25 Set 2025, Gio

Profili di famiglie ferite nella storia della santità salesiana

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1. Storie di famiglie ferite
            Siamo abituati ad immaginare la famiglia come una realtà armoniosa, contraddistinta dalla compresenza di più generazioni e dal ruolo-guida di genitori che danno la norma e di figli i quali – nell’apprenderla – vengono da loro guidati nell’esperienza della realtà. Tuttavia spesso le famiglie si trovano attraversate da drammi e incomprensioni, o segnate da ferite che ne aggrediscono la configurazione ottimale e ne restituiscono un’immagine distorta, falsata e falsante.
            Anche la storia della santità salesiana è attraversata da storie di famiglie ferite: famiglie dove vien meno almeno una delle figure genitoriali, oppure la presenza della mamma e del papà diventa, per ragioni diverse (fisiche, psichiche, morali e spirituali), penalizzante per i loro figli, oggi incamminati verso gli onori degli altari. Lo stesso Don Bosco, che aveva sperimentato la morte prematura del padre e l’allontanamento dalla famiglia per la prudente volontà di Mamma Margherita, vuole – non è un caso – l’opera salesiana particolarmente dedicata alla «gioventù povera e abbandonata» e non esita a raggiungere i giovani che si sono formati nel suo oratorio con una intensa pastorale vocazionale (dimostrando che nessuna ferita del passato è ostacolo a una vita umana e cristiana piena). È pertanto naturale che la stessa santità salesiana, che attinge alle esistenze di molti giovani di Don Bosco poi consacrati per suo tramite alla causa del Vangelo, porti in sé – quale logica conseguenza – traccia di famiglie ferite.
Di questi ragazzi e ragazze cresciuti a contatto con le opere salesiane se ne vogliono presentare tre, di cui “innestare” la vicenda nel solco biografico di Don Bosco. I protagonisti sono:
            – la beata Laura Vicuña, nata nel Cile del 1891, orfana di padre e la cui mamma inizia in Argentina una convivenza con il ricco possidente Manuel Mora; Laura dunque, ferita dalla situazione di irregolarità morale della mamma, è pronta ad offrire la vita per lei;
            – il servo di Dio Carlo Braga, valtellinese classe 1889, abbandonato piccolissimo dal padre e la cui mamma viene allontanata perché ritenuta, per un misto di ignoranza e maldicenza, psichicamente labile; Carlo dunque che incontra grandi umiliazioni e vedrà messa più volte in difficoltà la propria vocazione salesiana da quanti temono in lui un compromettente ripresentarsi del disagio psichico falsamente attribuito alla mamma;
            – infine la serva di Dio Anna Maria Lozano, che nasce nel 1883 in Colombia, segue con la propria famiglia il papà nel lazzaretto, ove è costretto a trasferirsi in seguito alla comparsa della terribile lebbra, sarà ostacolata nella propria vocazione religiosa, ma potrà infine realizzarla grazie all’incontro provvidenziale con il salesiano Luigi Variara, beato.

2. Don Bosco e la ricerca del padre
            Come Laura, Carlo e Anna Maria – segnati dall’assenza o dalle “ferite” di una o più figure genitoriali – prima di loro, e in certo senso “per loro”, anche Don Bosco sperimenta il venir meno di un nucleo familiare forte.
            Le Memorie dell’Oratorio devono ben presto soffermarsi sulla precoce perdita del padre: Francesco muore a 34 anni e Don Bosco – non senza ricorrere a un’espressione per certi aspetti sconcertante – riconosce che «Dio misericordioso li colpì tutti con grave sciagura». Così, tra i primissimi ricordi del futuro santo dei giovani si fa strada un’esperienza lacerante: quella della salma del padre, da cui la mamma tenta di allontanarlo incontrando però la sua resistenza: «Io ci voleva assolutamente rimanere», spiega Don Bosco, che allora aveva aggiunto: «Se non viene papà non ci voglio andare [via]». Margherita gli risponde allora: «Povero figlio, vieni meco, tu non hai più padre». Ella piange e Giovannino, che manca d’una comprensione razionale della situazione, ma ne intuisce tutto il dramma con un’intuizione affettiva ed immedesimante, fa propria la tristezza della mamma: «Io piangeva perché ella piangeva, giacché in quell’età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre».

            Di fronte al papà morto, Giovannino dimostra di considerarlo ancora il centro della propria vita. Dice infatti: «non ci voglio andare [con te, mamma]» e non, come ci aspetterebbe: «non ci voglio venire». Il suo punto di riferimento è il padre – punto di partenza ed auspicabile punto di ritorno –, rispetto al quale ogni allontanamento appare destabilizzante. Nella drammaticità di quei momenti, inoltre, Giovannino non ha ancora capito che cosa significhi la morte del genitore. Spera infatti («se papà non viene…») che il padre possa ancora restargli vicino: eppure ne intuisce già l’immobilismo, il mutismo, l’incapacità di proteggerlo e di difenderlo, l’impossibilità d’essere da lui preso per mano per diventare a propria volta un uomo. Le vicende immediatamente successive, poi, confermano Giovanni nella certezza che il padre amorevolmente protegga, indirizzi e guidi e che, quando gli manca, anche la migliore delle madri, come Margherita è, possa provvedere solo in parte. Sulla sua strada di ragazzo esuberante, il futuro Don Bosco incontra però altri “padri”: i quasi-coetanei Luigi Comollo, che risveglia in lui l’emulazione delle virtù, e san Giuseppe Cafasso, che lo chiama «mio caro amico», gli fa «grazioso cenno di avvicinarsi» e, così facendo, lo conferma nella persuasione che paternità sia vicinanza, confidenza e interessamento concreto. Ma c’è soprattutto don Calosso, il sacerdote che “intercetta” il ricciuto Giovannino in occasione d’una “missione popolare” e diventa determinante per la sua crescita umana e spirituale. I gesti di don Calosso operano nel preadolescente Giovanni una vera e propria rivoluzione. Don Calosso innanzitutto gli parla. Quindi gli dà parola. Poi lo incoraggia. Ancora: si interessa alla storia della famiglia Bosco, dimostrando di saper contestualizzare l’“ora” di quel ragazzo nel “tutto” della sua vicenda. Inoltre gli svela il mondo, anzi in qualche modo lo rimette al mondo, facendogli conoscere cose nuove, regalandogli nuove parole e dimostrandogli che ha le capacità per fare molto e bene. Infine lo custodisce con il gesto e con lo sguardo, e provvede a lui nei suoi bisogni più urgenti e reali: «Mentre io parlavo, non mi tolse mai di dosso lo sguardo.
“Sta di buon animo amico, io penserò a te e al tuo studio”».

            In don Calosso, Giovanni Bosco fa dunque esperienza che la vera paternità merita un affidamento totale e totalizzante; conduce alla consapevolezza di sé; dischiude un “mondo ordinato” dove la regola dà sicurezza ed educa alla libertà:

            «Io mi sono tosto messo nelle mani di don Calosso. Conobbi allora che cosa voglia dire avere una guida stabile […], un fedele amico dell’anima… Egli mi incoraggiò; tutto il tempo che io poteva lo passava presso di lui…. Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia la vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione».

            Il padre terreno però è pure colui che vorrebbe sempre essere presso il figlio, ma ad un certo punto non riesce più a farlo. Anche don Calosso muore; anche il padre migliore a un certo punto si fa da parte, per donare al figlio la forza del distacco e dell’autonomia tipiche dell’età adulta.
            Qual è allora, per Don Bosco, la differenza tra famiglie riuscite o fallite? Si sarebbe tentati di dire che sta tutta qui: “riuscita” è la famiglia contraddistinta da genitori che educano i figli alla libertà e, se li lasciano, è solo per una sopraggiunta impossibilità o per il loro bene. “Ferita” invece è la famiglia dove il genitore non genera più alla vita, ma porta in sé problemi di varia natura che ostacolano la crescita del figlio: un genitore che si disinteressa a lui e, davanti alle difficoltà, persino lo abbandona, con un atteggiamento così diverso da quello del Buon Pastore.
            Le vicende biografiche di Laura, Carlo e Anna Maria lo confermano.

3. Laura: una figlia che “genera” la propria madre
            Nata a Santiago del Cile il 5 aprile 1891, e battezzata il 24 maggio successivo, Laura è la figlia maggiore di José D. Vicuña, un nobile decaduto che aveva sposato Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori. Tre anni dopo arriva una sorellina, Julia Amanda, ma ben presto il papà muore, dopo avere subíto una sconfitta politica che ne ha minato la salute e compromesso, con il sostentamento economico della famiglia, anche l’onore. Priva di qualsiasi «protezione e prospettiva di futuro», la mamma approda in Argentina, dove ricorre alla tutela del proprietario terriero Manuel Mora: un uomo «di carattere superbo e altero», che «non dissimula odio e disprezzo per chiunque avversasse i suoi disegni». Un uomo insomma che solo in apparenza garantisce protezione, ma è in realtà abituato a prendere, se necessario con la forza, quello che vuole, strumentalizzando le persone. Intanto paga gli studi presso il collegio delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Laura e alla sorella e la loro madre – che subisce l’influsso psicologico di Mora – convive con lui senza trovare la forza di rompere il legame. Quando però Mora inizia a mostrare segni di disonesto interesse verso la stessa Laura, e soprattutto quando quest’ultima intraprende il percorso di preparazione alla Prima Comunione, lei d’un tratto comprende tutta la gravità della situazione. A differenza della mamma – che giustifica un male (la convivenza) in vista di un bene (l’educazione delle figlie in collegio) – Laura capisce che si tratta di una argomentazione moralmente illegittima, che mette in grave pericolo l’anima della madre. In questo periodo, poi, Laura vorrebbe diventare ella stessa suora di Maria Ausiliatrice: ma la sua domanda è respinta, perché figlia di una «pubblica concubina». Ed è a questo punto che proprio in Laura – accolta in collegio quando in lei dominavano ancora «impulsività, facilità di risentimento, irritabilità, impazienza e propensione ad apparire» – si manifesta un cambiamento che solo la Grazia, unita all’impegno della persona, può operare: chiede a Dio la conversione della madre, offrendo se stessa per lei. In quel momento, Laura non può muoversi né “in avanti” (entrando tra le Figlie di Maria Ausiliatrice) né “indietro” (tornando dalla madre e dal Mora). Con un gesto allora carico della creatività tipica dei santi, Laura intraprende l’unica strada che le è ancora accessibile: quella dell’altezza e della profondità. Nei propositi della Prima Comunione aveva annotato:

            Propongo di fare quanto so e posso per […] riparare le offese che voi, Signore, ricevete ogni giorno dagli uomini, specie dalle persone della mia famiglia; mio Dio, datemi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio.

            Ora finalizza il proposito in “Atto di offerta”, che include il sacrificio della vita stessa. Il confessore, riconoscendo che l’ispirazione è da Dio ma ignorandone le conseguenze, acconsente, e conferma che Laura è «consapevole dell’offerta che ha appena compiuto». Lei vive gli ultimi due anni con silenzio, allegria e sorriso e una indole ricca di calore umano. Eppure lo sguardo che posa sul mondo – come conferma un ritratto fotografico, molto diverso dalla stilizzazione agiografica nota – dice anche tutta la sofferta consapevolezza e il dolore che la abitano. In una situazione dove le manca sia la “libertà da” (condizionamenti, ostacoli, fatiche), sia la “libertà di” fare tante cose, questa preadolescente testimonia la “libertà per”: quella del dono totale di sé.
            Laura non disprezza, ma ama la vita: la propria e quella della mamma. Per questo si offre. Il 13 aprile 1902, Domenica del Buon Pastore, si chiede: «Se Lui dà la vita… cosa lo impedisce a me per la mamma?». Morente, aggiunge: «Mamma, io muoio, io stessa l’ho chiesto a Gesù… sono quasi due anni che gli offersi la vita per te…, per ottenere la grazia del tuo ritorno!».

            Sono parole prive di rimpianto e di rimprovero, ma cariche di una grande forza, una grande speranza e una grande fede. Laura ha imparato ad accogliere la mamma per quello che è. Offre anzi sé stessa per donarle ciò che lei sola non riesce a conseguire. Quando Laura muore, la mamma si converte. Laurita de los Andes, la figlia, ha così contribuito a generare la madre nella vita di fede e di grazia.

4. Carlo Braga e l’ombra della madre
            Anche Carlo Braga, che nasce due anni prima di Laura, nel 1889, è segnato dalla fragilità della mamma: quando infatti il marito abbandona lei e i figli, Matilde «non mangiava quasi più e declinava a vista d’occhio». Condotta quindi a Como, vi muore quattro anni più tardi di tubercolosi, anche se tutti sono convinti che la depressione si fosse trasformata per lei in una vera e propria pazzia. Carlo inizia allora ad essere «compatito come il figlio di un incosciente [il padre] e d’una madre infelice». Lo soccorrono però tre provvidenziali avvenimenti.
            Del primo, occorso quando era piccolissimo, egli riscopre più tardi il senso: era caduto nel focolare e la mamma Matilde, nel trarlo in salvo, l’aveva in quell’istante consacrato alla Madonna. Così, il pensiero della mamma assente diventa per Carlo bambino «un ricordo doloroso e consolante insieme»: dolore per la sua assenza; ma anche certezza che ella lo abbia affidato alla Madre di tutte le madri, Maria Santissima. Scrive don Braga, anni dopo, a un confratello salesiano colpito dalla perdita della propria mamma:

            Ora la mamma ti appartiene assai più di quando era viva. Lascia che io ti parli della mia personale esperienza. Mia madre mi lasciò quando avevo sei anni […]. Ma ti devo confessare che essa mi seguì passo passo e, quando piangevo desolato al mormorio dell’Adda, mentre, pastorello, mi sentivo chiamato ad una vocazione più alta, mi sembrava che la Mamma mi sorridesse e mi asciugasse le lacrime.

            Carlo incontra poi suor Giuditta Torelli, una Figlia di Maria Ausiliatrice che «salvò il piccolo Carlo dalla disgregazione della sua personalità quando a nove anni si accorse di essere tollerato e sentì talvolta la gente dire a suo riguardo: “Povero figliolo, perché poi è al mondo?”». C’è infatti chi sosteneva che suo padre avrebbe meritato d’esser fucilato per il tradimento dell’abbandono e, quanto alla mamma, molti compagni di scuola gli replicano: «Tu sta’ zitto, tanto tua madre era una matta». Ma suor Giuditta lo ama o lo aiuta in modo speciale; posa su di lui uno sguardo “nuovo”; inoltre crede nella sua vocazione e la incoraggia.
            Entrato quindi nel collegio salesiano di Sondrio, Carlo vive la terza e decisiva esperienza: conosce don Rua, di cui ha l’onore di essere il piccolo segretario per un giorno. Don Rua sorride a Carlo e, ripetendo il gesto che Don Bosco aveva compiuto un tempo con lui («Michelino, io e te faremo sempre tutto a metà»), «mette la sua mano dentro la propria e gli dice: “noi saremo sempre amici”»: se suor Giuditta aveva creduto nella vocazione di Carlo, don Rua gli permette ora di realizzarla, «facendolo passare sopra a tutti gli ostacoli». Certo a Carlo Braga le difficoltà non mancheranno ad ogni tappa di vita – da novizio, chierico, addirittura ispettore –, concretizzandosi in rinvii prudenziali e assumendo talvolta la forma della maldicenza: ma egli avrà ormai imparato ad affrontarle. Diventa intanto un uomo capace di irradiare una straordinaria gioia, umile, attivo e di delicata ironia: tutte caratteristiche che dicono l’equilibrio della persona e il suo senso di realtà. Sotto l’azione dello Spirito Santo, don Braga sviluppa egli stesso un’irradiante paternità, cui si unisce una grande tenerezza per i giovani a lui affidati. Don Braga riscopre l’amore per il proprio papà, lo perdona e intraprende un viaggio per riconciliarsi con lui. Si sottopone a fatiche senza numero pur di essere sempre tra i suoi Salesiani e ragazzi. Si definisce come colui che è «stato messo nella vigna a far da palo», cioè in ombra ma per il bene degli altri. Un padre, nell’affidargli il proprio figlio come aspirante salesiano, dice: «Con un uomo simile ti lascio andare anche al Polo Nord!». Don Carlo non si scandalizza dei bisogni dei figli, anzi li educa a manifestarli, ad accrescere il desiderio: «Hai bisogno di qualche libro? Non avere paura, scrivi una lista più lunga». Soprattutto, don Carlo ha imparato a posare sugli altri quello sguardo d’amore dal quale lui stesso si era sentito raggiunto un tempo grazie a suor Giuditta e don Rua. Testimonia don Giuseppe Zen, oggi cardinale, in un passo lungo che merita però di essere letto integralmente e che inizia con le parole della propria mamma a don Braga:

            «Guardi, Padre, questo ragazzo non è più tanto bravo. Forse non è adatto per essere accettato in questo istituto. Io non vorrei che lei fosse ingannato. Ah, sapesse come mi ha fatto disperare in questo ultimo anno! Non sapevo proprio più come fare. E se farà disperare anche qui, me lo dica pure, che lo vengo a riprendere subito». Don Braga, invece di rispondere, mi guardava negli occhi; io pure lo guardavo, ma a testa bassa. Mi sentivo come un imputato accusato dal Pubblico Ministero, anziché difeso dal proprio avvocato. Ma il giudice era dalla mia parte. Con lo sguardo mi ha profondamente capito, subito e meglio di tutte le spiegazioni di mia madre. Egli stesso, scrivendomi molti anni più tardi, si applicava le parole del Vangelo: «Intuitus dilexit eum (“guardatolo lo amò”)». E da quel giorno non ebbi più dubbi sulla mia vocazione.

5. Anna Maria Lozano Díaz e la feconda malattia del padre
            I genitori di Laura e di Carlo si erano – a vario titolo – rivelati dei “lontani” e degli “assenti”. Un’ultima figura, quella di Anna Maria, attesta invece il dinamismo opposto: quello d’un padre troppo presente, che con la sua presenza dischiude però alla figlia un nuovo cammino di santificazione. Anna nasce il 24 settembre 1883 a Oicatà, in Colombia, in una famiglia numerosa, contraddistinta dall’esemplare vita cristiana dei genitori. Quando Anna è giovanissima il papà – un giorno, nel lavarsi – scopre una macchia sospetta sulla gamba. È la terribile lebbra, che egli riesce per qualche tempo a nascondere, ma è costretto infine a riconoscere, accettando dapprima di separarsi dalla famiglia, quindi di ricongiungersi con essa presso il lazzaretto di Agua de Dios. La moglie gli aveva detto eroicamente: «La tua sorte è la nostra». Così, i sani accettano i condizionamenti che vengono loro dall’assumere il ritmo dei malati. In questo frangente, la malattia del padre condiziona la libertà di scelta di Anna Maria, costretta a progettare la propria vita nel lazzaretto. Lei inoltre – come era già successo a Laura – si trova impossibilitata nel realizzare la propria vocazione religiosa a causa della malattia paterna: sperimenta allora, interiormente, quella lacerazione che la lebbra opera sui malati. Anna Maria però non è sola. Come Don Bosco grazie al Calosso, Laura nel confessore e Carlo in don Rua, trova un amico dell’anima. È il beato don Luigi Variara, salesiano, che la assicura: «Se avete vocazione religiosa, si realizzerà», e la coinvolge nella fondazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, nel 1905. È il primo Istituto ad accogliere al proprio interno lebbrose o figlie di lebbrosi. Quando la Lozano muore, il 5 marzo 1982 a quasi 99 anni, Madre generale per più di mezzo secolo, l’intuizione del salesiano don Variara si è ormai concretizzata in un’esperienza che ha confermato e rafforzato la dimensione vittimale-riparatrice del carisma salesiano.

6. I santi insegnano
            Nella loro ineliminabile differenza, le vicende di Laura Vicuña (beata), Carlo Braga e Anna Maria Lozano (servi di Dio) sono accomunate da alcuni aspetti degni di nota:

            a) Laura, Anna e Carlo, come già Don Bosco, soffrono situazioni di di-sagio e di difficoltà, a vario titolo ricollegate ai loro genitori. Non ci si può dimenticare di Mamma Margherita, che si vede costretta ad allontanare Giovannino da casa quando l’assenza dell’autorità paterna facilita la contrapposizione con il fratello Antonio; né scordare che Laura si vide insidiata dal Mora e respinta dalle Figlie di Maria Ausiliatrice come loro aspirante; che Carlo Braga subì incomprensioni e calunnie; o che la lebbra del padre sembra ad un certo punto sottrarre ad Anna Maria ogni speranza di futuro.
Una famiglia a vario titolo ferita arreca perciò un danno oggettivo a chi ne fa parte: misconoscere o tentare di ridurre la portata di questo danno sarebbe una impresa altrettanto illusoria quanto ingiusta. Ad ogni sofferenza si associa infatti un elemento di perdita che i “santi”, con il loro realismo, intercettano e imparano a chiamare per nome.

            b) Giovannino, Laura, Anna Maria e Carlo compiono a questo punto un secondo passaggio, più arduo del primo: invece di subire passivamente la situazione, o di gemere su di essa, muovono con accresciuta consapevolezza incontro al problema. Oltre a un vivo realismo, attestano la capacità, tipica dei santi, di reagire con prontezza, evitando il ripiegarsi autoreferenziale. Si dilatano nel dono, e innestano questo dono nelle condizioni concrete di vita. Così facendo, saldano il «da mihi animas» al «caetera tolle».

            c) I limiti e le ferite, così, non sono mai rimossi: ma sempre riconosciuti e chiamati per nome; addirittura, sono “abitati”. Anche la beata Alexandrina Maria da Costa e il servo di Dio Nino Baglieri, il venerabile Andrea Beltrami e il beato Augusto Czartoryski, “raggiunti” dal Signore nelle condizioni invalidanti della loro malattia, il beato Tito Zeman, il venerabile José Vandor e il servo di Dio Ignazio Stuchlý – parte di vicende storiche più grandi di loro e che paiono sopraffarli – insegnano la difficile arte di sostare nelle difficoltà e permettere al Signore di fare fiorire la persona in esse. La libertà di scelta assume qui la forma altissima di una libertà di adesione, nel «fiat!».


Nota Bibliografica:
            Per preservare il carattere di “testimonianza” e non di “relazione” di questo scritto, si è evitato un apparato critico di note. Si segnala però che le citazioni presenti nel testo sono tratte dalle Memorie dell’Oratorio del Sac. Giovanni Bosco; da Maria Dosio, Laura Vicuña. Un cammino di santità giovanile salesiana, LAS, Roma 2004; da Don Carlo Braga racconta la sua esperienza missionaria e pedagogica (testimonianza autobiografica del servo di Dio) e dalla Vita di Don Carlo Braga, “Il Don Bosco della Cina”, scritta dal salesiano don Mario Rassiga e oggi disponibile in ciclostilato. A queste fonti si aggiungono poi i materiali dei Processi di beatificazione e canonizzazione, accessibili per Don Bosco e Laura, ancora riservati per i servi di Dio.

Da Prof.ssa Lodovica Maria ZANET

Dottore di ricerca in Filosofia, ha insegnato all’Università Cattolica di Milano e alla Pontificia Università Salesiana. Ha conseguito nel 2014 il Diploma rilasciato dallo Studium della Congregazione delle Cause dei santi. Ex-allieva dei Salesiani di Milano, è dal 2011 Collaboratrice della Postulazione Generale della Famiglia Salesiana, con l’incarico di redigere le Positiones sulle virtù eroiche o il martirio dei candidati agli onori degli altari, e accompagnare alcune Inchieste diocesane. È autrice di vari libri.