristo è saldamente fissata. Attaccandoci a questa corda, ci attacchiamo all’àncora della salvezza e rendiamo la nostra speranza certa.

La speranza è certa quando la barca della nostra vita si attacca a quella corda che ci lega all’àncora che è fissata in Cristo crocifisso che sta alla destra del Padre cioè nella comunione eterna del Padre, nell’amore dello Spirito Santo[4].

Tutto è ben espresso nell’orazione liturgica della solennità dell’Ascensione del Signore:

«Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria»[5].

Lo scrittore e politico ceco Vaclay Havel definisce la speranza come uno stato d’animo, una dimensione dell’anima. Non dipende dall’osservazione preventiva del mondo, non si tratta di una previsione.

Byung-Chul Han aggiunge: “La speranza è un orientamento del cuore che trascende il mondo immediato dell’esperienza, è un ancoraggio da qualche parte oltre all’orizzonte.

Le radici della speranza si trovano dentro il trascendente: ecco perché non è la stessa cosa avere Speranza o essere soddisfatto perché le cose vanno bene. Potremmo pensare che sperare sia semplicemente voler sorridere alla vita perché lei a sua volta ti sorrida e invece no, dobbiamo andare più a fondo, dobbiamo percorrere quella corda che ci porta verso l’ancora.

La speranza è la capacità di ognuno di noi di lavorare per qualcosa perché è giusto farlo, non perché quel qualcosa avrà un successo garantito. Potrebbe essere un fallimento, potrebbe andar male: noi non speriamo vada bene, non siamo ottimisti. Lavoriamo perché questo accada. Ecco perché la speranza non è uguale all’ottimismo. La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che qualcosa ha senso indipendentemente dal suo risultato.

Fare qualcosa perché ha senso: ecco, in questo consiste la speranza che presuppone dei valori e presuppone la fede.

È questo che le dà la forza per vivere, e ci dà la forza per provare qualcosa ancora e ancora, anche nella disperazione[6].”

Ma come si può camminare restando ancorati? L’ancora ti zavorra, ti frena, ti fissa. Dove porta questo cammino? Porta all’eternità.

2.2 Speranza come cammino verso Cristo, cammino verso la vita eterna

La promessa di vita eterna, proprio per come è fatta a ciascuno di noi, non scavalca il cammino della vita, non è un salto in alto, non propone di salire su un razzo che si stacca da terra e vola nello spazio lasciando a terra la strada, la polvere del cammino, né lascia andare la nave alla deriva in mezzo al mare senza di noi.

Questa promessa è appunto un’ancora che si fissa nell’eterno, ma alla quale rimaniamo attaccati da una corda che viene a rendere salda la nave che attraversa il mare. Ed è proprio il fatto che essa è fissata in Cielo che permette alla nave di non rimanere ferma in mezzo al mare, ma di avanzare attraverso i flutti.

Se l’ancora di Cristo fissasse l’uomo al fondo del mare, tutti noi rimarremmo fermi dove siamo, magari tranquilli, senza problemi, ma fermi, senza viaggiare, senza andare avanti. Invece, proprio l’ancoraggio della vita al Cielo fa sì che la promessa che suscita la nostra speranza non arresta il cammino, non dà la sicurezza di un rifugio nel quale rinchiuderci e arrestarci, ma dona a noi una certezza nel camminare e nel continuare il cammino. La promessa di una meta certa, già raggiunta per noi da Cristo, rende saldo e deciso ogni passo nel cammino della vita.

È importante intendere il Giubileo come pellegrinaggio, come invito a mettersi in movimento, ad uscire da sé per andare verso Cristo.

Giubileo, allora, è da sempre sinonimo di cammino. Se desideri veramente Dio ti devi muovere, devi camminare. Perché il desiderio di Dio, la nostalgia di Dio ti muove per trovarLo e, contemporaneamente, conduce a ritrovare te stesso e gli altri.

«Siamo nati e non moriremo mai più»[7].

È bello e significativo il titolo della biografia della serva di Dio Chiara Corbella Petrillo. Sì, perché il nostro venire al mondo è orientato alla vita eterna. La vita eterna è una promessa che sfonda la porta della morte, aprendoci al “faccia a faccia con Dio”, per sempre. La morte è una porta che si chiude e allo stesso tempo un portone che si spalanca all’incontro definitivo con Dio!

Sappiamo quanto vivo in Don Bosco sia stato il desiderio del Cielo, proposto e condiviso gioiosamente con i giovani dell’Oratorio.

2.3 Caratteristiche della speranza

2.3.1 La speranza, tensione continua, pronta, visionaria e profetica

Gabriel Marcel[8], il cosiddetto filosofo della speranza ci insegna che la speranza si trova nel tessuto di un’esperienza continua, sperare significa dare credito ad una realtà in quanto portatrice di futuro.

Eric Fromm[9] scrive che la speranza non è un’attesa passiva, bensì una tensione continua, costante. È come una tigre, accovacciata che salta solo quando è il momento preciso.

Avere speranza è essere vigili in ogni momento, per ogni cosa che ancora non è successa. Speravano le vergini che attendevano lo sposo con le lampade accese, sperava don Bosco di fronte alle difficoltà e si inginocchiava a pregare.

La speranza è pronta nel momento in cui ogni cosa sta in procinto di nascere.

È vigile, attenta, in ascolto, in grado di guidare nel creare qualcosa di nuovo, nel dar vita al futuro in terra.

Per questo è “visionaria e profetica”. Focalizza la nostra attenzione verso ciò che non è ancora, è colei che aiuta a partorire qualcosa di nuovo.

2.3.2 La speranza è scommessa sul futuro

Senza speranza non c’è rivoluzione, né futuro, c’è solo un presente fatto di sterile ottimismo.

Spesso si pensa che chi spera sia un ottimista mentre il pessimista sia essenzialmente il suo opposto. Non è così. È importante non confondere la speranza con l’ottimismo. La speranza è molto più profonda, perché non dipende da umori, sensazioni o sentimentalismi. L’essenza dell’ottimismo è la positività innata. L’ottimista vive convinto che in qualche modo le cose miglioreranno. Per un ottimista il tempo è chiuso, non contempla il futuro: tutto andrà bene e basta.

Paradossalmente anche per il pessimista il tempo è chiuso: si ritrova intrappolato nel presente come in una prigione, nega tutto senza avventurarsi in altri mondi possibili. Il pessimista è testardo quanto l’ottimista, entrambi sono ciechi alle possibilità, perché il possibile gli risulta alieno, manca loro la passione per il possibile.

A differenza di entrambi la speranza scommette su quello che può andare oltre su quello che potrebbe essere.

E ancora, l’ottimista (così come il pessimista), non agisce, perché ogni azione comporta un rischio e dal momento che non vuole correre questo rischio, è fermo, non vuole fare esperienza del fallimento.

La speranza invece si muove per cercare, tenta di trovare una direzione, si dirige verso ciò che non conosce, fa rotta verso cose nuove. Questo è il pellegrinare di un cristiano.

2.3.3 La speranza non è un fatto privato

Tutti noi portiamo nel cuore delle speranze. Non è possibile non sperare, ma è anche vero che ci si può illudere, considerando prospettive e ideali che non si realizzeranno mai, che sono solo delle chimere e specchietti per le allodole.

Molto della nostra cultura, specialmente occidentale, è piena di false speranze che illudono e distruggono o possono rovinare irrimediabilmente l’esistenza di singoli e di intere società.

Secondo il pensiero positivo basta sostituire i pensieri negativi con altri positivi per vivere più felici. Attraverso questo semplice meccanismo gli aspetti negativi della vita vengono omessi completamente e il mondo appare come un mercato di Amazon che ci fornirà qualunque cosa vogliamo grazie al nostro atteggiamento positivo.

Conclusione, se bastasse la nostra volontà di pensare positivamente per essere felice, allora ognuno sarebbe l’unico responsabile della propria felicità.

Paradossalmente, il culto alla positività isola le persone, le rende egoiste e distrugge l’empatia, perché le persone sono sempre più impegnate solo con sé stesse e non si interessano della sofferenza degli altri.

La speranza a differenza del pensiero positivo non evita la negatività della vita, non isola ma unisce e riconcilia, perché il protagonista della Speranza non sono io, focalizzato sul mio ego, trincerato esclusivamente su me stesso, il segreto della Speranza siamo noi.

Per questo, sorelle alla Speranza sono l’Amore, la Fede e la Trascendenza.

3. LA SPERANZA COME FONDAMENTO DELLA MISSIONE

3.1 La speranza è un invito alla responsabilità

La speranza è un dono e, come tale, va trasmesso a chiunque incontriamo lungo la nostra strada.

San Pietro lo afferma chiaramente: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»[10]. Ci invita a non aver paura, ad agire nella quotidianità, a rendere ragione – quanto spirito salesiano in questa parola “ragione”! – della speranza. È questa una responsabilità per il cristiano. Se siamo donne e uomini di speranza, si vede!

«Rendere ragione della speranza che è in noi», diventa annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

Ma perché è necessario rispondere a chiunque ci chieda conto della speranza che è in noi? E perché sentiamo il bisogno di ritrovare speranza?

Nella Bolla di indizione del Giubileo Spes non confundit, Papa Francesco ricorda che «tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti»[11].

Un’osservazione che colpisce perché descrive tutta la tristezza che si respira nelle nostre società e nelle nostre comunità. È una tristezza mascherata di falsa gioia, quella che costantemente ci viene annunciata, promessa e assicurata dai media, dalla pubblicità, dalla propaganda dei politici, da tanti falsi profeti del benessere. Accontentarsi del benessere ci impedisce di aprirci a un bene ben più grande, ben più vero, ben più eterno: quello che Gesù e gli apostoli chiamano “la salvezza dell’anima, la salvezza della vita”; un bene per il quale Gesù ci invita a non temere di perdere la vita, i beni materiali, le false sicurezze che spesso crollano in un istante.

Su queste “domande”, più o meno espresse (anche dai giovani), abbiamo il compito di «rendere ragione». Cosa desidero per i giovani e per tutte le persone che incontro sul mio cammino? Cosa vorrei chiedere a Dio per loro? Come vorrei che cambiasse la loro vita?

Esiste solo una risposta: la vita eterna. Non solo la vita eterna come uno stato sublime che possiamo raggiungere dopo la morte, ma la vita eterna possibile qui e ora, la vita eterna come la definisce Gesù̀: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo»[12], cioè una vita definita, illuminata dalla comunione con Cristo e, tramite Lui, con il Padre.

E a noi spetta il compito di accompagnare le generazioni più giovani in questo cammino verso la vita eterna, nell’azione educativa che ci contraddistingue. Un’azione che per noi Famiglia Salesiana è una missione. E cosa muove questa nostra missione? Sempre Cristo, nostra speranza.

La missione educativa, infatti, ha al centro la speranza.

In definitiva, la speranza di Dio non è mai speranza solo per sé. È sempre speranza per altri: non ci isola, ci rende solidali e ci stimola a educarci reciprocamente alla verità e all’amore.

3.2 La speranza domanda coraggio alla comunità cristiana nell’evangelizzazione.

Coraggio e speranza sono un abbinamento interessante. Infatti, se è vero che è impossibile non sperare, è altrettanto vero che per sperare è necessario il coraggio. Il coraggio nasce dall’avere lo stesso sguardo di Cristo, capace di sperare contro ogni speranza[13], di vedere soluzione anche là dove apparentemente sembrano non esserci vie d’uscita. E quanto è “salesiano” questo atteggiamento!

Tutto ciò richiede il coraggio di esser se stessi, di riconoscere la propria identità nel dono di Dio e investire le proprie energie in una responsabilità precisa. Consapevoli del fatto che, ciò che ci è stato affidato, non è nostro, e che abbiamo il compito di trasmetterlo alle prossime generazioni. Questo è il cuore di Dio questa è la vita della Chiesa.

Un atteggiamento che ritroviamo nella prima spedizione missionaria.

Ritengo molto utile il riferimento all’art. 34 delle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco: esso mette in evidenza ciò che sta al cuore del nostro movimento carismatico e apostolico. Suggerisco a ciascuno dei gruppi della nostra articolata e bella Famiglia di riprendere gli stessi elementi che qui offro, rileggendo le rispettive Costituzioni e Statuti.

L’articolo ha come titolo: Evangelizzazione e catechesi e recita così:

«“Questa società nel suo principio era un semplice catechismo”. Anche per noi l’evangelizzazione e la catechesi sono la dimensione fondamentale della nostra missione.

Come don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a esser educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero.

Camminiamo con i giovani per condurli alla persona del Signore risorto, affinché, scoprendo in Lui e nel suo Vangelo il senso supremo della propria esistenza, crescano come uomini nuovi.

La Vergine Maria è una presenza materna in questo cammino. La facciamo conoscere e amare come Colei che ha creduto, aiuta ed infonde speranza».

Questo articolo rappresenta il cuore pulsante che delinea bene, anche per questa Strenna, quali siano le energie e le opportunità come compimento e attualizzazione del “sogno globale” che Dio ha ispirato a Don Bosco.

Se vivere il Giubileo è anzitutto fare in modo che Gesù sia e torni ad essere al primo posto, lo spirito missionario è la conseguenza di questo riconosciuto primato, che, rafforza la nostra speranza e si traduce in quella carità educativa e pastorale che fa annunciare a tutti la persona di Gesù Cristo. Questo è il cuore dell’evangelizzazione e caratterizza l’autentica missione.

È significativo richiamare l’inizio della prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est:

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»[14].

Quindi, prioritario e fondamentale è l’incontro con Cristo, non la “semplice” diffusione di una dottrina, ma una profonda esperienza personale di Dio che spinge a comunicarLo, a farLo conoscere e sperimentare diventando veri “mistagoghi” della vita dei giovani.

3.3 «Da mihi animas»: lo “spirito” della missione

Don Bosco teneva sempre davanti agli occhi una frase che i giovani potevano leggere passando davanti alla sua camera, un’espressione che colpì particolarmente Domenico Savio: «Da mihi animas cetera tolle».

C’è un fondamentale equilibrio che unisce, in questo motto, le due priorità che hanno guidato la vita di don Bosco – e che significativamente chiamiamo “grazia di unità” – che ci consentono di salvaguardare sempre l’interiorità e l’azione apostolica.

Se nel cuore mancasse l’amore di Dio come potrà esserci vera carità pastorale? E allo stesso tempo, se l’apostolo non scoprisse il volto di Dio nel prossimo, come si potrebbe dire che ama Dio?

Il segreto di don Bosco è quello di aver vissuto personalmente l’unico «movimento di carità verso Dio e verso i fratelli»[15] che caratterizza lo spirito salesiano.

3.3.1 Gli atteggiamenti dell’inviato

Due i sogni-chiave della vita di Don Bosco, nei quali sono evidenti gli atteggiamenti dell’apostolo, di colui che è inviato:

  • il “sogno dei nove anni” nel quale a Giovannino Gesù e Maria chiedono di rendersi umile, forte e robusto con l’obbedienza e la scienza, raccomandandogli sempre la bontà per conquistare il cuore dei giovani e tenendo sempre Maria come maestra e guida;
  • il “sogno del pergolato di rose” che indica la “passione” nella vita salesiana che richiede di avere le “buone scarpe” della mortificazione e della carità.

3.3.2 Riconoscere, Ripensare e Rilanciare

Celebrare il 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco rappresenta un grande dono per

  • Riconoscere e ringraziare Dio.

La riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere. Tutte le volte che nella nostra vita personale ed istituzionale non riconosciamo un dono, rischiamo seriamente di vanificarlo e di “impadronircene.

  • Ripensare, perché “nulla è per sempre”.

La fedeltà comporta la capacità, di cambiare nell’obbedienza, verso una visione che viene da Dio e dalla lettura dei “segni dei tempi”. Nulla è per sempre: dal punto di vista personale e istituzionale la vera fedeltà è la capacità di cambiare, riconoscendo in cosa il Signore chiama ciascuno di noi.

Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore con questa persona, con questa situazione alla luce dei segni dei tempi che, per esser letti, chiedono di avere il cuore stesso di Dio?

  • Rilanciare, ricominciare ogni giorno.

La riconoscenza porta a guardare lontano e ad accogliere le nuove sfide, rilanciando la missione con speranza. Missione è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede, che fa riconoscere che quanto vedo e vivo “non è roba mia”.

4. UNA SPERANZA GIUBILARE E MISSIONARIA CHE SI TRADUCE IN VITA CONCRETA E QUOTIDIANA

4.1 La speranza forza nel quotidiano che esige testimonianza

San Tommaso D’Aquino scrive: «Spes introducit ad caritatem»[16], la speranza prepara e predispone alla carità la nostra vita, la nostra umanità. Una carità che è anche giustizia, azione sociale.

La speranza ha bisogno della testimonianza. Siamo al cuore della missione, perché la missione non è fare cose, prima di tutto, ma è testimonianza di colui che ha vissuto un’esperienza e la racconta. Il testimone è portatore di una memoria, sollecita domande a chi lo incontra, porta stupore.

La testimonianza della speranza richiede una comunità, è opera di un soggetto collettivo ed è contagiosa, come è contagiosa la nostra umanità, perché la testimonianza è legame con il Signore.

La speranza nella testimonianza della missione è da costruire di generazione in generazione, tra adulti e giovani: questa è via di futuro. Nella nostra cultura il consumismo mangia il futuro, l’ideologia del consumo spegne tutto nel “qui ed ora”, nel “tutto e subito”. Il futuro però non puoi consumarlo, non puoi appropriarti di quanto è altro da te, non puoi appropriarti dell’altro[17].

Nella costruzione del futuro la speranza è la capacità di promettere e di mantenere le promesse… cosa splendida e rara nel nostro mondo. Promettere è sperare, mettere in movimento, per questo – come detto – la speranza è cammino, è l’energia stessa del cammino.

4.2 La speranza è arte della pazienza

Ogni vita, ogni dono, ogni cosa, per crescere, ha bisogno di tempo. Così anche i doni di Dio, richiedono tempo per maturare. Ecco perché nella nostra epoca in cui, tutto e subito, nel nostro “consumare” il tempo e la vita, ci è chiesto di dare fiato e forza alla virtù della pazienza: perché la speranza si realizza nella pazienza[18]. Speranza e pazienza, infatti, sono intimamente collegate.

La speranza comporta la capacità di saper aspettare, di attendere la crescita, quasi a dire che “una virtù tira l’altra”!

Affinché la speranza divenga realtà, si manifesti in senso compiuto, occorre pazienza. Nulla si manifesta in modo miracolistico, perché tutto è sottomesso alla legge del tempo. La pazienza è l’arte del contadino che semina e sa aspettare che il seme gettato cresca e porti frutto.

La speranza inizia in noi come attesa, e si esercita come attesa vissuta coscientemente nella nostra umanità. L’attesa è una dimensione molto importante dell’esperienza umana. L’uomo sa attendere, l’uomo è sempre in una dimensione di attesa, perché è la creatura che vive nel tempo in modo cosciente.

L’attesa umana è la vera misura del tempo, una misura che non è numerica, non è cronologica. Noi ci siamo abituati a calcolare l’attesa, a dire che abbiamo aspettato un’ora, che il treno è in ritardo di cinque minuti, che Internet ci ha fatto attendere quattordici interminabili secondi prima di rispondere al nostro clic, ma quando la misuriamo così, snaturiamo l’attesa, ne facciamo una cosa, un fenomeno staccato da noi stessi e da ciò che attendiamo. È come se l’attesa fosse qualcosa a sé, in sé, senza relazione. Invece l’attesa – siamo al punto cruciale – è relazione, è una dimensione del mistero della relazione.

Solo chi ha speranza, ha pazienza. Solo chi ha speranza diventa capace di “sopportare”, di “sostenere dal basso” le differenti situazioni che l’esistenza presenta. Chi sopporta attende, spera, e riesce a sopportare tutto, perché la sua fatica ha il senso dell’attesa, ha la tensione dell’attesa, l’energia amante dell’attesa.

Sappiamo che il richiamo alla pazienza e all’attesa comportano, a volte, l’esperienza della fatica, del lavoro, del dolore e della morte[19]. Ebbene, fatica, dolore e morte smascherano l’illusione di possedere il tempo, il senso del tempo, il valore del tempo, il senso e il valore della nostra vita. Sono esperienze negative, ma anche positive, perché la fatica, il dolore e la morte possono essere occasioni per ritrovare il vero senso del tempo della vita.

E, ancora una volta, «rendere ragione della speranza che è in noi», diventando annuncio della “buona novella” di Gesù e del suo Vangelo.

5. L’ORIGINE DELLA NOSTRA SPERANZA: DA DIO A DON BOSCO

Don Egidio Viganò ha offerto alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana un’interessante riflessione sul tema della speranza, attingendo alla nostra ricchissima tradizione ed evidenziando alcuni caratteri specifici dello spirito salesiano letti alla luce di questa virtù teologale. In modo particolare fece questo, commentando, per le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il sogno dei dieci diamanti di don Bosco[20].

Vista la profondità dei contenuti proposti, mi pare utile ricordare il contributo del VII Successore di don Bosco per richiamare alla nostra memoria ciò che, sempre nella prospettiva della speranza, siamo tutti chiamati a vivere.

5.1 Dio è l’origine della nostra speranza

5.1.1 Breve richiamo al sogno

È a tutti nota la narrazione di questo straordinario sogno che don Bosco ebbe a San Benigno Canavese la notte tra il 10 e l’11 settembre 1881. Ne richiamo sinteticamente la struttura.[21]

Il Sogno si svolge in tre scene. Nella prima il Personaggio incarna il profilo del salesiano: nel lato anteriore del suo manto presenta cinque diamanti, tre sul petto, che sono «Fede» «Speranza» e «Carità», e due sulle spalle, che sono «Lavoro» e «Temperanza»; nel lato posteriore presenta altri cinque diamanti, che indicano «Obbedienza» «Voto di Povertà» «Premio» «Voto di Castità» «Digiuno».

Don Rinaldi definisce questo Personaggio coi dieci diamanti: «Il modello del vero Salesiano».

Nella seconda scena il Personaggio mostra l’adulterazione del modello: il suo manto «era divenuto scolorato, tarlato e sdruscito. Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece un profondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti».

Questa scena tanto triste e deprimente mostra «il rovescio del vero salesiano», l’antisalesiano.

Nella terza scena appare «un avvenente giovanetto vestito di abito bianco lavorato con fili d’oro e d’argento [… dall’] aspetto maestoso, ma dolce ed amabile». Egli è portatore di un messaggio. Esorta i Salesiani ad «ascoltare», a «intendere», a mantenersi «forti e animosi», a «testimoniare» con le parole e con la vita, ad «essere oculati» nell’accettazione e nella formazione delle nuove generazioni, a far crescere sanamente la loro Congregazione.

Le tre scene del sogno sono vivaci e provocatorie; ci presentano una sintesi agile, personalizzata e drammatizzata della spiritualità salesiana. Il contenuto del sogno comporta certamente, nella mente di Don Bosco, un importante quadro di riferimento per la nostra identità vocazionale.

Ebbene, il personaggio del sogno – come noto – porta sulla parte frontale il diamante della speranza, che sta a segnalare la certezza dell’aiuto dall’alto in una vita tutta creativa, impegnata cioè a progettare quotidianamente delle attività pratiche per la salvezza, soprattutto della gioventù. Insieme agli altri simboli legati alle virtù teologali, emerge la fisionomia di una persona saggia e ottimista per la fede che lo anima, dinamica e creativa per la speranza che lo muove, sempre orante e umanamente buono per la carità che lo permea.

In corrispondenza al diamante della speranza, sul retro della figura troviamo il diamante del “premio”. Se la speranza mette in luce visibilmente il dinamismo e l’attività del salesiano nella costruzione del Regno, la costanza dei suoi sforzi e l’entusiasmo del suo impegno si fondano sulla certezza dell’aiuto di Dio, reso presente dalla mediazione e dall’intercessione di Cristo e di Maria, il diamante del “premio” sottolinea piuttosto un atteggiamento costante della coscienza che permea ed anima tutto lo sforzo ascetico, secondo la familiare massima di don Bosco: «Un pezzo di paradiso aggiusta tutto!»[22].

5.1.2 Don Bosco “gigante” della speranza

Il salesiano – diceva Don Bosco – «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime»[23]; il sostegno interiore di questa esigente capacità ascetica è il pensiero del paradiso come riflesso della buona coscienza con cui lavora e vive. «In ogni nostro ufficio, in ogni nostro lavoro, pena o dispiacere, non dimentichiamo mai che […] Egli tiene minutissimo conto di ogni più piccola cosa fatta pel suo santo nome, ed è di fede, che a suo tempo ci compenserà con abbondante misura. In fin di vita, quando ci presenteremo al suo divin tribunale, mirandoci con volto amorevole, Egli ci dirà: “Bene, servo buono e fedele; perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore” (Mt 25,2l)»[24]. «Nelle fatiche e nei patimenti non dimenticare mai che abbiamo un gran premio preparato in cielo»[25]. E quando il nostro Padre dice che il salesiano stremato dal troppo lavoro rappresenta una vittoria per tutta la Congregazione, sembra suggerire addirittura una dimensione di fraterna comunione nel premio, quasi un senso comunitario del paradiso!

Il pensiero e la coscienza continua del paradiso sono una delle idee sovrane e uno dei valori di spinta della tipica spiritualità e anche della pedagogia di Don Bosco. È come un far luce e un approfondire l’istinto fondamentale dell’anima che tende vitalmente al proprio fine ultimo.

In un mondo soggetto alla secolarizzazione e alla progressiva perdita del senso di Dio – specialmente a causa del benessere e di certo progresso – è importante resistere alla tentazione – per noi e per i giovani con i quali camminiamo – che ci impedisce di alzare lo sguardo verso il Paradiso e non ci fa sentire il bisogno di sostenere e nutrire un impegno di ascesi vissuto nel lavoro quotidiano. Al suo posto va crescendo uno sguardo temporale, secondo un più o meno elegante orizzontalismo, che crede di saper scoprire l’ideale di tutto all’interno stesso del divenire umano e nella vita presente. Tutto il contrario della speranza!

Don Bosco è stato uno dei grandi della speranza. Ci sono tanti elementi per dimostrarlo. Il suo spirito salesiano è tutto permeato dalle certezze e dall’operosità caratteristiche di questo dinamismo audace di Spirito Santo.

Mi soffermo brevemente a ricordare come don Bosco abbia saputo tradurre nella sua vita l’energia della speranza sui due versanti: l’impegno per la santificazione personale e la missione di salvezza per gli altri; o meglio – e qui risiede una caratteristica centrale del suo spirito – la santificazione personale attraverso la salvezza degli altri. Ricordiamo la famosa formula delle tre “S”: «Salve, salvando salvati»[26]. Sembra un gioco mnemonico detto così semplicemente, a mo’ di slogan pedagogico, ma è profondo e indica come i due versanti della santificazione personale e della salvezza del prossimo siano strettamente legati tra loro.

Nel binomio “lavoro” e “temperanza” si percepisce che la speranza è stata vissuta da Don Bosco come progettazione pratica e quotidiana di un’instancabile operosità di santificazione e di salvezza. La sua fede lo porta a prediligere, nella contemplazione del mistero di Dio, il suo ineffabile disegno di salvezza. Vede nel Cristo il Salvatore dell’uomo e il Signore della storia; in sua Madre, Maria, l’Ausiliatrice dei cristiani; nella Chiesa, il grande Sacramento della salvezza; nella propria maturazione cristiana e nella gioventù bisognosa, il vasto campo del «non-ancora». Perciò il suo cuore erompe nel grido: «Da mihi animas», Signore concedimi di salvare la gioventù e toglimi pure il resto! La sequela del Cristo e la missione giovanile si fondono, nel suo spirito, in un unico dinamismo teologale che costituisce la struttura portante del tutto.

Sappiamo bene che la dimensione della speranza cristiana coniuga la prospettiva del “già” e del “non ancora”: qualcosa di presente e qualcosa in divenire che, tuttavia, a partire dall’oggi comincia a manifestarsi anche se “non ancora” in pienezza.

5.1.3 Caratteristiche della speranza in Don Bosco

La certezza del “già”

Quando noi domandiamo alla teologia qual è l’oggetto formale della speranza, ci risponde che è l’intima convinzione della presenza di Dio che aiuta, che soccorre e assiste; la certezza interiore circa la potenza dello Spirito Santo; l’amicizia con Cristo vittorioso che ci fa dire con San Paolo: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13).

Il primo elemento costitutivo della speranza è, dunque, la certezza del «già». La speranza stimola la fede a esercitarsi nella considerazione della presenza salvatrice di Dio nelle vicissitudini umane, della potenza dello Spirito nella Chiesa e nel mondo, della regalità di Cristo sulla storia, dei valori battesimali che in noi hanno iniziato la vita della risurrezione.

Il primo elemento costitutivo della speranza è, perciò, un esercizio della fede sull’essenza di Dio come Padre misericordioso e salvatore, su ciò che ha già fatto Gesù Cristo per noi, sulla Pentecoste come inizio dell’epoca dello Spirito Santo, su ciò che c’è già dentro di noi per il Battesimo, per i sacramenti, per la vita nella Chiesa, per l’appello personale della nostra vocazione.

Occorre riflettere che fede e speranza si interscambiano in noi, i loro dinamismi si stimolano e si completano a vicenda e ci fanno vivere nel clima creativo e trascendente della potenza dello Spirito Santo.

La chiara coscienza del “non-ancora”

Il secondo elemento costitutivo della speranza è la coscienza del «non-ancora». Non sembra molto difficile averla; però la speranza esige una chiara coscienza non tanto di ciò che è male e ingiusto, quanto di ciò che manca alla statura di Cristo nel tempo, e, quindi, di ciò che è ingiusto e peccato e anche di ciò che è immaturo, parziale o rachitico nella costruzione del Regno.

Ciò suppone, come quadro di riferimento, una chiara conoscenza del progetto divino di salvezza, su cui s’innesta la capacità critica e di discernimento da parte di colui che spera. Così la critica dell’uomo di speranza non è semplicemente psicologica o sociologica, ma trascendente, secondo l’orbita teologale della «nuova creatura»; si serve anche degli apporti delle scienze umane, e di gran lunga le oltrepassa.

Con la coscienza del «non-ancora», chi spera percepisce ciò che è male, ciò che non è ancora maturo, ciò che è seme in ordine al Regno di Dio e s’impegna per far crescere il bene e per combattere il peccato con la prospettiva storica di Cristo. La capacità di discernimento del «non-ancora» è misurata sempre dalla certezza del «già». Quindi e direi soprattutto nei tempi difficili, chi spera spinge e stimola la sua fede a scoprire i segni della presenza di Dio e le mediazioni che ci guidano nell’orbita da Lui tracciata. È questa una qualità molto importante oggi: saper individuare i semi per aiutarli a schiudersi e a crescere.

Come si fa a sperare se non c’è questa capacità di discernimento? Non basta saper percepire tutto il peso del male, bisogna essere sensibili anche alla primavera «che brilla d’intorno». Quindi in questi tempi, che noi diciamo difficili (e lo sono realmente, paragonandoli con quelli che abbiamo vissuto prima di una certa tranquillità), la speranza ci aiuta a percepire che c’è anche tanto bene nel mondo e che qualcosa sta crescendo.

L’operosità salvifica

Un terzo elemento costitutivo della speranza è la sua esigenza operativa accompagnata dall’impegno concreto di santificazione, di inventiva e di sacrificio apostolici. Bisogna collaborare con il “già” in crescita, urge muoversi per lottare contro il male in noi e negli altri, soprattutto nella gioventù bisognosa.

Il discernimento del “già” e del “non-ancora” ha bisogno di tradursi nella pratica della vita, aprendosi ai propositi, ai progetti, alla revisione, all’inventiva, alla pazienza e alla costanza. Non tutto risulterà “come speravamo”: ci saranno degli insuccessi, dei contrattempi, delle cadute, delle incomprensioni. La speranza cristiana partecipa connaturalmente anche alle oscurità della fede.

5.1.4 I “frutti” della speranza in Don Bosco

Dai tre elementi costitutivi della speranza, che ho appena indicato, derivano alcuni frutti particolarmente significativi per lo spirito salesiano di Don Bosco.

La gioia

Dal primo elemento costitutivo – la certezza del “già” – deriva come frutto più caratteristico la gioia. Ogni vera speranza esplode in gioia.

Lo spirito salesiano assume la gioia della speranza per una affinità tutta propria. Persino la biologia ce ne suggerisce qualche esempio. La gioventù che è speranza umana (e quindi suggerisce una certa analogia con il mistero della speranza cristiana), è avida di gioia. E noi vediamo Don Bosco tradurre la speranza in un clima di gioia per la gioventù da salvare. Domenico Savio, cresciuto alla sua scuola, diceva: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri». Non si tratta di un’ilarità superficiale propria del mondo, ma di un gaudio interiore, di un substrato di vittoria cristiana, di una sintonia vitale con la speranza, che esplode in allegria. Una gioia che procede, in definitiva, dalle profondità della fede e della speranza.

C’è poco da fare. Se siamo tristi è perché siamo superficiali. Capisco che c’è una tristezza cristiana: Gesù Cristo l’ha vissuta. Nel Getsemani la sua anima si è rattristata fino alla morte, ha sudato sangue. Si tratta certamente di un altro tipo di tristezza.

Però, l’afflizione o la malinconia per cui una suora ha l’impressione di non essere capita da nessuno, che le altre non la prendano in considerazione, che abbiano invidia o incomprensione delle sue qualità, ecc. è una tristezza che non si deve alimentare. A questa bisogna contrapporre la profondità della speranza: Dio è con me e mi vuole bene; che importa che altri non mi considerino tanto?

La gioia, nello spirito salesiano, è clima quotidiano; deriva da una fede che spera e da una speranza che crede, ossia da quel dinamismo di Spirito Santo che in noi proclama la vittoria che vince il mondo!… È indispensabile la gioia per testimoniare con autenticità quello in cui crediamo e speriamo.

Lo spirito salesiano è anzitutto e soprattutto questo e non una riduzione a sole osservanze e mortificazioni. La speranza ci porterà anche a fare molte mortificazioni, ma come allenamenti di volo e non come punzecchiature da prigione! Quindi: dalla speranza tanta gioia!

Il mondo cerca di superare la sua limitatezza e il suo disorientamento con una vita riempita di sensazioni eccitanti. Coltiva la promozione e la soddisfazione dei sensi, il film pungente, l’erotismo, la droga, ecc. È una maniera di evadere da una situazione caduca che sembra non avere senso, per cercare qualche cosa che sconfini verso una “caricatura di trascendenza”.

La pazienza

Un altro “frutto” della speranza – che procede dalla coscienza del “non-ancora” – è la pazienza. Ogni speranza comporta un indispensabile corredo di pazienza. La pazienza è un atteggiamento cristiano, legato intrinsecamente con la speranza nel suo non breve “non-ancora”, con i suoi guai, le sue difficoltà e le sue oscurità. Credere alla risurrezione e operare per la vittoria della fede, mentre si è mortali e immersi nel caduco, esige una struttura interiore di speranza che porta alla pazienza.

L’espressione più sublime di pazienza cristiana l’ha vissuta Gesù soprattutto durante la sua passione e morte. È una pazienza fruttuosa, precisamente per la speranza che la anima. Qui, nella pazienza, più che di iniziativa e di azione, si tratta di cosciente accettazione e di passività virtuosa che sopporta in vista della realizzazione del piano di Dio.

Lo spirito salesiano di Don Bosco ci ricorda sovente la pazienza. Nell’introduzione alle Costituzioni Don Bosco ricorda, alludendo a san Paolo, che le pene che dobbiamo sopportare in questa vita non hanno confronto con il premio che ci attende: «Era solito dire: “Coraggio! La speranza ci sorregga, quando la pazienza vorrebbe mancare”»[27]. «Ciò che sostiene la pazienza, dev’essere la speranza del premio»[28].

Anche madre Mazzarello insisteva su questo punto. Uno dei suoi primi biografi, il Maccono, afferma che la speranza la confortò sempre sostenendola nei suoi patimenti, nelle sue infermità, nei dubbi, e la rallegrò nell’ora della morte: «La sua speranza era molto viva e attiva. Mi pare – testificò una suora – che la speranza l’animasse in tutto e che ella cercasse di infonderla nelle altre. Ci esortava a portare bene le piccole croci giornaliere, e a fare tutto con grande purità d’intenzione»[29].

La speranza è madre della pazienza e la pazienza è difesa e scudo della speranza.

La sensibilità educativa

Dal terzo elemento costitutivo della speranza – “l’operosità salvifica” – procede un altro frutto: la sensibilità pedagogica. È una iniziativa d’impegno adeguato, sia nell’ambito della propria santificazione (sequela del Cristo), sia nell’ambito della salvezza degli altri (missione). Comporta impegno pratico, misurato e costante, tradotto da Don Bosco in una metodologia concreta che comporta queste attenzioni:

  • l’avvedutezza (o santa «furbizia»): quando si tratta di avere iniziative, di risolvere problemi, Don Bosco ce la mette tutta senza pretese di perfezionismo, ma con umile praticità; è ripetuta da lui molte volte la frase: «L’ottimo è nemico del bene»[30].
  • l’ardimento. Il male è organizzato, i figli delle tenebre agiscono con intelligenza. Il Vangelo ci dice che i figli della luce devono essere più scaltri e coraggiosi. Quindi, per lavorare nel mondo, bisogna armarsi di genuina prudenza, ossia di quell’«auriga virtutum» che ci rende agili, tempestivi e penetranti nell’applicazione di una vera intrepidezza nel bene.
  • la magnanimità. Non dobbiamo rinchiudere il nostro sguardo dentro le pareti di casa. Siamo stati chiamati dal Signore a salvare il mondo, abbiamo una missione storica più importante di quella degli astronauti o degli uomini di scienza… Siamo impegnati nella liberazione integrale dell’uomo. Il nostro animo deve aprirsi a visioni molto ampie. Don Bosco voleva che fossimo «all’avanguardia del progresso» (e si trattava, quando disse questa frase, di mezzi di comunicazione sociale).

Conosciamo la magnanimità di Don Bosco nel lanciare i giovani alle responsabilità apostoliche; pensiamo, per esempio, ai primi missionari partiti per l’America. Sia i Salesiani sia le Figlie di Maria Ausiliatrice erano poco più che ragazzi e ragazze!

Don Bosco si muoveva in orizzonti vasti. Non gli bastava né Valdocco né Mornese; non poteva rimanere solo dentro i limiti di Torino, del Piemonte, dell’Italia o dell’Europa. Il suo cuore palpitava con quello della Chiesa universale, perché si sentiva quasi investito della responsabilità di salvezza di tutta la gioventù bisognosa del mondo. Voleva che i Salesiani sentissero come propri tutti i più grandi e urgenti problemi giovanili della Chiesa per essere disponibili ovunque. E, mentre coltivava la magnanimità dei progetti e delle iniziative, era concreto e pratico nella loro realizzazione, con il senso della gradualità e con la modestia degli inizi.

Ecco sul volto del Salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, la magnanimità: non deve essere una testolina senza visioni, ma avere grandezza d’animo perché ha un cuore abitato dalla speranza.

Péguy, con la sua acutezza un po’ violenta, ha scritto: «Una capitolazione è in sostanza un’operazione in cui si incomincia a spiegare invece di attuare. I codardi sono stati sempre delle persone di molte spiegazioni». Sul volto salesiano deve sempre brillare, come nota di simpatia, anche la mistica della decisione e l’ardimento umile della praticità. Don Bosco era deciso negli impegni di bene, anche se non poteva incominciare con l’ottimo; diceva che le sue opere si iniziavano magari nel disordine per tendere poi verso l’ordine!

La speranza mette sul volto del Salesiano, accanto alla profondità della contemplazione, alla gioia della filiazione divina, all’entusiasmo della gratitudine e dell’ottimismo (che provengono dalla “fede”), anche il coraggio dell’iniziativa, lo spirito di sacrificio della pazienza, la saggezza della gradualità pedagogica, l’utopia della magnanimità, la modestia della praticità, la prudenza della furbizia e il sorriso dell’allegria.

5.2 La fedeltà di Dio: fino alla fine

Finora abbiamo dato uno sguardo a ciò che don Bosco e i nostri santi e beati hanno espresso chiaramente nelle loro esistenze. Si tratta di elementi che spingono ciascuno di noi personalmente e come Famiglia Salesiana a far emergere o – per riprendere le parole di don Egidio Viganò – far brillare quella speranza della quale siamo chiamati a «rendere ragione», soprattutto ai giovani e, tra questi, i più poveri.

È giunto il momento di “sbirciare” un po’ oltre ciò che è “immediatamente visibile” e cercare di conoscere ciò che attende la nostra vita e ci dà il coraggio di aspettare operosamente mentre collaboriamo alla venuta del “giorno del Signore”.

Quindi, sempre riprendendo l’analisi schietta e intensa del VII Successore di don Bosco, concentriamo la nostra attenzione sulla prospettiva del “premio”.

Il diamante del “premio” è collocato con altri quattro nella parte posteriore del manto del personaggio del sogno. È quasi un segreto, una forza che opera dal di dentro, che ci dà la spinta e ci aiuta a sorreggere e difendere i grandi valori visti nella parte anteriore. È interessante osservare che il diamante del “premio” è collocato sotto quello della “povertà”, perché ha certamente una relazione con le “privazioni” legate ad essa.

Sui suoi raggi si leggono le seguenti parole: «Se vi attrae la grandezza dei premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche». «Chi soffre con Me, con Me godrà». «È momentaneo ciò che soffriamo sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo».

Il vero Salesiano ha nella fantasia, nel cuore, nei desideri, negli orizzonti di vita la visione del premio, come pienezza dei valori proclamati dal Vangelo. Per questa ragione «è sempre lieto. Diffonde questa gioia e sa educare alla letizia della vita cristiana e al senso della festa»[31].

Nella casa di Don Bosco e nelle nostre case salesiane si parlava molto del Paradiso. Era un’idea permanente e onnipresente riassunta in alcuni famosi detti: «Pane, lavoro e Paradiso»[32]; «Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto»[33]. Sono frasi ricorrenti a Valdocco e a Mornese.

Certamente molte Figlie di Maria Ausiliatrice ricorderanno la descrizione fatta da madre Enrichetta Sorbone sullo spirito di Mornese: «Qui siamo in Paradiso, nella casa c’è un ambiente di Paradiso!»[34]. E non era certo a causa delle privazioni o della mancanza di problemi. Era come la traduzione spontanea, balzata dal cuore, del cartello che aveva fatto mettere Don Bosco: «Servite Domino in laetitia»[35].

Anche Domenico Savio aveva percepito lo stesso caldo e trascendente clima di vita: «Noi facciamo consistere la santità nello stare sempre allegri»[36].

Nelle biografie di Domenico Savio, Francesco Besucco e Michele Magone, Don Bosco, anche descrivendone l’agonia, ci tiene a sottolineare questa ineffabile gioia, unita a una vera ansia di Paradiso. Molto più che l’orrore della morte, i suoi ragazzi sentono l’attrattiva della Pasqua.

Il pensiero del premio è uno dei frutti della presenza dello Spirito Santo, ossia, dell’intensità della fede, della speranza e della carità, tutte e tre insieme, anche se è più strettamente legato alla speranza. Infonde nel cuore una gioia e una allegria che vengono dall’Alto e trovano una bella sintonia con le stesse tendenze innate del cuore umano. Lo constatiamo vivendo tra i ragazzi e le ragazze: la gioventù intuisce con maggior freschezza che l’uomo è nato per la felicità.

Ma non abbiamo neppure bisogno di andare a cercarlo tra i giovani. Prendiamo uno specchio e guardiamoci: ci basta ascoltare i battiti del nostro cuore. Siamo nati per raggiungere la felicità, l’aspettiamo anche senza confessarlo.

L’idea del Paradiso, sempre presente nella casa di Don Bosco, non è un’utopia per ingenui inganni, non è la carota che inganna il cavallo perché cammini più in fretta, è l’ansia sostanziale del nostro essere; ed è soprattutto la realtà dell’amore di Dio, della risurrezione di Gesù Cristo operante nella storia; è la presenza viva dello Spirito Santo che spingono, di fatto, verso il premio.

Don Bosco non disprezza nessuna gioia dei giovani. Al contrario, la suscita, la incrementa, la sviluppa. La famosa “allegria” in cui fa consistere la santità non è solo una gioia intima, nascosta nel cuore come frutto della grazia. Questa ne è la radice. Essa si esprime anche all’esterno, nella vita, nel cortile e nel senso della festa.

Come preparava le solennità religiose, gli onomastici, i giorni festivi dell’Oratorio! Si preoccupava persino di organizzare la celebrazione del proprio onomastico, non per sé, ma per creare un clima di riconoscenza gioiosa nell’ambiente.

Pensiamo alle coraggiose passeggiate autunnali: due o tre mesi per prepararle, 15 o 20 giorni per viverle; poi i prolungati ricordi e commenti: una gioia molto distesa nel tempo. Che fantasia e che coraggio! Da Torino ai Becchi, a Genova, a Mornese, a tanti paesi del Piemonte, con decine e decine di ragazzi… La passeggiata, il gioco, la musica, il canto, il teatro: sono elementi sostanziali del Sistema Preventivo che, anche come metodo pedagogico, suppone una spiritualità appropriata ed esplosiva, frutto di una fede, una speranza e una carità convinte, valori del cielo proprio qui sulla terra.

Sul firmamento di Valdocco s’affacciava sempre, di giorno e di notte, con nubi o senza nubi, il Paradiso. Testimoniare oggi i valori del premio è una profezia urgente per il mondo e soprattutto per la gioventù. La civiltà tecnico-industriale che cosa ha apportato alla società del consumo? Una enorme possibilità di comodità e di piacere, con una conseguente e pesante tristezza.

Tra l’altro leggiamo nelle Costituzioni dei Salesiani di Don Bosco – ma vale per ogni cristiano – che «il salesiano [è] un segno della forza della resurrezione» e che «nella semplicità e laboriosità della vita quotidiana» è «educatore che annuncia ai giovani “cieli nuovi e terra nuova”, stimolando in loro gli impegni e la gioia della speranza»[37].

A Mornese e a Valdocco non c’erano né comodità, né dittature e tutto respirava spontaneità e allegria. Il progresso tecnico ha facilitato oggi tante cose, ma non è aumentata la vera gioia dell’uomo. È cresciuta, invece, l’angustia, la nausea, si è acuita la mancanza di senso dell’esistenza che purtroppo continuiamo a rilevare – specialmente nelle società opulente – con la tragica statistica dei suicidi adolescenziali e giovanili.

Oggi oltre alla povertà materiale che affligge ancora una grandissima porzione di umanità, diventa urgente trovare il modo di far percepire alla gioventù il senso della vita, gli ideali superiori, l’originalità di Gesù Cristo.

Si cerca la felicità, tendenza fondamentale dell’uomo, ma non se ne conosce più la giusta strada, e allora va crescendo un’immensa disillusione.

I giovani, anche a causa della mancanza di adulti significativi, si sentono incapaci di affrontare la sofferenza, il dovere e l’impegno costante. Il problema della fedeltà agli ideali e alla propria vocazione è diventato cruciale. La gioventù si sente incapace di assumere sofferenze e sacrifici. Vive in un’atmosfera in cui trionfa il divorzio tra amore e sacrificio, in modo tale che la ricerca e il conseguimento del solo benessere finisce per asfissiare la capacità di amare e, quindi, di sognare il futuro.

Giustamente, come dicevamo, il diamante del premio è collocato sotto quello della povertà, quasi a indicarci che i due si completano e si sostengono a vicenda. Di fatto la povertà evangelica comporta una visione concreta e trascendente di tutta la realtà con un’ottica realista anche circa le rinunce, le sofferenze, i contrattempi, le privazioni e le pene.

Qual è l’energia interiore che fa affrontare tutto con fiducia e con volto ilare, senza scoraggiarsi? È, in definitiva, il senso della presenza del cielo sulla terra. Questo senso procede dalla fede, dalla speranza e dalla carità, che ci fanno rileggere tutta l’esistenza con l’ottica dello Spirito Santo.

Il mondo ha urgente bisogno di profeti che proclamino con la vita la grande verità del Paradiso. Non un’evasione alienante, ma un’intensa realtà stimolante!

Dunque, nello spirito di Don Bosco è costante la preoccupazione di curare la dimestichezza con il Paradiso, quasi a costituirne il firmamento della mente, l’orizzonte del cuore salesiano: lavoriamo e lottiamo sicuri di un premio, guardando alla Patria, alla casa di Dio, alla Terra promessa.

È bene precisare che la prospettiva del premio non consiste riduttivamente nel conseguimento di una “ricompensa”, di una sorta di consolazione per una vita vissuta in mezzo a tanti sacrifici, sopportazioni… Niente di tutto questo! Se fosse solo “ricompensa”, assomiglierebbe a un ricatto. Ma Dio non opera in questo modo. Nel Suo amore non può che offrire all’uomo Sé stesso. Questa – come afferma Gesù – è la vita eterna: la conoscenza del Padre. Dove “conoscere” significa “amare”, divenire pienamente partecipi di Dio, in continuità con l’esistenza terrena vissuta “in grazia”, ossia nell’amore a Dio e ai fratelli e alle sorelle.

In questo cammino siamo invitati a volgere lo sguardo a Maria, la quale si fa presente come aiuto quotidiano, come Madre precorritrice e ausiliatrice. Don Bosco è sicuro di questa sua presenza tra noi e vuole dei segni che ce lo ricordino.

Per Lei ha edificato una Basilica, centro di animazione e diffusione della vocazione salesiana. Voleva la Sua immagine nei nostri ambienti di vita; vincolava ogni iniziativa apostolica alla Sua intercessione e ne commentava con commozione la reale e materna efficacia. Ricordiamo, ad esempio, ciò che disse alle Figlie di Maria Ausiliatrice nella casa di Nizza: «La Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi! La Madonna passeggia in questa casa e la copre col suo manto»[38].

Oltre a Lei, cerchiamo nella casa di Dio anche altri amici. I nostri Santi e Beati, a cominciare dai volti a noi più familiari e che fanno parte del cosiddetto “giardino salesiano”.

Non facciamo queste scelte per dividere la grande casa di Dio in piccoli appartamenti privati, ma piuttosto per sentirci in essa più facilmente a casa nostra e poter parlare di Dio, del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Cristo e di Maria, della creazione e della storia, non con la trepidazione di chi ha ascoltato l’alta lezione di un pensatore denso, difficile e anche ermetico, ma con quel senso di familiarità e di gioiosa semplicità con cui si conversa con coloro che sono stati i nostri parenti, i nostri fratelli e le nostre sorelle, i nostri colleghi e i nostri compagni di lavoro. Alcuni di essi non li abbiamo conosciuti in vita, ma li sentiamo vicini e ci ispirano particolare fiducia. Parlare con san Giuseppe, con Don Bosco, con madre Mazzarello, con don Rua, con Domenico Savio, con Laura Vicuña, con don Rinaldi, con mons. Versiglia e don Caravario, con suor Teresa Valsè, con suor Eusebia Palomino, ecc., è proprio un dialogo “di casa”, di famiglia.

Ecco quanto ci suggerisce il diamante del premio: sentirsi a casa con Dio, con Cristo, con Maria, con i Santi; sentire la loro presenza nella propria casa, in un clima di famiglia che dà senso di Paradiso all’ambiente quotidiano di vita.

6. CON… MARIA, SPERANZA E PRESENZA MATERNA

Al termine di questo commento non possiamo che volgere il nostro cuore e il nostro sguardo alla vergine Maria, come ci ha insegnato don Bosco.

La speranza domanda fiducia, capacità di consegnarsi e di affidarsi.

In tutto ciò abbiamo una guida e una maestra in Maria Santissima.

Lei ci testimonia che sperare è affidarsi e consegnarsi, ed è vero tanto per l’esistenza come per la vita eterna.

In questo cammino la Madonna ci prende per mano, ci insegna come fidarci di Dio, come consegnarci liberamente all’amore trasmesso da suo Figlio Gesù.

L’indicazione e la “carta di navigazione” che ci presenta, è sempre la stessa: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»[39]. Un invito che ogni giorno assumiamo nella nostra vita.

In Maria scorgiamo la realizzazione del premio.

Maria incarna in sé l’attrattiva e la concretezza del Premio: Essa,

«finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo, perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte»[40].

Possiamo leggere sulle Sue labbra alcune belle espressioni provenienti da San Paolo. Siccome sono ispirate dallo Spirito Santo, Sposo di Maria, certamente sono da Lei condivise.

Eccole:

«Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze,né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore»[41].

Carissimi sorelle e fratelli, carissimi giovani,

Maria Ausiliatrice, Don Bosco e tutti i nostri Santi e Beati ci sono vicini in questo anno così straordinario. Siano loro ad accompagnarci a vivere con profondità le istanze del Giubileo, aiutandoci a mettere al centro della vita la persona di Gesù Cristo «il Salvatore annunciato nel Vangelo, che vive oggi nella Chiesa e nel mondo»[42].

Ci spingano, sull’esempio delle prime e dei primi missionari inviati da don Bosco, a fare sempre e ovunque della nostra vita un dono gratuito per gli altri, soprattutto per i giovani e tra loro quelli più poveri.

Per ultimo, un augurio: che quest’anno faccia crescere in noi la preghiera per la pace, per un’umanità pacificata. Invochiamo il dono della pace – lo shalom biblico – che contiene tutti gli altri e trova compimento solo nella speranza.

Un abbraccio fraterno

Don Stefano Martoglio S.D.B.

Vicario del Rettor Maggiore

Roma, 31 dicembre 2024


[1] Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, Città del Vaticano 9 maggio 2024.

[2] Ibi.

[3] Cf. Rm 8,39.

[4] Rm 5,3-5

[5] Messale romano, LEV, Roma 20203, 240.

[6] Byung-Chul Han, El espìritu de la esperanza, p.18, Herder, Barcellona 2024.

[7] C. Paccini – S. Troisi, Siamo nati e non moriremo mai più. Storia di Chiara Corbella Petrillo, Porziuncola, Assisi (PG) 2001.

[8] Gabriel Marcel, Philosophie der Hoffnung, Mùnich, List 1964.

[9] Erich Fromm, La revolucìonde la esperanza, Ciudad de México 1970.

[10] 1Pt 3,15.

[11] Francesco, Spes non confundit, 9.

[12] Gv 17,3.

[13] Cf. Rm 4,18.

[14] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus caritas est, Città del Vaticano 25 dicembre 2005, 1.

[15] Cost. SDB, 3.

[16] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIª-IIae q. 17 a. 8 co.

[17] Cf. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2023.

[18] Per queste riflessioni ho attinto alla ricca riflessione dell’Abate generale dell’Ordine dei Cistercensi M. G. Lepori, Capitoli dell’Abate Generale OCist al CFM 2024. Sperare in Cristo reperibile in più lingue al sito: www.ocist.org

[19] Cfr Rm, 5,3-5

[20] E. Viganò, Un progetto evangelico di vita attiva, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1982, 68-84.

[21] Cf. E. Viganò, Profilo del Salesiano nel sogno del personaggio dai dieci diamanti, in ACS 300 (1981), 3-37. L’intera narrazione del sogno è reperibile in ACS 300 (1981), 40-44; oppure in MB XV, 182-187.

[22] MB VIII, 444.

[23] Cost. SDB, 18.

[24] P. Braido (a cura di), Don Bosco Fondatore “Ai Soci Salesiani”(1875-1885). Introduzione e testi critici, LAS, Roma 1995, 159.

[25] MB V, 442.

[26] MB V, 409.

[27] MB XII, 458.

[28] Ibi.

[29] F. Maccono, Santa Maria Domenica Mazzarello. Confondatrice e prima Superiora Generale delle FMA. Vol. I, FMA, Torino 1960, 398.

[30] MB X, 893.

[31] Cost. SDB, 17.

[32] MB XII, 600.

[33] MB VIII, 444.

[34] Citato in E. Viganò, Riscoprire lo spirito di Mornese, in ACS (1981), 62.

[35] Sal 99.

[36] MB V, 356.

[37] Cost. SDB, 63. Si veda anche E. Viganò, «Rendere ragione della gioia e degli impegni della speranza, testimoniando le insondabili ricchezze di Cristo». Strenna 1994. Commento del Rettor Maggiore, Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 1993.

[38] G. Capetti, Il cammino dell’Istituto nel corso di un secolo. Vol. I, FMA, Roma 1972-1976, 122.

[39] Gv 2,5.

[40] LG, 59.

[41] Rm 8,34-39.

[42] Cost. SDB, 196.