Mons. Giuseppe Malandrino e il Servo di Dio Nino Baglieri

È tornato alla Casa del Padre, lo scorso 3 agosto 2025, nel giorno in cui si celebra la festa della Patrona della Diocesi di Noto, Maria Scala del Paradiso, monsignor Giuseppe Malandrino, IX vescovo della diocesi netina. 94 anni di età, 70 anni di sacerdozio e 45 anni di consacrazione episcopale sono numeri di tutto rispetto per un uomo che ha servito la Chiesa da Pastore con “l’odore delle pecore” come sottolineava spesso Papa Francesco.

Parafulmine dell’umanità
Nell’esperienza di pastore della Diocesi di Noto (19.06.1998 – 15.07.2007) ha avuto modo di coltivare l’amicizia con il Servo di Dio Nino Baglieri. Non mancava quasi mai una “sosta” a casa di Nino quando i motivi pastorali lo portavano a Modica. In una sua testimonianza mons. Malandrino dice: “…trovandomi al capezzale di Nino, avevo la percezione viva che questo nostro amato fratello infermo fosse veramente “parafulmine dell’umanità”, secondo una concezione dei sofferenti a me tanto cara e che ho voluto proporre anche nella Lettera Pastorale sulla missione permanente Mi sarete testimoni” (2003). Scrive mons. Malandrino: “È necessario riconoscere nei malati e sofferenti il volto di Cristo sofferente e assisterli con la stessa premura e con lo stesso amore di Gesù nella sua passione, vissuta in spirito di ubbidienza al Padre e di solidarietà ai fratelli”. Ciò è stato, pienamente incarnato dalla carissima mamma di Nino, la signora Peppina. Lei tipica donna siciliana, con un carattere forte e tanta determinazione, risponde al medico che gli propone l’eutanasia per suo figlio (viste le gravi condizioni di salute e la prospettiva di una vita da paralitico): “se il Signore lo vuole lo prende, ma se me lo lascia così sono contenta di accudirlo per tutta la vita”. La mamma di Nino, in quel momento era consapevole di quello a cui andava incontro? Maria, la madre di Gesù era consapevole di quanto dolore avrebbe dovuto soffrire, per il Figlio di Dio? La risposta, a leggerla con gli occhi umani, sembra non facile, soprattutto nella nostra società del XXI secolo dove tutto è labile, fluttuante, si consuma in un “istante”. Il Fiat di mamma Peppina divenne, come quello di Maria, un Sì di Fede e di adesione a quella volontà di Dio che trova compimento nel saper portate la Croce, nel saper dare “anima e corpo” alla realizzazione del Piano di Dio.

Dalla sofferenza alla gioia
Il rapporto di amicizia tra Nino e mons. Malandrino era già avviato quando quest’ultimo era ancora vescovo di Acireale, infatti già nel lontano 1993, per il tramite di Padre Attilio Balbinot, un camilliano molto vicino a Nino, lo omaggia del suo primo libro: “Dalla sofferenza alla gioia”. Nell’esperienza di Nino il rapporto con il Vescovo della sua diocesi era un rapporto di filiazione totale. Sin dal momento della sua accettazione del Piano di Dio su di lui, egli faceva sentire la propria presenza “attiva” offrendo le sofferenze per la Chiesa, il Papa e i Vescovi (nonché i sacerdoti e i missionari). Questo rapporto di filiazione veniva annualmente rinnovato in occasione del 6 maggio, giorno della caduta visto poi come inizio misterioso d’una rinascita. L’8 maggio 2004, pochi giorni dopo aver festeggiato Nino il 36.mo anniversario di Croce, mons. Malandrino si reca a casa sua. Egli in ricordo di quell’incontro scrive nelle sue memorie: “è sempre una grande gioia ogni volta che la vedo e ricevo tanta carica e forza per portare la mia Croce e offrila con tanto Amore per i bisogni della Santa Chiesa e in particolare per il mio Vescovo e per la nostra Diocesi, il Signore gli dia sempre più santità per guidarci per tanti anni sempre con più ardore e amore…”. Ancora: “… la Croce è pesante ma il Signore mi dona tante Grazie che rendono la sofferenza meno amara e diventa leggera e soave, la Croce si fa Dono, offerta al Signore con tanto Amore per la salvezza delle anime e la Conversione dei Peccatori…”. Infine, è da sottolineare come, in queste occasioni di grazia, non mancasse mai la pressante e costante richiesta di “aiuto a farsi Santo con la Croce di ogni giorno”. Nino, infatti, vuole assolutamente farsi santo.

Una beatificazione anticipata
Momento di grande rilevanza hanno rappresentato, in tal senso, le esequie del Servo di Dio il 3 marzo 2007, quando proprio mons. Malandrino, all’inizio della Celebrazione Eucaristica, con devozione si china, anche se con difficoltà, a baciare la bara che conteneva le spoglie mortali di Nino. Era un ossequio a un uomo che aveva vissuto 39 anni della sua esistenza in un corpo che “non sentiva” ma che sprigionava gioia di vivere a 360 gradi. Mons. Malandrino sottolineò che la celebrazione della Messa, nel cortile dei Salesiani divenuto per l’occasione “cattedrale” a cielo aperto, era stata un’autentica apoteosi (hanno partecipato migliaia di persone in lacrime) e si percepiva chiaramente e comunitariamente di trovarsi dinanzi non a un funerale, ma a una vera “beatificazione”. Nino, con la sua testimonianza di vita, era infatti diventato un punto di riferimento per tanti, giovani o meno giovani, laici o consacrati, madri o padri di famiglia, che grazie alla sua preziosa testimonianza riuscivano a leggere la propria esistenza e trovare risposte che non riuscivano a trovare altrove. Anche mons. Malandrino ha più volte sottolineato questo aspetto: «in effetti, ogni incontro con il carissimo Nino è stato per me, come per tutti, una forte e viva esperienza di edificazione e un potente – nella sua dolcezza – sprone alla paziente e generosa donazione. La presenza del Vescovo conferiva a lui ogni volta immensa gioia perché, oltre l’affetto dell’amico che veniva a visitarlo, vi percepiva la comunione ecclesiale. È ovvio che quanto ricevevo da lui era sempre molto di più quel poco che potevo donargli». Il “chiodo” fisso di Nino, era “farsi santo”: l’aver vissuto e incarnato appieno l’evangelo della Gioia nella Sofferenza, con i suoi patimenti fisici e il suo dono totale per l’amata Chiesa, hanno fatto sì che tutto non finisse con la sua dipartita verso la Gerusalemme del Cielo, ma continuasse ancora, come sottolineò mons. Malandrino alle esequie: “… la missione di Nino continua ora anche attraverso i suoi scritti, Egli stesso lo aveva preannunciato nel suo Testamento spirituale”: “… i miei scritti continueranno la mia testimonianza, continuerò a dare Gioia a tutti e a parlare del Grande Amore di Dio e delle Meraviglie che ha fatto nella mia vita”. Questo ancora si sta avverando perché non può stare nascosta “una città posta sopra un monte e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5,14-16). Metaforicamente si vuole sottolineare che la “luce” (intesa in senso lato) deve essere visibile, prima o poi: ciò che è importante verrà alla luce e sarà riconosciuto.
Riandare in questi giorni – segnati dalla morte di mons. Malandrino, dai suoi funerali ad Acireale (5 agosto, Madonna della Neve) e a Noto (7 agosto) con tumulazione a seguire nella cattedrale di cui egli stesso volle fortemente la ristrutturazione dopo il crollo del 13 marzo1996 e che fu riaperta nel marzo 2007 (mese in cui Nino Baglieri morì) – significa ripercorrere questo legame tra due grandi figure della Chiesa netina, fortemente intrecciate ed entrambe capaci di lasciare in essa un segno che non passa.

Roberto Chiaramonte




Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza

Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.

Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica.
Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio.
Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.

Le origini a Tagaste
Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale.
La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).

Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.

A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza.
Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire.
La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.

Monica madre
Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime.
Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).

Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).

Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita?
In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana.
Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato.
Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.

L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio.
Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.

Tenacità di una madre
La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile.
A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.

La conversione di Agostino
Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa.
Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).

Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14).
Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni.
La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.

Ostia: l’estasi e la morte
Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo.
Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena.
Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia.
Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.

Il profilo spirituale di Monica
Agostino descrive sua madre con parole ben misurate:
“[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8).
E ancora:
“[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).

Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità.
Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante.
Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione.
Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio.
Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede.
Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa.
Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi.
Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili.
A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri.
Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.

Una donna semplice e straordinaria
La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa.
La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude.
Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).

Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).




Verso l’alto! San Pier Giorgio Frassati

“Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù. È Lui, come diceva San Giovanni Paolo II, «che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande […], per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna» (XV Giornata Mondiale della Gioventù, Veglia Di Preghiera, 19 agosto 2000). Teniamoci uniti a Lui, rimaniamo nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, che presto saranno proclamati Santi. Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo” (Papa Leone XIV – omelia Giubileo dei giovani – 3 agosto 2025).

Pier Giorgio e don Cojazzi
Il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore del Regno d’Italia a Berlino, era il proprietario e direttore del quotidiano La Stampa di Torino. I Salesiani avevano un grosso debito di riconoscenza verso di lui. In occasione della grande montatura scandalistica nota come “I fatti di Varazze”, in cui si era cercato di gettare fango sulla onorabilità dei Salesiani, Frassati ne aveva preso le difese. Mentre persino alcuni giornali cattolici sembravano smarriti e disorientati di fronte alle pesanti e penose accuse, La Stampa, condotta una rapida inchiesta, aveva precorso le conclusioni della magistratura proclamando l’innocenza dei Salesiani. Così, quando da casa Frassati giunse la richiesta di un salesiano che si occupasse di seguire negli studi i due figli del senatore, Pier Giorgio e Luciana, don Paolo Albera, Rettor Maggiore, si sentì in obbligo di accettare. Inviò don Antonio Cojazzi (1880-1953). Era l’uomo adatto: buona cultura, temperamento giovanile di un’eccezionale capacità comunicativa. Don Cojazzi si era laureato in lettere nel 1905, in filosofia nel 1906, e aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese dopo un serio perfezionamento in Inghilterra.
In casa Frassati don Cojazzi diventò qualcosa di più del ‘precettore’ che segue i ragazzi. Diventò un amico, specialmente di Pier Giorgio, di cui dirà: “Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e il liceo con lezioni che nei primi anni erano quotidiane; lo seguii con crescente interesse e affetto”. Pier Giorgio, diventato uno dei giovani di punta dell’Azione Cattolica torinese, ascoltava le conferenze e le lezioni che don Cojazzi teneva ai soci del Circolo C. Balbo, seguiva con interesse la Rivista dei Giovani, saliva talvolta a Valsalice in cerca di luce e di consiglio nei momenti decisivi.

Un momento di notorietà
Pier Giorgio lo ebbe durante il Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica italiana, nel 1921: cinquantamila giovani che sfilavano per Roma, cantando e pregando. Pier Giorgio, studente del politecnico, reggeva la bandiera tricolore del circolo torinese C. Balbo. Le truppe regie, ad un tratto, circondarono l’enorme corteo e lo presero d’assalto per strappare le bandiere. Si volevano impedire disordini. Un testimone raccontò: “Picchiano con i calci dei moschetti, afferrano, spezzano, strappano le nostre bandiere. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie. Accorriamo in suo aiuto, e la bandiera, con l’asta spezzata, resta nelle sue mani. Imprigionati a forza in un cortile, i giovani cattolici vengono interrogati dalla polizia. Il testimone ricorda il dialogo condotto con i modi e le cortesie che usano in simili contingenze:
– E tu, come ti chiami?
– Pier Giorgio Frassati di Alfredo.
– Che cosa fa tuo padre?
– Ambasciatore d’Italia a Berlino.
Stupore, cambiamento di tono, scuse, offerta di immediata libertà.
– Uscirò quando usciranno gli altri.
Intanto lo spettacolo bestiale continua. Un sacerdote è buttato, letteralmente buttato nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia sanguinante… Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!”.

Amava i poveri
Pier Giorgio amava i poveri, li andava a cercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte dove soltanto abitano la miseria e il dolore. Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva nel cuore. Arrivava a passare le notti al capezzale di ammalati sconosciuti. Una notte che non rincasava, il padre sempre più ansioso telefonò alla questura, agli ospedali. Alle due si sentì girare la chiave nella porta e Pier Giorgio entrò. Papà esplose:
– Senti, puoi stare fuori di giorno, di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così tardi, avverti, telefona!
Pier Giorgio lo guardò, e con la solita semplicità rispose:
– Babbo, dov’ero io, non c’era telefono.
Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli lo videro assiduo cooperatore; i poveri lo conobbero consolatore e soccorritore; le misere soffitte lo accolsero sovente fra le loro squallide mura come un raggio di sole per i suoi derelitti abitanti. Dominato da una profonda umiltà, quello che faceva non voleva che fosse conosciuto da alcuno.

Giorgetto bello e santo
Nei primi giorni del luglio 1925 Pier Giorgio fu assalito e stroncato da un violento attacco di poliomielite. Aveva 24 anni. Sul letto di morte, mentre un male terribile gli devastava la schiena, pensò ancora ai suoi poveri. Su un biglietto, con grafia ormai quasi indecifrabile, scrisse per l’ingegnere Grimaldi, suo amico: Ecco le iniezioni di Converso, la polizza è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala tu.
Di ritorno dal funerale di Pier Giorgio, don Cojazzi scrive di getto un articolo per la Rivista dei Giovani: “Ripeterò la vecchia frase, ma sincerissima: non credevo di amarlo tanto. Giorgetto bello e santo! Perché mi cantano in cuore insistenti queste parole? Perché le udii ripetere, le udii pronunciare per quasi due giorni, dal padre, dalla madre, dalla sorella, con voce che diceva sempre e non ripeteva mai. E perché affiorano certi versi d’una ballata del Deroulède: «Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi dorati e nei casolari sperduti! Perché di lui parleranno anche i tuguri e le soffitte, dove passò tante volte angelo consolatore». Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo… lo seguii con crescente interesse e affetto fino alla sua odierna trasfigurazione… Scriverò la sua vita. Si tratta della raccolta di testimonianze che presentano la figura di questo giovane nella pienezza della sua luce, nella verità spirituale e morale, nella testimonianza luminosa e contagiosa di bontà e di generosità”.

Il best-seller dell’editoria cattolica
Incoraggiato e spinto anche dall’arcivescovo di Torino, Mons. Giuseppe Gamba, don Cojazzi si mise al lavoro di buona lena. Le testimonianze arrivarono numerose e qualificate, furono ordinate e vagliate con cura. La mamma di Pier Giorgio seguiva il lavoro, dava suggerimenti, forniva materiale. Nel marzo del 1928 esce la vita di Pier Giorgio. Scrive Luigi Gedda: “Fu un successo strepitoso. In soli nove mesi vennero esaurite 30 mila copie del libro. Nel 1932 erano già state diffuse 70 mila copie. Nel giro di 15 anni il libro su Pier Giorgio raggiunse 11 edizioni, e forse fu il best-seller dell’editoria cattolica in quel periodo”.
La figura illuminata da don Cojazzi fu una bandiera per l’Azione Cattolica durante il difficile tempo del fascismo. Nel 1942 avevano preso il nome di Pier Giorgio Frassati: 771 associazioni giovanili di Azione Cattolica, 178 sezioni aspiranti, 21 associazioni universitarie, 6o gruppi di studenti medi, 29 conferenze di S. Vincenzo, 23 gruppi del Vangelo… Il libro fu tradotto almeno in 19 lingue.
Il libro di don Cojazzi segnò una svolta nella storia della gioventù italiana. Pier Giorgio, fu l’ideale additato senza alcuna riserva: uno che ha saputo dimostrare che essere cristiano fino in fondo non è affatto utopistico, né fantastico.
Pier Giorgio Frassati segnò una svolta anche nella storia di don Cojazzi. Quel biglietto scritto da Pier Giorgio sul letto di morte gli rivelò in maniera concreta, quasi brutale, il mondo dei poveri. Scrive lo stesso don Cojazzi: “Il Venerdì Santo di quest’anno (1928) con due universitari visitai per quattro ore i poveri fuori Porta Metronia. Quella visita mi procurò una salutarissima lezione e umiliazione. Io avevo scritto e parlato moltissimo sulle Conferenze di S. Vincenzo… eppure non ero mai andato una sola volta a visitare i poveri. In quei luridi capannoni mi vennero spesso le lacrime agli occhi… La conclusione? Eccola chiara e cruda per me e per voi: meno parole belle e più opere buone”.
Il contatto vivo con i poveri non solo un’attuazione immediata del Vangelo, ma una scuola di vita per i giovani. Sono la migliore scuola per i giovani, per educarli e tenerli nella serietà della vita. Chi si reca a visitare i poveri e ne tocca con mano le piaghe materiali e morali, come può sprecare il suo denaro, il suo tempo, la sua giovinezza? Come può lamentarsi dei propri lavori e dolori, quando ha conosciuto, per diretta esperienza, che altri soffrono più di lui?

Non vivacchiare, ma vivere!
Pier Giorgio Frassati è un esempio luminoso di santità giovanile, attuale, «inquadrato» nel nostro tempo. Egli attesta ancora una volta che la fede in Gesù Cristo è la religione dei forti e dei veramente giovani, che sola può illuminare tutte le verità con la luce del «mistero» e che soltanto essa può regalare la perfetta letizia. La sua esistenza è il perfetto modello della vita normale alla portata di tutti. Egli, come tutti i seguaci di Gesù e del Vangelo, incominciò dalle piccole cose; giunse alle altezze più sublimi a forza di sottrarsi ai compromessi di una vita mediocre e senza senso e impiegando la naturale testardaggine nei suoi fermi propositi. Tutto, nella sua vita, gli fu gradino per salire; anche ciò che gli avrebbe dovuto essere di inciampo. Fra i compagni era l’intrepido ed esuberante animatore di ogni impresa facendo convergere intorno a sé tanta simpatia e tanta ammirazione. La natura gli era stata larga di favori: di famiglia rinomata, ricco, d’ingegno sodo e pratico, fisico prestante e robusto, educazione completa, nulla gli mancava per farsi largo nella vita. Ma egli non intendeva vivacchiare, bensì conquistarsi il suo posto al sole, lottando. Era una tempra di uomo ed un’anima di cristiano.
La sua vita aveva in sé stessa una coerenza che riposava nell’unità dello spirito e della esistenza, della fede e delle opere. La sorgente di questa personalità così luminosa era nella profonda vita interiore. Frassati pregava. La sua sete della Grazia gli faceva amare tutto ciò che riempie e arricchisce lo spirito. S’accostava ogni giorno alla Santa Comunione, poi restava ai piedi dell’altare, a lungo, senza che nulla valesse a distrarlo. Pregava sui monti e per la via. Non era però, la sua, una fede ostentata, anche se i segni di croce fatti sulla pubblica strada passando davanti alle chiese erano grandi e sicuri, anche se il Rosario era detto ad alta voce, in una carrozza ferroviaria o nella camera di un albergo. Ma era piuttosto una fede vissuta così intensamente e schiettamente che erompeva dalla sua anima generosa e franca con una semplicità di atteggiamento che convinceva e commoveva. La sua formazione spirituale si irrobustì nelle adorazioni notturne di cui fu fervido propugnatore ed immancabile partecipante. Fece più di una volta gli esercizi spirituali traendone serenità e vigoria spirituale.
Il libro di don Cojazzi si chiude con la frase: «Averlo conosciuto o averne udito parlare significa amarlo, ed amarlo significa seguirlo». L’augurio che la testimonianza di Piergiorgio Frassati sia “sale e luce” per tutti, soprattutto per i giovani di oggi.




Don Bosco e la chiesa del Santo Sudario

La Santa Sindone di Torino, reliquia tra le più venerate della cristianità, ha una storia millenaria intrecciata con quella dei Savoia e della città sabauda. Giunta a Torino nel 1578, divenne oggetto di profonda devozione, con ostensioni solenni legate a eventi storici e dinastici. Nell’Ottocento, figure come san Giovanni Bosco e altri santi torinesi ne promossero il culto, contribuendo alla sua diffusione. Oggi custodita nella Cappella del Guarini, la Sindone è al centro di studi scientifici e teologici. Parallelamente, la chiesa del Santo Sudario a Roma, legata ai Savoia e alla comunità piemontese, rappresenta un altro luogo significativo, dove don Bosco tentò di stabilire una presenza salesiana.

            La Santa Sindone di Torino, detta impropriamente «Santo Sudario» dall’uso francese di chiamarla «Le Saint Suaire», fu proprietà di Casa Savoia sin dal 1463, e venne trasferita da Chambery nella nuova capitale sabauda nel 1578.
            In quello stesso anno se ne celebrò la prima Ostensione, voluta da Emanuele Filiberto in omaggio al card. Carlo Borromeo che veniva a Torino in pellegrinaggio per venerarla.

Ostensioni nel secolo XIX e culto della Sindone
            Nel secolo XIX si ricordano in particolare le Ostensioni del 1815, 1842, 1868 e 1898: la prima per il rientro dei Savoia nei loro Stati, la seconda per le nozze di Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide di Asburgo-Lorena, la terza per le nozze di Umberto I con Margherita di Savoia-Genova, e la quarta in occasione dell’Esposizione Universale.
            I Santi dell’800 torinese, il Cottolengo, il Cafasso e don Bosco, furono devotissimi della Santa Sindone, emuli sull’esempio del Beato Sebastiano Valfré, l’apostolo di Torino nell’assedio del 1706.
            Le Memorie Biografiche ci assicurano che don Bosco la venerò in particolare all’Ostensione del 1842 e a quella del ’68, quando portò anche i ragazzi dell’oratorio a vederla (MB II, 117; IX, 137).
            Oggi la tela senza prezzo, donata da Umberto II di Savoia alla Santa Sede, è affidata all’Arcivescovo di Torino «Custode Pontificio» e conservata nella sontuosa Cappella del Guarini, retrostante il Duomo.
            A Torino vi è pure, in via Piave angolo via San Domenico, la Chiesa del Santo Sudario, eretta dalla Confraternita omonima e rifatta nel 1761. Adiacente alla chiesa vi è il «Museo Sindonologico» e la sede del Sodalizio «Cultores Sanctae Sindonis», centro di studi sindonologici ai quali hanno dato preziosi contributi studiosi salesiani come don Natale Noguier de Malijay, don Antonio Tonelli, don Alberto Caviglia, don Pietro Scotti e, più recentemente, don Pietro Rinaldi e don Luigi Fossati, per nominare solo i principali.

La chiesa del Santo Sudario a Roma
            Una chiesa del Santo Sudario esiste anche a Roma lungo la via omonima che parte dal Largo Argentina parallelamente a Corso Vittorio. Eretta nel 1604 su disegno di Carlo di Castellamonte, fu la Chiesa dei Piemontesi, Savoiardi e Nizzardi, fatta costruire dalla Confraternita del Santo Sudario sorta in quel tempo a Roma. Dopo il 1870 divenne la chiesa particolare di Casa Savoia.
            Don Bosco nei suoi soggiorni romani celebrò varie volte la Santa Messa in quella chiesa e formulò su di essa e sulla casa adiacente un progetto in linea con lo scopo dell’allora estinta Confraternita, dedita ad opere caritative verso la gioventù abbandonata, gli infermi ed i carcerati.
            La Confraternita aveva cessato di operare agli inizi del secolo e la proprietà ed amministrazione della chiesa erano passate alla Legazione Sarda presso la Santa Sede. Negli anni ’60 la chiesa esigeva ormai grossi restauri tanto che nel 1868 venne temporaneamente chiusa.
            Ma già nel 1867 don Bosco era giunto all’idea di proporre al Governo Sabaudo di cedergliene l’uso e l’amministrazione, offrendo la propria collaborazione in denaro per condurre a termine i restauri. Forse egli presentiva non lontana l’entrata delle truppe piemontesi in Roma e, desiderando di aprirvi una casa, pensò di farlo prima che la situazione precipitasse rendendo più difficile ottenere il beneplacito della Santa Sede ed il rispetto degli accordi da parte dello Stato (MB IX, 415-416).
            Presentò quindi la richiesta al Governo. Nel 1869, in una sosta a Firenze, preparò un progetto di convenzione che, giunto a Roma, fece conoscere a Pio IX. Ottenuto il suo assenso, passò alla richiesta ufficiale al Ministero degli Affari Esteri, ma, purtroppo, l’occupazione di Roma venne poi a pregiudicare tutto l’affare. Don Bosco stesso vide l’inopportunità di insistere. L’assumere, infatti, in quel momento, l’ufficiatura di una chiesa romana appartenente ai Savoia da parte di una Congregazione religiosa con Casa Madre a Torino, sarebbe potuto apparire un atto di opportunismo e di servilismo verso il nuovo Governo.
            Dopo la breccia di Porta Pia, con verbale del 2 dicembre 1871, la Chiesa del SS. Sudario fu annessa alla Casa Reale e designata come sede ufficiale del Cappellano maggiore palatino. In seguito all’interdetto di Pio IX sulle Cappelle dell’ex palazzo apostolico del Quirinale, fu proprio nella Chiesa del Sudario che si svolgevano tutti i riti sacri della Famiglia Reale.
            Nel 1874 don Bosco tastò nuovamente il terreno presso il Governo. Ma, sfortunatamente, notizie intempestive trapelate dai giornali, mandarono definitivamente a monte il progetto (MB X, 1233-1235).
            Con la fine della monarchia, nel 2 di giugno del 1946, l’intero complesso del Sudario passò sotto la gestione della Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica. Nel 1984, a seguito del nuovo Concordato che sancì l’abolizione delle Cappelle palatine, la Chiesa del Sudario fu affidata all’Ordinariato Militare e così è rimasta fino ad oggi.
            A noi, tuttavia, piace ricordare il fatto che don Bosco, nel cercare l’occasione propizia per aprire una casa in Roma, abbia posto lo sguardo sulla Chiesa del Santo Sudario.




Il titolo di Basilica al tempio del Sacro Cuore di Roma

Nel centenario della morte di don Paolo Albera si è messo in luce come il secondo successore di don Bosco abbia realizzato quello che si potrebbe definire un sogno di don Bosco. Difatti trentaquattro anni dopo la consacrazione del tempio del S. Cuore di Roma, avvenuta presente l’ormai esausto don Bosco (maggio 1887), papa Benedetto XVI – il papa della famosa ed inascoltata definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” – conferì alla chiesa il titolo di Basilica Minore (11 febbraio 1921). Per la sua costruzione don Bosco aveva “dato l’anima” (e anche il corpo!) negli ultimi sette anni di vita. Aveva per altro fatto lo stesso un ventennio precedente (1865-1868) con la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, prima chiesa salesiana elevata alla dignità di basilica minore il 28 giugno 1911, presente il neo rettor Maggiore don Paolo Albera.

Il ritrovamento della supplica
Ma come si è arrivati a questo risultato? Chi ne è stato all’origine? Ora lo sappiamo con certezza grazie al recente ritrovamento della minuta dattiloscritta della richiesta di tale titolo da parte del Rettor Maggiore don Paolo Albera. È inserita in un fascicoletto commemorativo del 25° del Sacro Cuore curato nel 1905 dall’allora direttore don Francesco Tomasetti (1868-1953). Il dattiloscritto, datato 17 gennaio 1921, ha minime correzioni del Rettor Maggiore ma, ciò che è importante, porta la sua firma autografa.
Dopo aver descritto l’operato di don Bosco e l’attività incessante della parrocchia, desunte probabilmente dal vecchio fascicolo, don Albera si rivolge al Papa in questi termini:

Mentre la divozione al Sacro Cuore di Gesù va ognor più crescendo ed estendendosi in tutto il mondo, e sempre nuovi Templi vanno dedicandosi al Divin Cuore, anche per nobile iniziativa dei Salesiani, come a S. Paolo nel Brasile, a La Plata nell’Argentina, a Londra, a Barcellona e altrove, pare che il primario Tempio-Santuario dedicato al S. Cuore di Gesù in Roma, ove così importante divozione ha un’affermazione tanto degna dell’Eterna Città, meriti una speciale distinzione. Il sottoscritto pertanto, udito il parere del Consiglio Superiore della Pia Società Salesiana, supplica umilmente la Santità Vostra a volersi degnare di accordare al Tempio Santuario del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio in Roma il Titolo e i Privilegi di Basilica Minore, ripromettendosi da tale onorifica elevazione accrescimento di devozione, di pietà e di ogni attività cattolicamente benefica”.

La supplica, in bella copia, a firma di don Albera, venne inviata con ogni probabilità dal procuratore don Francesco Tomasetti alla Sacra Congregazione dei Brevi, che la accolse con favore. Stese in tempi rapidi la minuta del Breve Apostolico da conservare negli Archivi vaticani, la fece trascrivere dagli esperti calligrafi su ricca pergamena e la passò alla Segreteria di Stato per la firma del titolare del momento, cardinal Pietro Gasparri.
Oggi i fedeli possono ammirare ben incorniciato nella sacrestia della Basilica tale originale della concessione del titolo richiesto (v. foto).
Non si può che essere riconoscenti alla dott.ssa Patrizia Buccino, cultrice di archeologia e storia, e allo storico salesiano don Giorgio Rossi, che ne hanno divulgato la notizia. A loro il compito di portare a termine l’indagine avviata ricercando negli Archivi Vaticani l’intero carteggio, da far conoscere anche al mondo scientifico attraverso la nota rivista di storia salesiana “Ricerche Storiche Salesiane”.

Sacro Cuore: una basilica nazionale a raggio internazionale
Ventisei anni prima, il 16 luglio 1885, su richiesta di don Bosco e con il consenso esplicito di papa Leone XIII, monsignor Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino, aveva calorosamente sollecitato gli Italiani a partecipare alla riuscita della “nobile e santa proposta [del nuovo tempio] chiamandola voto nazionale degli Italiani”.
Ebbene, don Albera nella sua richiesta al pontefice, dopo aver ricordato il pressante appello del cardinal Alimonda, ricordava che a tutte le nazioni del mondo era stato chiesto di contribuire economicamente alla costruzione, decorazione del tempio e opere annesse (compreso l’immancabile oratorio salesiano con tanto di ospizio!) cosicché il Tempio-Santuario, oltreché voto nazionale, era divenuto “manifestazione mondiale o internazionale della devozione al S. Cuore”.
Al proposito, in uno scritto storico-ascetico edito in occasione del 1° Centenario della Consacrazione della Basilica (1987) lo studioso Armando Pedrini lo definiva: “Tempio dunque internazionale per la cattolicità e universalità del suo messaggio a tutte le genti”, anche in considerazione della “posizione di primissimo piano” della Basilica attigua alla riconosciuta internazionalità della stazione ferroviaria.
Roma-Termini non è dunque solo una grande stazione ferroviaria con problemi di ordine pubblico e un territorio difficile da gestire, di cui sovente si parla sui giornali e come per altro le stazioni ferroviarie di moltissime capitali europee. Ma è anche la sede della Basilica del Sacro Cuore di Gesù. E se alla sera e alla notte la zona non trasmette sicurezza ai turisti, di giorno la Basilica distribuisce pace e serenità ai fedeli che vi entrano, vi sostano in preghiera, vi ricevono i sacramenti.
Se lo ricorderanno i pellegrini che passeranno dallo scalo ferroviario di Termini nell’ormai non lontano anno santo (2025)? Basta che attraversino una strada… e il Sacro Cuore di Gesù li aspetta.

PS. In Roma esiste una seconda basilica parrocchiale salesiana, più grande e artisticamente più ricca di quella del Sacro Cuore: è quella di San Giovanni Bosco al Tuscolano, diventata tale nel 1965, a pochi anni della sua inaugurazione (1959). Dove si trova? “Ovviamente” nel Quartiere Don Bosco (a due passi dai celebri studi di Cinecittà). Se la statua sul campanile della basilica del Sacro Cuore domina la piazza della stazione Termini, la cupola della basilica di don Bosco, di poco inferiore a quella di San Pietro, la guarda però frontalmente, sia pure da due punti estremi della capitale. E siccome non c’è il due senza il tre, a Roma vi una terza splendida basilica parrocchiale salesiana: quella di Santa Maria Ausiliatrice, al quartiere Appio-Tuscolano, accanto al grande Istituto Pio XI.

Lettera apostolica intitolata Pia Societas, datata 11 febbraio 2021, con la quale, Sua Santità Benedetto XV ha elevato la chiesa del Sacro Cuore di Gesù al rango di Basilica.

Ecclesia parochialis SS.mi Cordis Iesu ad Castrum Praetorium in urbe titulo et privilegiis Basilicae Minoris decoratur.
Benedictus pp. XV

            Ad perpetuam rei memoriam.
            Pia Societas sancti Francisci Salesii, a venerabili Servo Dei Ioanne Bosco iam Augustae Taurinorum condita atque hodie per dissitas quoque orbis regiones diffusa, omnibus plane cognitum est quanta sibi merita comparaverit non modo incumbendo actuose sollerterque in puerorum, orbitate laborantium, religiosam honestamque institutionem, verum etiam in rei catholicae profectum tum apud christianum populum, tum apud infideles in longinquis et asperrimis Missionibus. Eiusdem Societatis sodalibus est quoque in hac Alma Urbe Nostra ecclesia paroecialis Sacratissimo Cordi Iesu dicata, in qua, etsi non abhinc multos annos condita, eximii praesertim Praedecessoris Nostri Leonis PP. XIII iussu atque auspiciis, christifideles urbani, eorumdem Sodalium opera, adeo ad Dei cultum et virtutum laudem exercentur, ut ea vel cum antiquioribus paroeciis in honoris ac meritorum contentionem veniat. Ipsemet Salesianorum Sodalium fundator, venerabilis Ioannes Bosco, in nova Urbis regione, aere saluberrimo populoque confertissima, quae ad Gastrum Praetorium exstat, exaedificationem inchoavit istius templi, et, quasi illud erigeret ex gentis italicae voto et pietatis testimonio erga Sacratissimum Cor Iesu, stipem praecipue ex Italiae christifidelibus studiose conlegit; verumtamen pii homines ex ceteris nationibus non defuerunt, qui, in exstruendum perficiendumque templum istud, erga Ssmum Cor Iesu amore incensi, largam pecuniae vim contulerint. Anno autem MDCCCLXXXVII sacra ipsa aedes, secundum speciosam formam a Virginio Vespignani architecto delineatam, tandem perfecta ac sollemniter consecrata dedicataque est. Eamdem vero postea, magna cum sollertia, Sodales Salesianos non modo variis altaribus, imaginibus affabre depictis et statuis, omnique sacro cultui necessaria supellectili exornasse, verum etiam continentibus aedificiis iuventuti, ut tempora nostra postulant, rite instituendae ditasse, iure ac merito Praedecessores Nostri sunt” laetati, et Nos haud minore animi voluptate probamus. Quapropter cum dilectus filius Paulus Albera, hodiernus Piae Societatis sancti Francisci Salesii rector maior, nomine proprio ac religiosorum virorum quibus praeest, quo memorati templi Ssmi Cordi Iesu dicati maxime augeatur decus, eiusdem urbanae paroeciae fidelium fides et pietas foveatur, Nos supplex rogaverit, ut eidem templo dignitatem, titulum et privilegia Basilicae Minoris pro Nostra benignitate impertiri dignemur; Nos, ut magis magisque stimulos fidelibus ipsius paroeciae atque Urbis totius Nostrae ad Sacratissimum Cor Iesu impensius colendum atque adamandum addamus, nec non benevolentiam, qua Sodales Salesianos ob merita sua prosequimur, publice significemus, votis hisce piis annuendum ultro libenterque censemus. Quam ob rem, conlatis consiliis cum VV. FF. NN. S. R. E. Cardinalibus Congregationi Ss. Rituum praepositis, Motu proprio ac de certa scientia et matura deliberatione Nostris, deque apostolicae potestatis plenitudine, praesentium Litterarum tenore perpetuumque in modum, enunciatum templum Sacratissimo Cordi Iesu dicatum, in hac alma Urbe Nostra atque ad Castrum Praetorium situm, dignitate ac titulo Basilicae Minoris honestamus, cum omnibus et singulis honoribus, praerogativis, privilegiis, indultis quae aliis Minoribus Almae huius Urbis Basilicis de iure competunt. Decernentes praesentes Litteras firmas, validas atque efficaces semper exstare ac permanere, suosque integros effectus sortiri iugiter et obtinere, illisque ad quos pertinent nunc et in posterum plenissime suffragari; sicque rite iudicandum esse ac definiendum, irritumque ex nunc et inane fieri, si quidquam secus super his, a quovis, auctoritate qualibet, scienter sive ignoranter attentari contigerit. Non obstantibus contrariis quibuslibet.

            Datum Romae apud sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XI februarii MCMXXI, Pontificatus Nostri anno septimo.
P. CARD. GASPARRI, a Secretis Status.

***

La chiesa parrocchiale del Santissimo Cuore di Gesù a Castro Pretorio in città è insignita del titolo e dei privilegi di Basilica Minore.
Benedetto PP. XV

A perpetua memoria.
La Pia Società di San Francesco di Sales, già fondata a Torino dal venerabile Servo di Dio Giovanni Bosco e oggi diffusa anche in regioni lontane del mondo, ha acquisito meriti notevoli non solo dedicandosi attivamente e diligentemente all’educazione religiosa e onesta dei fanciulli orfani, ma anche al progresso della causa cattolica sia tra il popolo cristiano, sia tra gli infedeli nelle Missioni lontane e difficilissime. I membri della stessa Società hanno anche in questa Nostra Alma Urbe una chiesa parrocchiale dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, nella quale, sebbene fondata non molti anni fa, per ordine e sotto gli auspici soprattutto del Nostro esimio Predecessore Leone PP. XIII, i fedeli urbani, con l’opera degli stessi Salesiani, sono così esercitati al culto di Dio e alla lode delle virtù, che essa gareggia in onore e meriti anche con le parrocchie più antiche. Lo stesso fondatore dei Salesiani, il venerabile Giovanni Bosco, in una nuova regione dell’Urbe, con aria saluberrima e popolosissima, che si trova a Castro Pretorio, iniziò la costruzione di quel tempio, e, quasi volesse erigerlo per voto della nazione italiana e testimonianza di pietà verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, raccolse con zelo elemosine soprattutto dai fedeli d’Italia; tuttavia non mancarono uomini pii di altre nazioni che, spinti dall’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, contribuirono con ingenti somme di denaro alla costruzione e al completamento di quel tempio. Nell’anno 1887, la stessa sacra costruzione, secondo la splendida forma disegnata dall’architetto Virginio Vespignani, fu finalmente completata e solennemente consacrata e dedicata. I Salesiani, con grande diligenza, non solo l’hanno poi adornata con vari altari, immagini finemente dipinte e statue, e con tutti gli arredi necessari al sacro culto, ma l’hanno anche arricchita con edifici contigui per l’istruzione della gioventù, come richiedono i nostri tempi, e a buon diritto i Nostri Predecessori si sono rallegrati, e Noi non con minore piacere approviamo. Perciò, poiché il diletto figlio Paolo Albera, attuale rettore maggiore della Pia Società di San Francesco di Sales, a nome proprio e dei religiosi che presiede, affinché sia massimamente accresciuto il decoro del menzionato tempio dedicato al Santissimo Cuore di Gesù, e sia favorita la fede e la pietà dei fedeli di quella parrocchia urbana, Ci ha supplicato di degnarci di impartire a quel tempio la dignità, il titolo e i privilegi di Basilica Minore per Nostra benignità; Noi, per aggiungere sempre più stimoli ai fedeli di quella parrocchia e di tutta la Nostra Urbe a coltivare e amare più intensamente il Sacratissimo Cuore di Gesù, e per manifestare pubblicamente la benevolenza con cui seguiamo i Salesiani per i loro meriti, riteniamo di dover accogliere volentieri e spontaneamente questi pii voti. Per tale motivo, consultati i Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti alla Congregazione dei Sacri Riti, di Nostro Motu proprio e con certa scienza e matura deliberazione Nostra, e dalla pienezza della potestà apostolica, con il tenore delle presenti Lettere e in perpetuo, onoriamo il suddetto tempio dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, situato in questa Nostra Alma Urbe e a Castro Pretorio, con la dignità e il titolo di Basilica Minore, con tutti e singoli gli onori, le prerogative, i privilegi, gli indulti che spettano di diritto alle altre Basiliche Minori di questa Alma Urbe. Decretando che le presenti Lettere siano e rimangano sempre ferme, valide ed efficaci, e che ottengano e conservino sempre i loro pieni effetti, e che siano pienamente a favore di coloro a cui si riferiscono ora e in futuro; e che così si debba giustamente giudicare e definire, e che sia nullo e invalido fin d’ora, se qualcosa di diverso su queste cose, da chiunque, con qualsiasi autorità, scientemente o ignorantemente, dovesse essere tentato. Nonostante qualsiasi cosa contraria.

Dato a Roma presso San Pietro sotto l’anello del Pescatore, l’11 febbraio 1921, settimo anno del Nostro Pontificato.
P. CARD. GASPARRI, Segretario di Stato.




Le profezie di Malachia. I papi e la fine del mondo

Le cosiddette “Profezie di Malachia” rappresentano uno dei testi profetici più affascinanti e controversi legati al destino della Chiesa cattolica e del mondo. Attribuite a Malachia di Armagh, arcivescovo irlandese vissuto nel XII secolo, queste previsioni descrivono brevemente, attraverso enigmatici motti latini, i pontefici da Celestino II fino all’ultimo papa, il misterioso “Pietro Secondo”. Nonostante siano considerate dagli studiosi moderne falsificazioni risalenti al tardo Cinquecento, le profezie continuano a suscitare dibattiti, interpretazioni apocalittiche e speculazioni su possibili scenari escatologici. Al di là della loro autenticità, esse rappresentano comunque un forte richiamo alla vigilanza spirituale e all’attesa consapevole del giudizio finale.

Malachia di Armagh. Biografia di un “Bonifacio d’Irlanda”
Malachia (in irlandese Máel Máedóc Ua Morgair, in latino Malachias) nacque intorno al 1094 nei pressi di Armagh, da una famiglia nobile. Ricevette la sua formazione intellettuale dal dotto Imhar O’Hagan e, nonostante la sua iniziale riluttanza, fu ordinato sacerdote nel 1119 dall’arcivescovo Cellach. Dopo un periodo di perfezionamento liturgico presso il monastero di Lismore, Malachia intraprese un’intensa attività pastorale che lo portò a ricoprire incarichi di crescente responsabilità. Nel 1123 come Abate di Bangor, avviò il ripristino della disciplina sacramentale; nel 1124: nominato Vescovo di Down e Connor, proseguì la riforma liturgica e pastorale e nel 1132: divenuto Arcivescovo di Armagh, dopo difficili contese con gli usurpatori locali, liberò la sede primaziale d’Irlanda e promosse la struttura diocesana sancita dal sinodo di Ráth Breasail.

Durante il suo ministero, Malachia introdusse significative riforme adottando la liturgia romana, sostituendo le eredità monastiche claniche con la struttura diocesana prescritta dal sinodo di Ráth Breasail (1111) e promosse la confessione individuale, il matrimonio sacramentale e la cresima.
Per questi interventi riformatori, san Bernardo di Chiaravalle lo paragonò a san Bonifacio, l’apostolo della Germania.

Malachia compì due viaggi a Roma (1139 e 1148) per ricevere il pallio metropolitano per le nuove province ecclesiastiche d’Irlanda, e in tale occasione fu nominato legato pontificio. Al ritorno dal primo viaggio, con l’aiuto di san Bernardo di Chiaravalle, fondò l’abbazia cistercense di Mellifont (1142), la prima di numerose fondazioni cistercensi in terra irlandese. Morì durante un secondo viaggio verso Roma, il 2 novembre 1148 a Clairvaux, tra le braccia di san Bernardo, che ne scrisse la biografia intitolata “Vita Sancti Malachiae”.

Nel 1190, papa Clemente III lo canonizzò ufficialmente, rendendolo il primo santo irlandese proclamato secondo la procedura formale della Curia romana.

La “Profezia dei Papi”: un testo che compare quattro secoli dopo
Alla figura di questo arcivescovo riformatore venne associata, solo nel XVI secolo, una raccolta di 112 motti che descriverebbero altrettanti pontefici: da Celestino II fino all’enigmatico “Pietro Secondo”, destinato ad assistere alla distruzione della “città dei sette colli”.
La prima pubblicazione di queste profezie risale al 1595, quando il monaco benedettino Arnold Wion le inserì nella sua opera Lignum Vitae, presentandole come un manoscritto redatto da Malachia durante la sua visita a Roma nel 1139.
Le profezie consistono in brevi frasi simboliche che dovrebbero caratterizzare ciascun papa attraverso riferimenti al nome, al luogo di nascita, allo stemma araldico o a eventi significativi del pontificato. Di seguito sono riportati i motti attribuiti agli ultimi pontefici:

109De medietate Lunae (“Dalla metà della luna”)
Attribuito a Giovanni Paolo I, che regnò per un solo mese. Fu eletto il 26.08.1978, quando la luna era nell’ultimo quarto (25.08.1978), e morì il 28.09.1978, quando la luna era nel primo quarto (24.09.1978).

110De labore solis (“Dalla fatica del sole”)
Attribuito a Giovanni Paolo II, che guidò la Chiesa per 26 anni, il terzo pontificato più lungo della storia dopo san Pietro (34-37 anni) e il beato Pio IX (più di 31 anni). Fu eletto il 16.10.1978, poco dopo un’eclissi solare parziale (02.10.1978), e morì il 02.04.2005, pochi giorni prima di un’eclissi solare anulare (08.04.2005).

111Gloria olivae (“Gloria dell’oliva”)
Attribuito a Benedetto XVI (2005-2013). Il cardinale Ratzinger, impegnato nel dialogo ecumenico e interreligioso, scelse il nome di Benedetto XVI in continuità con Benedetto XV, papa che si adoperò per la pace durante la Prima Guerra Mondiale, come egli stesso spiegò nella sua prima Udienza Generale del 27 aprile 2005 (la pace è simboleggiata dal ramo d’ulivo portato dalla colomba a Noè al termine del Diluvio). Questo collegamento simbolico venne ulteriormente rafforzato dalla canonizzazione, nel 2009, di Bernardo Tolomei (1272-1348), fondatore della congregazione benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto (Monaci Olivetani).

112[a]In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit…
Questa non è propriamente un motto, ma una frase introduttiva. Nell’edizione originale del 1595 appare come riga a sé stante, suggerendo la possibilità di inserire ulteriori papi tra Benedetto XVI e il profetizzato “Pietro Secondo”. Ciò contraddirebbe l’interpretazione che identifica necessariamente Papa Francesco come l’ultimo pontefice.

112[b]Petrus Secundus
Riferito all’ultimo papa (la Chiesa ebbe come primo pontefice san Pietro e avrà come ultimo un altro Pietro) che guiderà i fedeli in tempi di tribolazione.
Il paragrafo intero della profezia recita:
“In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Secundus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, Civitas septicollis diruetur, et Iudex tremendus judicabit populum suum. Amen.”
“Durante l’estrema persecuzione della Santa Chiesa Romana siederà Pietro Secondo, che pascerà le pecore tra molte tribolazioni; quando queste saranno terminate, la città dei sette colli [Roma] sarà distrutta, ed il terribile Giudice giudicherà il suo popolo. Amen.”
“Pietro Secondo” sarebbe dunque l’ultimo pontefice prima della fine dei tempi, con un chiaro riferimento apocalittico alla distruzione di Roma e al giudizio finale.

Speculazioni contemporanee
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le interpretazioni speculative: chi identifica papa Francesco come il 112° e ultimo pontefice, chi ipotizza che lui è stato un papa di transizione verso il vero l’ultimo papa, chi addirittura calcola il 2027 come possibile data della fine dei tempi.
Quest’ultima ipotesi si basa su un curioso calcolo: dalla prima elezione papale menzionata nella profezia (Celestino II nel 1143) fino alla prima pubblicazione del testo (durante il pontificato di Sisto V, 1585-1590) trascorsero circa 442 anni; seguendo la stessa logica, aggiungendo altri 442 anni dalla pubblicazione si arriverebbe al 2027. Queste speculazioni, tuttavia, mancano di fondamento scientifico, poiché il manoscritto originale non contiene riferimenti cronologici espliciti.

L’autenticità contestata
Sin dalla comparsa del testo, numerosi storici hanno espresso dubbi sulla sua autenticità per diverse ragioni:
assenza di manoscritti antichi: non esistono copie databili a prima del 1595;
stile linguistico: il latino utilizzato è tipico del XVI secolo, non del XII;
precisione retrospettiva: i motti riferiti ai papi precedenti al conclave del 1590 sono sorprendentemente accurati, mentre quelli successivi risultano molto più vaghi e facilmente adattabili a eventi posteriori;
finalità politiche: in un’epoca di forti tensioni tra fazioni curiali, un simile elenco profetico avrebbe potuto influenzare l’elettorato cardinalizio nel Conclave del 1590.

La posizione della Chiesa
La dottrina cattolica insegna, come riportato nel Catechismo, che il destino della Chiesa non può essere diverso da quello del suo Capo, Gesù Cristo. Nei paragrafi 675-677 si descrive “L’ultima prova della Chiesa”:

Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il «mistero di iniquità» sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica sé stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.
Questa impostura anti-cristica si delinea già nel mondo ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato «intrinsecamente perverso».
La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest’ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa.

Allo stesso tempo, la dottrina cattolica ufficiale invita alla prudenza, fondandosi sulle parole stesse di Gesù:
«Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti» (Mt 24,11).
«Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» (Mt 24:24).

La Chiesa sottolinea, seguendo il Vangelo di Matteo (Mt 24,36), che il momento della fine del mondo non è conoscibile dagli uomini, ma soltanto da Dio stesso. E il Magistero ufficiale – Il Catechismo (n. 673-679) ribadisce che nessuno può “leggere” l’ora del ritorno di Cristo.

Le profezie attribuite a San Malachia non hanno mai ricevuto un’approvazione ufficiale dalla Chiesa. Tuttavia, al di là della loro autenticità storica, esse ci ricordano una verità fondamentale della fede cristiana: la fine dei tempi accadrà, come insegnato da Gesù.

Da duemila anni gli uomini riflettono su questo evento escatologico, spesso dimenticando che la “fine dei tempi” per ciascuno coincide con il proprio termine dell’esistenza terrena. Che importa se il nostro fine vita coinciderà con la fine dei tempi? Per molti non sarà così. Ciò che davvero conta è vivere autenticamente la vita cristiana nel quotidiano, seguendo gli insegnamenti di Cristo ed essendo sempre pronti a rendere conto al Creatore e Redentore dei talenti ricevuti. Resta sempre attuale l’ammonimento di Gesù: «Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24,42).
In quest’ottica, il mistero del “Pietro Secondo” non rappresenta tanto una minaccia di rovina, quanto piuttosto un invito alla costante conversione e alla fiducia nel disegno divino di salvezza.




Don Pietro Ricaldone rinasce a Mirabello Monferrato

Don Pietro Ricaldone (Mirabello Monferrato, 27 aprile 1870 – Roma, 25 novembre 1951) fu il quarto successore di don Bosco alla guida dei Salesiani, uomo di vasta cultura, profonda spiritualità e grande amore per i giovani. Nato e cresciuto tra le colline monferrine, portò sempre con sé lo spirito di quella terra, traducendolo in un impegno pastorale e formativo che lo avrebbe reso figura di rilievo internazionale. Oggi, gli abitanti di Mirabello Monferrato vogliono farlo tornare nelle loro terre.

Il Comitato Don Pietro Ricaldone: rinascita di un’eredità (2019)
Nel 2019, un gruppo di ex allievi e ex allieve, storici e appassionati di tradizioni locali ha dato vita al Comitato Don Pietro Ricaldone a Mirabello Monferrato. L’obiettivo – semplice e ambizioso allo stesso tempo – è stato fin dall’inizio quello di riportare la figura di don Pietro nel cuore del paese e dei giovani, perché la sua storia e la sua eredità spirituale non vadano perdute.

Per preparare il 150° anniversario della nascita (1870–2020), il Comitato ha scandagliato l’Archivio Storico Comunale di Mirabello e l’Archivio Storico Salesiano, rinvenendo lettere, appunti e antichi volumi. Da questo lavoro è nata una biografia illustrata, pensata per lettori di ogni età, in cui la personalità di Ricaldone emerge in forma chiara e avvincente. Fondamentale, in questa fase, è stata la collaborazione con don Egidio Deiana, studioso di storia salesiana.

Nel 2020 era prevista una serie di eventi – mostre fotografiche, concerti, spettacoli teatrali e circensi – tutti incentrati sul ricordo di don Pietro. Sebbene la pandemia abbia costretto a riprogrammare gran parte dei festeggiamenti, nel luglio dello stesso anno si è svolto un evento commemorativo con una mostra fotografica sulle tappe della vita di Ricaldone, una animazione per bambini con laboratori creativi e una celebrazione solenne, alla presenza di alcuni Superiori Salesiani.
Quell’incontro ha segnato l’inizio di una nuova stagione di attenzione al territorio mirabellese.

Oltre il 150°: il concerto per il 70° anniversario della morte
L’entusiasmo per il recupero della figura di don Pietro Ricaldone ha portato il Comitato a prolungare la propria attività anche dopo il 150° anniversario.
In vista del 70° anniversario della morte (25 novembre 1951), il Comitato ha organizzato un concerto dal titolo “Affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”, frase tratta dalla circolare di don Pietro sul Canto Gregoriano del 1942.
In piena Seconda Guerra Mondiale, don Pietro – allora Rettore Maggiore – scrisse una celebre circolare sul Canto Gregoriano in cui sottolineava l’importanza della musica come via privilegiata per ricondurre i cuori degli uomini alla carità, alla mitezza e soprattutto a Dio: “A taluno potrà causare meraviglia che, in tanto fragore di armi, io v’inviti ad occuparvi di musica. Eppure penso, anche prescindendo da allusioni mitologiche, che questo tema risponda pienamente alle esigenze dell’ora che volge. Tutto ciò che possa esercitare efficacia educativa e ricondurre gli uomini a sensi di carità e mitezza e soprattutto a Dio, dev’essere da noi praticato, diligentemente e senza indugio, per affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”.

Passeggiate e radici salesiane: la “Passeggiata di don Bosco”
Pur essendo nato come omaggio a don Ricaldone, il Comitato ha finito per diffondere nuovamente anche la figura di don Bosco e di tutta la tradizione salesiana, di cui don Pietro è stato erede e protagonista.
A partire dal 2021, ogni seconda domenica di ottobre, il Comitato promuove la “Passeggiata di Don Bosco”, riproponendo il pellegrinaggio che don Bosco compì con i ragazzi da Mirabello a Lu Monferrato nel 12–17 ottobre 1861. In quei cinque giorni si progettarono i dettagli del primo collegio salesiano fuori Torino, affidato al Beato Michele Rua con don Albera tra gli insegnanti. Anche se l’iniziativa non riguarda direttamente don Pietro, ne sottolinea le radici e il legame con la tradizione salesiana locale che egli stesso ha portato avanti.

Ospitalità e scambi culturali
Il Comitato ha favorito l’accoglienza di gruppi di giovani, scuole professionali e chierici salesiani da tutto il mondo. Alcune famiglie offrono ospitalità gratuita, rinnovando la fraternità tipica di don Bosco e di don Pietro. Nel 2023 ha toccato Mirabello un numeroso gruppo della Crocetta, mentre ogni estate arrivano gruppi internazionali accompagnati da don Egidio Deiana. Ogni visita è un dialogo tra memoria storica e gioia dei giovani.

Il 30 marzo 2025, quasi cento capitolari salesiani hanno fatto tappa a Mirabello, sui luoghi in cui don Bosco aprì il suo primo collegio fuori Torino e dove don Pietro visse i suoi anni formativi. Il Comitato, insieme alla Parrocchia e alla Pro Loco, ha organizzato l’accoglienza e realizzato un video divulgativo sulla storia salesiana locale, apprezzato da tutti i partecipanti.

Le iniziative continuano e oggi il Comitato, guidato dal suo presidente, collabora alla creazione del Cammino Monferrino di Don Bosco, un itinerario spirituale di circa 200 km attraverso le vie autunnali percorse dal Santo. L’obiettivo è ottenere il riconoscimento ufficiale a livello regionale, ma anche offrire ai pellegrini un’esperienza formativa e di evangelizzazione. Le passeggiate giovanili di don Bosco, infatti, erano esperienze di formazione ed evangelizzazione: lo stesso spirito che don Pietro Ricaldone avrebbe poi difeso e promosso durante tutto il suo rettorato.

La missione del Comitato: tenere viva la memoria di don Pietro
Dietro a ogni iniziativa c’è la volontà di far emergere l’opera educativa, pastorale e culturale di don Pietro Ricaldone. I fondatori del Comitato custodiscono ricordi personali di infanzia e desiderano trasmettere alle nuove generazioni i valori di fede, cultura e solidarietà che animarono il sacerdote mirabellese. In un’epoca in cui tanti punti di riferimento vacillano, riscoprire il cammino di don Pietro significa offrire un modello di vita capace di illuminare il presente: “Là dove passano i Santi, Dio cammina con loro e niente è più come prima” (San Giovanni Paolo II).
Il Comitato Don Pietro Ricaldone si fa portavoce di questa eredità, confidando che la memoria di un grande figlio di Mirabello continui a illuminare la via per le generazioni che verranno, tracciando un sentiero saldo fatto di fede, cultura e solidarietà.




È ancora necessario confessarsi?

Il Sacramento della Confessione, spesso trascurato nella frenesia contemporanea, rimane per la Chiesa cattolica una sorgente insostituibile di grazia e di rinnovamento interiore. Invitamo a riscoprirne il significato originario: non un rito formale, ma un incontro personale con la misericordia di Dio, istituito da Cristo stesso e affidato al ministero della Chiesa. In un’epoca che relativizza il peccato, la Confessione si rivela bussola per la coscienza, medicina per l’anima e porta spalancata alla pace del cuore.

Il Sacramento della Confessione: una necessità per l’anima
Nella tradizione cattolica, il Sacramento della Confessione – chiamato anche Sacramento della Riconciliazione o della Penitenza – occupa un posto centrale nel cammino di fede. Non si tratta di un semplice atto formale o di una pratica riservata a pochi fedeli particolarmente devoti, ma di una necessità profonda che coinvolge ogni cristiano, chiamato a vivere nella grazia di Dio. In un tempo che tende a relativizzare la nozione di peccato, riscoprire la bellezza e la forza liberatrice della Confessione è fondamentale per rispondere pienamente all’amore di Dio.

Gesù Cristo stesso ha istituito il Sacramento della Confessione. Dopo la sua Risurrezione, Egli apparve agli Apostoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non li perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,22-23). Queste parole non sono un simbolismo: esse stabiliscono un potere reale e concreto affidato agli Apostoli e, per successione, ai loro successori, i vescovi e i presbiteri.

Il perdono dei peccati, dunque, non avviene solo tra l’uomo e Dio in modo privato, ma passa anche attraverso il ministero della Chiesa. Dio, nel suo disegno di salvezza, ha voluto che la confessione personale davanti a un sacerdote fosse il mezzo ordinario per ricevere il Suo perdono.

La realtà del peccato
Per comprendere la necessità della Confessione, bisogna prima prendere coscienza della realtà del peccato.
San Paolo afferma: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm. 3,23). E: “Se diciamo che non abbiamo peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1Gv 1,8).
Nessuno può dirsi immune dal peccato, nemmeno dopo il Battesimo, che ci ha purificati dalla colpa originale. La nostra natura umana, ferita dalla concupiscenza, ci porta continuamente a cadere, a tradire l’amore di Dio con atti, parole, omissioni e pensieri.
Scrive san Agostino: “È vero: la natura dell’uomo fu creata in origine senza colpa e senza nessun vizio; viceversa la natura attuale dell’uomo, per la quale ciascuno nasce da Adamo, ha ormai bisogno del Medico, perché non è sana. Certo, tutti i beni che ha nella sua struttura, nella vita, nei sensi e nella mente, li riceve dal sommo Dio, suo creatore e artefice. Il vizio invece che oscura e indebolisce questi beni naturali, così da rendere la natura umana bisognosa d’illuminazione e di cura, non l’ha tratto dal suo irreprensibile artefice, ma dal peccato originale che fu commesso con il libero arbitrio.” (La natura e la grazia).

Negare l’esistenza del peccato equivale a negare la verità su noi stessi. Solo riconoscendo il nostro bisogno di perdono possiamo aprirci alla misericordia di Dio, che non si stanca mai di richiamarci a Sé.

La Confessione: incontro con la Misericordia Divina
Il Sacramento della Confessione è, innanzitutto, un incontro personale con la Misericordia divina. Non è semplicemente un’autoaccusa o una seduta di autoanalisi; è un atto di amore da parte di Dio che, come il padre nella parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32), corre incontro al figlio pentito, lo abbraccia e lo riveste di nuova dignità.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Quelli che si accostano al sacramento della Penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera.” (CCC, 1422).

Confessarsi è lasciarsi amare, guarire e rinnovare. È accogliere il dono di un cuore nuovo.

Perché confessarsi a un sacerdote?
Una delle obiezioni più comuni è: “Perché devo confessarmi a un sacerdote? Non posso confessarmi direttamente a Dio?” Certamente, ogni fedele può – e deve – rivolgersi direttamente a Dio con la preghiera di pentimento. Tuttavia, Gesù ha stabilito un mezzo concreto, visibile e sacramentale per il perdono: la confessione a un ministro ordinato. E questo è valido per ogni cristiano, ossia anche per i sacerdoti, vescovi, papi.

Il sacerdote agisce in persona Christi, cioè in persona di Cristo stesso. Egli ascolta, giudica, assolve, e offre consigli spirituali. Non si tratta di una mediazione umana che limita l’amore di Dio, bensì di una garanzia offerta da Cristo stesso: il perdono viene comunicato visibilmente, e il fedele ne può avere certezza.

Inoltre, confessarsi davanti a un sacerdote esige umiltà, una virtù indispensabile per la crescita spirituale. Riconoscere apertamente le proprie colpe ci libera dal giogo dell’orgoglio e ci apre alla vera libertà dei figli di Dio.

Non è sufficiente confessarsi solo una volta l’anno, come richiesto dal minimo della legge ecclesiastica. I santi e i maestri di spirito hanno sempre raccomandato la confessione frequente – anche bisettimanale o settimanale – come mezzo di progresso nella vita cristiana.

San Giovanni Paolo II si confessava ogni settimana. Santa Teresa di Lisieux, pur essendo monaca carmelitana e vivendo in clausura, si confessava regolarmente. La confessione frequente permette di affinare la coscienza, correggere difetti radicati, e ricevere nuove grazie.

Ostacoli alla confessione
Purtroppo, molti fedeli oggi trascurano il Sacramento della Riconciliazione. Tra i motivi principali troviamo:

Vergogna: temere il giudizio del sacerdote. Ma il sacerdote non è lì per condannare, bensì per essere strumento di misericordia.

Paura che i peccati riconosciuti vengano fatti pubblici: i sacerdoti confessori non possono rivelare a nessuno, in nessuna condizione (incluse le massime autorità ecclesiastiche) i peccati ascoltati in confessione, neanche se perde la propria vita. Se lo fanno, incorrono immediatamente nella scomunica latae sententiae (canone1386, Codice del Diritto Canonico). L’inviolabilità del sigillo sacramentale non ammette eccezioni né dispense. E le condizioni sono le stesse anche se la Confessione non è finita con l’assoluzione sacramentale. Anche dopo la morte del penitente, il confessore è tenuto ad osservare il sigillo sacramentale.

Mancanza di senso del peccato: in una cultura che minimizza il male, si rischia di non riconoscere più la gravità delle proprie colpe.

Pigrizia spirituale: rimandare la Confessione è una tentazione comune che porta a raffreddare il rapporto con Dio.

Errate convinzioni teologiche: alcuni credono erroneamente che basti “pentirsi nel cuore” senza bisogno della Confessione sacramentale.

La disperazione della salvezza: Alcuni pensano che per loro comunque non ci sarà più perdono. Dice san Agostino: “Alcuni infatti, dopo esser caduti in peccato, si perdono ancora di più per disperazione e non solo trascurano la medicina di pentirsi, ma si fanno schiavi di libidini e di desideri scellerati per soddisfare brame disoneste e riprovevoli, come se a non farlo perdessero pur quello a cui li istiga la libidine, convinti d’esser ormai già sull’orlo della sicura dannazione. Contro questa malattia estremamente pericolosa e dannosa giova il ricordo dei peccati in cui sono caduti anche i giusti e i santi.” (ibid.)

Per superare questi ostacoli bisogna chiedere consigli a chi li può dare, istruirsi, pregare.

Prepararsi bene alla confessione
Una buona confessione richiede una adeguata preparazione, che comprende:

1. Esame di coscienza: riflettere sinceramente sui propri peccati, aiutandosi anche con elenchi basati sui Dieci Comandamenti, sui vizi capitali o sulle Beatitudini.

2. Contrizione: dolore sincero per aver offeso Dio, non solo paura della punizione.

3. Proposito di emendarsi: desiderio reale di cambiare vita, di evitare il peccato futuro.

4. Accusa integrale dei peccati: confessare tutti i peccati mortali in modo completo, specificando la natura e il numero (se possibile).

5. Penitenza: accettare e compiere l’opera riparatrice proposta dal confessore.

Gli effetti della Confessione
Confessarsi non produce solo una cancellazione esterna del peccato. Gli effetti interiori sono profondi e trasformanti:

Riconciliazione con Dio: Il peccato rompe la comunione con Dio; la Confessione la ristabilisce, riportandoci alla piena amicizia divina.

Pace e serenità interiore: Ricevere l’assoluzione porta una pace profonda. La coscienza viene liberata dal peso della colpa e si sperimenta una gioia nuova.

Forza spirituale: Attraverso la grazia sacramentale, il penitente riceve una forza speciale per combattere le tentazioni future e per crescere nelle virtù.

Riconciliazione con la Chiesa: Poiché ogni peccato danneggia anche il Corpo Mistico di Cristo, la Confessione ricompone anche il nostro legame con la comunità ecclesiale.

La vitalità spirituale della Chiesa dipende anche dal rinnovamento personale dei suoi membri. I cristiani che riscoprono il Sacramento della Confessione diventano quasi senza accorgersi, più aperti al prossimo, più missionari, più capaci di irradiare la luce del Vangelo nel mondo.
Solo chi ha sperimentato il perdono di Dio può annunciarlo con convinzione agli altri.

Il Sacramento della Confessione è un dono immenso e insostituibile. È la via ordinaria attraverso la quale il cristiano può ritornare a Dio ogni volta che si allontana. Non è un peso, ma un privilegio; non una umiliazione, ma una liberazione.

Siamo chiamati, dunque, a riscoprire questo Sacramento nella sua verità e nella sua bellezza, a praticarlo con cuore aperto e fiducioso, e a proporlo con gioia anche a coloro che si sono allontanati. Come afferma il salmista: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e rimesso il peccato” (Sal 32,1).

Oggi, più che mai, il mondo ha bisogno di anime purificate e riconciliate, capaci di testimoniare che la misericordia di Dio è più forte del peccato. Se non lo abbiamo fatto alla Pasqua, approfittiamo del mese mariano di maggio e accostiamoci senza paura alla Confessione: lì ci attende il sorriso di un Padre che non smette mai di amarci.




Habemus Papam: Leone XIV

L’8 maggio 2025, memoria della Beata Vergine del Rosario di Pompei, è stato eletto il cardinale Robert Francis Prevost (69 anni) come 267º Pontefice. È il primo Papa nato negli Stati Uniti e ha scelto il nome Leone XIV.

Presentiamo il suo profilo biografico essenziale

Nascita: 14 settembre 1955, Chicago (Illinois, USA)
Famiglia: Louis Marius Prevost (di origini francesi e italiane) e Mildred Martínez (di origini spagnole); fratelli Louis Martín e John Joseph
Lingue: Inglese, spagnolo, italiano, portoghese e francese; legge latino e tedesco
Soprannome in Perù: “Latin Yankee” – sintesi della sua doppia anima culturale
Cittadinanza: statunitense e peruviana

Formazione
– Seminario minore agostiniano (1973)
– Laurea in Scienze matematiche, Villanova University (1977)
– Master of Divinity, Catholic Theological Union, Chicago (1982)
– Licenza in Diritto Canonico, Pontificia Università San Tommaso d’Aquino – Angelicum (1984)
– Dottorato in Diritto Canonico, Pontificia Università San Tommaso d’Aquino – Angelicum (1987), con la tesi: “Il ruolo del priore locale dell’Ordine di Sant’Agostino”
– Professione religiosa: noviziato di Saint Louis della provincia di Nostra Signora del Buon Consiglio dell’Ordine di Sant’Agostino (1977)
– Voti solenni (29.08.1981)
– Ordinazione sacerdotale: 19.06.1982, Roma (dall’arcivescovo Jean Jadot)

Ministero e incarichi principali
1985-1986: Missionario a Chulucanas, Piura (Perù)
1987: Direttore delle vocazioni e direttore delle missioni della Provincia Agostiniana “Madre del Buon Consiglio” di Olympia Fields, in Illinois (USA)
1988: Invio nella missione di Trujillo (Perù) come direttore del progetto di formazione comune degli aspiranti agostiniani dei Vicariati di Chulucanas, Iquitos e Apurímac
1988-1992: Direttore della comunità
1992-1998: Insegnante dei professi
1989-1998: Vicario giudiziario nell’Arcidiocesi di Trujillo, professore di Diritto Canonico, Patristica e Morale nel Seminario Maggiore “San Carlos e San Marcelo”
1999: Priore provinciale della Provincia “Madre del Buon Consiglio” (Chicago)
2001-2013: Priore Generale degli Agostiniani per due mandati (ca. 2700 religiosi in 50 Paesi)
2013: insegnante dei professi e vicario provinciale nella sua Provincia (Chicago)
2014: Amministratore apostolico della Diocesi Chiclayo e vescovo titolare di Sufar, Perù (nomina episcopale nel 03.11.2014)
2014: consacrazione episcopale, nella festa di Nostra Signora di Guadalupe (12.12.2014)
2015: nominato vescovo di Chiclayo (26.09.2015)
2018: 2º vicepresidente della Conferenza Episcopale del Perù (08.03.2018 – 30.01.2023)
2020: Amministratore apostolico di Callao, Perù (15.04.2020 – 17.04.2021)
2023: Arcivescovo ad personam (30.01.2023 – 30.09.2023)
2023: Prefetto del Dicastero per i Vescovi (30.01.2023 [12.04.2023] – 09.05.2025)
2023: Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina (30.01.2023 [12.04.2023] – 09.05.2025)
2023: Creato cardinale diacono, titolare di S. Monica degli Agostiniani (30.09.2023 [28.01.2024] – 06.02.2025)
2025: Promosso cardinale vescovo della diocesi suburbicaria di Albano (06.02.2025 – 08.05.2025)
2025: Eletto Sommo Pontefice (08.05.2025)

Servizio nella Curia Romana
È stato membro dei dicasteri per l’Evangelizzazione, Sezione per la prima evangelizzazione e le nuove Chiese particolari; per la Dottrina della Fede; per le Chiese Orientali; per il Clero; per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica; per la Cultura e l’Educazione; per i Testi Legislativi, e della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano

Che lo Spirito Santo illumini il suo ministero, come fece con il grande sant’Agostino.
Preghiamo per un pontificato fecondo e ricco di speranza!




Elezione del 266° successore di san Pietro

Ogni morte o rinuncia di un Pontefice apre una delle fasi più delicate della vita della Chiesa cattolica: l’elezione del Successore di san Pietro. Sebbene l’ultimo conclave risalga al marzo 2013, quando Jorge Mario Bergoglio è diventato Papa Francesco, comprendere come si elegge un Papa resta fondamentale per cogliere il funzionamento di un’istituzione millenaria che incide su oltre 1,3 miliardi di fedeli e — indirettamente — sulla geopolitica mondiale.

1. La sede vacante
Tutto inizia con la sede vacante, ossia il periodo che intercorre fra la morte (o la rinuncia) del Pontefice regnante e l’elezione del nuovo. La Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, promulgata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996 e aggiornata da Benedetto XVI nel 2007 e 2013, stabilisce procedure dettagliate.

Accertamento della vacanza
In caso di decesso: il Cardinale Camerlengo — oggi il card. Kevin Farrell — constata ufficialmente la morte, chiude e sigilla l’appartamento pontificio, e notifica l’evento al Cardinale Decano del Collegio cardinalizio.
In caso di rinuncia: la sede vacante scatta nell’orario indicato dall’atto di dimissioni, come avvenne alle 20:00 del 28 febbraio 2013 per Benedetto XVI.

Amministrazione ordinaria
Durante la sede vacante, il Camerlengo governa materialmente il patrimonio della Santa Sede ma non può compiere atti che spettano esclusivamente al Pontefice (nomine vescovili, decisioni dottrinali, ecc.).

Congregazioni generali e particolari
Tutti i cardinali — elettori e non — presenti a Roma si riuniscono nella Sala del Sinodo per discutere questioni urgenti. Le “particolari” includono Camerlengo e tre cardinali estratti a sorte a rotazione; le “generali” convocano l’intero corpo cardinalizio e vengono impiegate, fra l’altro, per fissare la data di inizio del conclave.

2. Chi può eleggere e chi può essere eletto
Gli elettori
Dal motu proprio Ingravescentem aetatem (1970) di Paolo VI, solo i cardinali che non abbiano compiuto 80 anni prima dell’inizio della sede vacante hanno diritto di voto. Il numero massimo di elettori è fissato a 120, ma può essere superato temporaneamente a causa di concistori ravvicinati.
Gli elettori devono:
– essere presenti a Roma entro l’inizio del conclave (salvo motivi gravi);
– prestare giuramento di segretezza;
– alloggiare nella Domus Sanctae Marthae, la residenza voluta da Giovanni Paolo II per garantire dignità e discrezione.
La clausura non è un vezzo medievale: mira a tutelare la libertà di coscienza dei cardinali e a proteggere la Chiesa da indebite ingerenze. Violare il segreto comporta scomunica automatica.

Gli eleggibili
In teoria qualunque battezzato di sesso maschile può essere eletto Papa, in quanto l’ufficio petrino è di diritto divino. Tuttavia, dal Medioevo ad oggi il Papa è sempre stato scelto fra i cardinali. Qualora venisse scelto un non cardinale o addirittura un laico, egli dovrebbe ricevere immediatamente ordinazione episcopale.

3. Il conclave: etimologia, logistica e simbolismo
Il termine “conclave” deriva dal latino cum clave, “con chiave”: i cardinali vengono “rinchiusi” fino all’elezione, per evitare pressioni esterne. La clausura è garantita da alcune regole:
– Luoghi consentiti: Cappella Sistina (votazioni), Domus Sanctae Marthae (alloggio), un percorso riservato fra i due edifici.
– Divieto di comunicazione: apparecchi elettronici consegnati, jam di segnali, controllo anti microspy.
– Segretezza assicurata anche da un giuramento che prevede sanzioni spirituali (scomunica latae sententiae) e canoniche.

4. Ordine del giorno tipico del conclave
1. Messa “Pro eligendo Pontifice” nella Basilica di San Pietro la mattina dell’ingresso in conclave.
2. Processione in Sistina recitando il Veni Creator Spiritus.
3. Giuramento individuale dei cardinali, pronunciato davanti all’Evangeliario.
4. Extra omnes! (“Fuori tutti!”): il Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie congeda i non aventi diritto.
5. Prima votazione (facoltativa) nel pomeriggio del giorno d’ingresso.
6. Doppia votazione quotidiana (mattina e pomeriggio) con, al termine, lo scrutinio.

5. Procedura del voto
Ogni tornata segue quattro momenti:
5.1. Praescrutinium. Distribuzione e compilazione in latino della scheda “Eligo in Summum Pontificem…”.
5.2. Scrutinium. Ciascun cardinale, portando la scheda piegata, pronuncia: “Testor Christum Dominum…”. Depone la scheda nell’urna.
5.3. Post-scrutinium. Tre scrutatores (scrutatori) estratti a sorte contano le schede, leggono ad alta voce ogni nome, lo registrano e perforano la scheda con ago e filo.
5.4. Bruciatura. Schede e appunti vengono bruciati in una stufa speciale; il colore del fumo indica l’esito.
Per essere eletto serve la maggioranza qualificata, ossia, due terzi dei voti validi.

6. Il fumo: nera attesa, bianca gioia
Dal 2005, per rendere inequivocabile il segnale ai fedeli in Piazza San Pietro, si aggiunge un reagente chimico:
– Fumo nero (fumata nera): nessun eletto.
– Fumo bianco (fumata bianca): Papa eletto; suonano anche le campane.
Dopo la fumata bianca, ci vorranno altri 30 minuti o un’ora prima che il nuovo Papa venga nominato dal Cardinale Diacono in Piazza San Pietro. Poco dopo (dai 5 ai 15 minuti), il nuovo Papa apparirà per impartire una benedizione Urbi et Orbi.

7. “Acceptasne electionem?” – Accettazione e nome pontificio
Quando qualcuno raggiunge la soglia necessaria, il Cardinale Decano (o il più anziano per ordine e anzianità giuridica, se il Decano è l’eletto) chiede: «Acceptasne electionem de te canonice factam in Summum Pontificem?» (Accetti l’elezione?). Se l’eletto acconsente — Accepto! — gli viene domandato: «Quo nomine vis vocari?» (Con quale nome vuoi essere chiamato?). L’assunzione del nome è un atto carico di significati teologici e pastorali: richiama modelli (Francesco d’Assisi) o intenzioni riformatrici (Giovanni XXIII).

8. Riti immediatamente successivi
8.1 Vestizione.
8.2 Ingresso nella Cappella del Pianto, dove il nuovo Papa può raccogliersi.
8.3 Oboedientia: i cardinali elettori sfilano per il primo atto di ubbidienza.
8.4 Annuncio al mondo: il cardinale Protodiacono compare sulla Loggia centrale con il celebre «Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam!».
8.5 Prima benedizione “Urbi et Orbi” del nuovo Pontefice.

Da quel momento prende possesso dell’ufficio e inizia formalmente il suo pontificato, mentre l’incoronazione con il pallio petrino e l’anello del Pescatore avvengono nella Messa di inaugurazione (di solito la domenica successiva).

9. Alcuni aspetti storici e sviluppo delle norme
I–III secolo. Acclamazione del clero e del popolo romano. In assenza di una normativa stabile era forte l’influenza imperiale.
1059 – In nomine Domini. Collegio cardinalizio. Niccolò II limita l’intervento laicale; nascita ufficiale del conclave.
1274 – Ubi Periculum. Clausura obbligatoria. Gregorio X riduce le manovre politiche, introduce la reclusione.
1621–1622 – Gregorio XV. Scrutinio segreto sistematico. Perfezionamento delle schede; requisiti dei due terzi.
1970 – Paolo VI. Limite di età a 80 anni. Riduce l’elettorato, favorendo decisioni più rapide.
1996 – Giovanni Paolo II. Universi Dominici Gregis. Codifica moderna del processo, introduce Domus Sanctae Marthae.

10. Alcuni dati concreti di questo Conclave
Cardinali viventi: 252 (età media: 78,0 anni).
Cardinali votanti: 133 (135). Il Cardinale Antonio Cañizares Llovera, Arcivescovo emerito di Valencia, Spagna e il Cardinale John Njue, Arcivescovo emerito di Nairobi, Kenya, hanno comunicato che non potranno partecipare al conclave.
Dei 135 cardinali votanti, 108 (80%) sono stati nominati da Papa Francesco. 22 (16%) sono stati nominati da Papa Benedetto XVI. I restanti 5 (4%) sono stati nominati da Papa san Giovanni Paolo II.
Dei 135 cardinali votanti, 25 hanno partecipato come elettori al Conclave del 2013.
Età media dei 134 cardinali elettori partecipanti: 70,3 anni.
Anni medi di servizio come cardinale dei 134 cardinali elettori partecipanti: 7,1 anni.
Durata media di un papato: circa 7,5 anni.

Inizio del Conclave: 7 maggio, Cappella Sistina.
Cardinali votanti nel Conclave: 134. Numero dei voti richiesto per l’elezione è 2/3, ossia 89 voti.

Orario delle votazioni: 4 voti al giorno (2 al mattino, 2 al pomeriggio).
Dopo 3 giorni interi (ovvero da definire), il voto viene sospeso per un giorno intero (“per consentire una pausa di preghiera, una discussione informale tra gli elettori e una breve esortazione spirituale”).
Seguono altre 7 schede e un’altra pausa fino a un giorno intero.
Seguono altre 7 schede e un’altra pausa fino a un giorno intero.
Seguono altre 7 schede e poi una pausa per valutare come procedere.

11. Dinamiche “interne” non scritte
Pur nella rigida cornice giuridica, la scelta del Papa è un processo spirituale pero e anche umano influenzato da:
– Profili dei candidati (“papabili”): provenienza geografica, esperienze pastorali, competenze dottrinali.
– Correnti ecclesiali: curiale o pastorale, riformista o conservatrice, sensibilità liturgiche.
– Agenda globale: rapporti ecumenici, dialogo interreligioso, crisi sociali (migranti, cambiamento climatico).
– Lingue e reti personali: i cardinali tendono a riunirsi per regioni (gruppo dei “latinoamericani”, “africani”, ecc.) e a confrontarsi informalmente nei pasti o nelle “passeggiate” nei giardini vaticani.

Un evento spirituale e istituzionale insieme
L’elezione di un Papa non è un passaggio tecnico paragonabile a un’assemblea societaria. Nonostante la dimensione umana, è un atto spirituale guidato essenzialmente dallo Spirito Santo.
La cura di norme minuziose — dal sigillo delle porte della Sistina alla combustione delle schede — mostra come la Chiesa abbia trasformato la propria lunga esperienza storica in un sistema oggi percepito come stabile e solenne.
Sapere come si sceglie un Papa, quindi, non è soltanto curiosità: è comprendere la dinamica fra autorità, collegialità e tradizione che regge la più antica istituzione religiosa ancora operante su scala mondiale. E, in un’epoca di cambiamenti vertiginosi, quel “fumetto” che si leva dal tetto della Sistina continua a ricordare che decisioni secolari possono ancora parlare al cuore di miliardi di persone, dentro e fuori la Chiesa.
Questa conoscenza dei dati e delle procedure ci aiutino a pregare più intensamente, come si deve pregare davanti ad ogni decisione importante che affetti la nostra vita.