Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette

Don Bosco propone una dettagliata narrazione dell’“Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette”, avvenuta il 19 settembre 1846, sulla base di documenti ufficiali e delle testimonianze dei veggenti. Ricostruisce il contesto storico e geografico – due giovani pastorelli, Massimino e Melania, nell’asma delle Alpi – l’incontro prodigioso con la Vergine, il suo messaggio di ammonimento contro il peccato e la promessa di grazie e provvidenze, nonché i segni soprannaturali che ne accompagnarono le dimostrazioni. Presenta le vicende della diffusione del culto, l’influsso spirituale sugli abitanti e sul mondo intero, e il segreto rivelato solo a Pio IX per rinvigorire la fede dei cristiani e a testimoniare la perenne presenza dei prodigi nella Chiesa.

Protesta dell’Autore
Per ubbidire ai decreti di Urbano VIII mi protesto, che a quanto si dirà nel libro di miracoli, rivelazioni, o di altri fatti, non intendo di attribuire altra autorità, che umana; e dando ad alcuno titolo di Santo o Beato, non intendo darlo se non secondo l’opinione; eccettuate quelle cose e persone, che sono state già approvate dalla S. Sede Apostolica.

Al lettore
            Un fatto certo e meraviglioso, attestato da migliaia di persone, e che tutti possono anche oggidì verificare, è l’apparizione della beata Vergine, avvenuta il 19 settembre 1846 (Su questo fatto straordinario si possono consultare molte operette e parecchi giornali stampati contemporaneamente al fatto e segnatamente: Notizia sull’apparizione di Maria SS. Torino, 1847; Santo officiale dell’apparizione, ecc., 1848; Il libretto stampato per cura del sac. Giuseppe Gonfalonieri, Novara, presso Enrico Grotti)
Questa nostra pietosa Madre è apparsa in forma e figura di gran Signora a due pastorelli, cioè ad un fanciullo di 11 anni, e ad una villanella di 15 anni, là sopra una montagna della catena delle Alpi situata nella parrocchia di La Salette in Francia. Ed essa comparve non pel bene soltanto della Francia, come dice il Vescovo di Grenoble, ma pel bene di tutto il mondo; e ciò per avvertirci della gran collera del suo Divin Figlio, accesa specialmente pei tre peccati: la bestemmia, la profanazione delle feste e il mangiar grasso nei giorni proibiti.
A questo tengono dietro altri fatti prodigiosi raccolti eziandio da pubblici documenti, oppure attestati da persone la cui fede esclude ogni dubbio intorno a quanto riferiscono.
Questi fatti valgano a confermare i buoni nella religione, a confutare quelli che forse per ignoranza vorrebbero porre un limite alla potenza e alla misericordia del Signore dicendo: Non è più il tempo dei miracoli.
Gesù disse che nella sua Chiesa si sarebbero operati miracoli maggiori che Egli non operò: e non fissò né tempo né numero, perciò finché vi sarà la Chiesa, noi vedremo sempre la mano del Signore che farà manifesta la sua potenza con prodigiosi avvenimenti, perché ieri ed oggi e sempre G. C. sarà quello che governa e assiste la sua Chiesa fino alla consumazione dei secoli.
Ma questi segni sensibili della Onnipotenza Divina sono sempre presagio di gravi avvenimenti che manifestano la misericordia e la bontà del Signore, oppure la sua giustizia e il suo sdegno, ma in modo che se ne tragga la sua maggior gloria e il maggior vantaggio delle anime.
Facciamo che per noi siano sorgente di grazie e di benedizioni; servano di eccitamento alla fede viva, fede operosa, fede che ci muova a fare il bene e a fuggire il male per renderci degni della sua infinita misericordia nel tempo e nella eternità.

Apparizione della B. Vergine sulle montagne della Salette
            Massimino, figlio di Pietro Giraud, falegname del borgo di Corps, era un fanciullo di 11 anni: Francesca Melania figlia di poveri parenti, nativa di Corps era una giovinetta di anni 15. Niente avevano di singolare: Ambedue ignoranti e rozzi, ambedue addetti a guardare il bestiame su pei monti. Massimino non sapeva altro che il Pater e l’Ave; Melania ne sapeva poco più, tanto che per la sua ignoranza non era ancora stata ammessa alla s. Comunione.
Mandati dai loro genitori a guidare il bestiame nei pascoli, non fu se non per puro accidente che il giorno 18 settembre, vigilia del grande avvenimento, s’incontrarono sul monte, mentre abbeveravano le loro vacche ad una fontana.
La sera di quel giorno, nel far ritorno a casa col bestiame, Melania disse a Massimino: «Domani chi sarà il primo a trovarsi sulla Montagna?» E all’indomani, 19 settembre, che era un sabato vi salivano insieme, conducendo ciascuno quattro vacche ed una capra. La giornata era bella e serena il sole brillante. Verso il mezzogiorno udendo suonare la campana dell’Angelus, fanno breve preghiera col segno della s. Croce; di poi prendono le loro provvisioni di bocca e vanno a mangiare presso una piccola sorgente, che era a sinistra d’un ruscelletto. Finito di mangiare, passano il ruscello, depongono i loro sacchi presso una fontana asciutta, discendono ancora qualche passo, e contro il solito si addormentano a qualche distanza l’uno dall’altro.
Ora ascoltiamo il racconto dagli stessi pastorelli tal quale essi lo fecero la sera del 19 ai loro padroni e di poi le mille volte a migliaia di persone.
Noi ci eravamo addormentati… racconta Melania, io mi sono svegliata la prima; e, non vedendo le mie vacche, svegliai Massimino dicendogli: Su andiamo a cercare le nostre vacche. Abbiamo passato il ruscello, siamo saliti un po’ in su, e le vedemmo dalla parte opposta coricate. Esse non erano lontane. Allora tornai giù a basso; e a cinque o sei passi prima di arrivare al ruscello, vidi un chiarore come il Sole, ma ancor più brillante, non però del medesimo colore, e dissi a Massimino: Vieni, vieni presto a veder là abbasso un chiarore (Erano tra le due e le tre ore dopo mezzogiorno).
Massimino discese subito dicendomi: Dov’è questo chiarore? E glielo indicai col dito rivolto alla piccola fontana; e lui si fermò quando lo vide. Allora noi vedemmo una Signora in mezzo alla luce; essa sedeva sopra un mucchio di sassi, col volto tra le mani. Per la paura io lasciai cadere il mio bastone. Massimino mi disse: tienilo il bastone; se la ci farà qualche cosa, le darò una buona bastonata.
In seguito questa Signora si levò in piedi, incrocicchiò le braccia e ci disse: «Avanzatevi, miei ragazzi: Non abbiate paura; son qui per darvi una gran nuova.» Allora noi passammo il ruscello, ed essa si avanzò sino al luogo, dove prima ci eravamo addormentati. Essa era in mezzo a noi due, e ci disse piangendo tutto il tempo che ci parlò (ho veduto benissimo le sue lagrime): «Se il mio popolo non si vuole sottomettere, sono costretta dì lasciar libera la mano di mio Figlio. Essa è così forte, così pesante, che non posso più trattenerla.»
«È gran tempo che soffro per voi! Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, debbo pregarlo costantemente; e voi altri non ne fate conto. Voi potrete ben pregare, ben fare, giammai non potrete compensare la sollecitudine, che mi sono data per voi.»
«Vi ho dati sei giorni per lavorare, mi sono riservato il settimo, e non si vuole accordarmelo. Questo è ciò che rende tanto pesante la mano di mio Figlio.»
«Se le patate si guastano, è tutto per causa vostra. Ve lo feci vedere l’anno scorso (1845); e voi non avete voluto farne caso, e, trovando patate guaste, bestemmiavate mettendovi frammezzo il nome di mio Figlio.»
«Continueranno a guastarsi, e quest’anno per Natale non ne avrete più (1846).»
«Se avete del grano non dovete seminarlo: tutto ciò che voi seminerete, sarà dai vermi mangiato; e quello che nascerà andrà in polvere, quando lo batterete.»
«Verrà una grande carestia» (Avvenne difatti una grande carestia in Francia, e sulle strade si trovavano grandi torme di pezzenti affamati, che si recavano a mille a mille per le città per questuare: e mentre che da noi in Italia incari il grano in sul far della primavera 1847, in Francia per tutto l’inverno del 46 – 47 si patì gran fame. Ma la vera penuria di alimenti, la vera fame fu provata nei disastri della guerra del 1870-71. In Parigi da un grande personaggio fu imbandito ai suoi amici un lauto pranzo di grasso nel venerdì Santo. Pochi mesi dopo in questa medesima città i più agiati cittadini furono costretti a nutrirsi di vili alimenti e di carni dei più sozzi animali. Non pochi morirono di fame)
«Avanti che venga la carestia, i fanciulli al di sotto dei sette anni saranno presi da un tremore e moriranno tra le mani delle persone che li terranno: gli altri faranno penitenza per la carestia.»
«Le noci si guasteranno, e le uve marciranno…» (Nel 1849 le noci andarono a male da per tutto; e quanto alle uve tutti ne lamentano ancora il guasto e la perdita. Ognuno rammenta il guasto immenso che la crittogama cagionò all’uva in tutta l’Europa per lo spazio d’oltre a venti anni dal 1849 al 1869).
«Se si convertono, le pietre e gli scogli si cambieranno in mucchi di grano, e le patate verranno prodotte dalla terra stessa.»
Quindi ci disse:
«Dite voi bene le vostre orazioni, o miei ragazzi?»
Noi rispondemmo entrambi: «Non troppo bene, o Signora.»
«Ah miei fanciulli, dovete dirle bene la sera e la mattina. Quando non avete tempo dite almeno un Pater ed un’Ave Maria: e quando avrete tempo ditene di più.»
«Alla Messa non vanno che alcune donne vecchie, e le altre lavorano alla domenica tutta l’estate; e all’inverno i giovani, quando non sanno che fare, vanno alla Messa per mettere in ridicolo la religione. In quaresima si va alla macelleria a guisa di cani.»
Quindi ella disse: «Non hai tu veduto, o mio ragazzo, del grano guasto?»
Massimino rispose: «Oh! no, Signora.» Io, non sapendo a chi facesse questa domanda, risposi sotto voce.
«No, Signora, non ne ho ancora veduto.»
«Voi dovete averne veduto, mio ragazzo (rivolgendosi a Massimino), una volta verso il territorio di Coin con vostro padre. Il padrone del campo disse a vostro padre che andasse a vedere il suo grano guasto; voi ci siete andati entrambi. Prendeste alcune spighe nelle vostre mani, e strofinate andarono tutte in polvere, e voi vi ritornaste. Quando eravate ancora una mezz’ora distanti da Corps, vostro padre vi diede un pezzo di pane, e vi disse: Prendi, o figlio mio, mangia ancora del pane in quest’anno; non so chi ne mangerà l’anno venturo, se il grano continua a guastarsi in questo modo.»
Massimino rispose: «Oh! sì, Signora, ora me ne ricordo; poco fa non me ne sovveniva.»
Dopo ciò quella Signora ci disse: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Indi ella passò il ruscello, ed a due passi di distanza, senza rivolgersi verso di noi, ci disse di nuovo: «Ebbene, miei ragazzi, voi lo farete sapere a tutto il mio popolo.»
Ella salì di poi una quindicina di passi, sino al luogo ove eravamo andati per cercare le nostre vacche; ma essa camminava sopra l’erba; i suoi piedi non ne toccavano che la cima. Noi la seguivamo; io passai davanti alla Signora e Massimino un poco di fianco, a due o tre passi di distanza. E la bella Signora si è innalzata così (Melania fa un gesto levando la mano di un metro e più); Ella rimase così sospesa nell’aria un momento. Dopo Ella rivolse uno sguardo al Cielo, indi alla terra; dopo non vedemmo più la testa… non più le braccia… non più i piedi… sembrava che si fondesse; non si vide più che un chiarore nell’aria; e dopo il chiarore disparve.
Dissi a Massimino: «È forse una gran santa? Massimino mi rispose: Oh! se avessimo saputo ch’era una gran santa, noi le avremmo detto di condurci con essa. Ed io gli dissi: E se ci fosse ancora? Allora Massimino slanciò la mano per raggiungere un poco del chiarore, ma tutto era scomparso. Osservammo bene, per scorgere se non la vedevamo più.
E dissi: Essa non vuol farsi vedere per non farci sapere dove se ne vada. Dopo ciò andammo dietro alle nostre vacche.»
Questo è il racconto di Melania; la quale interrogata come quella Signora fosse vestita rispose:
«Essa aveva scarpe bianche con rose attorno… ve ne erano di tutti i colori; aveva le calze gialle, un grembiale giallo, una veste bianca tutta cospersa di perle, un fazzoletto bianco al collo contornato di rose, una cuffia alta un poco pendente avanti con una corona di rose attorno. Aveva una catenella, alla quale era appesa una croce col suo Cristo: a diritta una tenaglia, a sinistra un martello; all’estremità della Croce un’altra gran catena pendeva, come le rose intorno al suo fazzoletto da collo. Aveva il volto bianco, allungato; io non poteva riguardarla molto tempo, perché ci abbagliava.»
Interrogato separatamente Massimino fa lo stessissimo racconto, senza variazione alcuna, né per la sostanza e neppure per la forma; il quale perciò ci asteniamo di qui ripetere.
Sono infinite e stravaganti le insidiose domande che loro si fecero, specialmente per ben due anni, e sotto interrogatori di 5, 6, 7 ore di seguito coll’intento di imbarazzarli, di confonderli, di trarli in contraddizione. Certo è, che forse mai nessun reo fu dai tribunali di giustizia investito così con tante difficoltà e interrogazioni intorno ad un delitto imputatogli.

Segreto dei due pastorelli
            Subito dopo l’apparizione, Massimino e Melania, nel far ritorno a casa, s’interrogarono tra di loro, perché mai la gran Dama dopo che ebbe detto «le uve marciranno» ha tardato un poco a parlare e non faceva che muovere le labbra, senza far intendere che cosa dicesse?
Nell’interrogarsi su di ciò a vicenda, diceva Massimino a Melania «A me essa ha detto una cosa, ma mi ha proibito di dirtelo.» S’accorsero entrambi d’aver ricevuto dalla Signora, ciascuno separatamente, un segreto colla proibizione di non dirlo ad altri. Or pensa tu, o lettore, se i ragazzi possono tacere.
È cosa incredibile a dirsi quanto sia fatto e tentato per cavar loro di bocca in qualche modo questo secreto. Fa meraviglia a leggere i mille e mille tentativi adoperati a quest’uopo da centinaia e centinaia di persone per ben vent’anni. Preghiere, sorprese, minacce, ingiurie, regali e seduzioni d’ogni maniera, tutto andò a vuoto; essi sono impenetrabili.
Il vescovo di Grenoble, uomo ottuagenario, si credette in dovere di comandare ai due privilegiati fanciulli di far almeno pervenire il loro segreto al santo Padre, Pio IX. Al nome del Vicario di Gesù Cristo i due pastorelli ubbidirono prontamente e si decisero a rivelare un segreto, che fino allora nulla aveva potuto strappar loro di bocca. L’hanno dunque scritto essi medesimi (dal giorno dell’apparizione in poi erano stati messi alla scuola, e ciascheduno separatamente); quindi piegarono e suggellarono la loro lettera; e tutto ciò alla presenza di persone ragguardevoli, scelte dallo stesso vescovo a servir loro di testimoni. Indi il vescovo inviò due sacerdoti a portare a Roma questo misterioso dispaccio.
Il 18 luglio 1851 rimettevano a S. S. Pio IX tre lettere, una di Monsignor vescovo di Grenoble, che accreditava questi due inviati, le due altre contenevano il segreto dei due giovanetti della Salette; ciascun di essi aveva scritto e sigillata la lettera contenente il suo segreto alla presenza di testimoni che avevano dichiarato l’autenticità delle medesime sulla coperta.
S. S. aprì le lettere, e cominciata a leggere quella di Massimino, «Vi ha proprio, disse, il candore e la semplicità di un fanciullo.» Durante quella lettura si manifestò sul volto del Santo Padre una certa emozione; gli si contrassero le labbra, gli si gonfiarono le gote. «Trattasi, disse il Papa ai due sacerdoti, trattasi di flagelli, di cui la Francia è minacciata. Non essa sola è colpevole, lo sono pure l’Alemagna, l’Italia, l’Europa intiera, e meritano dei castighi. Io temo assai l’indifferenza religiosa ed il rispetto umano.»

Concorso alla Salette
            La fontana, presso alla quale erasi riposata la Signora, cioè la V. Maria, era come dicemmo, asciutta; e, a detta di tutti i pastori e paesani di quei contorni, non dava acqua se non dopo abbondanti piogge e dopo lo scioglimento delle nevi. Ora questa fontana, asciutta nello stesso giorno dell’apparizione, il giorno dopo cominciò a zampillare, e da quell’epoca l’acqua scorre chiara e limpida senza interruzione.
Quella montagna nuda, dirupata, deserta, abitata dai pastori, appena quattro mesi dell’anno, è divenuta il teatro di un concorso immenso di gente. Intere popolazioni traggono da ogni parte a quella privilegiata montagna; e piangendo per tenerezza, e cantando inni e cantici si vedono chinare la fronte sopra quella terra benedetta, dove ha risuonato la voce di Maria: si vedono baciare rispettosamente il luogo santificato dai piedi di Maria; e ne discendono pieni di gioia, di fiducia e di riconoscenza.
Ogni giorno un numero immenso di fedeli vanno devotamente a visitare il luogo del prodigio. Nel primo anniversario dell’apparizione (19 settembre 1847), oltre a settanta mila pellegrini d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione ed anche d’ogni nazione coprivano la superficie di quel terreno…
Ma ciò che fa sentire vie più la potenza di quella voce venuta dal Cielo, è che si produsse un mirabile cambiamento di costumi negli abitanti di Corps, di La Salette, di tutto il cantone e di tutti i dintorni, e in lontane parti ancora si diffonde e si propaga… Hanno cessato di lavorare la Domenica: hanno dismessa la bestemmia… Frequentano la Chiesa, accorrono alla voce dei loro Pastori, si accostano ai santi Sacramenti, adempiono con edificazione il precetto della Pasqua fino a quel momento generalmente negletto. Taccio le molte e strepitose conversioni, e le grazie straordinarie nell’ordine spirituale.
Nel luogo dell’apparizione sorge ora una Chiesa maestosa con vastissimo edifizio, dove i viaggiatori dopo di aver soddisfatta la loro divozione possono agiatamente ristorarsi ed anche passarvi a gradimento la notte.

Dopo il fatto di La Salette Melania fu inviata alle scuole con meraviglioso progresso nella scienza e nella virtù. Ma si sentì ognora sì accesa di divozione verso alla B. V. Maria, che determinò di consacrarsi tutta a Lei. Entrò di fatto nelle carmelitane scalze tra cui, secondo il giornale Echo de Fourvière 22 ottobre 1870, sarebbe stata dalla s. Vergine chiamata al cielo. Poco prima di morire scrisse la seguente lettera a sua madre.

11 settembre 1870.

            Carissima ed amatissima madre,

Che Gesù sia amato da tutti i cuori. – Questa lettera non è solo per voi, ma è per tutti gli abitanti del mio caro paese di Corps. Un padre di famiglia, amorosissimo verso i suoi figli, vedendo che dimenticavano i loro doveri, che disprezzavano la legge loro imposta da Dio, che diventavano ingrati, si risolvette di castigarli severamente. La sposa del Padre di famiglia domandava grazia, e nello stesso tempo si recava dai due più giovani figli del Padre di famiglia, cioè i due più deboli e più ignoranti. La sposa che non può piangere nella casa del suo sposo (che è il Cielo) trova nei campi di questi miserabili figliuoli lagrime in abbondanza: essa espone i suoi timori e le sue minacce, se non si torna indietro, se non si osserva la legge del Padrone di casa. Un piccolissimo numero di persone abbraccia la riforma del cuore, e si mette ad osservare la santa legge del Padre di famiglia; ma ahimè! la maggioranza rimane nel delitto e vi si immerge sempre più. Allora il Padre di famiglia manda dei castighi per punirli e per trarli da questo stato di induramento. Questi figli sciagurati pensano di poter sottrarsi al castigo, afferrano e spezzano le verghe che li percuotono, invece di cader ginocchioni, domandar grazia e misericordia, e specialmente promettere di cambiar vita. Infine il padre di famiglia, irritato ancor di più, da mano ad una verga ancor più forte e batte e batterà infino a che lo si riconosca, si umilino e domandino misericordia a Colui che regna sulla terra e nei cieli.
Voi mi avete capito, cara madre e cari abitanti di Corps: questo Padre di famiglia è Dio. Noi siamo tutti suoi figli; né io né voi l’abbiamo amato come avremmo dovuto; non abbiamo adempito, come conveniva, i suoi comandamenti: ora Dio ci castiga. Un gran numero dei nostri fratelli soldati muoiono, famiglie e città intere son ridotte alla miseria; e se non ci rivolgiamo a Dio, non è finito. Parigi è colpevole assai perché ha premiato un uomo cattivo che ha scritto contro la divinità di Gesù Cristo. Gli uomini hanno un tempo solo per commettere peccati; ma Dio è eterno, e castiga i peccatori. Dio è irritato per la molteplicità dei peccati, e perché è quasi sconosciuto e dimenticato. Ora chi potrà arrestare la guerra che fa tanto male in Francia, e che fra poco ricomincerà in Italia? ecc. ecc. Chi potrà arrestare questo flagello?
Bisogna 1o che la Francia riconosca che in questa guerra vi è unicamente la mano di Dio; 2° che si umili e chieda colla mente e col cuore perdono dei suoi peccati; che prometta sinceramente di servire Dio colla mente e col cuore, e di obbedire ai suoi comandamenti senza rispetto umano. Alcuni pregano, domandano a Dio il trionfo di noi Francesi. No, non è questo che vuole il buon Dio: vuole la conversione dei francesi. La Beatissima Vergine è venuta in Francia, e questa non si è convertita: è perciò più colpevole delle altre nazioni; se non si umilia, sarà grandemente umiliata. Parigi, questo focolare della vanità e dell’orgoglio, chi potrà salvarla se fervorose preghiere non s’innalzano al cuore del buon Maestro?
Mi ricordo, cara madre e carissimi abitanti, del mio caro paese, mi ricordo, quelle devote processioni, che facevate sul sacro monte della Salette, perché la collera di Dio non colpisse il vostro paese! La S. Vergine ascoltò le vostre fervide preci, le vostre penitenze e tutto quanto faceste per amor di Dio. Penso e spero, che attualmente tanto più dovete fare delle belle processioni per la salvezza della Francia; cioè perché la Francia ritorni a Dio, perché Dio non aspetta che questo per ritirare la verga, di cui si serve per flagellare il suo popolo ribelle. Preghiamo dunque molto, sì, preghiamo; fate le vostre processioni, come le faceste nel 1846 e ‘47: credete che Dio ascolta sempre le preghiere sincere dei cuori umili. Preghiamo molto, preghiamo sempre. Non ho mai amato Napoleone, perché ricordo la intiera sua vita. Possa il divin Salvatore perdonargli tutto il male che ha fatto; e che fa ancora!
Ricordiamoci che siam creati per amare e servire Dio, e che fuori di questo non vi ha vera felicità. Le madri allevino cristianamente i loro figliuoli, perché il tempo delle tribolazioni non è finito. Se io ve ne svelassi il numero e le qualità, ne restereste inorriditi. Ma non voglio spaventarvi; abbiate fiducia in Dio, che ci ama infinitamente più dì quello che noi possiamo amarlo. Preghiamo, preghiamo, e la buona, la divina, la tenera Vergine Maria sarà sempre con noi: la preghiera disarma la collera di Dio; la preghiera è la chiave del Paradiso.
Preghiamo pei nostri poveri soldati, preghiamo per tante madri desolate per la perdita dei loro figliuoli, consacriamo noi stessi alla nostra buona Madre celeste: preghiamo per questi ciechi, che non vedono che è la mano di Dio, che ora percuote la Francia. Preghiamo molto e facciamo penitenza. Tenetevi tutti attaccati alla santa Chiesa, e al nostro S. Padre che ne è il Capo visibile e il Vicario di Nostro Signor Gesù Cristo sulla terra. Nelle vostre processioni, nelle vostre penitenze pregate molto per lui. Infine mantenetevi in pace, amatevi come fratelli, promettendo a Dio di osservare i suoi comandamenti e di osservarli davvero. E per la misericordia di Dio voi sarete felici, e farete una buona e santa morte, che desidero a tutti mettendovi tutti sotto la protezione dell’augusta Vergine Maria. Abbraccio di cuore (i parenti). La mia salute è nella Croce. Il cuore di Gesù veglia su di me.

Maria, della Croce, vittima di Gesù

Prima parte della pubblicazione “Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette con altri fatti prodigiosi, raccolti da pubblici documenti pel sacerdote Giovanni Bosco”, Torino, Tipografia dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, 1871




Corona dei sette dolori di Maria

La pubblicazione “Corona dei sette dolori di Maria” rappresenta una cara devozione che san Giovanni Bosco inculcava ai suoi giovani. Seguendo la struttura della “Via Crucis”, le sette scene dolorose sono proposte con brevi considerazioni e preghiere, per guidare a una più viva partecipazione alle sofferenze di Maria e del suo Figlio. Ricco di immagini affettive e di spiritualità contrita, il testo riflette il desiderio di unirsi all’Addolorata nella compassione redentrice. Le indulgenze concesse da vari Pontefici attestano l’alto valore pastorale del testo che è un piccolo tesoro di preghiera e riflessione, per alimentare l’amore verso la Madre dei dolori.

Proemio
II primario fine di questa Operetta è di facilitare la rimembranza e la meditazione degli acerbissimi Dolori del tenero Cuore di Maria, cosa a Lei molto gradita, come più volte ha rivelato ai suoi devoti, e mezzo per noi efficacissimo per ottenere il suo patrocinio.
Affinché poi si renda più facile lo esercizio di una tale Meditazione si praticherà primieramente con una corona in cui sono accennati i sette principali dolori di Maria, i quali si potranno quindi meditare in sette distinte brevi considerazioni nel modo che suole farsi la Via Crucis.
Ci accompagni il Signore colla sua celeste grazia e benedizione perché si ottenga il bramato intento, sicché l’anima di ciascuno resti vivamente penetrata dalla frequente memoria dei dolori di Maria con vantaggio spirituale dell’anima, e tutto a maggior gloria di Dio.

Corona dei sette dolori della Beata Vergine Maria con sette brevi considerazioni sopra i medesimi esposte in forma della Via Crucis

Preparazione
Carissimi fratelli e sorelle in Gesù Cristo, noi facciamo i nostri soliti esercizi meditando devotamente gli acerbissimi dolori che la B. V. Maria patì nella vita e morte del suo amato Figlio e nostro Divin Salvatore. Immaginiamoci di trovarci presenti a Gesù pendente in croce, e che l’afflitta sua madre dica a ciascuno di noi: Venite, e vedete se vi è dolore eguale al mio.
Persuasi che questa Madre pietosa ci voglia concedere speciale protezione nel meditare i suoi dolori, invochiamo il Divino aiuto colle seguenti preghiere:

Antif. Veni, Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem accende.

Emitte Spiritum tuum et creabuntur
Et renovabis faciem terrae.
Memento Congregationis tuae,
Quam possedisti ab initio.
Domine exaudi orationem meam.
Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.
Mentes nostras, quaesumus, Domine, lumine tuae claritatis illustra, ut videre possimus quae agenda sunt, et quae recta sunt, agere valeamus. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Primo dolore. Profezia di Simeone
Il primo dolore fu allora quando la Beata Vergine Madre di Dio avendo presentato l’unico suo Figlio al Tempio nelle braccia del santo vecchio Simeone, le fu dal medesimo detto: questo sarà una spada che trapasserà l’anima tua, la qual cosa denotava la passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine addolorata, per quell’acutissima spada, con cui il santo vecchio Simeone vi predisse che sarebbe stata trafitta l’anima vostra nella passione e morte del vostro caro Gesù, vi supplico ad impetrarmi grazia di aver sempre presente la memoria del vostro cuore trafitto e delle acerbissime pene sofferte dal vostro Figlio per la mia salute. Così sia.

Secondo dolore. Fuga in Egitto
Il secondo dolore della Beata Vergine fu quando le convenne fuggire in Egitto per la persecuzione del crudele Erode, che empiamente cercava di uccidere il suo amato Figlio.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Maria, mare amarissimo di lagrime, per quel dolore che provaste fuggendo in Egitto per assicurare il vostro Figliuolo dalla barbara crudeltà di Erode, vi supplico che vogliate essere mia guida, affinché per mezzo vostro io resti libero dalle persecuzioni dei visibili e invisibili nemici dell’anima mia. Così sia.

Terzo dolore. Perdita di Gesù nel tempio
Il terzo dolore della Beata Vergine fu quando al tempo della Pasqua, dopo di essere stata col suo sposo Giuseppe e coll’amato figlio Gesù Salvatore in Gerusalemme, nel ritornarsene alla sua povera casa, lo smarrì e per tre giorni continui sospirò la perdita del suo unico Diletto.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Madre sconsolata, voi che nella perdita della presenza corporale del vostro Figlio, lo andaste per tre giorni continui ansiosamente cercando, deh! impetrate grazia a tutti i peccatori onde ancora essi lo vadano cercando con atti di contrizione e lo ritrovino. Così sia.

Quarto dolore. Incontro di Gesù che porta la Croce
Il quarto dolore della Beata Vergine fu quando s’incontrò col suo dolcissimo Figlio che portava una pesante croce sulle delicate spalle al Monte Calvario a fine di essere crocifisso per la nostra salute.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine più d’ogni altra appassionata, per quello spasimo che provaste nel cuore incontrandovi nel vostro Figlio mentre portava il legno della Santissima Croce verso il Monte Calvario, fate, vi prego, che io ancora l’accompagni di continuo col pensiero, pianga le mie colpe, manifesta cagione dei suoi e vostri tormenti. Così sia.

Quinto dolore. Crocifissione di Gesù
Il quinto dolore della B. Vergine fu quando vide il suo Figlio alzato sopra il duro tronco della Croce, che da ogni parte del suo Sacratissimo Corpo versava sangue.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Rosa fra le spine, per quegli amari dolori che trafissero il vostro seno rimirando cogli occhi propri trafitto e sollevato in Croce il vostro Figlio, ottenetemi, vi prego, che con assidue meditazioni solo ricerchi Gesù crocifisso a cagione dei miei peccati. Così sia.

Sesto dolore. Deposizione di Gesù dalla croce
Il sesto Dolore della Beata Vergine fu allora quando il suo amato Figliuolo essendo ferito nel costato dopo la sua morte e deposto dalla Croce, così spietatamente ucciso, venne posto tra le sue Santissime braccia.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Vergine travagliata, voi che sconfitto di Croce il vostro Figlio, l’accoglieste morto nel grembo, e baciando quelle sacratissime Piaghe, vi spargeste sopra un mare di lagrime, deh! fate che anch’io con lagrime di vera compunzione lavi di continuo le ferite mortali che vi fecero i miei peccati. Così sia.

Settimo dolore. Sepoltura di Gesù.
Il settimo Dolore di Maria Vergine Signora ed Avvocata di noi suoi servi e miseri peccatori fu quando accompagnò il Santissimo Corpo del suo Figlio alla sepoltura.
Un Pater e sette Ave Maria.

Orazione
O Martire dei Martiri Maria, per quell’acerbo tormento che soffriste allorché sepolto il vostro Figlio vi convenne allontanarvi da quella tomba amata, ottenete grazia, vi prego, a tutti i peccatori, affinché conoscano di quanto grave danno sia all’anima l’essere lontana dal suo Dio. Così sia.

Si reciteranno tre Ave Maria in segno di profondo rispetto alle lagrime che sparse la Beata Vergine in tutti i suoi Dolori per impetrare per mezzo suo un simile pianto per i nostri peccati.
Ave Maria etc.

Finita la Corona si recita il pianto della Beata Vergine, ossia l’inno Stabat Mater etc.

Inno – Pianto della Beata Vergine Maria

Stabat Mater dolorosa
Iuxta crucem lacrymosa,
Dum pendebat Filius.

Cuius animam gementem
Contristatam et dolentem
Pertransivit gladius.

O quam tristis et afflicta
Fuit illa benedicta
Mater unigeniti!

Quae moerebat, et dolebat,
Pia Mater dum videbat.
Nati poenas inclyti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si videret
In tanto supplicio?

Quis non posset contristari,
Christi Matrem contemplari
Dolentem cum filio?

Pro peccatis suae gentis
Vidit Iesum in tormentis
Et flagellis subditum.

Vidit suum dulcem natura
Moriendo desolatum,
Dum emisit spiritum.

Eia mater fons amoris,
Me sentire vim doloris
Fac, ut tecum lugeam.

Fac ut ardeat cor meum
In amando Christum Deum,
Ut sibi complaceam.

Sancta Mater istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo valide.

Tui nati vulnerati
Tam dignati pro me pati
Poenas mecum divide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifixo condolere,
Donec ego vixero.

Iuxta Crucem tecum stare,
Et me tibi sociare
In planctu desidero.

Virgo virginum praeclara,
Mihi iam non sia amara,
Fac me tecum plangere.

Fac ut portem Christi mortem,
Passionis fac consortem,
Et plagas recolere.

Fac me plagis vulnerari,
Fac me cruce inebriari,
Et cruore Filii.

Flammis ne urar succensus,
Per te, Virgo, sim defensus
In die Iudicii.

Christe, cum sit hine exire,
Da per matrem me venire
Ad palmam victoriae.

Quando corpus morietur,
Fac ut animae donetur
Paradisi gloria. Amen.

Stava Maria dolente
Senza respiro e voce
Mentre pendeva in croce
Del mondo il Redentor.

E nel fatale istante
Crudo materno affetto
Le trafiggeva il petto,
Le lacerava il cor.

Qual di quell’Alma bella
Fosse lo strazio indegno,
No, che l’umano ingegno
Immaginar non può.

Vedere un Figlio… un Dio…
Che palpita, che more!
Sì barbaro dolore
Qual madre mai provò?

Alla funerea scena
Chi tiene il pianto a freno,
Un cuor di tigre ha in seno,
O core in sen non ha.

Chi può mirar in tante
Pene una Madre, un Figlio
E non bagnar il ciglio,
E non sentir pietà?

Per cancellar i falli
D’un popol empio, ingrato
Vide Gesù piagato
Languire e spasimar.

Vide sull’atro Golgota
Il figlio tuo diletto
Chinar la fronte al petto,
E l’anima sua spirar.

O dolce Madre, o puro
Fonte di santo amore,
Parte del tuo dolore
Fa che mi scenda al cor.

Fa, che il pensier profano
Sdegnosamente io sprezzi,
Che a sospirar m’avvezzi
Sol di celeste ardor.

Le barbare ferite
Prezzo del mio delitto,
Del figlio tuo trafitto
Passino, o Madre, in me.

A me dovuti sono
Gli strazi, ch’Ei soffri;
Deh! fa, che possa anch’io
Piangere almen con te.

Teca si strugga in lagrime
Quest’anima gemente:
È se non fu innocente,
Terga il suo fallo almen.

Teco alla Croce accanto
Star, cara Madre, io voglio,
Compagno a quel cordoglio,
Che ti trafigge il sen.

Ah! tu, che delle Vergini
Regina in Ciel ti assidi,
Ah tu propizia arridi
Ai voti del mio cor.

Del buon Gesù spirante
Sul fero tronco esangue
La croce, il fiele, il sangue
Fa ch’io rammenti ognor.

Del Salvator rinnova
In me lo scempio atroce,
Il sangue, il fiel, la Croce
Tutto provar mi fa.

Ma nell’estremo giorno,
Quando ci verrà sdegnato,
Rendalo a me placato,
Maria, la tua pietà.

Gesù che nulla nieghi
A chi tua Madre implora,
Del mio morir nell’ora
Non mi negar mercè.

E quando sia disciolto
Dal suo corporeo velo,
Fa che il mio spirto in Cielo
Voli a regnar con te.

Il Sommo Pontefice Innocenzo XI concede l’indulgenza di 100 giorni ogni volta che si recita lo Stabat Mater. Benedetto XIII accordò l’indulgenza di sette anni a chi reciterà la Corona dei sette dolori di Maria. Moltissime altre indulgenze furono concesse da altri sommi Pontefici specialmente ai Confratelli e Consorelle della compagnia di Maria Addolorata.

I sette dolori di Maria meditati in forma della Via Crucis

S’invochi il divino aiuto dicendo:
Actiones nostras, quaesumus Domine, aspirando praeveni, et adiuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat, et per te coepta finiatur. Per Christum Dominum Nostrum. Amen.

Atto di Contrizione
Afflittissima Vergine, ahi! quanto sconoscente nel tempo trascorso io sono stato verso il mio Dio, con quanta ingratitudine ho corrisposto agl’innumerabili suoi benefizi! Ora me ne pento, e nell’amarezza del mio cuore e nel pianto dell’anima mia, domando a Lui umilmente perdono per avere oltraggiato la sua infinita bontà, resolutissimo in avvenire colla celeste grazia di non mai più offenderlo. Deh? per tutti i dolori che sopportaste nella barbara passione del vostro amato Gesù vi prego coi più profondi sospiri ad ottenermi dal medesimo, pietà e misericordia dei miei peccati. Gradite questo santo esercizio che sono per fare e ricevetelo in unione di quelle pene e di quei dolori che Voi soffriste per il vostro figliuolo Gesù. Ah concedetemi! sì concedetemi che quelle stesse spade che trafissero il vostro spirito, trapassino anche il mio, e che viva e muoia nell’amicizia del mio Signore, per partecipare eternamente della gloria che egli mi ha acquistato con il suo prezioso Sangue. Così sia.

Primo dolore
In questo primo dolore immaginiamoci di trovarci nel tempio di Gerusalemme, dove la Beatissima Vergine ascoltò la profezia del vecchio Simeone.

Meditazione
Ah! Quali ambasce avrà provato il cuore di Maria nel sentire le dolorose parole, con cui le era predetta dal Santo vecchio Simeone l’acerba passione e l’atroce morte del suo dolcissimo Gesù: mentre in quello stesso punto si affacciarono alla di lei mente gli affronti, gli strapazzi e le carneficine che gli empi Giudei avrebbero fatto del Redentore del mondo. Ma sai quale fu la spada più penetrante che in questa circostanza la trafisse? Fu il considerare l’ingratitudine con cui il diletto suo Figlio sarebbe stato contraccambiato dagli uomini. Ora riflettendo che, per cagione dei tuoi peccati sei miseramente nel numero di questi tali, ah! gettati ai piè di questa Madre Addolorata e dille piangendo così (ognuno s’inginocchia): Deh! Pietosissima Vergine, che provaste un sì acerbo spasimo nel vostro spirito vedendo l’abuso quale io indegna creatura avrei fatto del sangue del vostro amabile Figlio, fate, sì fate per il vostro afflittissimo Cuore, che io in avvenire corrisponda alle Divine Misericordie, mi approfitti delle celesti grazie, non riceva invano tanti lumi e tante inspirazioni che voi vi degnerete ottenermi onde abbia la sorte di essere nel numero di coloro per i quali l’amara passione di Gesù saia di eterna salvezza. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Secondo dolore
In questo secondo dolore consideriamo il penosissimo viaggio che la Vergine fece verso l’Egitto per liberare Gesù dalla crudele persecuzione di Erode.

Meditazione
Considera l’acerbo dolore che avrà provato Maria quando di notte tempo dovette mettersi in cammino per ordine dell’Angelo a fine di preservare il suo Figliuolo dalla strage ordinata da quel fierissimo Principe. Ah! che ad ogni grido di animale, ad ogni soffio di vento, ad ogni moto di foglia che sentiva per quelle strade deserte si riempieva di spavento per timore di qualche inconveniente al bambino Gesù che seco portava. Ora si rivolgeva da una parte, ora dall’altra, or affrettava il passo, ora si nascondeva credendosi di essere sopraggiunta dai soldati, che strappando dalle sue braccia il suo amabilissimo Figlio ne avessero fatto sotto gli sguardi suoi barbaro trattamento e fissando l’occhio lagrimoso sopra il suo Gesù e stringendolo fortemente al petto, dandogli mille baci, mandava dal cuore i più affannosi sospiri. E qui rifletti quante volte hai tu rinnovato questo acerbo dolore a Maria sforzando il suo Figliuolo coi tuoi gravi peccati a fuggire dall’anima tua. Ora che conosci il gran male commesso rivolgiti pentito a questa pietosa Madre e dille così:
Ah Madre dolcissima! Una volta Erode costrinse voi con il vostro Gesù a prendere la fuga per l’inumana persecuzione da esso comandata; ma io oh! quante volte obbligai il mio Redentore e per conseguenza ancora voi a partire rapidamente dal mio cuore, introducendo nel medesimo il maledetto peccato, spietato nemico vostro e del mio Dio. Deh! tutto dolente e contrito ve ne domando umilmente perdono.
Sì, misericordia, o cara Madre, misericordia, e vi prometto in avvenire col Divino aiuto di mantenere sempre il mio Salvatore e Voi nel totale possesso dell’anima mia. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Terzo dolore
In questo terzo dolore consideriamo l’afflittissima Vergine che lagrimosa va in traccia del suo smarrito Gesù.

Meditazione
Quanto mai fu grande la pena di Maria, quando si avvide di avere perduto l’amabile suo Figlio! e come si accrebbe il suo dolore allorché avendolo diligentemente ricercato presso gli amici, parenti e vicini non poté avere alcuna notizia di Lui. Essa non badando agl’incomodi, alla stanchezza, ai pericoli andò raminga tre giorni continui per le contrade della Giudea, ripetendo quelle parole di desolazione: forse alcuno ha veduto colui che veramente ama l’anima mia? Ah! che la grande ansietà con cui lo andava ricercando, le faceva immaginare ad ogni momento di vederlo, o di ascoltarne la voce: ma poi conoscendosi delusa, oh come si raccapricciava e più sensibile provava il rammarico di una tale deplorabilissima perdita! Confusione grande per le, o peccatore, il quale avendo tante volte smarrito il tuo Gesù coi gravi mancamenti commessi, non ti desti alcuna premura di andarlo a ricercare, chiaro segno, che poco o niuno conto fai del prezioso tesoro della Divina amicizia. Piangi dunque la tua cecità, e volgendoti a quest’Addolorata Madre, dille sospirando così:
Afflittissima Vergine, deh fate che impari da voi il vero modo di andare in cerca di Gesù ch’io ho smarrito per secondare le mie passioni e le inique suggestioni del demonio, acciocché mi riesca di ritrovarlo, e quando ne sarò tornato in possesso, ripeterò continuamente quelle vostre parole: Ho ritrovato quello che veramente ama il mio cuore; lo riterrò sempre con me, né lo lascerò mai più partire. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quarto dolore
Nel quarto dolore consideriamo l’incontro che fece l’addolorata Vergine col suo appassionato Figliuolo.

Meditazione
Venite pure, o cuori indurati e provate se potete reggere a questo lagrimevolissimo spettacolo. È una madre la più tenera, la più amorosa che incontra un suo Figlio il più dolce, il più amabile; e come l’incontra? Oh Dio! in mezzo alla più empia ciurmaglia che lo strascina crudelmente alla morte, carico di piaghe, grondante di sangue, lacero per le ferite, con una corona di spine in testa e con un tronco pesante sopra le spalle, affannato, ansante, languente che pare ad ogni passo voglia esalare l’estremo respiro.
Ah! considera, anima mia, l’arresto mortale che fa la Santissima Vergine al primo sguardo che fissa sopra il suo tormentato Gesù; vorrebbe dargli l’ultimo addio, ma e come, se il dolore la impedisce di proferir parola? Vorrebbe gettarglisi al collo, ma resta immobile ed impietrita per la forza dell’interna afflizione; vorrebbe sfogarsi con il pianto, ma si sente talmente serrato ed oppresso il cuore, che non gli riesce di versare una lagrima. Oh! e chi può frenare le lagrime vedendo una povera Madre immersa in sì grande affanno? Ma chi mai è la cagione di una tale acerbissima pena? Ah, sano io, sì sono io con i miei peccati che ho fatto si barbara ferita al tenero vostro cuore, o Vergine Addolorata. Pure chi lo crederebbe? Resto insensibile senza punto essere commosso. Ma se fui ingrato per il passato, per l’avvenire non lo sarò più.
Intanto prostrato ai vostri piedi, o Vergine Santissima, vi domando umilmente perdono di tanto rammarico che vi ho cagionato. Lo conosco e lo confesso che non merito pietà, essendo io il vero motivo per cui cadeste di dolore all’incontrare il vostro Gesù tutto coperto di piaghe; ma ricordatevi, sì ricordatevi che siete madre di misericordia. Ah dimostratevi dunque tale verso di me, ch’io vi prometto in avvenire di essere più fedele al mio Redentore, e così compensare tanti disgusti che ho dato al vostro afflittissimo spirito. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quinto dolore
In questo quinto dolore immaginiamoci di trovarci sul Monte Calvario dove l’afflittissima Vergine vide spirare in Croce il suo amato Figliuolo.

Meditazione
Eccoci al Calvario ove già sono innalzati due altari di sacrificio, uno nel corpo di Gesù, l’altro nel cuore di Maria. Oh funesto spettacolo! Miriamo la Madre affogata in un mare di affanni vedendosi rapito da spietata morte il caro ed amabile parto delle sue viscere. Ahimè! Ogni martellata, ogni piaga, ogni lacerazione che sopra le sue carni riceve il Salvatore, profondamente rimbombano nel cuore della Vergine. Essa sta ai piedi della Croce talmente penetrata dalla pena e trafitta per il cordoglio che non sapresti decidere chi sia per essere il primo a spirare, se Gesù, o Maria. Fissa l’occhio sul volto del suo Figlio agonizzante, considera le pupille languenti, il volto pallido, le labbra livide, il respiro difficile e conosce finalmente che egli più non vive e che già ha consegnato lo spirito in seno dell’eterno suo Padre. Ah che l’anima di Lei fa allora ogni sforzo possibile per dividersi dal corpo ed unirsi a quella di Gesù. E chi può reggere a tale vista.
Oh addoloratissima Madre, voi invece di ritirarvi dal Calvario, a fine di non sentire sì al vivo le angosce, là ve ne state immobile per assorbire fino all’ultima stilla l’amaro calice delle vostre afflizioni. Che confusione dev’essere questa per me che cerco tutti i modi per scansare le croci e quei piccioli patimenti che per mio bene si degna mandarmi il Signore? Vergine addoloratissima, io mi umilio dinanzi a voi, deh! fate, che conosca una volta chiaramente il pregio ed il valore grande del patire, onde ci prenda tanto attaccamento, che non mi sazi mai di esclamare con S. Francesco Saverio: Plus Domine, Plus Domine, più patire, mio Dio. Ah sì, più patire, o mio Dio. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Sesto dolore
In questo sesto dolore immaginiamoci di vedere la sconsolarsi ma Vergine che riceve fra le braccia il defunto suo Figlio deposto dalla Croce.

Meditazione
Considera l’acerbissima pena che penetrò l’anima di Maria, allorché vide nel suo seno posto il corpo defunto dell’amato Gesù. Ah! che nel fissare lo sguardo sopra le ferite e sopra le piaghe di lui, nel mirarlo rosseggiante del proprio sangue, fu tale l’impeto dell’interno cordoglio, che fu il suo cuore mortalmente trafitto, e se non morì fu l’onnipotenza Divina che la conservò in vita. O povera Madre, si, povera madre, che conducete alla tomba il caro oggetto delle vostre più tenere compiacenze, e che da un mazzo di rose è divenuto un fascio di spine per i maltrattamenti e lacerazioni fattegli dagli empi manigoldi. E chi non vi compatirà? Chi non si sentirà struggere dal dolore vedendovi in uno stato di afflizione da muovere a pietà anche il più duro macigno? Osservo Giovanni inconsolabile, la Maddalena colle altre Marie che si ciucciano acerbamente, Nicodemo che non può più reggere per l’afflizione. Ed io? io solo non verso una lagrima in mezzo a tanto duolo! Ingrato e sconoscente che sono!
Deh! Madre pietosissima, eccomi ai vostri piedi, ricevetemi sotto la potente vostra protezione e fate che questo mio cuore resti trafitto da quella medesima spada che passò parte a parte il vostro afflittissimo spirito, onde si ammollisca una volta e pianga davvero i miei gravi peccati che hanno portato a Voi sì crudo martirio. E così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Settimo dolore
In questo settimo dolore consideriamo l’addoloratissima Vergine che vede chiudere nel sepolcro il suo defunto Figliuolo.

Meditazione
Considera che mortale sospiro mandò l’afflitto cuore di Maria quando vide posto nella tomba il suo amabile Gesù! Oh che pena, che cordoglio provò il suo spirito allorché fu alzata la pietra con cui si doveva chiudere quel sacratissimo monumento! Non era possibile distaccarla dall’orlo del sepolcro, mentre il dolore era tale, che la rendeva insensibile ed immobile, non cessando mai di rimirare quelle piaghe e quelle crudeli ferite. Quando poi venne la tomba serrata o allora sì che tale fu la forza dell’interno rammarico, che sarebbe senza dubbio caduta estinta se Iddio non l’avesse in vita conservata. Oh travagliatissima madre! Voi partirete adesso col corpo da questo luogo, ma qui sicuramente resterà il vostro cuore, essendo qui il vostro vero tesoro. Ah fato, che in compagnia di lui resti tutto il nostro affetto, tutto il nostro amore, lì come potrà essere che non ci struggiamo di benevolenza verso il Salvatore, che ha dato tutto il suo sangue per nostra salvezza? Come potrà essere che noi non amiamo Voi che tanto avete sofferto per nostra cagione.
Ora noi dolenti e pentiti di aver cagionato tanti dolori al vostro Figlio e a voi tanta amarezza ci prostriamo ai vostri piedi e per tutte quelle pene che ci faceste la grazia di meditare, concedeteci questo favore: che la memoria delle medesime resti sempre vivamente impressa nella nostra mente, che si consumino i nostri cuori per amore del nostro buon Dio, e di Voi nostra dolcissima Madre, e che l’ultimo sospiro della nostra vita sia unito a quelli che versaste dal fondo dell’anima vostra nella dolorosa passione di Gesù, a cui sia onore, gloria, e rendimento di grazie per tutti i secoli dei secoli. Così sia. Ave Maria etc. Gloria Patri etc.

Maria, dolce mio bene,
Stampate nel mio cuor le vostre pene.

Quindi si dice lo Stabat Mater, come sopra.

Antifona. Tuam ipsius animam (ait ad Mariam Simeon) pertransiet gladius.
Ora pro nobis Virgo Dolorosissima.
Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus
Deus in cuius passionem secundum Simeonis prophetiam, dulcissimam animam Gloriosae Virginis et Matris Mariae doloris gladius pertransivit, concede propitius, ut qui dolorum eius memoriam recolimus, passionis tuae effectum felicem consequamur. Qui vivis etc.

Laus Deo et Virgo Dolorosissimae.

Con permissione della Revisione Ecclesiastica

La Festa dei Sette dolori di Maria Vergine Addolorata che si celebra dalla Pia Unione e Società, cade alla terza domenica di settembre nella Chiesa di S. Francesco d’Assisi.

Testo della 3a edizione, Torino, Tipografia di Giulio Speirani e figli, 1871




La pastora, le pecore e agnelli (1867)

Nel brano che segue, Don Bosco, fondatore dell’Oratorio di Valdocco, racconta ai suoi giovani un sogno avuto tra il 29 e il 30 maggio 1867 e narrato la sera della Domenica della Santissima Trinità. In una pianura sconfinata, greggi e agnelli diventano allegoria del mondo e dei ragazzi: prati rigogliosi o deserti aridi figurano la grazia e il peccato; corna e ferite denunciano scandalo e disonore; la cifra «3» preannuncia tre carestie – spirituale, morale, materiale – che minacciano chi si allontana da Dio. Dal racconto sgorga l’appello pressante del santo: custodire l’innocenza, tornare alla grazia con la penitenza, così che ogni giovane possa rivestirsi dei fiori della purezza e partecipare alla gioia promessa dal buon Pastore.

                La Domenica della SS. Trinità, 16 giugno, nella qual festa ventisei anni addietro Don Bosco aveva celebrata la sua prima messa, i giovani erano in aspettazione del sogno, il cui racconto era stato da lui annunziato il giorno 13. Il suo ardente desiderio era il bene del suo gregge spirituale, e sempre sua norma gli ammonimenti e le promesse del capo XXVII, v. 23-25 del libro dei Proverbi: Diligenter agnosce vultum pecoris tui, tuosque greges considera: non enim habebis iugiter potestatem: sed corona tribuetur in generationem et generationem. Aperta sunt prata, et apparuerunt herbae virentes, et collecta sunt foena de montibus… (Preoccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. Tolto il fieno, ricresce l’erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti, Pro 27,23-25). Colle sue preghiere chiedeva di acquistare conoscenza esatta delle sue pecorelle, di aver la grazia di vigilarle attentamente, di assicurarne la custodia anche dopo la sua morte e di vederle provviste di facile e comodo nutrimento spirituale e materiale. Don Bosco adunque, dopo le orazioni della sera, così parlò:

                In una delle ultime notti del mese di Maria, il 29 o 30 maggio, essendo in letto e non potendo dormire, pensava ai miei cari giovani e diceva fra me stesso.
                – Oh se potessi sognare qualche cosa che fosse di loro profitto!
                Stetti alquanto riflettendo e mi risolsi:
                – Sì! adesso voglio fare un sogno per i giovani!
                Ed ecco che restai addormentato. Non appena il sonno mi ebbe preso, mi trovai in una immensa pianura coperta da un numero sterminato di grosse pecore, le quali divise in gregge pascolavano in prati estesi a vista d’occhio. Volli avvicinarmi ad esse e mi diedi a cercare il pastore, meravigliandomi che vi potesse essere al mondo chi possedesse così gran numero di pecore. Cercai per breve tempo, quando mi vidi innanzi un pastore appoggiato al suo bastone. Subito mi feci ad interrogarlo e gli domandai:
                – Di chi è questo gregge così numeroso?
                Il pastore non mi diede risposta. Replicai la domanda ed allora mi disse:
                – Che cosa hai da saper tu?
                – E perché, gli soggiunsi, mi rispondi in questo modo?
                – Ebbene: questo gregge è del suo padrone!
                Del suo padrone? Lo sapevo già questo; dissi fra me. Ma, continuai ad alta voce:
                – Chi è questo padrone?
                – Non t’infastidire, mi rispose il pastore: lo saprai.
                Allora percorrendo con lui quella valle mi diedi ad esaminare il gregge e tutta quella regione per la quale questo andava vagando. La valle era in alcuni luoghi coperta di ricca verdura con alberi che stendevano larghe frondi con ombre graziose ed erbe freschissime delle quali si pascevano belle e floride pecore. In altri luoghi la pianura era sterile, arenosa, piena di sassi con spineti senza foglie, e di gramigne giallastre, e non aveva un filo d’erba fresca; eppure anche qui vi erano moltissime altre pecore che pascolavano, ma d’aspetto miserabile.
                Io domandava varie spiegazioni al mio condottiero intorno a questo gregge, ed egli, senza dar veruna risposta alle mie domande, mi disse:
                – Tu non sei destinato per loro. A queste tu non devi pensare. Ti condurrò io a vedere il gregge del quale devi prenderti cura.
                – Ma tu chi sei?
                – Sono il padrone; vieni meco a guardar là, da quella parte.
                E mi condusse in un altro punto della pianura dove erano migliaia e migliaia di soli agnellini. Questi erano tanto numerosi che non si potevano contare, ma così magri che a stento passeggiavano. Il prato era secco ed arido e sabbioso e non vi si scorgeva un fil d’erba fresca, un ruscello; ma solo qualche sterpo disseccato e cespugli inariditi. Ogni pascolo era stato pienamente distrutto dagli stessi agnelli.
                Si vedeva a prima vista che quei poveri agnelli coperti di piaghe avevano molto sofferto e molto soffrivano ancora. Cosa strana! Ciascuno aveva due corna lunghe e grosse che gli spuntavano sulla fronte, come se fossero vecchi montoni e sulla punta delle corna avevano una appendice in forma di “S”. Meravigliato, me ne stava perplesso nel vedere quella strana appendice di genere così nuovo, e non sapeva darmi pace perché quegli agnellini avessero già le corna così lunghe e grosse, ed avessero distrutto già così presto tutta la loro pastura.
                – Come va questo? dissi al pastore. Son ancora così piccoli questi agnelli ed hanno già tali corna?
                – Guarda, mi rispose; osserva.
                Osservando più attentamente vidi che quegli agnelli in tutte le parti del corpo, sul dosso, sulla testa, sul muso, sulle orecchie, sul naso, sulle gambe, sulle unghie portavano stampati tanti numeri “3” in cifra.
                – Ma che vuol dire ciò? esclamai. Io non capisco niente.
                – Come, non capisci? disse il pastore: Ascolta adunque e saprai tutto. Questa vasta pianura è il gran mondo. I luoghi erbosi la parola di Dio e la grazia. I luoghi sterili ed aridi sono quei luoghi dove non si ascolta la parola di Dio e solo si cerca di piacere al mondo. Le pecore sono gli uomini fatti, gli agnelli sono i giovanetti e per questi Iddio ha mandato D. Bosco. Quest’angolo di pianura che tu vedi è l’Oratorio e gli agnelli ivi radunati i tuoi fanciulli. Questo luogo così arido figura lo stato di peccato. Le corna significano il disonore. La lettera “S” vuol dire scandalo. Essi col mal esempio vanno alla rovina. Fra questi agnelli ve ne sono alcuni che hanno le corna rotte; furono scandalosi, ma ora hanno cessato di dare scandalo. Il numero “3” vuol dire che portano la pena della colpa, cioè che soffriranno tre grandi carestie; carestia spirituale, morale, materiale. 1° La carestia d’aiuti spirituali: domanderanno questo aiuto e non l’avranno. 2 ° Carestia di parola di Dio. 3° Carestia di pane materiale. L’aver gli agnelli mangiato tutto, significa non rimaner più loro altro che il disonore e il numero “3”, ossia le carestie. Questo spettacolo mostra eziandio le sofferenze attuali di tanti giovani in mezzo al mondo. Nell’Oratorio anche quelli che pur ne sarebbero indegni non mancano di pane materiale.
                Mentre io ascoltava ed osservava ogni cosa come smemorato, ecco nuova meraviglia. Tutti quelli agnelli cambiarono aspetto!
                Alzatisi sulle gambe posteriori divennero alti e tutti presero la forma di altrettanti giovanetti. Io mi avvicinai per vedere se ne conoscessi alcuno. Erano tutti giovani dell’Oratorio. Moltissimi io non li aveva mai veduti, ma tutti si dichiaravano essere figli del nostro Oratorio. E fra quelli che non conosceva ve n’erano anche alcuni pochi che attualmente si trovano nell’Oratorio. Sono coloro che non si presentano mai a D. Bosco, che non vanno mai a prendere consiglio da lui, coloro che lo fuggono: in una parola, coloro che Don Bosco non conosce ancora! L’immensa maggioranza però degli sconosciuti era di coloro che non furono né sono ancora nell’Oratorio.
                Mentre con pena osservava quella moltitudine, colui che mi accompagnava mi prese per mano e mi disse:
                – Vieni con me e vedrai altre cose! – E mi condusse in un angolo remoto della valle, circondato da collinette, cinto da una siepe di piante rigogliose, ove era un gran prato verdeggiante, il più ridente che immaginar si possa, ripieno di ogni sorta di erbe odorifere, sparso di fiori campestri, con freschi boschetti e correnti di limpide acque. Qui trovai un altro grandissimo numero di figliuoli, tutti allegri, i quali coi fiori del prato si erano formati o andavano formandosi una vaghissima veste.
                – Almeno hai costoro che ti dànno grande consolazione.
                – E chi sono? interrogai.
                – Sono quelli che si trovano in grazia di Dio.
                Ah! io posso dire di non avere mai vedute cose e persone così belle e risplendenti, né mai avrei potuto immaginare tali splendori. È inutile che mi ponga a descriverli, perché sarebbe un guastare quello che è impossibile a dirsi senza che si veda. Erami però riserbato uno spettacolo assai più sorprendente. Mentre me ne stava guardando con immenso piacere quei giovanetti e fra questi ne contemplava molti che non conosceva ancora, la mia guida mi soggiunse:
                – Vieni, vieni con me e ti farò vedere una cosa che ti darà un gaudio ed una consolazione maggiore. – E mi condusse in un altro prato tutto smaltato di fiori più vaghi e più odorosi dei già veduti. Aveva l’aspetto di un giardino principesco. Qui si scorgeva un numero di giovani non tanto grande, ma che erano di così straordinaria bellezza e splendore da far scomparire quelli da me ammirati poc’anzi. Alcuni di costoro sono già nell’Oratorio, altri qui verranno più tardi.
                Mi disse il pastore:
                – Costoro sono quelli che conservano il bel giglio della purità. Questi sono ancora vestiti della stola dell’innocenza.
                Guardava estatico. Quasi tutti portavano in capo una corona di fiori di indescrivibile bellezza. Questi fiori erano composti di altri piccolissimi fiorellini di una gentilezza sorprendente, e i loro colori erano di una vivezza e varietà che incantava. Più di mille colori in un sol fiore, e in un sol fiore si vedevano più di mille fiori. Scendeva ai loro piedi una veste di bianchezza smagliante, anch’essa tutta intrecciata di ghirlande di fiori, simili a quelli della corona. La luce incantevole che partiva da questi fiori rivestiva tutta la persona e specchiava in essa la propria gaiezza. I fiori si riflettevano l’uno negli altri e quelli delle corone in quelli delle ghirlande, riverberando ciascuno i raggi che erano emessi dagli altri. Un raggio di un colore infrangendosi con un raggio di un altro colore formava raggi nuovi, diversi, scintillanti e quindi ad ogni raggio si riproducevano sempre nuovi raggi, sicché io non avrei mai potuto credere esservi in paradiso un incanto così molteplice. Ciò non è tutto. I raggi e i fiori della corona degli uni si specchiavano nei fiori e nei raggi della corona di tutti gli altri: così pure le ghirlande, e la ricchezza della veste degli uni si riflettevano nelle ghirlande, nelle vesti degli altri. Gli splendori poi del viso di un giovane, rimbalzando, si fondevano con quelli del volto dei compagni e riverberando centuplicati su tutte quelle innocenti e rotonde faccine producevano tanta luce da abbarbagliare la vista ed impedire di fissarvi lo sguardo.
                Così in un solo si accumulavano le bellezze di tutti i compagni con un’armonia di luce ineffabile! Era la gloria accidentale dei santi. Non vi è nessuna immagine umana per descrivere anche languidamente quanto divenisse bello ciascuno di quei giovani in mezzo a quell’oceano di splendori. Fra questi ne osservai alcuni in particolare, che adesso sono qui all’Oratorio e son certo che, se potessero vedere almeno la decima parte della loro attuale speciosità, sarebbero pronti a soffrire il fuoco, a lasciarsi tagliare a pezzi, ad andare insomma incontro a qualunque più atroce martirio, piuttosto che perderla.
                Appena potei alquanto riavermi da questo celestiale spettacolo, mi volsi al duce e gli dissi:
                – Ma dunque fra tanti miei giovani sono così pochi gli innocenti? Sono così pochi coloro che non han mai perduta la grazia di Dio?
                Mi rispose il pastore:
                – Come? Non ti pare abbastanza grande questo numero? Del resto quelli che hanno avuto la disgrazia di perdere il bel giglio della purità, e con questo l’innocenza, possono ancor seguire i loro compagni nella penitenza. Vedi là? In quel prato si ritrovano ancor molti fiori; ebbene essi possono tessersi una corona e una veste bellissima e seguire ancora gli innocenti nella gloria.
                – Suggeriscimi ancora qualche cosa da dire ai miei giovani! io soggiunsi allora.
                – Ripeti ai tuoi giovani, che se essi conoscessero quanto è preziosa e bella agli occhi di Dio l’innocenza e la purità, sarebbero disposti a fare qualunque sacrificio per conservarla. Di’ loro che si facciano coraggio a praticare questa candida virtù, che supera le altre in bellezza e splendore. Imperciocché i casti sono quelli che crescunt tanquam lilia in conspectu Domini (crescono come gigli davanti al Signore).
                Io allora volli andare in mezzo a quei miei carissimi, così vagamente incoronati, ma inciampai nel terreno e svegliatomi mi trovai in letto.
                Figliuoli miei, siete voi tutti innocenti? Forse ve ne saranno fra voi alcuni e a questi io rivolgo le mie parole. Per carità, non perdete un pregio di valore inestimabile! È una ricchezza che vale quanto vale il Paradiso quanto vale Iddio! Se aveste potuto vedere come erano belli questi giovanetti coi loro fiori. L’insieme di questo spettacolo era tale che io avrei dato qualunque cosa del mondo per godere ancora di quella vista, anzi, se fossi pittore, l’avrei per una grazia grande poter dipingere in qualche modo ciò che vidi. Se voi conosceste la bellezza di un innocente, vi assoggettereste a qualunque più penoso stento, perfino anco alla morte, per conservare il tesoro dell’innocenza.
                Il numero di coloro che erano ritornati in grazia, quantunque mi abbia recato grande consolazione, tuttavia io sperava che dovesse essere assai maggiore. E restai assai meravigliato nel vedere alcuno che or qui in apparenza sembra un buon giovane e là aveva le corna lunghe e grosse…

                 D. Bosco finì con una calda esortazione a coloro che hanno perduta l’innocenza, perché si adoperino volenterosamente a riacquistare la grazia per mezzo della penitenza.
                Due giorni dopo, il 18 giugno, D. Bosco risaliva alla sera sulla cattedra e dava alcune spiegazioni del sogno.

                Non farebbe più d’uopo nessuna spiegazione riguardo al sogno, ma ripeterò quello che già dissi. La gran pianura è il mondo, e anche i luoghi e lo stato donde furono chiamati qui tutti i nostri giovani. Quell’angolo dove erano gli agnelli è l’Oratorio. Gli agnelli sono tutti i giovani, che furono, sono presentemente, e saranno nell’Oratorio. I tre prati in questo angolo, l’arido, il verde, il fiorito, indicano lo stato di peccato, lo stato di grazia e lo stato d’innocenza. Le corna degli agnelli sono gli scandali che si sono dati nel passato. Ve ne erano poi di quelli che avevano le corna rotte e costoro furono scandalosi, ma ora cessarono dal dare scandalo. Tutte quelle cifre “3”, che si vedevano stampate su ciascuno agnello, sono, come seppi dal pastore, tre castighi che Dio manderà sui giovani: 1° Carestia d’aiuti spirituali. 2° Carestia morale, ossia mancanza d’istruzione religiosa e della parola di Dio. 3° Carestia materiale, ossia mancanza anche di vitto. I giovani risplendenti sono coloro che si trovano in grazia di Dio, e soprattutto quelli che conservano ancora l’innocenza battesimale e la bella virtù della purità. E quanta gloria li aspetta!
                Mettiamoci dunque, cari giovani, coraggiosamente a praticare la virtù. Chi non è in grazia di Dio, si metta di buona voglia e quindi con tutte le sue forze e coll’aiuto di Dio perseveri sino alla morte. Che se tutti non possiamo essere in compagnia degli innocenti a far corona all’immacolato Agnello, Gesù, almeno possiamo seguirlo dopo di loro.
                Uno mi domandò se era fra gli innocenti ed io gli dissi di no e che aveva le corna, ma rotte. Mi domandò ancora se aveva delle piaghe ed io gli dissi di sì.
                – E che cosa significano queste piaghe? egli soggiunse.
                Risposi:
                – Non temere. Sono rimarginate, spariranno; queste piaghe ora non sono più disonorevoli, come non sono disonorevoli le cicatrici di un combattente, il quale malgrado le tante ferite e l’incalzamento e gli sforzi del nemico, seppe vincere e riportare vittoria. Sono dunque cicatrici onorevoli!… Ma è più onorevole chi combattendo valorosamente in mezzo ai nemici non riporta nessuna ferita. La sua incolumità eccita la meraviglia di tutti.
Spiegando questo sogno, D. Bosco disse eziandio che non andrà più molto tempo che si faranno sentire questi tre mali: – Peste, fame e quindi mancanza di mezzi per farci del bene.
Soggiunse che non passeranno tre mesi che accadrà qualche cosa di particolare.
Questo sogno produsse nei giovani l’impressione e i frutti che avevano ottenuto tante altre volte simili esposizioni.
(MB VIII 839-845)




Le sette allegrezze della Madonna

Nel cuore dell’opera educativa e spirituale di San Giovanni Bosco, la figura della Madonna occupa un posto privilegiato e luminoso. Don Bosco non fu solo un grande educatore e fondatore, ma anche un fervente devoto della Vergine Maria, che egli venerava con profondo affetto e alla quale affidava ogni suo progetto pastorale. Una delle espressioni più caratteristiche di questa devozione è la pratica delle “Sette allegrezze della Madonna”, proposta in modo semplice e accessibile nella sua pubblicazione “Il giovane provveduto”, uno dei testi più diffusi nella sua pedagogia spirituale.

Un’opera per l’anima dei giovani
Nel 1875, Don Bosco pubblicava una nuova edizione de “Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri negli esercizi di cristiana pietà”, un manuale di preghiere, esercizi spirituali e norme di condotta cristiana pensato per i ragazzi. Questo libro, redatto con uno stile sobrio e paterno, intendeva accompagnare i giovani nella loro formazione morale e religiosa, introducendoli a una vita cristiana integrale. In esso trovava spazio anche la devozione alle “Sette allegrezze di Maria Santissima”, una preghiera semplice ma intensa, strutturata in sette punti. A differenza delle “Sette dolori della Madonna”, molto più nota e diffusa nella pietà popolare, le “Sette allegrezze” di don Bosco pongono l’accento sulle gioie della Santissima Vergine nel Paradiso, conseguenza di una vita terrena vissuta nella pienezza della grazia di Dio.
Questa devozione ha origini antiche e fu particolarmente cara ai Francescani, che la diffusero a partire dal XIII secolo, come Rosario delle Sette Allegrezze della Beata Vergine Maria (o Corona Serafica). Nella forma francescana tradizionale è una preghiera devozionale composta da sette decine di Ave Maria, ciascuna preceduta da un mistero gioioso (allegrezza) e introdotta da un Padre Nostro. Alla fine di ogni decina si recita un Gloria al Padre. Le allegrezze sono: 1. L’Annunciazione dell’Angelo; 2. La visita a Santa Elisabetta; 3. La nascita del Salvatore; 4. L’adorazione dei Magi; 5. Il ritrovamento di Gesù nel tempio; 6. La risurrezione del Figlio; 7. L’assunzione e incoronazione di Maria in cielo.
Don Bosco, attingendo a questa tradizione, ne offre una versione semplificata, adatta alla sensibilità dei giovani.
Ciascuna di queste allegrezze è meditata attraverso la recita di un Ave Maria e un Gloria.

La pedagogia della gioia
La scelta di proporre ai giovani questa devozione non risponde solo a un gusto personale di Don Bosco, ma si inserisce pienamente nella sua visione educativa. Egli era convinto che la fede dovesse essere trasmessa attraverso la gioia, non la paura; attraverso la bellezza del bene, non il timore del male. Le “Sette allegrezze” diventano così una scuola di letizia cristiana, un invito a riconoscere che, nella vita della Vergine, la grazia di Dio si manifesta come luce, speranza e compimento.
Don Bosco conosceva bene le difficoltà e le sofferenze che molti dei suoi ragazzi affrontavano quotidianamente: la povertà, l’abbandono familiare, la precarietà del lavoro. Per questo, offriva loro una devozione mariana che non si limitasse al pianto e al dolore, ma che fosse anche una sorgente di consolazione e di gioia. Meditare le allegrezze di Maria significava aprirsi a una visione positiva della vita, imparare a riconoscere la presenza di Dio anche nei momenti difficili, e affidarsi con fiducia alla tenerezza della Madre celeste.
Nella pubblicazione “Il giovane provveduto”, Don Bosco scrive parole toccanti sul ruolo di Maria: la presenta come madre amorevole, guida sicura e modello di vita cristiana. La devozione alle sue allegrezze non è una semplice pratica devozionale, ma un mezzo per entrare in relazione personale con la Madonna, per imitarne le virtù e riceverne l’aiuto materno nelle prove della vita.
Per il santo torinese, Maria non è distante o inaccessibile, ma vicina, presente, attiva nella vita dei suoi figli. Questa visione mariana, fortemente relazionale, attraversa tutta la spiritualità salesiana e si riflette anche nella vita quotidiana degli oratori: ambienti dove la gioia, la preghiera e la familiarità con Maria vanno di pari passo.

Un’eredità viva
Anche oggi, la devozione alle “Sette allegrezze della Madonna” mantiene intatto il suo valore spirituale ed educativo. In un mondo segnato da incertezze, paure e fragilità, essa offre una via semplice ma profonda per scoprire che la fede cristiana è, prima di tutto, un’esperienza di gioia e di luce. Don Bosco, profeta della gioia e della speranza, ci insegna che l’autentica educazione cristiana passa attraverso la valorizzazione degli affetti, delle emozioni e della bellezza del Vangelo.
Riscoprire oggi le “Sette allegrezze” significa anche recuperare uno sguardo positivo sulla vita, sulla storia e sulla presenza di Dio. La Madonna, con la sua umiltà e la sua fiducia, ci insegna a custodire e a meditare nel cuore i segni della gioia vera, quella che non passa, perché fondata sull’amore di Dio.
In un tempo in cui anche i giovani cercano luce e senso, le parole di Don Bosco restano attuali: “Se volete essere felici, praticate la devozione a Maria Santissima”. Le “Sette allegrezze” sono, allora, una piccola scala verso il cielo, un rosario di luce che unisce la terra al cuore della Madre celeste.

Ecco anche il testo originale preso da “Il giovane provveduto per la pratica de suoi doveri negli esercizi di cristiana pieta”, 1875 (pp. 141-142), con i titoli nostri.

Le sette allegrezze che gode Maria in Cielo

1. Purità coltivata
Rallegratevi, o Sposa immacolata dello Spirito Santo, per quel contento che ora godete in Paradiso, perché per la vostra purità e verginità siete esaltata sopra tutti gli Angeli e sublimata sopra tutti i santi.
Ave, Maria e Gloria.

2. Sapienza cercata
Rallegratevi, o Madre di Dio, per quel piacere che provate in Paradiso, perché siccome il sole quaggiù in terra illumina tutto il mondo, così voi col vostro splendore adornate e fate risplendere tutto il Paradiso.
Ave e Gloria.

3. Obbedienza filiale
Rallegratevi, o Figlia di Dio, per la sublime dignità a cui foste elevata in Paradiso, perché tutte le Gerarchie degli Angeli, degli Arcangeli, dei Troni, delle Dominazioni e di tutti gli Spiriti Beati vi onorano, vi riveriscono e vi riconoscono per Madre del loro Creatore, e ad ogni minimo cenno vi sono obbedientissime.
Ave e Gloria.

4. Preghiera continua
Rallegratevi, o Ancella della SS. Trinità, per quel gran potere, che avete in Paradiso, perché tutte le grazie che chiedete al vostro Figliuolo vi sono subito concesse; anzi, come dice s. Bernardo, non si concede grazia quaggiù in terrà, che non passi per le vostre santissime mani.
Ave e Gloria.

5. Umiltà vissuta
Rallegratevi, o augustissima Regina, perché voi sola meritaste sedere alla destra del vostro santissimo Figlio, il quale siede alla destra dell’Eterno Padre.
Ave e Gloria.

6. Misericordia praticata
Rallegratevi, o Speranza dei peccatori, Rifugio dei tribolati, pel gran piacere che provate in Paradiso nel vedere che tutti quelli che vi lodano e vi riveriscono in questo mondo sono dall’Eterno Padre premiati colla sua santa grazia in terra, e colla sua immensa gloria in cielo.
Ave e Gloria.

7. Speranza premiata
Rallegratevi, o Madre, Figlia e Sposa di Dio, perché tutte le grazie, tutti i gaudi, tutte le allegrezze e tutti i favori, che ora godete in Paradiso non si diminuiranno mai; anzi si aumenteranno fino al giorno del giudizio e dureranno in eterno.
Ave e Gloria.

Orazione alla beatissima Vergine.
O gloriosa Vergine Maria, Madre del mio Signore, fonte di ogni nostra consolazione, per queste vostre allegrezze, di cui ho fatto rimembranza con quella devozione che ho potuto maggiore, vi prego d’impetrarmi da Dio la remissione dei miei peccati, ed il continuo aiuto della sua santa grazia, onde io non mi renda mai indegno della vostra protezione, ma bensì abbia la sorte di ricevere tutti quei celesti favori, che siete solita ottenere e compartire ai vostri servi, i quali fanno devota memoria di queste allegrezze, di cui ridonda il vostro bel cuore, o Regina immortale del Cielo.

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Nessuno spaventava le galline (1876)

Ambientato nel gennaio 1876, il brano presenta uno dei più suggestivi «sogni» di Don Bosco, strumento prediletto con cui il santo torinese scuoteva e guidava i giovani dell’Oratorio. La visione si apre su una pianura sterminata in cui fervono i lavori dei seminatori: il grano, simbolo della Parola di Dio, germoglierà solo se protetto. Ma galline voraci piombano sul seme e, mentre i contadini cantano versetti evangelici, i chierici addetti alla custodia restano muti o distratti, lasciando che tutto vada perduto. La scena, animata da dialoghi arguti e citazioni bibliche, diventa parabola della mormorazione che spegne il frutto della predicazione e monito alla vigilanza attiva. Con toni insieme paterni e severi, Don Bosco trasforma l’elemento fantastico in lezione morale incisiva.

            Nella seconda metà di gennaio il Servo di Dio ebbe un sogno simbolico, del quale fece parola con alcuni Salesiani. Don Barberis lo pregò di raccontarlo in pubblico, perché i suoi sogni piacevano molto ai giovani, facevano loro gran bene e li affezionavano all’Oratorio.
            – Sì, questo è vero, rispose il Beato, fanno del bene e sono ascoltati con avidità; il solo che ne riceva nocumento sono io, perché bisognerebbe che avessi polmoni di ferro. Si può ben dire, che nell’Oratorio non ci sia un solo, il quale non si senta scosso da tali narrazioni; poiché per lo più questi sogni toccano tutti, e ciascheduno vuol sapere in quale stato io l’abbia veduto, che cosa debba fare, quale significato abbia questo o quello; ed io sono tormentato giorno e notte. Se poi voglio svegliare il desiderio delle confessioni generali, non ho da far altro che raccontare un sogno… Senti, fa’ una cosa. Domenica andrò a parlare ai giovani, e tu interrogami in pubblico. Io allora conterò il sogno.
            Il 23 gennaio, dopo le orazioni della sera, egli montò in cattedra. Il suo volto raggiante di gioia manifestava, come sempre, la propria contentezza nel trovarsi tra i suoi figli. Fattosi un po’ di silenzio, Don Barberis chiese di parlare e interrogò:
            – Scusi, signor Don Bosco, mi permette che io le faccia una domanda?
            – Di’ pure.
            – Ho sentito a dire che in queste notti scorse ha fatto un sogno di semenza, di seminatore, di galline, e che l’ha già raccontato al chierico Calvi. Vorrebbe favorire di raccontarlo anche a noi? Questo ci farebbe assai piacere.
            – Curioso!! – fece Don Bosco in tono di rimprovero. E qui scoppiò una risata generale.
            – Non importa, sa, che mi dia del curioso; purché ci racconti il sogno. E con questa mia domanda credo d’interpretare la volontà di tutti i giovani, i quali certamente lo ascolteranno tanto volentieri.
            – Se è così ve lo racconto. Non voleva dir nulla, perché ci sono cose che riguardano diversi di voi in particolare, e alcune anche per te, che fanno bruciare un po’ le orecchie; ma poiché me ne richiedi, io racconterò.
            – Ma eh! signor Don Bosco, se c’è qualche bastonata per me, me la risparmi qui in pubblico.
            – Io racconterò le cose come le sognai; ciascuno prenda la parte sua. Ma prima di tutto bisogna che ciascuno tenga bene a mente, che i sogni si fanno dormendo, e dormendo non si ragiona; perciò se vi è qualche cosa di buono, qualche ammonimento da prendere, si prende. Del resto nessuno si metta in apprensione. Ho detto che io sognando di notte dormiva, perché taluni sognano anche di giorno e alcune volte perfino essendo svegliati e con non leggiero disturbo dei professori, per i quali riescono scolari fastidiosi.

            Mi pareva di essere lontano di qui e di trovarmi a Castelnuovo d’Asti, mia patria. Aveva avanti a me una grande estensione di terreno, situata in una vasta e bella pianura; ma quel terreno non era nostro e non sapeva di chi fosse.
            In quel campo vidi molti che lavoravano colle zappe, colle vanghe, coi rastrelli ed altri strumenti. Chi arava, chi seminava il grano, chi spianava la terra, chi faceva altro. Vi erano qua e là i capi preposti a dirigere i lavori e fra costoro mi sembrava di esser anch’io. Cori di contadini stavano in altra parte cantando. Io osservava stupito e non sapeva darmi ragione di quel luogo. Meco stesso andava dicendo: – Ma a che fine costoro lavorano tanto? – E rispondeva a me stesso: – Per provvedere le pagnotte ai miei giovani. – Ed era veramente una meraviglia il vedere come quei buoni agricoltori non desistessero un istante dal lavoro e incessantemente continuassero nel loro uffizio con uno slancio costante e colla stessa solerzia. Solo alcuni stavano ridendo e scherzando fra di loro.
            Mentre io contemplava così bel quadro, mi guardo attorno e vedo che mi circondavano alcuni preti e molti dei miei chierici, parte vicini, parte ad una certa distanza. Diceva tra me: – Ma io sogno; i miei chierici sono a Torino, qui invece siamo a Castelnuovo. E poi come ciò può essere? Io sono vestito da inverno da capo a piedi, solamente ieri io aveva tanto freddo, ed ora qui si semina il grano. – E mi toccava le mani e camminava e diceva: – Ma pure non sogno, questo è proprio un campo; questo chierico che è qui è il chierico A… in persona; quest’altro è il chierico B… E poi come potrei nel sogno vedere questa cosa e quest’altra?
            Intanto vidi lì presso, ma a parte, un vecchio che all’aspetto sembrava molto benevolo ed assennato, intento ad osservare me e gli altri. Mi accostai a lui e gli domandai:
            – Dite, bravo uomo, ascoltate! Che cosa è ciò che io vedo e non ne capisco nulla? Qui dove siamo? Chi sono questi lavoratori? Di chi è questo campo?
            – Oh! mi risponde quell’uomo; belle interrogazioni da farsi! Ella è prete e non sa queste cose?
            – Ma dunque ditemi! Credete voi che io sogni o che sia desto? Poiché a me par di sognare e non mi sembrano possibili le cose che vedo.
            – Possibilissime, anzi reali e a me pare che Lei sia desto affatto. Non se ne avvede? Parla, ride, scherza.
            – Eppure vi son taluni, io soggiunsi, cui sembra nel sogno di parlare, ascoltare, operare, come se fossero desti.
            – Ma no; lasci da parte tutto questo. Lei è qui in corpo ed anima.
            – Ebbene, sia pure; e se son desto, ditemi allora di chi sia questo campo.
            – Ella ha studiato il latino: qual è il primo nome della seconda declinazione che ha studiato nel Donato? Lo sa ancora?
            – Eh! sì che lo so; ma che cosa ha da far questo con ciò che vi domando?
            – Ha da far moltissimo. Dica adunque quale è il primo nome che si studia nella seconda declinazione.
            – È Dominus.
            – E come fa al genitivo?
            – Domini!
            – Bravo, bene, Domini; questo campo adunque è Domini, del Signore.
            – Ah! ora comincio a capire qualche cosa! – esclamai.
            Era meravigliato della conseguenza tratta da quel buon vecchio. Intanto vidi varie persone che venivano con sacchi di grano per seminare, e un gruppo di contadini cantava: Exit, qui seminat, seminare semen suum (Il seminatore uscì a seminare il suo seme, Lc 8,5).
            A me pareva un peccato gettar via quella semente e farla marcire sotterra. Era così bello quel grano! – Non sarebbe meglio, diceva fra me. macinarlo e fame del pane o delle paste? – Ma poi pensava: – Chi non semina, non raccoglie. Se non si getta via la semente e questa non marcisce, che cosa si raccoglierà poi?
            In quel mentre vedo da tutte le parti uscire una moltitudine di galline e andar pel seminato a beccarsi tutto il grano che altri spargeva per seme.
            E quel gruppo di cantori proseguiva nel suo canto: Venerunt aves caeli, sustulerunt frumentum et reliquerunt zizaniam (Gli uccelli del cielo vennero e raccolsero il grano e lasciarono la zizzania).
            Io do uno sguardo attorno e osservo quei chierici che erano con me. Uno colle mani conserte stava guardando con fredda indifferenza; un altro chiacchierava coi compagni; alcuni si stringevano nelle spalle, altri guardavano il cielo, altri ridevano di quello spettacolo, altri tranquillamente proseguivano la loro ricreazione e i loro giuochi, altri sbrigavano alcuna loro occupazione; ma nessuno spaventava le galline per farle andar via. Io mi rivolgo loro tutto risentito e, chiamando ciascuno per nome, diceva:
            – Ma che cosa fate? Non vedete quelle galline che si mangiano tutto il grano? Non vedete che distruggono tutto il buon seme, fanno svanire le speranze di questi buoni contadini? Che cosa raccoglieremo poi? Perché state così muti? perché non gridate, perché non le fate andar via?
            Ma i chierici si stringevano nelle spalle, mi guardavano e non dicevano niente. Alcuni non si volsero neppure: non badavano prima a quel campo, né ci badarono dopo che io ebbi gridato.
            – Stolti che siete! io continuava. Le galline hanno già tutte il gozzo pieno. Non potreste battere le mani e fare così? – E intanto io batteva le mani, trovandomi in un vero imbroglio, poiché a nulla valevano le mie parole. Allora alcuni si misero a fugar le galline, ma io ripeteva tra me: – Eh sì! Ora che tutto il grano fu mangiato, si scacciano le galline.
            In quel mentre mi colpì l’orecchio il canto di quel gruppo di contadini, i quali così cantavano: Canes muti nescientes latrare (I cani muti non sanno abbaiare, Is 56,10).
            Allora io mi rivolsi a quel buon vecchio e tra stupefatto e sdegnato gli dissi:
            – Orsù, datemi una spiegazione di quanto vedo; io ne capisco nulla. Che cosa è quel seme che si getta per terra?
            – Oh bella! Semen est verbum Dei (Il seme è la parola di Dio, Lc 8,11).
            – Ma che cosa vuol dir questo, mentre vedo che là le galline se lo mangiano?
            Il vecchio, cambiando tono di voce, proseguì:
            – Oh! se vuole una più compiuta spiegazione, io gliela do. Il campo è la vigna del Signore, di cui si parla nel Vangelo, e si può anche intendere del cuore dell’uomo. I coltivatori sono gli operai evangelici, che specialmente colla predicazione seminano la parola di Dio. Questa parola produrrebbe molto frutto in quel cuore, terreno ben preparato. Ma che? Vengono gli uccelli del cielo e la portano via.
            – Che cosa indicano questi uccelli?
            – Vuole che le dica che cosa indicano? Indicano le mormorazioni. Sentita quella predica che porterebbe effetto, si va coi compagni. Uno fa la chiosa ad un gesto, alla voce, ad una parola del predicatore, ed ecco portato via tutto il frutto della predica. Un altro accusa il predicatore stesso di qualche difetto o fisico o intellettuale; un terzo ride sul suo italiano, e tutto il frutto della predica è portato via. Lo stesso deve dirsi di una buona lettura, della quale il bene resta tutto impedito da una mormorazione. Le mormorazioni sono tanto più cattive, in quanto che esse generalmente sono segrete, nascoste, e colà vivono e crescono, ove punto noi non ce lo aspettiamo. Il grano sebbene sia in un campo non molto coltivato, tuttavia nasce, cresce, viene su abbastanza alto e produce frutto. Quando in un campo di fresco seminato viene un temporale, allora il campo resta pestato e non porta più tanto frutto, ma pure ne porta. Se anche la semenza non sarà tanto bella, pure crescerà: porterà poco frutto, ma pure ne porterà. Invece quando le galline o gli uccelli si beccano la semente, non c’è più verso: il campo non rende né punto né poco; non porta più frutto di sorta. Così se alle prediche, alle esortazioni, ai buoni propositi terrà dietro qualche altra cosa come distrazione, tentazione, ecc. farà meno frutto; ma quando c’è la mormorazione, il parlar male o simili, qui non c’è poco che tenga, ma c’è subito il tutto che vien portato via. E a chi tocca battere le mani, insistere, gridare, sorvegliare, perché queste mormorazioni, questi discorsi cattivi non si facciano? Lei lo sa!
            – Ma che cosa facevano mai questi chierici? io gli chiesi. Non potevano essi impedire tanto male?
            – Non impedirono nulla, egli proseguì. Taluni stavano ad osservare come statue mute, altri non ci badavano, non ci pensavano, non vedevano e se ne stavano colle braccia conserte, altri non avevano il coraggio d’impedire questo male; alcuni, pochi però, si univano anch’essi ai mormoratori, prendevano parte alle loro maldicenze, facevano il mestiere di distruggitori della parola di Dio. Tu che sei prete insisti su questo; predica, esorta, parla, non aver paura di dir mai troppo; e tutti sappiano che il fare le chiose a chi predica, a chi esorta, a chi dà buoni consigli è ciò che reca più del male. E lo star muti quando si vede qualche disordine e non impedirlo, specialmente chi potrebbe o dovrebbe, questo è al tutto rendersi complice del male degli altri.
            Io tutto compreso da queste parole, voleva ancora guardare, osservare questa e quella cosa, rimproverare i chierici, infiammarli a compiere il proprio dovere. Ed essi già si movevano e cercavano di mettere in fuga le galline. Ma io, avendo fatti alcuni passi, inciampai in un rastrello, destinato a spianar la terra, lasciato in quel campo, e mi svegliai. Ora lasciamo da parte ogni cosa e veniamo alla morale. D. Barberis! Che cosa ne dici di questo sogno?
            – Dico, rispose D. Barberis, che è una buona bastonata, e bazza a chi tocca.
            – Eh certo, riprese D. Bosco, è una lezione la quale bisogna che ci faccia del bene; e tenetelo a mente, o miei cari giovani, di evitare fra voi in ogni modo la mormorazione, come un male straordinario, fuggendola come si fugge dalla peste, e non solo evitarla voi, ma a tutto potere cercare di farla evitare agli altri. Alcune volte santi consigli, opere ottime non fanno il bene, che reca l’impedire una mormorazione e qualunque parola che possa nuocere ad altri. Armiamoci di coraggio e combattiamola francamente. Non v’è peggior disgrazia di quella di far perdere la parola di Dio. E basta un motto, basta uno scherzo.

            Vi ho contato un sogno avvenutomi già sono varie notti, ma in questa notte scorsa ne ho avuto un altro, che eziandio desidero narrarvi. L’ora non è ancora troppo tarda; sono appena le nove e posso esporvelo. Procurerò tuttavia di non andare per le lunghe.
            Mi parve adunque di trovarmi in un luogo che ora non ricordo più quale fosse: non era io più a Castelnuovo, ma mi pare che neppure fossi all’Oratorio. Venne qualcuno con tutta premura a chiamarmi:
            – D. Bosco, venga! D. Bosco, venga!
            – Ma e che cosa c’è di tanta premura? io risposi.
            – È in corrente delle cose avvenute?
            – Io non intendo quello che tu vuoi dire; spiegati chiaramente, risposi ansioso.
            – Non sa, D. Bosco, che il tal giovane così buono, così pieno di brio, è gravemente infermo, anzi moribondo?
            – Io dubito che tu voglia prenderti gioco di me, gli dissi: perché appunto stamane parlai e passeggiai con lo stesso giovane, che ora mi annunzi moribondo.
            – Ah, D. Bosco, io non cerco d’ingannarla e mi credo in debito di narrarle la pura verità. Quel giovane ha sommamente bisogno di lei e desidera di vederla e di parlarle per l’ultima volta. Ma venga presto, perché altrimenti non è più in tempo.
            Io senza sapere il dove, andai in tutta fretta dietro a quel tale. Arrivo in un luogo e vedo gente mesta e piangente che mi dice: Faccia pure presto, che è agli estremi.
            – Ma che cosa è accaduto? – rispondo. Vengo introdotto in una camera, dove vedo un giovane coricato, tutto smorto nel viso, d’un colore quasi cadaverico, con una tosse e un rantolo che lo soffocava e appena a stento gli permetteva di parlare:
            – Ma non sei tu il tale dei tali? io gli dissi.
            – Sì, sono il tale!
            – Come stai?
            – Sto male
            – E come va che ora ti vedo in questo stato? Solamente ieri e stamattina non passeggiavi tranquillo sotto i portici?
            – Sì, rispose il giovane, ieri e stamattina passeggiavo sotto i portici; ma ora faccia presto, che io ho bisogno di confessarmi; vedo che mi resta più poco tempo.
            – Non affannarti, non affannarti; tu ti sei confessato da pochi giorni.
            – È vero e mi pare di non avere nessuna grossa pena sul mio cuore; ma tuttavia desidero ricevere la santa assoluzione prima di presentarmi al Divin Giudice.
            Io ascoltai la sua confessione. Ma intanto osservai che visibilmente peggiorava e un catarro era per soffocarlo. – Ma qui bisogna fare in fretta, dico fra me, se voglio che riceva ancora il santo viatico e l’olio santo. Anzi il viatico non potrà più riceverlo, sia perché ci vuole più tempo per i preparativi, sia perché la tosse potrebbe impedirgli d’inghiottire. Presto l’olio santo!
            Così dicendo, esco dalla camera e mando subito un uomo a prendere la borsa degli olii santi. I giovani che erano in sala mi domandavano:
            – Ma è veramente in pericolo? è proprio moribondo, come si va dicendo?
            – Purtroppo! io rispondeva. Non vedete che il respiro gli si fa ognor più grave e il catarro lo soffoca?
            – Ma sarà meglio portargli anche il viatico e così fortificato mandarlo nelle braccia di Maria!
            Ma mentre io mi affaccendava nel preparar l’occorrente, sento una voce: – è spirato!
            Rientro in camera e trovo l’infermo cogli occhi sbarrati; più non respira; è morto.
            – È morto? io domando a quei due che lo assistevano morto, mi rispondono: è morto!
            – Ma come va, tanto in fretta? Ditemi: non è desso il tale?
            – Sì, è il tale.
            – Non posso credere agli occhi miei! Solo ieri passeggiava con me sotto i portici.
            – Ieri passeggiava ed ora è morto, mi replicarono.
            – Per fortuna che era un giovane buono! esclamai. E diceva ai giovani che aveva attorno:
            – Vedete, vedete? Costui non ha nemmanco più potuto ricevere il viatico e l’estrema unzione. Ringraziamo però il Signore, che gli diede tempo di confessarsi. Questo giovane era buono, frequentava abbastanza i Sacramenti e speriamo che sia andato ad una vita felice, o almeno in purgatorio. Ma se fosse un po’ capitata ad altri la stessa sorte, che cosa ne sarebbe ora di certuni?
            Ciò detto, ci mettemmo tutti in ginocchio e recitammo un De profundis per l’anima del povero defunto.
            Intanto io andava in camera, quando mi vedo giungere Ferraris dalla libreria (coadiutore Giovanni Antonio Ferraris, libraio), il quale tutto affannato mi dice:
            – Sa, D. Bosco, che cosa è avvenuto?
            – Eh! purtroppo lo so! È morto il tale! rispondo.
            – Non è questo che voglio dire; vi sono due altri morti.
            – Come? chi?
            – Il tale ed il tale altro.
            – Ma quando? Non capisco.
            – Sì, due altri, i quali morirono prima che ella giungesse.
            – E perché allora non mi avete chiamato?
            – Mancò il tempo. Ma ella sa dirmi quando è morto questo qui?
            – È morto adesso! io risposi.
            – Sa ella in che giorno siamo e di qual mese? proseguì Ferraris.
            – Sì che lo so; siamo ai 22 di gennaio, secondo giorno della novena di S. Francesco di Sales.
            – No, disse Ferraris. Ella si sbaglia, signor Don Bosco; guardi bene. – Io alzo gli occhi al calendario e vedo: 26 di Maggio.
            – Ma questa è maiuscola! esclamai. Siamo di gennaio, e ben me ne accorgo dal come sono vestito, non si va vestiti così di maggio; di maggio non vi sarebbe il calorifero acceso.
            – Io non so che dirle, o che ragione darle, ma ora siamo ai 26 di maggio.
            – Ma se ieri solamente è morto quel nostro compagno ed eravamo in gennaio.
            – Si sbaglia, insisté Ferraris; eravamo in tempo pasquale.
            – Un’altra ne aggiungi ancor più grossa!
            – Tempo pasquale, sicuro: eravamo in tempo pasquale, e fu ben più fortunato di morire nella Pasqua, che gli altri due, i quali morirono nel mese di Maria.
            – Tu mi burli, io gli dissi. Spiegati meglio, altrimenti io non t’intendo.
            – Io non burlo niente affatto. La cosa è così. Se poi vuole saperne di più, e che io mi spieghi meglio, ecco! Stia attento!
            Aperse le braccia, poi batté le due mani una contro l’altra forte forte: ciac! Ed io mi sono svegliato. Allora esclamai: – Oh per fortuna! Non è una realtà, ma è un sogno. Quanto timore ho avuto!
            Ecco il sogno che ho fatto la notte scorsa. Voi dategli quell’importanza che volete. Io stesso non voglio dargli interamente fede. Oggi però ho voluto vedere se coloro che mi parvero morti in sogno, fossero ancora vivi e li vidi sani e vigorosi. Certamente che non conviene ch’io dica, e non dirò, chi siano costoro. Tuttavia terrò d’occhio quei due: se sarà necessario qualche consiglio per vivere bene, lo darò loro, e li preparerò, facendo le volte larghe senza che se ne accorgano; perché così, se accadesse loro di dover morire, la morte non li trovi impreparati. Ma nessuno vada dicendo: Sarà questi, sarà quegli. Ciascuno pensi a sé.
            E non datevi nessuna apprensione di questo. L’effetto che deve fare in voi è semplicemente quello che ci suggerì il Divin Salvatore nel Vangelo: Estote parati, quia, qua hora non putatis, filius hominis veniet (Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo, Lc 12,40). È questo un grande avvertimento, miei cari giovani, che ci dà il Signore. Stiamo apparecchiati sempre, perché nell’ora in cui meno ce lo aspettiamo, può venire la morte e colui che non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. Io mi terrò preparato il meglio che posso e voi fate lo stesso, affinché in qualunque ora piaccia al Signore di chiamarci, possiamo essere pronti a passare nella felice eternità. Buona notte.

            Le parole di Don Bosco si ascoltavano sempre con religioso silenzio; ma quando egli raccontava di queste cose straordinarie, fra le centinaia di ragazzi che gremivano il luogo, non si sentiva un colpo di tosse né il più lieve fruscio di piedi. L’impressione viva durava settimane e mesi e con l’impressione avvenivano mutazioni radicali nella condotta di certi discoli. Si faceva poi ressa intorno al confessionale di Don Bosco. Di supporre che egli inventasse quei racconti per spaventare e migliorare la vita dei giovani, non veniva in capo a nessuno, perché gli annunzi di morti prossime si avveravano sempre e certi stati di coscienza veduti nei sogni rispondevano a realtà.
            Ma il timore prodotto da sì lugubri predizioni non era un incubo opprimente? Non pare. Troppe si presentavano le possibilità e le supposizioni in una moltitudine di più che ottocento giovani, perché i singoli ne potessero essere preoccupati. Inoltre la persuasione realmente diffusa, che chi moriva nell’Oratorio, andava di certo in paradiso, e che Don Bosco preparava i designati senza spaventarli, contribuiva a scacciare dagli animi ogni timore. D’altra parte si sa bene quanto sia grande la volubilità giovanile: sul momento la fantasia dei giovani rimane colpita e scossa; ma poi quel ricordo si libera ben presto da qualsiasi paurosa apprensione. Tanto ci attestavano unanimi i superstiti di quei tempi.
            Andati che furono i giovani a dormire, alcuni confratelli che attorniavano il Beato, lo tempestavano di domande, per sapere se alcuno di loro fosse fra quei che dovevano morire. Il Servo di Dio, sorridendo secondo il suo solito e scuotendo il capo, ripeteva:
            – Già, già! Verrò a dirvi chi è, con pericolo di far morire qualcuno prima del tempo!
            Visto che lì non si spillava nulla, lo interrogarono se nel primo sogno vi fossero anche dei chierici a far la parte delle galline, che, si abbandonassero cioè alla mormorazione. Don Bosco, che passeggiava, si fermò, girò gli occhi su gl’interlocutori e fece un risolino come per dire: – Eh! qualcuno sì; tuttavia pochi, e non aggiungo altro. – Allora gli chiesero che dicesse almeno se essi erano fra i cani muti; il Beato si tenne sulle generali, osservando che bisognava stare attenti a evitare e a far evitare le mormorazioni e in genere tutti i disordini, massime i cattivi discorsi. – Guai al prete e al chierico, disse, il quale, incaricato della vigilanza, vede i disordini e non li impedisce! Desidero si sappia e si ritenga che con la parola “mormorazioni” io non intendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni motto, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola di Dio udita. In generale poi intendo di dire che è un gran male starsene quieti, allorché si conosce qualche disordine, non impedendolo o non cercando che lo impedisca chi di ragione.
            Uno più arditelo mosse al Servo di Dio un’interrogazione alquanto azzardata.
            – E Don Barberis per che cosa entra nel sogno? Lei ha detto che ce n’era anche per lui, e Don Barberis stesso sembrava che si aspettasse una buona bastonata per sé. – Don Barberis era presente. Sulle prime Don Bosco accennava a non voler rispondere. Ma poi, essendo rimasti ai suoi fianchi solo alcuni preti e mostrandosi Don Barberis contento che egli palesasse il segreto, il Beato disse:
            – Eh! Don Barberis non predica abbastanza su questo punto; su quest’argomento non insiste quanto bisogna. Don Barberis confermò che né l’anno innanzi né durante l’anno in corso si era mai fermato di proposito: su quelle materie nelle sue conferenze agli ascritti; ebbe perciò molto piacere dell’osservazione e se la legò all’orecchio per l’avvenire.
            Ciò detto, salirono le scale e tutti, baciata la mano a Don Bosco, si allontanarono e andarono a riposo. Tutti, meno Don Barberis, che secondo il consueto lo accompagnò fino all’uscio della sua stanza. Don Bosco, vedendo che era ancora presto e accorgendosi che non avrebbe potuto prender sonno, perché fortemente impressionato dalle cose esposte, contro la sua costante abitudine fece entrare Don Barberis nella camera, dicendo:
            – Giacché abbiamo ancora tempo, possiamo fare due passi su e giù per la stanza.
            Così continuò a discorrere per una mezz’ora. Disse fra l’altro:
            – Io nel sogno ho veduto tutti ed ho veduto lo stato nel quale ognuno si trovava: se gallina, se cane muto, se nel numero di coloro che avvisati si misero all’opera o non si mossero. Di queste cognizioni io mi servo confessando, esortando in pubblico ed in privato, finché vedo che producono del bene. Da principio non faceva gran caso di questi sogni; ma mi accorsi che per lo più valgono a produrre l’effetto di più prediche, anzi per alcuni sono più efficaci che un corso di esercizi spirituali; perciò me ne servo. E perché no? Si legge nella Sacra Scrittura: Probate spiritus (mettete alla prova gli spiriti, 1Gv 4,1); quod bonum est tenete (tenete ciò che è buono, 1Tes 5,21). Vedo che giovano, vedo che piacciono, e perché tenerli segreti? Anzi osservo che contribuiscono ad affezionare molti alla Congregazione.
            – Ho provato io stesso, interruppe Don Barberis, di quanta utilità fossero questi sogni e quanto salutari. Anche narrati altrove, fanno del bene. Dove Don Bosco è conosciuto, si può dire che sono sogni fatti da lui; dove non è conosciuto, si possono presentare come similitudini. Oh, se sì potesse fame una raccolta, esponendoli in forma di similitudini! Sarebbero ricercati e letti da piccoli e da grandi, da giovani e da vecchi, con vantaggio delle anime loro.
            – Già, già! Farebbero del bene, ne sono intimamente convinto.
            – Ma forse, lamentò Don Barberis, nessuno li ha raccolti per iscritto.
            – Io, riprese Don Bosco, non ho tempo, e di molti non mi ricordo più.
            – Quelli dei quali io mi ricordo, replicò Don Barberis, sono i sogni che si riferivano ai progressi della Congregazione, all’estendersi del manto della Madonna…
            – Ah, sì! – esclamò il Beato. E accennò a parecchie visioni di questo genere. Presa quindi un’aria più grave e quasi conturbato proseguì:
            – Quando penso alla mia responsabilità nella posizione in cui io mi trovo, tremo tutto… Che conto tremendo avrò da rendere a Dio di tutte le grazie che ci fa per il buon andamento della nostra Congregazione!
(MB XII, 40-51)

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La decima collina (1864)

Il sogno della “Decima Collina”, narrato da don Bosco nell’ottobre 1864, è una delle pagine più suggestive della tradizione salesiana. In esso il santo si ritrova in una sterminata valle colma di giovani: alcuni già all’Oratorio, altri ancora da incontrare. Guidato da una voce misteriosa, deve condurli oltre una ripida scarpata e poi attraverso dieci colline, simbolo dei dieci comandamenti, verso una luce che prefigura il Paradiso. Il carro dell’Innocenza, le schiere penitenziali e la musica celestiale disegnano un affresco educativo: mostrano la fatica di preservare la purezza, il valore del pentimento e il ruolo insostituibile degli educatori. Con questa visione profetica don Bosco anticipa l’espansione mondiale della sua opera e l’impegno di accompagnare ogni giovane sul cammino della salvezza.

                D. Bosco aveva sognato nella notte precedente. Nello stesso tempo un giovane di nome C… E… di Casal Monferrato, fece egli pure lo stesso sogno, parendogli di trovarsi con D. Bosco e di parlargli. Levatosi ne era rimasto tanto colpito che andò a raccontare le cose sognate al suo professore, il quale lo esortò di recarsi a narrarle a D. Bosco. Il giovane andò subito e s’imbatté con lui stesso che scendeva le scale, per cercarlo e narrargli la stessa cosa.
                Parve adunque a D. Bosco di trovarsi in una grandissima valle tutta piena di migliaia e migliaia di giovanetti, ma così numerosi che esso non credeva potersene trovare tanti in tutto il mondo. Fra questi giovani egli distingueva tutti quelli che furono, e quelli che sono nella casa. Tutti gli altri erano coloro che forse verranno poi. Frammisti ai giovani si vedevano i preti ed i chierici della casa.
                Una ripa altissima chiudeva da un lato quella valle. Mentre D. Bosco pensava che cosa avrebbe dovuto fare di tanti giovani, una voce gli disse:
                – Vedi quella ripa? Ebbene; bisogna che tu e i tuoi giovani ne guadagniate la cima.
                Allora D. Bosco diede ordine a tutte quelle, turbe di giovani di muoversi verso il punto indicato. I giovani si mossero e a gran corsa si slanciarono arrampicandosi su per la ripa. I preti della casa correvano anche essi all’insù spingendo avanti i giovani, rialzavano quelli che cadevano e portavano sulle spalle coloro che stanchi non potevano camminare. D. Rua colle maniche della veste rivoltate lavorava più di tutti e, prendendo i giovani a due per due, addirittura gli slanciava per aria sulla ripa, sulla quale cadendo essi restavano in piedi e poi scorrazzavano allegramente qua e là. D. Cagliero e D. Francesia correvano su e giù per le file gridando:
                – Coraggio, avanti; avanti, coraggio.
                In poco d’ora quelle schiere giovanili raggiunsero la cima della ripa; D. Bosco pure era salito e disse:
                – Ed ora che cosa faremo?
                E la voce soggiunse:
                – Tu devi valicare coi tuoi giovani queste dieci colline che vedi distendersi innanzi a te l’una dopo l’altra.
                – Ma come faranno a reggere ad un viaggio così lungo tanti giovanetti che sono così piccoli e delicati?
                – Chi non potrà andare coi suoi piedi, sarà portato; – gli fu risposto.
                Ed ecco infatti spuntare ad una estremità del colle e salire un magnifico carro. Impossibile ne è la descrizione tanto era bello, ma pure qualche cosa si può dire. Era triangolare e aveva tre ruote che si movevano per tutti i versi. Dai tre angoli partivano tre aste che venivano a congiungersi in un punto solo sopra il carro stesso, formando come un pinnacolo di pergolato. Su questo punto di congiunzione si innalzava un magnifico stendardo sul quale era scritto a caratteri cubitali: Innocentia. Una fascia poi che correva tutto intorno al carro, formava sponda e portava l’iscrizione: Adjutorio Dei Altissimi Patris et Filii et Spiritus Sancti (al riparo di Dio Altissimo, Padre e Figlio e Spirito Santo).
                Il carro, che splendeva tutto per oro e pietre preziose, si avanzò e venne a collocarsi in mezzo ai giovani. Dato il comando, molti fanciulletti vi salirono sopra. Il numero era di 500. Cinquecento appena in mezzo a tante migliaia di giovani erano ancora innocenti.
                Collocati questi sul carro D. Bosco pensava per quale via avrebbe dovuto incamminarsi, quando vide aprirsi innanzi a lui una strada larga e comoda, ma tutta sparsa di spine. Apparvero quindi all’improvviso sei giovani, già morti nell’Oratorio, vestiti di bianco, i quali inalberavano un’altra bellissima bandiera sulla quale era scritto: Poenitentia. Costoro si andarono a posare alla testa di tutte quelle falangi di giovani che dovevano mettersi in viaggio pedestri. Allora fu dato il segnale della partenza. Molti preti si slanciano al timone del carro, il quale tratto da essi incomincia a muoversi. I sei vestiti di bianco lo seguono. Dietro a loro tutto il resto della moltitudine. Con magnifica ed inesprimibile musica si intona dai giovanetti che erano sul carro il Laudate pueri Dominum (Lodate Dio voi piccoli, Ps 113,1).
                D. Bosco camminava inebbriato da quella musica celeste, quando si ricordò di voltarsi indietro, per vedere se tutti i giovani lo avevano seguito. Ma oh doloroso spettacolo! Molti erano rimasti nella valle, molti erano ritornati indietro. Don Bosco agitato da inesprimibile dolore decise di rifare il cammino già fatto per tentar di persuadere quei giovani sconsigliati, e di aiutarli a seguirlo. Ma gli venne assolutamente vietato.
                – Ma quei poverini si perdono: – esclamò egli.
                E gli venne, risposto:
                – Peggio per loro: essi furono chiamati come gli altri e non vollero seguirti. La strada da farsi l’hanno veduta e ciò basta.
                D. Bosco voleva replicare; pregò, scongiurò: tutto fa inutile:
                – L’obbedienza è anche per te! – gli fu detto. E dovette continuare il cammino.
                Non erasi ancor lenito questo dolore, quando un altro tristo accidente sopravvenne. Molti giovanetti di quelli che si trovavano sul carro a poco a poco erano caduti per terra. Di 500 appena 150 rimanevano sotto il vessillo dell’innocenza.
                Il cuore di D. Bosco scoppiava per l’insopportabile affanno. Esso sperava fosse quello un sogno, faceva tutti gli sforzi per svegliarsi, ma pur troppo si accorgeva che era una terribile realtà. Batteva le mani ed udiva il suono di esse: gemeva, ed udiva che il suo gemito risuonare per la stanza; voleva dissipare quel terribile fantasma, ma non poteva.
                – Ah miei cari giovani! egli esclamava a questo punto, narrando il sogno. Io ho conosciuto e veduto coloro che rimasero nella valle, quelli che tornarono indietro o caddero dal carro! Vi ho conosciuti tutti. Ma non dubitate; io farò ogni sforzo possibile per salvarvi. Molti di voi invitati da me a confessarsi non risposero alla chiamata! Per carità salvate le anime vostre.
                Molti dei giovanetti caduti dal carro si erano di mano in mano andati a porre tra le file di coloro che camminavano dietro la seconda bandiera. Intanto la musica del carro continuava così dolce che a poco a poco vinse il dolore di D. Bosco. Sette colline erano già valicate e giunte quelle schiere sulla ottava, entrarono in un meraviglioso paese, dove si fermarono a prendere un po’ di riposo. Le case erano di una ricchezza e bellezza indescrivibile.
                D. Bosco parlando ai giovani di questa regione soggiunse:
                – Vi dirò con Santa Teresa ciò che essa affermò delle cose del paradiso: sono cose che col parlarne si avviliscono, perché sono così belle che è inutile sforzarsi a descriverle. Quindi osserverò solamente che gli stipiti di quelle case parevano di oro, di cristallo, di diamante tutt’insieme, sicché sorprendevano, appagavano la vista infondevano allegrezza. I campi erano ripieni d’alberi sui quali si vedevano contemporaneamente fiori, bottoni, frutta matura e frutta verde. Era un incanto magnifico.
                I giovani si sparsero pel paese chi di qua e chi di là, chi per una cosa, chi per l’altra, poiché grande era la loro curiosità e il desiderio di avere di quella frutta.
                È in questo villaggio che quel giovane di Casale si imbatté in D. Bosco e tenne con lui un lungo dialogo. D. Bosco e il giovane si ricordavano perfettamente le domande fatte e le risposte avute. Singolare combinazione di due sogni.
                D. Bosco ebbe qui un’altra strana sorpresa. I suoi giovani gli apparvero ad un tratto come divenuti vecchi; senza denti, pieni di rughe in volto, coi capelli bianchi, curvi, zoppicanti, appoggiati al bastone. D. Bosco si meravigliava di questa metamorfosi, ma la voce gli disse:
                – Tu ti meravigli; ma hai da sapere che non sono già poche ore dacché sei partito dalla valle, ma sono anni ed anni. È quella musica che ti ha fatto parer corto il cammino. In prova, guarda la tua fisionomia e ti persuaderai se io dico il vero. – E a D. Bosco venne presentato uno specchio. Egli si specchiò e vide che il suo aspetto era d’uomo attempato, col volto rugoso, e coi denti guasti e pochi.
                La comitiva frattanto si rimise in cammino e i giovani a quando a quando chiedevano di fermarsi per vedere quelle nuove cose. Ma D. Bosco diceva loro:
                – Avanti, avanti: noi non abbisogniamo di nulla; non abbiamo fame, noti abbiam sete, dunque avanti.
                (In fondo lontano, sulla decima collina spuntava una luce che andava sempre crescendo come se uscisse da una stupenda porta). Ricominciò allora il canto, ma così bello che solo in Paradiso si può udire l’eguale e gustarlo. Non era musica di istrumenti, né pareva di voci umane. Era una musica impossibile a descriversi; e tanta fu la piena del giubilo che inondò l’anima di D. Bosco che svegliatosi si trovò nel suo letto.
                D. Bosco così spiegò il suo sogno:
                – La valle è il mondo. La ripa gli ostacoli per staccarsi da esso. – Il carro lo capite. – Le squadre dei giovani a piedi sono i giovani che perduta l’innocenza, si pentirono dei loro falli.
                D. Bosco aggiunse ancora che le 10 colline raffiguravano i 10 comandamenti della legge di Dio, l’osservanza dei quali conduce alla vita eterna.
                Quindi annunziò che, se facesse di bisogno era pronto a dire confidenzialmente a certi giovani che cosa facevano in quel sogno; se restarono nella valle o se caddero dal carro.
                Disceso dalla bigoncia, l’alunno Ferraris Antonio si avvicinò a lui, e gli raccontò, essendo noi presenti che intendemmo perfettamente le sue parole, come la sera precedente avesse egli sognato di trovarsi in compagnia di sua madre, la quale gli aveva domandato se a Pasqua sarebbe tornato a casa per passarvi i giorni di vacanza: esso averle risposto che prima di Pasqua sarebbe andato in paradiso. Quindi in confidenza sottovoce disse alcune altre parole nell’orecchio a D. Bosco. Ferraris Antonio morì il 16 marzo 1865.
                Noi abbiamo subito scritto il sogno, e la stessa sera 22 ottobre 1864 sul fine aggiungevamo la seguente postilla. “Io tengo per certo che D. Bosco colle sue spiegazioni cercò di coprire ciò che il sogno ha di più sorprendente, almeno per qualche circostanza. Quella dei dieci comandamenti non mi appaga. L’ottava collina sulla quale D. Bosco fa una sosta, ed egli si vede nello specchio così attempato, io credo che indichi il fine della sua vita dover succedere oltre i settanta anni. Vedremo l’avvenire”.
                Questo avvenire è dunque ora tempo passato, e noi ci siamo confermati nella nostra opinione. Il sogno indicava a Don Bosco la durata del suo vivere. Confrontiamo con questo, quello della Ruota, che noi non potemmo conoscere se non qualche anno dopo. I giri della Ruota procedono per decenni: e così pure sembra che’ abbracci simile spazio di tempo il procedere di collina in collina. Ognuna della dieci colline rappresenta dieci anni, sicché vengono a significare cento anni il massimo della vita di un uomo. Ora noi vediamo D. Bosco ancor fanciullo, nel primo decennio, incominciare la sua missione tra i compagni dei Becchi e così dar principio al suo viaggio; percorre interamente le sette colline cioè sette decenni quindi la sua età giunge a settant’anni: sale l’ottava collina e qui fa una sosta: vede case e campi meravigliosamente belli, ovvero la sua Pia Società resa grande e fruttifera dalla bontà infinita di Dio. È ancor lunga la via da percorrere sulla ottava collina e si rimette in viaggio; ma non giunge alla nona, perché si risveglia. Così egli non campò l’ottavo decennio, morendo a 72 anni e 5 mesi.
                Che ne dice il lettore? Aggiungeremo che la sera dopo Don Bosco avendo interrogato noi stessi qual fosse il nostro pensiero intorno al sogno, gli abbiamo risposto, che non riguardava solamente i giovani, ma sebbene indicava la dilatazione della Pia Società in tutto il mondo.
                – Ma che? replicò uno dei nostri confratelli; abbiamo già i collegi di Mirabello e di Lanzo e se ne aprirà qualche altro in Piemonte. Che cosa vuoi di più?
                – No; sono ben altri i destini che ci annunzia il sogno.
                E D. Bosco approvava, sorridendo, la nostra persuasione.
(MB VII, 796-802)




Gli agnellini e la tempesta estiva (1878)

Il racconto onirico che segue, narrato da Don Bosco la sera del 24 ottobre 1878, è molto più di un semplice divertimento serale per i giovani dell’Oratorio. Attraverso la delicata immagine degli agnellini sorpresi da una violenta tempesta estiva, il santo educatore disegna un’allegoria vivace delle vacanze scolastiche: tempo apparentemente spensierato, ma carico di pericoli spirituali. Il prato invitante rappresenta il mondo esterno, la grandine simboleggia le tentazioni, mentre il giardino protetto allude alla sicurezza offerta dalla vita di grazia, dai sacramenti e dalla comunità educativa. In questo sogno, che si fa catechesi, Don Bosco ricorda ai suoi ragazzi — e a noi — l’urgenza di vigilare, ricorrere all’aiuto divino e sostenersi vicendevolmente per tornare integri alla vita quotidiana.

                Della partenza per le vacanze e del ritorno, nessuna notizia quest’anno, se non fosse un sogno intorno agli effetti che le vacanze sogliono produrre. Don Bosco lo raccontò la sera del 24 ottobre. Appena, esordendo, ne diede l’annunzio, si videro manifestazioni universali di contentezza.

                Io sono contento di rivedere il mio esercito di armati contra diabolum (contro il diavolo). Questa espressione, quantunque latina, è capita anche da Cottino. Tante cose avrei a dirvi, essendo la prima volta che vi parlo dopo le vacanze; ma per ora vi voglio raccontare un sogno. Voi sapete che i sogni si fanno dormendo e che non bisogna prestarvi fede; ma se non c’è nessun male a non credere, talvolta non vi è male neppure a credere e possono anzi servirci di istruzione, come, per esempio, questo.
                Io era a Lanzo alla prima muta d’esercizi e dormiva, quando, come dissi, feci un sogno. Io mi trovava in un luogo ove non potei conoscere quale regione fosse, ma era vicino ad un paese nel quale si estendeva un giardino, e vicino a questo giardino un vastissimo prato. Era in compagnia di alcuni amici che mi invitarono ad entrare nel giardino. Entro e vedo una gran quantità di agnellini che saltavano, correvano, facevano capriole secondo il loro costume. Quando ecco si apre una porta che mette nel prato e quegli agnellini corrono fuori per andare a pascolare.
                Molti però non si curano di uscire, ma si fermano nel giardino; e andavano qua e là brucando qualche filo d’erba e così si pascevano, quantunque non vi fosse erba in quell’abbondanza come fuori nel prato, ov’era accorso il più gran numero. – Voglio vedere che cosa fanno questi agnellini di fuori, – io dissi. Andammo nel prato e li vedemmo pascolare tranquillamente. Ed ecco quasi subito s’oscura il cielo, seguono lampi e tuoni e si approssima un temporale.
                – Che cosa sarà di questi agnellini, se prendono la tempesta? andava io dicendo. Ritiriamoli in salvo. – E li andava chiamando. Poi io da una parte e quei miei compagni sparsi in diversi punti, cercavamo di spingerli verso l’uscio del giardino. Sennonché essi non volevano saperne di entrare; caccia di qua, scappa di là, eh sì! gli agnellini avevano le gambe migliori delle nostre. Frattanto incominciarono a cadere spesse gocciole, poi veniva la pioggia ed io non riusciva a poter raccogliere quel gregge. Una o due pecorelle entrarono bensì nel giardino, ma tutte le altre, ed erano in gran quantità, continuarono a star nel prato. – Ebbene, io dissi, se non vogliono venire, peggio per loro! Intanto noi ritiriamoci – E andammo nel giardino.
                Colà vi era una fontana su cui stava scritto a caratteri cubitali: Fons signatus, fontana sigillata. Essa era coperta, ed ecco che si apre; l’acqua sale in alto e si divide e forma un arcobaleno, ma a guisa di volta come questo porticato.
                Frattanto si vedevano più frequenti i lampi, seguivano più rumorosi i tuoni e si mise a cader la grandine. Noi con tutti gli agnellini che erano nel giardino, ci ricoverammo e ci stringemmo là sotto quella volta meravigliosa e non vi penetrava l’acqua e la grandine.
                – Ma che cosa è questo? io andava chiedendo agli amici. Che cosa sarà mai dei poveretti che stanno fuori?
                – Vedrai! mi rispondevano. Osserva sulla fronte di questi agnelli; che cosa vi trovi? – Osservai e vidi che sulla fronte di ciascheduno di quegli animali stava scritto il nome di un giovane dell’Oratorio.
                – Che cosa è questo? – chiesi.
                – Vedrai, vedrai!
                Intanto io non poteva più trattenermi e volli uscire per vedere che cosa facessero quei poveri agnelli che erano rimasti fuori. – Raccoglierò quelli che furono uccisi e li spedirò all’Oratorio, – pensava io. Uscito di sotto a quell’arco, anch’io prendeva la pioggia; ed ho vedute quelle povere bestiole, stramazzate a terra, che muovendo le zampe cercavano di alzarsi e venire verso il giardino: ma non potevano camminare. Apersi l’uscio, alzai la voce; ma i loro sforzi erano inutili. La pioggia e la grandine le aveva così malconce e continuava a maltrattarle, che facevano pietà: una veniva percossa sulla testa, un’altra sulla mascella, questa in un occhio, quella in una zampa, altre in altre parti del corpo.
                Dopo alcun tempo era cessata la tempesta.
                – Osserva, mi disse quegli che mi stava a fianco; osserva sulla fronte di questi agnelli.
                Osservai e lessi in ciascuna fronte il nome di un giovane dell’Oratorio. – Mah! diss’io; conosco il giovane che ha questo nome e non mi pare un agnellino.
                – Vedrai, vedrai, mi fu risposto. – Quindi mi venne presentato un vaso d’oro con un coperchio d’argento, dicendomi:
                – Tocca con la tua mano intinta di questo unguento, le ferite di queste bestiole e subito subito guariranno.
                Io mi metto a chiamarle:
                – Brrr, brrr! – Ed esse non si muovono. Ripeto la chiamata; niente: cerco di avvicinarmi a una ed essa si strascina via. – Non vuole? Peggio per lei! esclamo. Vado ad un’altra. E vado, ma anche questa mi scappa. A quante io mi avvicinava per ungerle e guarirle, altrettante mi fuggivano. Io le seguiva, ma ripeteva inutilmente questo giuoco. Alfine ne raggiunsi una che, poverina, aveva gli occhi fuori delle orbite, e così malconci che metteva compassione. Io glieli toccai colla mano ed essa guarì e saltellando se ne andò nel giardino.
                Allora molte altre pecorelle, visto ciò, non ebbero più ripugnanza e si lasciarono toccare e guarire ed entrarono nel giardino. Ma ne restavano fuori molte e generalmente le più piagate, né mi fu possibile avvicinarle.
                – Se non vogliono guarire, peggio per loro! Ma non so come potrò farle rientrare in giardino.
                – Lascia fare, mi disse uno degli amici che erano con me; verranno, verranno.
                – Vedremo! – io dissi; e riposi l’aureo vaso là dove prima era e ritornai al giardino. Questo erasi tutto mutato e vi lessi sull’ingresso: Oratorio. Appena entrato, ecco che quegli agnelli che non volevano venire, si avvicinano, entrano di soppiatto e corrono a rimpiattarsi qua e là; e neppur allora potei avvicinarmi ad alcuno. Vi furono anche parecchi che non ricevendo volentieri l’unguento, questo si convertì per loro in veleno e invece di guarirli inaspriva le loro piaghe.
                – Guarda! Vedi quello stendardo? – mi disse un amico.
                Mi volsi e vidi sventolare un grande stendardo e vi si leggeva sopra a grossi caratteri questa parola: Vacanze.
                – Sì, lo vedo, risposi.
                – Ecco, questo è l’effetto delle vacanze, mi spiegò uno che mi accompagnava, essendo io fuori di me pel dolore di quello spettacolo. I tuoi giovani escono dall’Oratorio per andare in vacanza, con buona volontà di pascolarsi della parola di Dio e di conservarsi buoni: ma poi sopravviene il temporale, che sono le tentazioni; poi la pioggia, che sono gli assalti del demonio; quindi cade la grandine ed è quando i miseri cadono nella colpa. Alcuni risanano ancora con la confessione, ma altri non usano bene di questo sacramento, o non ne usano punto. Abbilo a mente e non stancarti mai di ripeterlo ai tuoi giovani, che le vacanze sono una gran tempesta per le loro anime.
                Osservava io quegli agnelli e scorgeva in alcuni ferite mortali; andava cercando modo di guarirli, quando D. Scappini, che aveva fatto rumore alzandosi nella camera vicina, mi svegliò.
                Questo è il sogno e quantunque sogno ha tuttavia un significato che non farà male a chi vi presterà fede. Posso anche dire che io notai alcuni nomi fra i molti degli agnelli del sogno, e confrontandoli coi giovani, vidi che questi si regolavano appunto come accadde nel sogno. Comunque sia la cosa, noi dobbiamo in questa novena dei Santi corrispondere alla bontà di Dio che ci vuole usar misericordia e con una buona confessione purgare le ferite della nostra coscienza. Dobbiamo poi metterci tutti d’accordo per combattere il demonio e coll’aiuto di Dio usciremo vincitori da questa pugna e andremo a ricevere il premio della vittoria in Paradiso.

                Questo sogno dovette influire non poco sul buon avviamento del nuovo anno scolastico; infatti nella novena dell’Immacolata le cose procedevano già così bene, che Don Bosco manifestò la propria soddisfazione dicendo:
                – I giovani sono ora al punto, dove negli anni scorsi arrivavano appena in febbraio. – Nella festa dell’Immacolata essi videro rinnovarsi la bella funzione di congedo alla quarta spedizione di Missionari.
(MB XIII 761-764)




Visitare Roma con don Bosco. Cronaca del suo primo viaggio a Roma

La prima volta che Don Bosco si recò a Roma fu nel 1858, dal 18 febbraio al 16 aprile, accompagnato dal ventunenne chierico Michele Rua. Quattro anni prima, la Chiesa aveva celebrato un Giubileo straordinario di sei mesi, indetto in occasione della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854). Don Bosco colse l’opportunità di questa grande festa spirituale per pubblicare il volume “Il Giubileo e Pratiche divote per la visita delle chiese”.
Durante quella che sarebbe stata la sua prima di ben venti visite alla Città Eterna, Don Bosco si comportò come un vero pellegrino giubilare, dedicandosi con fervore alle visite e alle devozioni previste, fino a partecipare ai solenni riti pasquali officiati dal Pontefice. Fu un’esperienza intensa, che lui stesso non tenne per sé, ma condivise con i suoi giovani con l’entusiasmo e la passione educativa che lo contraddistinguevano.
Nel descrivere minuziosamente il viaggio, le tappe e i luoghi sacri, Don Bosco aveva un chiaro intento apostolico ed educativo: far rivivere a chi lo ascoltava o leggeva la stessa profonda esperienza di fede, trasmettendo loro l’amore per la Chiesa e per la tradizione cristiana.
Invitiamo ora anche voi lettori a unirvi spiritualmente a Don Bosco, ripercorrendo idealmente le strade della Roma cristiana, per lasciarvi affascinare dal suo slancio e dal suo zelo e, insieme, rinnovare la vostra fede.

A Genova in ferrovia
La partenza per Roma era fissata per il giorno 18 del mese di febbraio 1858. In quella notte cadde quasi un palmo di neve sopra i due che coprivano già il terreno. Alle 8 e mezzo, mentre ancora nevicava, con la commozione che prova un padre che lascia i suoi figli, salutavo i giovani per iniziare il viaggio verso Roma. Benché avessimo una certa fretta per poter arrivare in tempo al treno, ci trattenemmo ancora un po’ per fare testamento: non volevo infatti lasciare pendenze di nessun genere all’Oratorio qualora la Provvidenza avesse voluto darci in pasto ai pesci del mediterraneo […] Poi di corsa ci recammo allo scalo ferroviario e, assieme a don Mentasti […], partimmo col treno alle dieci del mattino.
Avvenne qui uno spiacevole incidente: le carrozze erano quasi complete per cui dovetti lasciare Rua e don Mentasti in uno scompartimento e trovare posto in un altro […]

Il fanciullo ebreo
Capitai per caso vicino a un ragazzino di dieci anni. Notandone l’aspetto semplice e il viso buono, mi misi a conversare con lui e […] mi accorsi che era ebreo. Il padre, che gli sedeva accanto, mi assicurava che il figlio frequentava la quarta elementare, ma la sua istruzione mi pareva non arrivasse alla seconda. Però era d’ingegno pronto. Il padre aveva piacere che lo interrogassi anzi, m’invitò a farlo parlare della Bibbia. Così cominciai a interrogarlo sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul Paradiso terrestre, sulla caduta dei progenitori. Rispondeva abbastanza bene, ma rimasi meravigliato quando capii che non aveva alcuna idea del peccato originale e della promessa di un Redentore.
– Non c’è nella tua Bibbia la promessa di Dio ad Adamo quando lo cacciò dal Paradiso?
– No, me lo dica lei, rispose.
– Subito. Dio disse al serpente: poiché hai ingannato la donna, sarai maledetto fra tutti gli animali, e Uno che nascerà da una donna ti schiaccerà il capo.
– Chi è quest’Uno di cui si parla?
– È il Salvatore che avrebbe liberato il genere umano dalla schiavitù del demonio.
– Quando verrà?
– È già venuto ed è quello che noi chiamiamo…
Qui il padre ci interruppe dicendo:
– Queste cose noi non le studiamo perché non riguardano la nostra legge.
– Fareste bene a studiarle, perché sono nei libri di Mosè e dei profeti cui voi credete.
– Va bene, disse l’altro, ci penserò. Ora gli chieda qualcosa di aritmetica.
Vedendo che non desiderava che gli parlassi di religione, conversammo di cose piacevoli, cosicché il padre, il figlio e anche gli altri viaggiatori cominciarono a divertirsi e a ridere di gusto. Alla stazione di Asti il ragazzino doveva scendere, ma non si decideva a lasciarmi. Aveva le lacrime agli occhi, mi teneva la mano e commosso riuscì solo a dirmi:
– Mi chiamo Sacerdote Leone di Moncalvo; si ricordi di me. Venendo a Torino spero di poterle far visita. Il padre per allentare la commozione disse che aveva cercato a Torino la “Storia d’Italia” [da me scritta]. Non avendola trovata mi pregava di mandargliene copia. Promisi di inviare quella stampata appositamente per la gioventù, poi scesi anch’io per cercare i miei compagni per vedere se c’era posto nel loro scompartimento. Trovai Rua che aveva le mandibole stanche a forza di sbadigliare, giacché da Torino ad Asti si era annoiato molto, non sapendo con chi attaccare discorso: i suoi compagni di viaggio non parlavano che di balli, teatro e altre cose di poco gusto […]

Verso Genova
Giungemmo agli Appennini. Si alzavano davanti a noi altissimi e ripidissimi. Poiché il treno viaggiava a gran velocità, avevamo l’impressione di andare a urtare contro le rocce, finché sul treno si fece improvvisamente buio. Eravamo entrati nelle gallerie. Queste sono “fori” che passando sotto le montagne fanno risparmiare parecchie decine di miglia […] Senza gallerie sarebbe impossibile valicarle, e siccome ci sono molte montagne, esistono parecchi trafori. Uno di essi è lungo quanto la distanza tra Torino e Moncalieri; qui il convoglio rimase al buio per otto minuti, tempo necessario a percorrere il tratto di galleria.

Ci stupì constatare che la neve diminuiva man mano che ci avvicinavamo alla riviera di Genova. Ma quale non fu la nostra meraviglia quando scorgemmo le campagne senza un filo di bianco, le rive verdeggianti, i giardini pieni di colori, le piante di mandorlo fiorite e gli alberi di pesco coi boccioli in procinto di schiudersi al sole! Allora, facendo un confronto tra Torino e Genova, ci siamo detti che in questa stagione Genova è la primavera e Torino il più crudo inverno.

I due montanari
Mi dimenticavo di parlare di due montanari che salirono nel nostro scompartimento alla stazione di Busalla. Uno era pallido e infermiccio da far compassione, l’altro invece aveva un’aria sana e vivace, e, sebbene toccasse i settant’anni, mostrava la vigoria di un venticinquenne. Aveva le brache corte e le ghette quasi sbottonate, tanto che mostrava le gambe nude fino al ginocchio sferzate dal freddo. Era in maniche di camicia con la sola maglia e una giubba di panno grossolano buttata sulle spalle. Dopo averlo fatto parlare di vari argomenti, gli dissi:
– Perché non vi aggiustate questi abiti in modo da difendervi dal freddo? Rispose:
– Vede, caro signore, noi siamo montanari, e siamo abituati al vento, alla pioggia, alla neve e al ghiaccio. Quasi nemmeno ci accorgiamo della stagione invernale. I nostri ragazzi camminano a piedi nudi in mezzo alla neve, anzi ci si divertono senza badare al freddo. Da ciò ho potuto capire che l’uomo vive di abitudini, e il corpo è capace di sopportare a seconda dei casi il freddo o il caldo, e quelli che vorrebbero porre riparo a ogni piccolo incomodo rischiano di indebolire la loro condizione invece di rafforzarla.

La sosta genovese
Ma ecco Genova, ecco il mare! Rua si agita per vederlo, allunga il collo: qua nota un bastimento, là alcune navi, più in giù la lanterna che è un altissimo fanale. Giungiamo intanto alla stazione e scendiamo dal treno. Il cognato dell’abate Montebruno ci attendeva con alcuni giovani, e appena a terra ci accolsero con gioia, e portando i nostri bagagli ci condussero presso l’opera degli artigianelli che è una casa simile al nostro Oratorio. I complimenti furono brevi giacché tutti avevamo una gran fame: erano le tre e mezza del pomeriggio e io avevo preso solo una tazza di caffè. A tavola sembrava che nulla ci potesse saziare, tuttavia a forza di mandar giù il sacco si riempì.
Subito dopo abbiamo visitato la casa: scuole, dormitori, laboratori: mi sembrava di vedere l’Oratorio di dieci anni fa. I convittori erano venti; altri venti, pur mangiando e lavorando qui, dormivano altrove. Qual è il loro vitto? A pranzo un buon piatto di minestra, poi… niente altro. A cena una pagnottella che si mangia in piedi quindi a letto!
Al termine siamo usciti per un giro in città che a dire il vero è poco attraente, sebbene abbia magnifici palazzi e grandi negozi. Le vie sono strette, tortuose e ripide. Ma la cosa più seccante era un vento molesto che, spirando quasi senza interruzione, toglieva il piacere di ammirare qualsiasi cosa anche la più bella […]

A Genova insomma andarono deluse le nostre aspettative. Come se non bastasse il vento contrario impedì l’attracco del bastimento su cui dovevamo imbarcarci, perciò, nostro malgrado, dovemmo attendere fino al giorno seguente […] Al mattino ho detto messa nella chiesa dei Padri Predicatori sull’altare del Beato Sebastiano Maggi, un frate vissuto circa trecento anni fa. Il suo corpo è un prodigio continuato, perché si conserva intero, flessibile e con un colore che lo diresti morto da pochi giorni […] Poi andammo a vidimare, cioè firmare il passaporto. Il console pontificio ci accolse con molta cortesia […] Cercò anche di farci avere qualche sconto sul battello, ma non fu possibile.

A Civitavecchia via mare. L’imbarco
Alle sei e mezza di sera, prima di avviarci verso il battello a vapore chiamato Aventino, salutammo parecchi ecclesiastici venuti dagli Artigianelli per augurarci buon viaggio. Anche i ragazzi, attratti dalle buone parole, ma soprattutto da alcune portate in più nel pranzo di quel giorno, ci erano divenuti amici e sembrava provassero dispiacere a vederci partire. Parecchi di loro ci accompagnarono fino al mare, quindi saltando agilmente su una barchetta, vollero scortarci fino al battello. Il vento era assai forte: non avvezzo a viaggiare per mare, ad ogni agitarsi della barca temevamo di capovolgerci e affondare e i nostri accompagnatori ridevano di gusto. Dopo venti minuti giungemmo finalmente alla nave.

A prima vista ci sembrava un palazzo circondato dalle onde. Salimmo a bordo, e portato il nostro bagaglio in un alloggiamento alquanto spazioso, ci sedemmo per riposarci e pensare: ciascuno provava particolari sensazioni che non sapeva come esprimere. Rua osservava tutto e tutti in silenzio. Ed ecco il primo intoppo: essendo arrivati all’ora di pranzo, non siamo andati subito a mangiare; quando l’abbiamo richiesto, era tutto finito. Rua dovette cenare con una mela, una pagnottella e un bicchiere di vino Bordò, io mi accontentai di un pezzetto di pane e un po’ di quell’eccellente vino. Da notare che quando si viaggia in nave, nel biglietto sono compresi anche i pasti, per cui che si mangi o no si paga ugualmente.

Dopo siamo saliti in coperta per renderci conto di come fosse questo “Aventino”. Abbiamo così saputo che i bastimenti prendono nome dai luoghi più famosi delle zone verso cui sono diretti. Uno si chiama Vaticano, un altro Quirinale, un altro Aventino, come il nostro, per ricordare i sette famosi colli di Roma. Questa nostra nave parte da Marsiglia, tocca Genova, Livorno, Civitavecchia, poi continua per Napoli, Messina e Malta. Al ritorno ripete lo stesso percorso fino a Marsiglia. Si chiama anche battello postale perché porta lettere, pieghi, ecc. Che faccia bello o brutto tempo parte comunque.

Il mal di mare
Ci avevano assegnato la cuccetta che è una specie di armadio a ripiani dove i passeggeri si coricano sopra un materasso in ciascun ripiano. Alle dieci salparono le ancore e il battello, spinto dal vapore e da un vento favorevole, cominciò a correre a gran velocità alla volta di Livorno. Quando fummo al largo fui assalito dal mal di mare che mi tormentò per due giorni. Questo fastidio consiste in un vomito frequente, e quando non si ha più nulla da rigettare gli sforzi diventano più violenti, sicché la persona diviene così sfinita che rifiuta qualsiasi alimento. L’unica cosa che può recare qualche sollievo è il mettersi a letto e stare, quando il vomito lo permette, col corpo interamente disteso.

Livorno
Quella del 20 febbraio fu una brutta notte. Non correvamo pericolo per il mare agitato, ma il mal di mare mi aveva talmente prostrato che non riuscivo a stare né coricato, né in piedi. Mi gettai giù dalla cuccetta e andai a vedere se Rua fosse vivo o morto. Egli però non aveva che un po’ di spossatezza, nient’altro. Si alzò subito mettendosi a mia disposizione per alleviarmi i disagi della traversata. Quando Dio volle giungemmo al porto di Livorno. Per porto s’intende un seno del mare riparato dalla furia dei venti da barriere naturali o da bastioni costruiti dall’uomo. Qui le navi sono al riparo da ogni pericolo, qui scaricano le loro merci e ne caricano altre per altre destinazioni, qui si fanno i rifornimenti. I passeggeri che lo desiderano possono anche scendere a terra per qualche giro in città purché tornino in orario […]

Sebbene io desiderassi scendere per visitare la città, dire messa e salutare qualche amico, non potei farlo, anzi fui costretto a tornare nella mia cuccetta e starmene lì buono buono a digiuno. Un cameriere di nome Charles mi guardava con occhio di compassione e ogni tanto mi veniva vicino offrendomi i suoi servizi. Vedendolo così buono e cortese cominciai a conversare con lui, e fra le altre cose gli domandai se non temesse di essere deriso assistendo un prete sotto l’occhio di tante persone.
No, mi disse in francese, come vede nessuno fa le meraviglie, anzi tutti la guardano con bontà, mostrando desiderio di aiutarla. D’altronde mia madre mi ha insegnato ad avere grande rispetto per i sacerdoti per guadagnare la benedizione del Signore. Charles, andò poi a chiamare un dottore: ogni bastimento ha il suo medico e i principali rimedi per qualsiasi bisogno. Il medico venne e le sue maniere affabili mi sollevarono alquanto.
Comprendete il francese? Mi disse. Risposi:
– Comprendo tutti i linguaggi del mondo, anche quelli che non sono scritti, perfino il linguaggio dei sordomuti. Scherzavo per svegliarmi dalla sonnolenza che mi aveva preso. L’altro comprese e si mise a ridere.
Peut être, può darsi! Diceva mentre mi visitava. Alla fine mi annunciò che al mal di mare si era aggiunta la febbre e che una bibita di tè mi avrebbe fatto bene. Lo ringraziai e gli chiesi il suo nome.
Il mio nome, disse, è Jobert di Marsiglia, dottore in medicina e chirurgia. Charles attento agli ordini del dottore in breve tempo mi preparò una tazza di tè, di lì a poco un’altra, poi un’altra ancora. E mi fece bene, tanto che riuscii a prendere sonno.
Alle cinque [pomeridiane] il battello levò le ancore. Quando fummo in alto mare di nuovo ebbi conati di vomito ancor più violenti, rimanendo agitato per circa quattro ore, poi per lo sfinimento – non avevo ormai più nulla nello stomaco – coadiuvato dal rollio della nave mi addormentai e riposai di un sonno tranquillo fino all’arrivo a Civitavecchia.

Pagare, pagare, pagare
Il riposo della notte mi aveva fatto tornare le forze. Sebbene sfinito per il lungo digiuno, mi alzai e preparai i bagagli. Stavamo per scendere quando ci avvisarono di un debito che non sapevamo di aver contratto. Il caffè non era compreso col vitto ma si doveva pagare a parte, e noi che ne avevamo prese quattro tazze pagammo un supplemento di due franchi, vale a dire cinquanta centesimi a tazza.
Il capitano, fatti vidimare i passaporti, ci consegnò il permesso di sbarco; e qui cominciò la teoria delle mance: un franco ciascuno ai barcaioli, mezzo franco per il bagaglio (che portavamo noi), mezzo franco alla dogana, mezzo franco a chi ci invitava in vettura, mezzo al facchino che sistemava i bagagli, due franchi per il visto sul passaporto, un franco e mezzo al console pontificio. Non si faceva in tempo ad aprire bocca che subito bisognava pagare. Con l’aggiunta che, variando le monete di nome e di valore, dovevamo fidarci di chi ci faceva il cambio […] Alla Dogana rispettarono un pacco indirizzato al cardinale Antonelli col bollo pontificio, entro cui avevamo messo le cose più importanti […]

Terminate le operazioni mi recai dal barbiere a farmi radere una barba di dieci giorni. Tutto andò bene, ma in bottega non riuscii a distogliere lo sguardo da due corna su un tavolino. Erano lunghe circa un metro e ornate di anelli luccicanti e nastri. Pensavo fossero destinate a qualche uso particolare, ma mi dissero che erano di giovenca, che noi chiamiamo bue, poste là solo per ornamento […]

Verso Roma in carrozza
Intanto don Mentasti era su tutte le furie perché non ci vedeva arrivare, mentre la vettura già ci attendeva. Noi ci eravamo messi a correre per arrivare in tempo. Saliti in vettura partimmo per Roma. La distanza da percorrere era di 47 miglia italiane che corrispondono a 36 miglia piemontesi; la strada era molto bella. Avevamo preso posto sul coupé da dove potevamo contemplare i prati verdeggianti e le siepi fiorite. Una curiosità ci divertì non poco. Ci accorgemmo che tutto andava a tre a tre: i cavalli della nostra vettura erano aggiogati a tre a tre; incontrammo pattuglie di soldati che andavano a tre a tre; perfino alcuni contadini camminavano a tre a tre, come pure alcune vacche e alcuni asini pascolavano a tre a tre. Noi ridevamo su queste strane coincidenze […]

Una tappa per i cavalli
A Palo il vetturino concesse ai viaggiatori un’ora di libertà per avere il tempo di ristorare i cavalli. Noi ce ne servimmo per correre nella vicina locanda a levarci la fame. Le faccende ci avevano quasi fatto dimenticare il mangiare; da mezzogiorno del venerdì non avevo preso che una tazza di caffelatte. Ci siamo messi intorno alle pagnottelle e abbiamo mangiato, o meglio, divorato tutto. Nel vedere poi il cameriere tutto sfinito e pallido gli chiesi che cosa avesse.
– Ho le febbri che da molti mesi mi affliggono, rispose. Io allora feci il buon medico:
– Lasciate fare a me, vi prescrivo una ricetta che caccerà per sempre la febbre. Abbiate solo fiducia in Dio e in san Luigi. Preso quindi un pezzo di carta con la matita scrissi la mia ricetta, raccomandandogli di portarla da qualche farmacista. Era fuori di sé dalla gioia, e, non sapendo come meglio dimostrare la sua gratitudine, baciava e ribaciava la mia mano, e voleva baciarla anche a Rua, che per modestia non glielo permise.

Fu pure simpatico l’incontro con un carabiniere pontificio. Egli pensava di conoscermi, ed io credevo di conoscere lui, così ci siamo salutati tutti e due con gran festa. E quando ci siamo accorti dell’equivoco, l’amicizia e le espressioni di benevolenza e di rispetto continuarono: per fargli piacere ho dovuto permettere che mi pagasse una tazza di caffè, da parte mia gli offrii un bicchierino di rhum. Avendomi poi chiesto di lasciargli qualche ricordo, gli regalai la medaglia di san Luigi Gonzaga. Il nome di quel buon carabiniere era Pedrocchi.

Nella città dei papi
Montati nuovamente in vettura e volando più veloci col desiderio che con le zampe dei cavalli, ci sembrava ogni momento di essere a Roma. Calata la notte, ogni volta che si scorgeva lontano un arbusto od una pianta Rua subito esclamava:
– Ecco la cupola di S. Pietro. Ma prima di arrivare abbiamo dovuto procedere fino alle dieci e mezza della sera, ed essendo ormai notte fonda, non riuscivamo a scorgere più nessun particolare. Un certo brivido tuttavia ci prese al pensiero che stavamo entrando nella città santa. […] Arrivati finalmente al punto di fermata, non avendo alcuna conoscenza del luogo, abbiamo cercato una guida che per dodici baiocchi ci accompagnò a casa De Maistre, in via del Quirinale 49, alle Quattro Fontane. Erano già le undici. Fummo accolti con bontà dal conte e dalla contessa; gli altri erano già a letto. Preso un po’ di ristoro ci siamo dati la buona notte e siamo andati a dormire.

San Carlino
La parte del Quirinale da noi abitata viene chiamata Quattro Fontane perché zampillano quattro fonti perenni da quattro angoli di quattro contrade che qui si uniscono. Di fronte alla casa dove avevamo preso dimora vi era la chiesa dei carmelitani. Costoro, tutti spagnoli, appartenevano all’ordine detto della Redenzione degli Schiavi. La chiesa fu costruita nel 1640 e intitolata a san Carlo; ma per distinguerla da altre dedicate al medesimo santo fu chiamata S. Carlino. Recatici in sacrestia, abbiamo mostrato il Celebret, (il documento per celebrare n.d.r.) e così abbiamo potuto dire messa. […] Il giorno lo passammo quasi interamente ad ordinare le nostre carte, fare commissioni, portar lettere […]

Il Pantheon
Approfittando di un’ora che rimaneva ancora prima di notte, ci recammo al Pantheon che è uno dei più antichi e celebri monumenti di Roma. Venne fatto costruire da Marco Agrippa, genero di Cesare Augusto, venticinque anni prima dell’era volgare (della nascita di Cristo n.d.r.). Si crede che questo edificio sia stato chiamato Pantheon, che vuol dire tutti gli dei, perché di fatto era dedicato a tutte le divinità. La facciata è veramente superba. Otto grosse colonne reggono un elegante cornicione. Subito dopo ecco un porticato formato da sedici colonne fatte di un sol blocco di granito, poi il pronao, o avantempio, costituito da quattro pilastri scanalati, entro cui sono ricavate nicchie anticamente occupate dalle statue di Augusto e di Agrippa.
All’interno si presenta un’alta cupola aperta in mezzo, dalla quale penetra la luce, ma anche il vento, la pioggia, e la neve, quando ne cade da queste parti. Qui i più preziosi marmi servono da pavimento o da ornamento tutto intorno. Il diametro è di centotrentatre piedi, corrispondenti a diciotto trabucchi (c.ca 55 mt.). Questo tempio servì al culto degli dei fino al 608 dopo Cristo, quando papa Bonifacio IV, per impedire i disordini che si commettevano durante i sacrifici, lo dedicò al culto del vero Dio, cioè a tutti i santi.

Questa chiesa andò soggetta a molte vicende. Quando Bonifacio IV ottenne questo luogo dall’imperatore Foca e lo dedicò al culto di Dio e della Madonna, fece trasportare da vari cimiteri ventotto carri di reliquie che collocò sotto l’altare maggiore. Da allora cominciò ad essere chiamato Santa Maria ad Martyres. Fra le cose che gradimmo molto fu visitare la tomba del grande Raffaello […] Ora questa chiesa porta anche il nome di Rotonda, dalla forma della sua costruzione. Davanti si estende una piazza il cui centro è occupato da una grande fontana di marmo, sormontata da quattro delfini che gettano continuamente acqua.

San Pietro in Vincoli
Il 23 febbraio […] siamo rimasti molto contenti della visita a S. Pietro in Vincoli, chiesa a sud di Roma sul confine della città. Fu una giornata memorabile perché coincideva con una delle rare volte in cui venivano messe in mostra le catene di san Pietro, le cui chiavi sono custodite dallo stesso Santo Padre.
Una tradizione ritiene che fu lo stesso Pietro a erigere qui la prima chiesa, dedicandola al Salvatore. Distrutta dall’incendio di Nerone, venne da san Leone Magno ricostruita nel 442 e dedicata al primo Papa. Fu chiamata S. Pietro in Vincoli, perché il Pontefice vi collocò la catena con cui il Principe degli Apostoli a Gerusalemme era stato, per ordine di Erode, incatenato. Il patriarca Giovenale l’aveva regalata all’imperatrice Eudossia, che a sua volta l’inviò a Roma alla figlia Eudossia junior, moglie di Valentiniano III. A Roma si conservava anche la catena cui era incatenato san Pietro nel carcere Mamertino. Quando san Leone volle fare il confronto di questa con quella di Gerusalemme, in modo prodigioso le due catene si unirono, cosicché oggi ne formano una sola, che si conserva in un altare apposito a lato della sacrestia. Noi abbiamo avuto la consolazione di toccare quelle catene colle nostre mani, baciarle, mettercele al collo e accostarle alla fronte. Abbiamo anche attentamente controllato per riuscire a scorgere il punto di unione delle due, ma non ci fu possibile. Abbiamo solo potuto constatare che la catena di Roma è più piccola di quella di Gerusalemme.

A S. Pietro in Vincoli si trova il magnifico sepolcro di Giulio II […] È uno dei capolavori del celebre Michelangelo Buonarroti, che è ritenuto uno dei massimi artisti del marmo, specialmente per la statua del Mosè posta vicino all’urna. Il patriarca è rappresentato con le tavole della legge piegate sotto al braccio destro, in atto di parlare al popolo che egli guarda fieramente, perché si era ribellato. La chiesa è a tre navate, separate da venti colonne di marmo pario, e due di granito ben conservato.

S. Luigi dei Francesi
Verso le nove ci portammo a Santa Maria sopra Minerva, ove fummo ricevuti in udienza privata dal cardinale Gaude per circa un’ora e mezza. Egli parlò con noi in dialetto piemontese, interessandosi ai nostri oratori […] Dopo mezzogiorno ci recammo a fare visita al marchese Giovanni Patrizi […] In faccia al suo palazzo c’è la chiesa di S. Luigi dei Francesi che dà il nome alla piazza e alla contrada vicina. È una chiesa ben tenuta e arricchita di molti marmi preziosi. La sua singolarità consiste nei sepolcri degli uomini illustri francesi morti a Roma. Infatti il pavimento e le mura sono coperte di epitaffi e lapidi. […]

S. Maria Maggiore all’Esquilino
Dal Quirinale si apre una via che porta all’Esquilino, così detto per i molti elci di cui era ammantato. Nella parte più elevata s’innalza S. Maria Maggiore, la cui origine è narrata così da tutti gli storici sacri. Un certo Giovanni, patrizio romano, non avendo figli, desiderava impiegare le sue sostanze in qualche opera di pietà […] La notte del 4 agosto del 352 gli apparve in sogno la Madonna che gli comandò di innalzarle un tempio nel luogo dove la mattina dopo avrebbe trovato neve fresca. La stessa visione ebbe il papa di allora Liberio. Il giorno seguente si sparse voce che sul colle Esquilino era caduta abbondante neve, perciò Liberio e Giovanni vi si recarono, e, constatato il prodigio, si attivarono per mettere in pratica il comando avuto nella visione. Il Papa segnò il tracciato del nuovo tempio, che in breve fu portato a termine con i denari di Giovanni: pochi anni dopo Liberio poté procedere alla consacrazione […]

Davanti alla chiesa si estende una vasta piazza al centro della quale è posta l’antica colonna di marmo bianco, tolta dal tempio della pace. Il pontefice Paolo V l’anno 1614 la dotò di una base e un capitello, sopra cui collocò la statua della Madonna col Bambino. L’architettura della facciata è maestosa ed è sostenuta da grosse colonne di marmo che formano uno spazioso vestibolo. In fondo ad esso è stata posta la statua di Filippo IV, re di Spagna, che fece molte donazioni a favore di questa chiesa e volle egli stesso essere iscritto fra i canonici. Il pavimento è in mosaico prezioso lavorato con marmi di vario genere, tutti di incalcolabile valore.

La cappella a destra dell’altare maggiore conserva la tomba di san Girolamo, la culla del Salvatore e l’altare di papa Liberio. L’altare papale è ricoperto da preziosi marmi di porfido, e sostenuto da quattro putti di bronzo dorato. Sotto di esso si apre la Confessione, che è una cappella dedicata a san Mattia. Siamo andati a visitarla nel giorno della stazione quaresimale, così abbiamo avuto la fortuna di trovare esposto sopra un ricco altare il capo di san Mattia. L’abbiamo osservato attentamente, e abbiamo notato la pelle attaccata alla testa, anzi, appaiono ancora alcuni capelli attaccati al venerato teschio.

La Vergine e la peste
Nella cappella a sinistra dell’altare si può osservare un dipinto della Vergine attribuito a san Luca, molto venerato dal popolo. L’immagine fu tenuta in grande considerazione dai papi. San Gregorio Magno nella terribile pestilenza del 590 la portò in processione fino al Vaticano. Era il 25 aprile. Giunto il corteo nei pressi della mole Adriana, fu visto un angelo che riponeva la spada nel fodero, indicando così la cessazione della peste. In memoria di questo prodigio la Mole Adriana fu denominata Castel Sant’Angelo, e da allora la processione si ripete ogni anno nel giorno di san Marco Evangelista. In S. Maria Maggiore tutto è maestoso e grande; ma il parlarne o scriverne sono insufficienti per arrivare a descriverla con verità. Chi la vede coi propri occhi ferma lo sguardo meravigliato in ogni angolo.

Oggi mercoledì di quaresima qui a Roma si digiuna e questo vuol dire che sono proibiti non solo i cibi di carne, ma anche ogni minestra o pietanza a base di uova, burro o latte. Olio, acqua e sale sono i condimenti che si usano in questi mercoledì. La pratica è rigorosamente osservata da ogni classe di persone tanto che nei mercati e nelle botteghe quel giorno non si trova né carne, né uova, né burro.

La leggenda di san Galgano
A sera la signora De Maistre ci raccontò una storia degna di essere ricordata. Disse:
L’anno scorso venne a trovarci il vicario generale di Siena. Fra le tante cose di cui era solito parlarci, ci narrò la storia di san Galgano soldato. Questo santo è morto da secoli, e il suo capo si conserva intatto; ma la meraviglia più grande è che ogni anno gli tagliano i capelli, che crescono insensibilmente e tornano della medesima lunghezza l’anno seguente. Un protestante dopo che ebbe ascoltato questo prodigio si mise a ridere dicendo: lascino sigillare da me l’urna dove è conservato il capo, e se i capelli cresceranno ugualmente riconoscerò il miracolo e diventerò cattolico. La cosa fu riferita al vescovo che rispose: io metterò i sigilli vescovili per l’autenticità della reliquia, egli metta i suoi per assicurarsi del fatto. Così fu fatto; ma quel signore, impaziente di vedere se il prodigio cominciava ad operarsi, dopo alcuni mesi chiese di aprire l’urna. Immaginate la sua meraviglia quando vide che i capelli di san Galgano erano già cresciuti come avrebbero fatto se fosse stato vivo! Allora è vero! Esclamò. Diventerò cattolico. Infatti l’anno seguente nel giorno della festa del Santo egli con la sua famiglia rinunziò al luteranesimo e abbracciò la religione cattolica, che oggi professa con esemplarità.

S. Pudenziana al Viminale
Dalle Quattro Fontane si sale al Viminale, chiamato così per i molti vimini, cioè i giunchi, che un tempo lo ricoprivano. Ai piedi di questo colle nella casa di Pudente, senatore romano, alloggiò san Pietro quando venne a Roma. Il santo apostolo convertì alla fede il suo ospite e trasformò la sua casa in chiesa. San Pio I verso il 160, su istanza delle vergini Pudenziana e Prassede, figlie del nipote del senatore Pudente, consacrò questa chiesa, che […] in seguito venne dedicata a S. Pudenziana perché vi aveva abitato e vi era morta. Molti pontefici misero mano alla ristrutturazione di questo luogo che contiene preziose testimonianze cristiane. Merita speciale attenzione il pozzo di santa Pudenziana. Si crede che in esso ella seppellisse i corpi dei martiri. Sul fondo si possono notare una grande quantità di reliquie: la storia dice che contiene le reliquie di tremila martiri.

Accanto all’altare maggiore c’è una cappella di forma oblunga sul cui altare si ammira un gruppo marmoreo di Gesù nell’atto di consegnare le chiavi a san Pietro. Si crede che l’altare sia quello stesso su cui ha celebrato messa san Pietro, e sul quale con grande consolazione ho potuto celebrare io stesso. Vi sono conservati vari pezzi di spugna, gli stessi di cui si serviva Pudenziana per raccogliere il sangue dalle piaghe dei martiri, oppure dalla terra che ne era impregnata.
Continuando verso sinistra si giunge a una cappella dove si conserva la testimonianza di un grande miracolo. Mentre celebrava messa un sacerdote cadde in dubbio sulla possibilità della presenza reale di Gesù nell’ostia santa. Dopo la consacrazione l’ostia gli sfuggì dalle mani e cadendo sul pavimento rimbalzò prima su un gradino poi su un altro. Là dove batté la prima volta il marmo rimase quasi forato, anche nel secondo scalino si formò una cavità assai profonda a forma di ostia. Questi due gradini di marmo sono conservati in quello stesso luogo, custoditi da appositi cancelli.

Santa Prassede
Da S. Pudenziana salendo verso l’Esquilino, a poca distanza da S. Maria Maggiore s’incontra la chiesa di S. Prassede. Verso l’anno 162 d. C., sopra il luogo dove erano le terme, ossia i bagni di Novato, san Pio I eresse una chiesa in onore di questa vergine, sorella di Novato, Pudenziana e Teotilo. Il luogo servì di rifugio agli antichi cristiani in tempo di persecuzione. La Santa, che si adoperava per fornire quanto occorreva ai cristiani perseguitati, provvedeva anche a raccogliere i corpi dei martiri che poi seppelliva, versando il loro sangue nel pozzo che sta in mezzo alla chiesa. Essa è ricchissima di ornamenti e marmi preziosi, come lo sono quasi tutte le chiese di Roma.

C’è anche la cappella dei martiri Zenone e Valentino, i cui corpi, fatti trasportare da san Pasquale I l’anno 899, riposano sotto l’altare. Qui si conserva anche una colonna di diaspro, alta circa tre palmi, che un cardinale di nome Colonna l’anno 1223 fece trasportare dalla Terrasanta. Si ritiene che sia quella a cui fu legato il Salvatore durante la flagellazione.

Il Celio
Dall’Esquilino guardando a ovest si vede il colle Celio. Anticamente veniva chiamato Querchetulano dalle querce che lo ricoprivano. Più tardi fu denominato Celio da Cele Vilenna, capitano degli Etruschi venuti in soccorso di Roma, e che Tarquinio Prisco fece alloggiare su detto colle. La prima cosa che si nota è l’obelisco più grande che si conosca. Ramsete, faraone d’Egitto, lo fece innalzare a Tebe dedicandolo al sole. Costantino il Grande lo fece trasportare attraverso il Nilo fino ad Alessandria, ma, colto dalla morte, toccò al figlio Costanzo trasportarlo a Roma. Per il viaggio si usò un vascello di trecento remi, e attraverso il Tevere fu condotto nell’Urbe e posto in un luogo detto Circo Massimo. Qui cadde spezzandosi in tre parti. Papa Sisto V lo fece restaurare e innalzare nella piazza del Laterano l’anno 1588. L’obelisco giunge all’altezza di 153 piedi romani. È tutto ornato di geroglifici e sormontato da un’alta croce.

A destra della piazza c’è il battistero di Costantino con la chiesa di S. Giovanni in Fonte. Si dice sia stata costruita da Costantino in occasione del battesimo che ricevette dal pontefice san Silvestro l’anno 324. Dalle due cappelle annesse dedicate una a san Giovanni Battista, l’altra a san Giovanni Evangelista ha preso il nome di chiesa di S. Giovanni in Fonte. Il battistero, che è una vasca di grande larghezza rivestita di marmi preziosi, è nel mezzo. La cappelletta annessa dedicata a san Giovanni Battista si crede sia una camera di Costantino, cambiata in oratorio e dedicata al santo Precursore dal papa sant’Ilario.

S. Giovanni in Laterano
Uscendo dal battistero e attraversando la vasta piazza, s’incontra la basilica di S. Giovanni in Laterano. Questa celeberrima costruzione è la prima e principale chiesa del mondo cattolico. Sulla facciata è scritto: Ecclesiarum Urbis et Orbis Mater et Caput (madre e capo di tutte le chiese di Roma e del mondo). È la sede del Sommo Pontefice come vescovo di Roma; dopo la sua incoronazione egli va a prenderne solennemente possesso. Fu chiamata anche Basilica Costantiniana, perché fondata da Costantino il Grande. Fu detta poi Basilica Lateranense perché innalzata dove era il palazzo di un certo Plauzio Laterano, fatto uccidere da Nerone; e anche Basilica del Salvatore a seguito di una apparizione del Salvatore avvenuta durante la costruzione. La chiamano ancora Basilica Aurea per i preziosi doni di cui fu arricchita, e Basilica di S. Giovanni perché dedicata ai santi Giovanni Battista ed Evangelista.

Fu Costantino il Grande a farla costruire presso il suo palazzo, attorno all’anno 324. Ampliata poi con nuovi corpi di fabbrica, fu ceduta al santo Pontefice. Qui abitarono i Papi fino al tempo di Gregorio XI. Quando costui riportò la Santa Sede da Avignone a Roma trasferì la sua abitazione in Vaticano.
L’anno 1308 scoppiò un terribile incendio che la distrusse, ma Clemente V, che allora era in Avignone, mandò subito i suoi agenti con grandi somme di danaro, e in breve fu ricostruita. Il portico è retto da ventiquattro grossi pilastri; in fondo vi è la statua di Costantino trovata nelle sue terme al Quirinale. La porta grande di bronzo è di straordinaria altezza. Essa fu tolta dalla chiesa di S. Adriano in Campo Vaccino e fatta trasportare qui. Costituisce un raro esempio di porte antiche dette Quadrifores, cioè costruite in modo che si potessero aprire in quattro parti, una per volta senza che alcuna mettesse in pericolo la stabilità dell’altra. Sulla destra c’è una porta murata che si apre solo nell’anno del giubileo e perciò è detta Porta Santa.

L’interno è a cinque navate. La lunghezza, l’altezza, la preziosità dei pavimenti, delle sculture e delle pitture sono cose che incantano a vederle. Bisognerebbe farne grossi volumi a parlarne degnamente. Le reliquie più insigni di questa chiesa sono il capo dei due principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Essi sono custoditi sotto l’altare maggiore e incassati in un altro capo d’oro. Vi è pure una reliquia insigne di san Pancrazio martire, e vi si custodisce una tavola che si pensa sia quella medesima sopra la quale Gesù celebrò la sacra cena coi suoi Apostoli.

Uscendo dalla chiesa per la porta principale e attraversando la piazza si trova la Scala Santa, un edificio che papa Sisto V fece innalzare per custodirvi la scala, che prima si trovava a pezzi nel vecchio palazzo papale del Laterano. Essa è formata da ventotto gradini di marmo bianco del pretorio di Pilato a Gerusalemme che Gesù salì e discese più volte durante la sua passione. Sant’Elena, madre di Costantino, li inviò a Roma insieme con molte altre cose santificate dal sangue di Gesù Cristo. Questa celebre scalinata è tenuta in grande venerazione e perciò si sale in ginocchio; e si ridiscende per una delle quattro scale laterali. Questi gradini si sono incavati per il grande afflusso di cristiani che li hanno saliti, per cui sono stati coperti con tavoloni di legno. Lo stesso Sisto V fece collocare nell’alto della scala la celebre cappella domestica dei papi, che è piena delle più insigni reliquie, e che perciò viene chiamata Sancta Sanctorum.

Città del Vaticano. La costruzione
Il colle Vaticano contiene quanto esiste di più eccellente nelle arti, e di memorabile nella religione; perciò ne daremo un ragguaglio un po’ più preciso. Fu chiamato Vaticano da Vagitanus, una divinità che pensavano sovrintendesse al vagito dei fanciulli. Infatti la prima sillaba Uà (va n.d.r.) di cui è composta la parola è anche il primo grido dei bambini. Il colle acquistò rinomanza quando Caligola vi costruì il circo che fu poi detto di Nerone. Caligola per passare dalla sinistra alla sponda destra del Tevere costruì il ponte Vaticano, detto anche Trionfale che ora però non esiste più. Il circo di Nerone incominciava dov’è oggi la chiesa di S. Marta e si estendeva fino alle scale dell’antica basilica Vaticana. In questo circo fu seppellito il corpo del Principe degli Apostoli […]

Lì vennero anche sotterrate le ossa di altri papi tra cui Lino, Cleto, Anacleto, Evaristo ed altri ancora. La Memoria di S. Pietro, ossia il tempietto costruito sulla sua tomba, durò fino ai tempi di Costantino che, per desiderio di san Silvestro, verso il 319 mise mano alla costruzione di una chiesa in onore dell’Apostolo. Essa fu eretta proprio intorno a quel tempietto, servendosi di materiale tolto da edifici pubblici. La costruzione fu chiamata Basilica Costantiniana, e a quei tempi era reputata fra le più celebri della cristianità. Nel mezzo di quella chiesa, fatta a forma di croce latina, vi era l’altare dedicato a san Pietro sotto il quale era sepolto, protetto da cancelli, il suo corpo; quel vano fin da allora si usava chiamare Confessione di san Pietro. Terminato il tempio e dotatolo di ricchi arredi papa Silvestro lo consacrò il 18 novembre del 324 […] I pontefici che vennero in seguito lo abbellirono e ampliarono. Per undici secoli fu l’oggetto della devozione e dell’ammirazione dei cristiani che si recavano a Roma.

Nel secolo XV cominciava ad andare in rovina, perciò Nicolò V pensò di rinnovarlo, ma ebbe solo il merito di iniziare i lavori, perché la morte gli fece sospendere ogni cosa. Giulio II riprese la costruzione alla quale cambiò nome, da Basilica Costantiniana a S. Pietro in Vaticano, e pose la prima pietra il 18 aprile 1506. Gli architetti furono Bramante, in seguito fra Giocondo Domenico e Raffaello Sanzio. Dopo costoro lavorarono i più celebri architetti, e i più sublimi ingegni del tempo.

La grande piazza
 […] Dinanzi alla basilica si apre una vasta piazza la cui lunghezza supera il mezzo chilometro. Essa è formata da 284 colonne e da 64 pilastri che, disposti in semicerchio da ambo i lati in quattro file, formano tre vie di cui la più ampia quella centrale può permettere il transito di due carrozze. Sopra al colonnato sono poste 96 statue di santi, in marmo, dell’altezza di circa 10 piedi. Al centro invece s’innalza l’obelisco egizio. Esso è formato da un sol pezzo, ed è il solo che sia restato intero. Misura 126 piedi di altezza compresa la croce e il piedistallo. Non ha geroglifici. Nuccoreo re d’Egitto l’aveva innalzato a Eliopoli, da dove venne prelevato e fatto trasportare a Roma da Caligola l’anno 3° del suo impero. Fu collocato nel circo costruito ai piedi del colle Vaticano, come dimostrano le iscrizioni che vi si leggono. Questo circo fu chiamato di Nerone perché da lui molto frequentato; qui quel crudele imperatore fece strage di cristiani, calunniandoli di essere autori dell’incendio di Roma che lui stesso aveva appiccato.

Nel 1818 sulla piazza venne costruita una meridiana. Per terra si disegnarono i dodici segni dello zodiaco. L’obelisco faceva da gnomone (asta), e con la sua ombra indicava le stazioni del sole. Tutto intorno furono scritti i nomi dei venti nella direzione in cui spira ciascuno di essi. Ai lati due fontane uguali gettano perennemente acqua da un gruppo di zampilli che s’innalzano anche fino a sessanta piedi. La regina di Scozia accolta con pompa in questo luogo guardò con meraviglia le due fontane pensando che fossero state fatte apposta per la sua accoglienza. No, disse un signore che le stava a fianco, questi zampilli sono perenni.

Visita a San Pietro
Camminando verso la facciata della basilica si arriva a una magnifica gradinata fiancheggiata da due statue una di san Pietro l’altra di san Paolo, fatte collocare dal regnante Pio IX. Salite le scale si è davanti alla facciata che ha questa iscrizione: In onore del Principe degli Apostoli Paolo V Pontefice Massimo l’anno 1612 7° del suo pontificato. Sopra al porticato si estende la grande Loggia delle benedizioni. La facciata è maestosa e imponente. Il porticato è tutto adorno di marmi, pitture in mosaico e altri eleganti lavori. In fondo al vestibolo a destra si può osservare la bellissima statua equestre di Costantino in atto di mirare la prodigiosa croce apparsagli in cielo prima della battaglia finale con Massenzio.

Dal portico si entra in basilica attraverso quattro porte, di cui l’ultima a destra non si apre che per l’anno santo. La porta maggiore è in bronzo, di grande altezza, e occorrono molte e forti braccia per aprirla. L’interno si presenta a cinque navate oltre la crociera che termina con la tribuna. La curiosità e la sorpresa ci portò nel mezzo della navata maggiore. Qui ci siamo fermati ad ammirare e riflettere senza dire parola. Ci parve di vedere la celeste Gerusalemme. La lunghezza della basilica è di palmi 837, la sua larghezza di 607. È il maggior tempio di tutta la cristianità. Dopo S. Pietro il più vasto è quello di S. Paolo a Londra. Se alla chiesa di S. Paolo aggiungiamo quella del nostro Oratorio si forma la precisa lunghezza di S. Pietro.

Dopo di essere stati per qualche tempo immobili abbiamo cercato il catino dell’acqua santa. Abbiamo scorto due putti, a prima vista molto piccoli, che reggevano una specie di conchiglia nel primo pilastro della basilica. Ci recò meraviglia che una chiesa tanto vasta avesse un’acquasantiera così piccola. Ma la meraviglia si cambiò in sorpresa quando vedemmo i putti farsi sempre più grandi man mano che ci avvicinavamo. La conchiglia divenne un vaso di circa sei piedi di circonferenza, e i putti ai lati ci facevano vedere le loro mani con le dita grandi come un nostro braccio. Ciò dimostra che le proporzioni di questo meraviglioso edificio sono così ben regolate da renderne meno sensibile l’ampiezza, la quale però si nota sempre meglio esaminando ciascun dettaglio. Intorno ai pilastri della navata maggiore si vedono scolpite in marmo le statue dei fondatori degli ordini religiosi.

Nell’ultimo pilone a destra è collocata la statua in bronzo di san Pietro tenuta in grande venerazione. Fu fatta fondere da san Leone Magno col bronzo di quella di Giove Capitolino. Essa ricorda la pace che quel Pontefice ottenne da Attila che infuriava contro l’Italia. Il piede destro che sporge fuori del piedistallo è consumato dalle labbra dei fedeli che non passano mai davanti senza baciarlo con rispetto. Mentre stavamo rimirando la statua, passò l’ambasciatore austriaco a Roma che s’inchinò dinanzi al principe degli Apostoli e gli baciò il piede.

Navate e cappelle
Passiamo ora a dire qualche cosa delle navate minori e delle cappelle che vi si trovano. In quella di destra si incontra per prima la cappella della Pietà. Oltre a magnifici mosaici e alle statue che la adornano, si ammira sopra l’altare il celebrato gruppo scolpito da Michelangelo Buonarroti in marmo bianco, quando non aveva che ventiquattro anni di età. È forse la più bella scultura del mondo. Il medesimo Buonarroti se ne compiacque, tanto che lo firmò sulla cintola del petto di Maria.

A sinistra della cappella della Pietà c’è quella interna dedicata al Crocifisso e a S. Nicola. Da qui si entra nella così detta Cappellina della Colonna Santa, dove si conserva, protetta da una cancellata in ferro, una delle colonne a vite che stavano anticamente davanti all’altare della Confessione di san Pietro. È questa la colonna a cui si appoggiò Gesù Cristo allorché predicò nel tempio di Salomone. Si ammira con meraviglia in questa colonna che la parte toccata dalle sacre spalle del Salvatore non è mai imbrattata di polvere, e perciò non occorre che sia spolverata come il resto.

Dopo la cappella della Pietà s’incontra il monumento sepolcrale di Leone XII, fatto erigere da Gregorio XVI. Il Pontefice è ritratto mentre benedice il popolo dalla Loggia sopra il portico; attorno si vedono le teste dei cardinali assistenti alla cerimonia. Di fronte a questo sepolcro è il cenotafio di Cristina Alessandra, regina di Svezia, morta a Roma il 19 aprile 1689. Costei, protestante, convintasi della poca consistenza della sua religione, si fece istruire nel cattolicesimo e fece la solenne abiura a Ispruch il 3 novembre 1655. Vari bassorilievi che adornano il sepolcro rappresentano l’avvenimento.

Segue la cappella di san Sebastiano anch’essa ricca di pitture e marmi. Uscendo a destra si trova il deposito sepolcrale di Innocenzo XII dei Pignatelli di Napoli. Di fronte c’è il sepolcro della famosa contessa Matilde, insigne benefattrice della Chiesa, e sostenitrice della autorità pontificia. Urbano VIII fece trasferire qui le sue ceneri togliendole dal monastero di san Benedetto a Mantova. Essa fu la prima delle illustri donne che meritarono un sepolcro nella basilica Vaticana. La contessa è rappresentata in piedi; il sepolcro è ornato da un bassorilievo che raffigura l’assoluzione impartita da Gregorio VII ad Enrico IV imperatore di Germania, su istanza di Matilde e di altri personaggi, il 25 gennaio 1077 nella fortezza di Canossa.

Si giunge così alla cappella del Sacramento, ricca di marmi e mosaici. Accanto all’altare una scala porta al palazzo pontificio. Questo altare è dedicato a san Maurizio e compagni martiri, patroni principali del Piemonte. Le due colonne a vite di un sol pezzo che ornano l’altare sono due delle dodici che si credono portate a Roma dall’antico tempio di Salomone. Sul pavimento davanti all’altare si ammira il sepolcro in bronzo di Sisto IV Della Rovere. Esso fu eseguito per ordine di Giulio II suo nipote, e rappresenta le virtù e la scienza proprie del defunto. In esso sono contenute le ceneri dei due papi.

All’uscire dalla cappella ecco a destra il sepolcro di Gregorio XIII Buoncompagni. Lo ornano due statue: la Religione e la Fortezza, al centro un grande bassorilievo rappresenta la riforma del calendario, detta perciò Gregoriana. Qui sono ritratti una quantità di personaggi illustri che ebbero parte in quell’opera, tutti in atto di venerare il Pontefice. Di fronte, entro un’urna di stucco, riposano le ossa di Gregorio XIV della famiglia Sfrondato. Qui termina la navata minore e si entra nella croce greca secondo il disegno del Buonarroti.

Uscendo dalla navata, a destra si trova la Cappella Gregoriana. Sopra l’altare è venerata un’antica immagine della Madonna dei tempi di Pasquale II. Sotto riposa il corpo di san Gregorio Nazianzeno, fatto trasferire per ordine di Gregorio XIII dalla chiesa delle monache di campo Marzio. Proseguendo il cammino si giunge al monumento sepolcrale di Benedetto XIV Lambertini, fatto erigere dai cardinali da lui creati. Ai due lati del sepolcro s’innalzano due magnifiche statue che rappresentano il Disinteresse e la Sapienza, le due virtù maggiormente luminose di questo papa. La statua del Pontefice, in piedi, benedice il popolo con gesto maestoso. Questo lavoro è tanto ben eseguito che il semplice rimirare il Papa ci fa riconoscere in lui la grandezza e la elevatezza del suo animo. Di fronte si riconosce l’altare di san Basilio Magno con sopra un prezioso quadro in mosaico dell’imperatore Valente svenuto alla presenza del Santo, mentre lo guardava celebrare la messa.

Si giunge quindi alla tribuna. Il primo altare a destra è dedicato a san Venceslao martire, re di Boemia; quello di mezzo è consacrato ai santi Processo e Martiniano, guardie del carcere Mamertino, convertite alla fede da san Pietro, quando l’Apostolo vi era rinchiuso. Da questi santi prende nome il complesso; i loro corpi riposano sotto l’altare. Tre preziosi bassorilievi rappresentano san Pietro in prigione liberato dall’Angelo (quello di mezzo), san Paolo che predica nell’Areopago (quello a destra), il terzo i santi Paolo e Barnaba, presi per divinità dagli abitanti di Listri.
S’incontra poi il sepolcro di Clemente XIII Rezzonico, scultura di Antonio Canova. È un capolavoro. Il quadro dell’altare che rimane in faccia al monumento, raffigura san Pietro in pericolo di annegare, sostenuto dal Redentore. Più avanti ecco l’altare di san Michele, poi quello di santa Petronilla, figlia di san Pietro. Questa santa è rappresentata in un mosaico che narra il dissotterramento del cadavere di lei per mostrarlo a Flacco, nobile Romano, che l’aveva chiesta in sposa. Nella parte superiore è raffigurata l’anima di lei che con preghiere ottenne di morire vergine ed è accolta da Gesù Cristo. Più avanti si vede il sarcofago di Clemente X, Altieri: il bassorilievo rappresenta l’apertura della porta santa per il Giubileo del 1675. L’altare è sormontato dal quadro di san Pietro che alle preghiere di una turba di mendicanti risuscita la vedova Tabita.

Attraverso due gradini di porfido che facevano parte dell’altare maggiore dell’antica basilica si ascende all’Altare della Cattedra. Un sorprendente gruppo di quattro statue di metallo reggono la sede pontificale. Le due davanti rappresentano due padri latini Ambrogio e Agostino; le due di dietro i padri Greci, Atanasio e Giovanni Crisostomo. Il peso di questi gruppi ammonta a 219.161 libbre di metallo. La sedia in bronzo riveste, come preziosa reliquia, quella di legno intarsiata con vari bassorilievi d’avorio. Questa sedia è quella del senatore Pudente che servì l’Apostolo Pietro e molti altri papi dopo di lui.

Sopra l’altare della Cattedra come sfondo è effigiato su tela lo Spirito Santo tra vetri colorati e raggianti di modo che, a chi lo guarda, sembra di vedere una stella d’oro risplendente. Sotto invece, a sinistra di chi guarda, c’è il magnifico sepolcro di Paolo III Farnese, monumento molto pregiato per le sue sculture. La statua del Pontefice assiso sull’urna è di bronzo, le altre due statue, di marmo, rappresentano la Prudenza e la Giustizia. Di fronte è posto il sepolcro di papa Urbano VIII la cui statua è di bronzo. La Giustizia e la Carità sono ai suoi lati, scolpite in marmo bianco. Sull’urna si scorge l’immagine della morte in atto di scrivere in un libro il nome del Pontefice. Qui interrompemmo la visita: eravamo stanchi, la visita era durata dalle undici del mattino alle cinque pomeridiane.

Roma. S. Maria della Vittoria
Dal Quirinale guardando verso mezzogiorno si vede la via di Porta Pia, così chiamata dal pontefice Pio IV che per abbellirla eseguì non pochi lavori. Lungo questa strada, presso la fontana dell’Acqua Felice, s’innalza a sinistra la chiesa di S. Maria della Vittoria, edificata da Paolo V nel 1605, e chiamata così per una immagine miracolosa della Madonna trasportatavi dal padre Domenico dei Carmelitani Scalzi. A questa immagine, o meglio alla protezione di Maria, Massimiliano duca di Baviera dovette la grande vittoria riportata in pochi giorni contro i protestanti, che con un esercito numerosissimo avevano messo sottosopra il regno d’Austria. La prodigiosa immagine si conserva sull’altare maggiore. Ai cornicioni sono appese le bandiere tolte ai nemici: glorioso monumento alla protezione di Maria.

In memoria della liberazione di Vienna fu istituita la festa del Nome di Maria che si celebra da tutta la cristianità la domenica tra l’ottava della nascita di Maria. La cosa accadde il 12 settembre 1683 sotto il pontificato di Innocenzo XI. In questa stessa chiesa si celebra una speciale solennità nella seconda domenica di novembre in ricordo della famosa vittoria riportata dai cristiani contro i Turchi a Lepanto il 7 ottobre 1571, sotto Pio V. Anche alcune bandiere tolte ai Turchi sono appese come trofei al cornicione di questa chiesa.
Davanti a S. Maria della Vittoria si trova la fontana di Termini, chiamata fontana del Mosè, perché in una nicchia vi è scolpita la statua di Mosè che con la verga in mano fa scaturire l’acqua dalla pietra. È anche chiamata Acqua Felice da fra’ Felice, che è il nome di Sisto V quando era in convento.

L’isola Tiberina
Nel pomeriggio abbiamo deciso di andare col conte De Maistre a visitare la grande opera di San Michele al di là del Tevere. Dovemmo perciò attraversare il fiume all’altezza di un’isoletta detta Tìberina o anche Lycaonia, da un tempio dedicato a Giove Lycaonio. Quest’isola ebbe origine così. Quando fu espulso Tarquinio da Roma il Tevere era quasi privo d’acqua, e lasciava scoperti alcuni banchi di sabbia. I Romani, mossi da odio contro questo re, andarono nei suoi campi, tagliarono le biade e il farro che era vicino a maturare e gettarono tutto nel Tevere. La paglia andò ad arrestarsi sopra quella sabbia, e depositandosi la fanghiglia di arena che l’acqua faceva scorrere, giunse a consolidarsi a tal punto da potersi coltivare e abitare. In quest’isola i pagani innalzarono un tempio in onore di Esculapio; ma nel 973 vi fu trasferito il corpo di san Bartolomeo che riposa nell’urna sotto l’altare maggiore.

Passato il Tevere e continuando verso il S. Michele s’incontra a destra la chiesa di S. Cecilia, edificata nel luogo dov’era la sua casa. Urbano I, verso la metà del terzo secolo, la consacrò, e san Gregorio Magno la arricchì di molti oggetti preziosi. Entrando a destra c’è la cappella ove era il bagno di santa Cecilia, in cui si dice abbia ricevuto il colpo mortale. L’altare maggiore protetto da una cancellata di ferro, custodisce il corpo della santa. Sopra l’urna è scolpito un commovente lavoro in marmo che la rappresenta distesa e vestita come fu rinvenuta nel sepolcro.

Giunti all’ospizio S. Michele abbiamo avuto udienza dal Cardinale Tosti che ci raccontò vari episodi a lui accaduti al tempo della repubblica. Anch’egli fu costretto a vivere per un po’ lontano dall’ospizio per non rimanere vittima di qualche attentato. Fra le varie cose derubate in quella triste circostanza a questo pio porporato vi furono tre tabacchiere assai preziose specialmente per l’antichità e la provenienza. Portate ai componenti del triumvirato, Mazzini pensò di trattenerne una per sé e regalare le altre due a suoi compagni. Ma essi non osarono prenderle. Mazzini aggiustò tutto, e graziosamente se le pose tutte tre in tasca!

Il Campidoglio
Lungo il tragitto di ritorno, a metà strada si alza il colle più alto di Roma, il Campidoglio così chiamato da caput Toli, capo di Tolo, che fu ritrovato mentre Tarquinio il Superbo ne faceva appianare la sommità per erigerlo in fortezza. Noi salimmo una lunga gradinata alla cui estremità si alzano due statue colossali rappresentanti Castore e Polluce. Il piano che forma la piazza si chiamava anticamente inter duos lucos, perché restava tra i boschetti che ricoprivano le due cime. Qui Romolo aveva creato un riparo per i popoli vicini che avessero voluto rifugiarvisi. Il Campidoglio d’oggi non ha più imponenza guerresca, ma è una piazza maestosa contornata da palazzi che ospitano musei, e dove si trattano gli affari municipali. In una parte di questa piazza esisteva il tempio di Giove Feretrio, così detto dalle armi dei vinti che i vincitori andavano ad appendere all’altare di quel tempio.

In mezzo alla piazza s’innalza la famosa statua equestre di Marco Aurelio in atto di pacificatore. Essa è la più bella fra le più antiche statue di bronzo che si siano conservate intatte. Una parte dei grandi edifici che circondano la piazza costituiscono il palazzo senatorio, fondato da Bonifacio IX nel 1390 sopra il medesimo terreno ove era l’antico senato dei Romani. A lato si trova la fonte dell’Acqua Felice, cui fanno ornamento due statue giacenti del Nilo e del Tevere. Da qui, attraverso una piccola scala, si arriva alla torre del Campidoglio, eretta in forma di campanile sul medesimo luogo ove anticamente montavano gli osservatori per ammirare Roma e controllare i nemici che tentassero di avvicinarsi alla città […]
Nella parte più elevata verso oriente vi era il tempio di Giove Capitolino che veniva chiamato di Giove Ottimo, Massimo, ed era stato eretto da Tarquinio il Superbo sopra le fondamenta preparate da Tarquinio Prisco che ne aveva fatto voto durante la guerra contro i Sabini. Proprio mentre si faceva lo scavo fu rinvenuto il caput Toli.

S. Maria in Aracoeli
Dove era il tempio di Giove Capitolino, ora c’è la maestosa chiesa di Santa Maria in Aracoeli, edificata nel VI secolo dell’era volgare. Per qualche tempo si chiamò Santa Maria in Campidoglio, dal luogo dove sorgeva. Fu poi detta Aracoeli dal fatto seguente. Avendo un fulmine colpito il Campidoglio, Ottaviano Augusto per timore di qualche sventura mandò ad interrogare l’oracolo di Delfi […] Per questo fatto, e per alcuni detti delle Sibille che riguardavano la nascita del Salvatore, Augusto fece innalzare un’ara intitolata: Ara primogeniti Dei, altare del primogenito di Dio. Donde ne derivò il nome di Santa Maria in Aracoeli, dopo che sul posto fu innalzata una chiesa in onore della Madre di Dio. L’interno è a tre navate divise da 22 colonne di marmo già appartenenti al tempio di Giove Feretrio. L’altare maggiore è degno di speciale osservazione, perché sopra di esso si venera un’immagine di Maria, che si pensa sia di san Luca. Questa ai tempi di san Gregorio Magno venne portata processionalmente per Roma per ottenere la liberazione dalla peste. Il fatto è rappresentato in un dipinto sul pilastro a lato dell’altare. Nel mezzo della crociera è collocata la cappella di sant’Elena, dove venne innalzata l’Ara Primogeniti. La mensa dell’altare è una grande urna di porfido, entro cui sono stati riposti i corpi di sant’Elena madre di Costantino, e dei santi Abbondio e Abbondanzio.

In una stanza vicina alla sacrestia si conserva un’effigie miracolosa di Gesù Bambino. Le fasce che lo rivestono sono arricchite di pietre preziose. Essa viene esposta in venerazione durante le feste di Natale, in un bel presepio che si rappresenta in chiesa dentro una cappella. Insieme col Bambino si pongono anche le figure di Augusto e della Sibilla a ricordo di una tradizione che afferma che la Sibilla Cumana predicesse la nascita del Salvatore e perciò Augusto vi eresse un’ara.

Uscendo da Aracoeli e andando verso la parte occidentale del Campidoglio s’incontra la rupe Tarpea che occupava la parte verso il Tevere, e si chiamava così dalla Vergine Tarpea, che vi fu uccisa a tradimento nella guerra dei Sabini. Dall’alto di questa rupe venivano precipitati i traditori della patria. Qui furono martirizzati molti cristiani che, in odio alla fede, furono gettati in basso. Là vicino si trovava la Curia, e la capanna di Romolo, dove, si dice, abbia atteso il responso degli avvoltoi […]

Scendendo verso il basso ecco il tempio della Concordia, fatto costruire da Camillo l’anno 387 di Roma. […] Presso questo tempio nella parte sinistra di chi scende era situato quello di Giove Tonante di cui restano tre colonne di marmo. Fu eretto da Augusto sul clivo capitolino e dedicato a Giove in ringraziamento di essere scampato al fulmine che uccise il servo che lo precedeva.

Il Carcere Mamertino
Il mattino del 2 marzo insieme con la famiglia De Maistre siamo andati a visitare il carcere Mamertino, che è ai piedi del Campidoglio nella parte occidentale. Questo carcere è chiamato così da Mamerto, o Anco Marzio, 4° re di Roma che lo fece costruire per spargere terrore nella plebe, e così impedire i furti e gli assassini. Servio Tullio 6° Re di Roma aggiunse sotto a questo un altro carcere che fu chiamato Tulliano. Esso ha due sotterranei, che nella volta presentano un’apertura capace di far passare un uomo. Attraverso questa si calavano con una corda i condannati […]

Qui sgorga una sorgente d’acqua che si dice sia stata fatta miracolosamente scaturire da san Pietro quando con san Paolo vi era tenuto in prigione. Il principe degli Apostoli si servì di quest’acqua per battezzare i santi Processo e Martiniano, custodi del carcere, assieme ad altri 47 compagni morti tutti martiri. Quest’acqua presenta aspetti miracolosi. Il suo gusto è naturale. Non cresce mai, né mai diminuisce di volume qualsiasi quantità se ne attinga. Due signori inglesi quasi per burlare i cattolici vollero provare a svuotare la piccola fossa dell’acqua che assomiglia a un vaso di piccole dimensioni. Si stancarono essi e i loro amici, ma l’acqua rimase sempre allo stesso livello. Si raccontano molte guarigioni miracolose ottenute dal suo uso. Accanto alla fonte è posta una colonna di pietra a cui furono legati i due principi degli Apostoli. A fianco della colonna è ubicato un piccolo e basso altare ove con grande consolazione ho celebrato la messa, cui hanno partecipato la famiglia De Maistre e altre pie persone. Sopra l’altare un bassorilievo rappresenta Paolo che predica e Pietro che battezza le guardie […]

In un angolo del 1° piano del carcere si nota sul muro l’impronta di un volto umano. Si dice che san Pietro abbia ricevuto un forte schiaffo da uno sgherro, sicché battendo con la faccia nel muro vi abbia lasciato impresso il suo volto che in modo miracoloso si è conservato. Al disopra di questa figura è scolpita questa antica iscrizione: “In questo sasso Pietro batté la testa spinto da sgherro ed il prodigio resta”. Sopra questo carcere venne edificata una chiesa, e sopra questa un’altra ancora dedicata a san Giuseppe. Ha sede qui la confraternita dei falegnami. I membri si radunano nei giorni festivi, assistono alle funzioni sacre e provvedono a quanto è necessario per la manutenzione della chiesa e a quanto occorre per la pulizia del carcere. Anticamente per arrivare all’ingresso della prigione si scendeva attraverso una scala in fondo alla quale era l’apertura da cui venivano precipitati i condannati. Quelle scale furono chiamate Gemonie, dai gemiti dei condannati […]

Città del Vaticano. Devozioni giubilari
Il 3 marzo era destinato alla visita a san Pietro. Partiti alle sei e mezzo da casa con un fresco che allietava la vita e rendeva celeri i nostri passi, prendemmo la direzione del colle Vaticano. Giunti al Ponte Elio, o Ponte Sant’Angelo, sopra cui si passa traversando il Tevere, recitammo il credo. I Pontefici concedono cinquanta giorni d’indulgenza a quelli che recitano il simbolo degli Apostoli mentre passano sopra questo ponte. Viene chiamato Elio da Elio Adriano che lo ha costruito. Ma si chiama anche ponte Sant’Angelo da Castel Sant’Angelo, che è il primo edificio che s’incontra sulla sponda opposta.

Diremo qualche cosa di questo castello. L’imperatore Adriano volle erigere un grande sepolcro sulla riva destra del Tevere. Per la sua larghezza, lunghezza e altezza lo chiamarono Mole Adriana. Allorché Teodosio imperatore fece prelevare le colonne dal mausoleo di Adriano per dotarne la basilica di san Paolo, questa costruzione restò priva della metà superiore e senza colonne. L’anno 537 le truppe di Belisario diedero l’assalto ai Goti per allontanarli da Roma, e allora quasi tutti gli avanzi di quel mausoleo vennero ridotti in pezzi. Nel secolo X fu chiamato Castro e Torre di Crescenzio da un certo Cescenzo Nomentano che se ne impadronì e lo fortificò. Poco dopo la storia gli diede il nome di Castel Sant’Angelo, derivandolo forse da una chiesa dedicata all’angelo Michele […] Ma l’opinione più probabile resta quella che narra di una processione di san Gregorio Magno per ottenere dalla Vergine la liberazione dalla peste: in quell’occasione apparve sull’alta cima della Mole un angelo che rimetteva nel fodero la spada, segno che il flagello stava per cessare. Ora Castel Sant’Angelo è ridotto ad una fortezza ed è l’unica di Roma.

Continuando il nostro cammino siamo arrivati nella grande piazza S. Pietro. Passando davanti all’obelisco, ci siamo tolti il cappello, perché i papi hanno concesso cinquanta giorni d’indulgenza a chi fa riverenza o si scopre il capo passando vicino a quell’obelisco, sopra cui è stata applicata una croce che contiene un pezzo del Santo Legno della croce di Gesù.
Eccoci dunque di nuovo nella Basilica Vaticana. Ne avevamo già visitata la metà più la tribuna, che forma come il coro dell’altare papale, ubicata in mezzo alla crociera, dirimpetto alla cattedra di Pietro. Detto coro fu fatto erigere da Clemente VIII e da lui consacrato l’anno 1594: racchiude l’altare già edificato da san Silvestro. Essendo l’altare papale, vi celebra solo il Papa, e quando qualche altro vuole usarlo occorre un “Breve” apostolico. Ai quattro lati s’innalzano quattro grandi colonne a vite che sorreggono un baldacchino ornato di fregi tutto di bronzo. L’altezza di questo baldacchino dal piano del pavimento eguaglia quella dei più alti palazzi di Torino.

La tomba di Pietro: curiosità di un santo
Davanti all’altare papale attraverso una doppia scala di marmo si discende nel piano della Confessione. All’estremità delle scale sono poste due colonne di alabastro d’Orte, materiale assai raro, trasparente come diamante. Centododici lampade ardono continuamente intorno al venerando luogo. Nel fondo si apre una nicchia formata sull’antico oratorio eretto da san Silvestro, dove sant’Anacleto “eresse una memoria a san Pietro”. Qui riposa il corpo del Principe degli Apostoli. Nelle pareti laterali si aprono due porte munite di un cancello di ferro da dove si passa alle sacre grotte. Proprio di fronte alla nicchia il 28 Novembre 1822 venne collocata la statua in marmo di Pio VI che, in ginocchio, sta in fervorosa preghiera. È questa una delle più belle opere di Antonio Canova. Pio VI era solito di giorno e talvolta anche di notte recarsi presso la tomba di san Pietro per pregare. In vita mostrò il vivo desiderio di essere sepolto lì e alla sua morte si volle esaudirlo. Ma fatto uno scavo di poca profondità fu scoperta una tomba sopra cui era scritto: Linus episcopus. Immediatamente fu rimessa ogni cosa a posto, e il Pontefice fu sepolto in altro angolo della chiesa. In quello prescelto invece del corpo fu collocata la statua di cui abbiamo parlato. Noi abbiamo visto e toccato con mano quanto c’è qui di prezioso, ma non abbiamo potuto vedere il corpo del primo papa, perché da secoli il sepolcro non è stato più aperto per timore che qualcuno tenti di spezzarne qualche reliquia.

Sopra questa tomba è stato innalzato un ricco altare: qui ho avuto la consolazione di celebrare la santa messa. Questo altare con una cappelletta annessa riceve luce da alcuni oblò ricoperti di grate di metallo. Durante la costruzione della basilica, avvenne un fatto prodigioso, riferito da un testimone oculare. Prima che il tetto fosse terminato, caddero piogge così impetuose che le acque inondarono il pavimento della basilica fino a un palmo di altezza. Malgrado tanta abbondanza, l’acqua non osò accostarsi all’altare della Confessione, e neppure discese nell’oratorio inferiore attraverso i tre oblò suddetti, perché, giunta nelle vicinanze, si fermò rimanendo sospesa di modo che neppure una goccia giunse a bagnare quel santuario. Dopo aver osservato ogni oggetto, guardato ogni angolo, le mura, le volte, il pavimento, chiedemmo se non ci fosse più nulla da vedere.
Più nulla, ci fu risposto.
– Ma la tomba del santo apostolo, dov’è?
– Qui sotto. È situata nello stesso luogo che occupava quando era in piedi l’antica basilica
[…]
– Ma noi vorremmo vedere fin là.
– Non è possibile […]
– Ma il papa ha detto che avremmo potuto vedere tutto. Se tornando da lui ci dicesse se abbiamo visto tutto, mi rincrescerebbe di non poter rispondere affermativamente.
Il monsignore [che ci accompagnava] mandò a prendere alcune chiavi e aprì una specie di armadio. Qui si apriva una cavità che scendeva sotterra. Era tutto buio.
È soddisfatto? Mi disse il monsignore.
– Non ancora, vorrei vedere.
– E come vuol fare?
Mandi a prendere una canna e un cerino. Portarono canna e cerino che applicato sulla punta di quella venne calato giù, ma si spense subito nell’aria senza ossigeno. La canna non giungeva fino in fondo. Allora fu fatta venire un’altra canna che aveva all’estremità un uncino di ferro. Così si giunse a toccare il coperchio della tomba di san Pietro. Era a sette/otto metri di profondità. Battendo leggermente, il suono che veniva su indicava che l’uncino stava urtando ora nel ferro ora nel marmo. Ciò confermava quello che avevano scritto gli storici antichi.

Ci vorrebbe un volume per descrivere le cose viste. Quanto esisteva nella basilica costantiniana si conserva in lapidi laterali, o sui pavimenti o nelle volte dei sotterranei. Metto in risalto solo una cosa, l’immagine di Santa Maria della Bocciata, molto antica, posta in un altare sotterraneo. Il nome deriva dal fatto seguente. Un giovane per disprezzo o, forse, inavvertitamente con una boccia colpì in un occhio la figura di Maria. Avvenne un gran prodigio. Grondò sangue dalla fronte e dall’occhio che ancora rosso si vede sopra le gote dell’immagine. Due gocce schizzarono lateralmente sopra il sasso che si conserva gelosamente riparato dietro due cancelli di ferro.

Altari, cappelle, sepolcri
Sopra l’altare papale e la tomba di san Pietro si alza la sterminata cupola che fa restare incantato chi la osserva. Quattro grandi piloni la sostengono: ciascuno di essi ha cento cinquanta passi, circa venticinque trabucchi, di circuito. Tutto intorno a quell’alta cupola ci sono eleganti lavori in mosaico eseguiti dai più celebri autori. Sui pilastri sono incavate quattro nicchie dette Logge delle Reliquie, che sono il Volto Santo della Veronica, la Santa Croce, la Sacra Lancia, e Sant’Andrea. Tra esse è celebre quella del Sacro Volto che si crede essere quel pannolino di cui si servì il Salvatore per asciugarsi la faccia grondante di sangue. Egli vi lasciò impressa la sua effigie che regalò a Veronica che piangente l’accompagnava al Calvario. Persone degne di fede raccontano che questo Sacro Volto l’anno 1849 trasudò sangue più volte, anzi cambiò colore tanto da variarne i lineamenti. Queste cose furono scritte, e i canonici di S. Pietro ne danno testimonianza.

Partendo dall’altare papale e proseguendo verso la parte meridionale si incontra il sepolcro di Alessandro VIII degli Ottobuoni. Fu fatto erigere dal nipote cardinale Pietro Ottobuoni. La statua del Papa assiso in trono è di metallo. Due statue in marmo sono ai due lati, e rappresentano la Religione e la Prudenza. L’urna è coperta dal bassorilievo della canonizzazione di Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capistrano, Giovanni da san Facondo, Giovanni di Dio e Pasquale Bajlon, fatta da Alessandro VIII nel 1690. A fianco si erge l’altare di san Leone Magno su cui si ammira il sorprendente bassorilievo del Pontefice che va incontro al feroce Attila. In alto sono effigiati Pietro e Paolo, accanto al Papa Attila, spaventato dalla comparsa dei due e in atto di ossequiare il Pontefice. In un’urna sotto l’altare riposa il corpo del santo papa e dottore della Chiesa. Davanti è posta la tomba di Leone XII, morto nel 1829, il quale aveva tanta venerazione per questo suo glorioso antecessore, da voler essere sepolto accanto a lui. […]

L’altare che segue è dedicato alla Vergine della Colonna, così detta perché vi si venera l’immagine di Maria dipinta sopra una colonna dell’antica basilica costantiniana. Vi fu collocata nel 1607. L’altare custodisce i corpi di Leone II, III e IV. Continuando il giro sulla linea meridionale incontriamo a destra il sepolcro di Alessandro VII Ghigi con quattro statue: Giustizia, Prudenza, Carità e Verità. Siccome questo pontefice aveva sempre presente il pensiero della morte, lo scultore ha steso una coltre in rilievo, sotto a cui la figura della morte mostra una clessidra, cioè un orologio a polvere, che sta per terminare la sua carica. Il Papa sta pregando a mani giunte in ginocchio. L’altare sulla sinistra è dedicato agli apostoli Pietro e Paolo. Vi è rappresentata la caduta di Simon Mago. Di fronte è collocato l’altare dei santi Simone e Giuda che qui riposano. L’altare a destra invece è dedicato a san Tommaso e custodisce il corpo di Bonifacio IV, mentre quello a sinistra conserva le spoglie di Leone IX. Di fronte alla porta della sacrestia l’altare dei santi Pietro e Andrea rappresenta in prezioso mosaico la morte di Anania e Saffira.

Si giunge così alla cappella Clementina, il cui altare, dedicato a san Gregorio Magno, è sormontato da un bel mosaico del santo in atto di convincere gli increduli. Sotto l’altare se ne venera il corpo. Sopra la porta che conduce all’organo è posto il monumento sepolcrale di Pio VII. Il Pontefice, seduto sopra una ricca sedia e vestito degli abiti pontificali, è in atto di benedire. Le statue poste ai lati rappresentano la Sapienza e la Fortezza. Prima di arrivare alla navata laterale si incontra l’altare della Trasfigurazione il cui mosaico presenta la trasfigurazione del Salvatore sul monte Tabor.

La navata minore sinistra
Entrati nella navata minore si incontrano ai due lati due sepolcri, a destra quello di Leone XI dei Medici. Un bassorilievo descrive il Pontefice che assolve Enrico IV re di Francia […] Più in basso vi sono rose scolpite col motto: Sic floruit, per indicare la caducità della vita e simboleggiare la brevità del pontificato di Leone XI, che fu di soli 21 giorni.
Il sarcofago di sinistra è di Innocenzo XI Odescalchi. Il bassorilievo sovrapposto ritrae la liberazione di Vienna dai Turchi, avvenuta sotto il suo pontificato. Inoltrandosi lungo la navata, si giunge alla cappella del coro, arricchita di mosaici e dipinti. Sotto l’altare riposa il corpo di san Giovanni Crisostomo. Questa cappella ha un sotterraneo ove si conservano le ceneri di Clemente XI. Viene chiamata Cappella Sistina da Sisto IV che ne aveva eretta un’altra nel luogo medesimo dell’antica basilica. A destra si accede alla cantoria del coro, e alla Cappella Giulia, così detta da Giulio II che ne fu l’istitutore. Sopra questa porta esiste un’urna di stucco che racchiude le ceneri di Gregorio XVI, morto nel 1846. Quest’urna viene riservata per accogliere il cadavere dell’ultimo pontefice sino a che gli venga eretta una sepoltura.

Il sepolcro d’Innocenzo VIII della famiglia Cibo è di fronte. Due sono le figure di quel Papa: una seduta col ferro della lancia in mano, per alludere a quella con cui venne trafitto Gesù, mandatagli in dono da Bajasetto II, imperatore dei Turchi; l’altra distesa, sotto la prima […] Prospiciente alla porticina che immette alla scala della cupola c’è il cenotafio di Giacomo III, re d’Inghilterra, della famiglia Stuart, morto a Roma il 1° di gennaio 1766, e dei due suoi figli Carlo III ed Enrico IX, cardinale, duca di York. I tre busti in bassorilievo, sono di Antonio Canova.
L’ultima cappella è quella del Battistero. La conca battesimale è di porfido e formava il coperchio dell’urna di Ottone II imperatore che fu qui trasportata quando le sue ceneri vennero poste nelle grotte Vaticane […]

Roma. S. Andrea al Quirinale
Il permesso di visita terminava a mezzogiorno e mezzo, sicché il signor Carlo, che ci guidava e noi pure guidati da buon appetito, abbiamo rimandato ad altra volta la salita sulla cupola e la visita al palazzo Vaticano. Dopo il pranzo, e qualche ora di riposo abbiamo dato un’occhiata al Quirinale e alle cose più importanti vicine alla nostra dimora. Il Quirinale è uno dei sette colli di Roma antica, così chiamato dai Quiriti che vennero qui ad abitare, e da un tempio dedicato a Romolo, venerato sotto il nome di Quirino. Alla nostra sinistra procedendo verso piazza Monte Cavallo, s’incontra la chiesa di Sant’Andrea, dov’è oggi il noviziato dei Gesuiti. Essa custodisce, in una cappella dedicata a san Stanislao Kostka, dentro un’urna di lapislazzuli ornata di marmi preziosi, il corpo del santo. Accanto a questa chiesa c’è il monastero delle Domenicane. Si vuole che queste due costruzioni siano sorte sulle rovine del tempio di Quirino. A destra della via s’innalza il maestoso palazzo del Quirinale, iniziato da Paolo III circa 300 anni or sono, e terminato dai suoi successori. Lo ornano architetture, sculture, pitture e mosaici di gran pregio. Il Papa vi abita per una parte dell’anno. Il palazzo ha uno spazioso giardino di un miglio circa di perimetro. Fra le altre meraviglie vi si ammira un organo che suona alimentato dalla forza dell’acqua che qui scorre.

Davanti al Quirinale si apre la piazza di Monte Cavallo, così chiamata per via di due cavalli colossali in bronzo che rappresentano Castore e Polluce. Pio VI fece innalzare un obelisco in mezzo a questa piazza. Esso è lavoro eseguito per ordine di Smarre ed Efre, principi dell’Egitto, e trasportato a Roma dall’imperatore Claudio. Non ha geroglifici. A sud domina il magnifico palazzo Rospigliosi, innalzato dove anticamente erano le terme di Costantino. Gli amanti delle belle arti possono qui visitare molti capolavori di pittura e scultura.

Santa Croce in Gerusalemme
Il 4 marzo era dedicato alla basilica di S. Croce in Gerusalemme. Il tempo era nuvoloso, e fatta appena un po’ di strada fummo sorpresi dalla pioggia. Non essendo provvisti di ombrella giungemmo bagnati come due sorci; ma la consolazione provata nella visita ci compensò sia dell’acqua che del disagio patito. È questa una delle sette basiliche che si visitano per guadagnare le indulgenze. Fondata da Costantino il Grande, dove sorgeva il palazzo detto Sassorio, fu chiamata Basilica Sassoriana e venne eretta in memoria del ritrovamento della santa Croce fatto da sant’Elena, madre dell’imperatore, a Gerusalemme. Quella principessa vi fece trasportare molta terra del Calvario, prelevata dal luogo dove fu rinvenuta la Croce di Cristo. L’edificio prese il nome Santa Croce dalla parte considerevole del santo Legno che vi si conserva, e fu aggiunto in Gerusalemme perché questa santa reliquia, assieme a molte altre, fu qui trasportata da quella città. La chiesa venne consacrata da san Silvestro papa. Sotto l’altare maggiore riposano i corpi di san Cesario e sant’Anastasio martiri […]

Di fronte all’altare vi è la cappella Gregoriana, privilegiata perché si può lucrare l’indulgenza plenaria applicabile alle anime del purgatorio, sia per quelli che celebrano la messa, che per quelli che l’ascoltano. A questo altare con gran consolazione ho celebrato anch’io. Accanto alla chiesa sorge il convento dei Cistercensi. Il padre Abbate è un certo Marchini, piemontese, il quale ci usò molta cortesia. Fra le altre cose ci ha fatto visitare la biblioteca, ricca di pergamene antiche e di altre opere […]

Un giorno di pioggia
Il 5 marzo fu un giorno piovoso, perciò l’abbiamo impiegato quasi interamente a scrivere. C’è questo di singolare a Roma, che piove e c’è sole contemporaneamente, sicché in certe epoche dell’anno bisogna essere continuamente muniti di ombrello per difendersi o dal sole o dalla pioggia. Alle dieci di questo giorno passava a miglior vita il padre Lolli, rettore del noviziato dei Gesuiti, nella chiesa di Sant’Andrea a Monte Cavallo, un piemontese che dimorò per lungo tempo a Torino ove si rese celebre per la predicazione e la sollecitudine nell’apostolato del confessionale. La regina di Sardegna Maria Teresa lo aveva scelto come suo confessore […]

In questo giorno siamo venuti a sapere che le malattie a Roma si erano moltiplicate, e che la mortalità attuale è quattro volte superiore alla media. Nei soli mesi di gennaio e febbraio morirono circa 6600 persone; un numero assai grande, tenuto conto della popolazione che ammonta a circa 130 mila abitanti. Verso sera sono uscito per farmi radere la barba. Andai in una bottega e fui servito abbastanza bene; ma feci il proposito di non andarci mai più, perché tanti furono gli urti e gli scrolloni che mi diede colle sue manacce il barbiere che mi avrebbe spostato denti e mandibole, se non avessero avuto radici ben salde.

L’Ospizo s. Michele
Secondo l’invito fattoci dal cardinale Tosti, il 6 marzo siamo andati colla famiglia De Maistre a visitare l’Ospizio S. Michele. Oltre a quanto dissi la volta scorsa, posso aggiungere quanto segue. Il primo tratto di cortesia usatoci fu una sontuosa colazione, cui però non abbiamo potuto partecipare, perché l’avevamo fatta prima di partire, ed essendo giorno di digiuno non potevamo più mangiare fino al pranzo. Così ci siamo limitati ad una piccola tazza di cioccolata, che sua Eminenza ci disse essere compatibile col digiuno. Ci fu data anche una bibita di ottimo sapore al mandarino, una specie di vino fatto con frutti disseccati e posti in fusione con acqua e zucchero. Soltanto Rua non essendo obbligato al digiuno mangiò qualche cosa di più solido.

Poi abbiamo iniziato la visita di quello spazioso ospizio dove sono ricoverate oltre ottocento persone. Il cardinale Tosti ci accompagnò ovunque. Ci siamo fermati specialmente a considerare il lavoro dei giovani. Qui imparano gli stessi mestieri che imparano da noi: la maggior parte si occupa nel disegno, nella pittura, nella scultura; e molti lavorano in una tipografia interna. Il Santo Padre per aiutare l’Ospizio gli ha concesso il privilegio di stampare in esclusiva i libri di scuola che si usano negli Stati Pontifici. Sopra l’edificio vi è un terrazzo con una magnifica vista: guardando a ponente si scorge l’accampamento dei francesi venuti a liberare Roma […] Alle dodici e mezzo, quando ormai i ragazzi erano a pranzo, essendo anche il cardinale molto stanco, abbiamo preso congedo […]

S. Maria in Cosmedin e la Bocca della Verità
Secondo il solito pioveva a meraviglia, e tra me e Rua, avendo una sola ombrella assai piccola, abbiamo trovato il modo di bagnarci tutti e due. Abbiamo passato il Tevere sopra un ponte chiamato Ponte Rotto perché, si era rovinato, e fu sostituito con un ponte di ferro molto simile a quello che abbiamo sul Po a Torino. Anticamente si chiamava ponte Coclite, perché è quello stesso, in cui Orazio Coclite oppose un’eroica resistenza all’esercito di Porsenna, finché il ponte fu tagliato, ed egli si gettò nel Tevere passando a nuoto all’altra sponda fra i dardi dei nemici meravigliati.

S’incontra qui una via detta Bocca della Verità, perché in fondo alla medesima c’era il luogo dove si conducevano coloro che dovevano fare un giuramento. Adesso c’è una chiesa chiamata S. Maria in Cosmedin, parola che vuol dire ornamento, perché fu con magnificenza ornata dal pontefice Adriano I. Al suo interno si conserva la cattedra di cui si servì Sant’Agostino quando insegnava Retorica. Sotto al vestibolo ci siamo ritirati per attendere che smettesse l’acquazzone che stava inondando tutte le vie. Mentre stavamo là abbiamo dato uno sguardo alla piazza chiamata anch’essa Bocca della Verità.

I vaccari
Vi erano molti buoi aggiogati che bivaccavano, esposti alla pioggia al fango e al vento. I bovari si erano riparati sotto il medesimo vestibolo mettendosi a pranzare con invidiabile appetito. Al posto della minestra e della pietanza avevano un pezzo di merluzzo crudo, da cui ciascuno strappava un pezzo. Alcune pagnottelle di meliga e segala era il loro pane. Acqua la bevanda. Scorgendo in loro un’aria di semplicità e di bontà mi avvicinai e feci questa conversazione.
– Avete buon appetito?
Molto, rispose uno di essi.
– Vi basta quel cibo a togliervi la fame e sostentarvi?
– Ci basta, grazie a Dio, quando possiamo averne, giacché, essendo poveri, non possiamo pretendere di più.
– Perché non conducete quei buoi nelle stalle?
– Perché non ne abbiamo.
– Li lasciate sempre esposti al vento, alla pioggia, alla grandine giorno e notte?
– Sempre, sempre.
– Fate lo stesso ai vostri paesi?
– Si, facciamo lo stesso, perché nemmeno là abbiamo stalla, perciò o piova, o faccia vento, o nevichi, giorno e notte stanno sempre all’aperto.
– E le vacche e i vitelli piccoli sono anch’essi esposti a tali intemperie?
– Certamente. Tra di noi si usa che gli animali, quelli di stalla stanno sempre in stalla e quelli che cominciano a stare fuori se ne stanno sempre fuori.
– Abitate molto lontano di qui?
– Quaranta miglia.
– Nei giorni festivi potete assistere alle sacre funzioni?
– Oh! chi ne dubita? Abbiamo la nostra cappella, il prete che ci dice messa, fa la predica ed il catechismo, e tutti, comunque lontani, si danno premura d’intervenire.
– Andate anche qualche volta a confessarvi?
– Oh! Senza dubbio. Ci sono forse cristiani che non adempiono questi santi doveri? Adesso ci è il giubileo e noi tutti ci daremo sollecitudine di farlo bene.
Da questo ragionamento appare la buona indole di questi paesani, i quali nella loro semplicità vivono contenti della loro povertà e lieti del loro stato, purché possano adempiere i doveri di buon cristiano e disimpegnare ciò che riguarda al basso loro commercio.

S. Maria del Popolo
Domenica 7 marzo era destinata alla visita di S. Maria del Popolo. Alcune pie e nobili persone desideravano che andassimo là a celebrare la messa, per poter fare la comunione. Era questa una pia devozione. Alle nove il signor Foccardi, persona servizievole e piena di fede, ci venne a prendere con la propria vettura per trasportarci al luogo indicato. Questa chiesa fu costruita sul luogo dove erano stati sepolti Nerone e la famiglia Domizia. La tradizione dice che vi apparissero continuamente spettri che atterrivano i cittadini tanto che nessuno voleva abitare nei dintorni. Il pontefice Pasquale II l’anno 1099 vi fece innalzare una chiesa, e per allontanare l’infestazione diabolica la dedicò a Maria Santissima. L’anno 1227 l’antica chiesa minacciava di cadere e il popolo romano concorse con generosità alle spese di ricostruzione. Proprio per questo fu chiamata S. Maria del Popolo. Una chiesa grandiosa, ricca di marmi e pitture. Nell’altare maggiore si venera un’immagine miracolosa della Madonna fatta prelevare per ordine di Gregorio IX dalla cappella del Salvatore in Laterano. Vicino c’è il convento dei padri Agostiniani.

Porta del Popolo anticamente si chiamava Porta Flaminia, perché era all’inizio della via Flaminia […]. Fuori di questa porta, voltando a destra, si trova Villa Borghese, un maestoso edificio degno di essere visitato dai turisti a motivo dei molti oggetti d’arte che vi sono conservati. Porta del Popolo delimita una gran piazza chiamata Piazza del Popolo, e abbellita da copiose fontane, e da obelischi, i quali come ognuno sa, sono monumenti di una remota antichità fatti innalzare dai re dell’Egitto per rendere immortale la memoria delle loro azioni. Il superbo obelisco che si eleva in mezzo alla piazza fu costruito a Eliopoli per ordine di Ramesse, re di Egitto, che regnò nel 522 a. C. L’imperatore Augusto lo fece trasportare a Roma; ma per sventura si rovesciò, spezzandosi e fu coperto di terra. Papa Sisto V nel 1589 lo fece dissotterrare innalzandolo nella piazza, dopo averne dotato il culmine di un’alta croce di metallo. Le sue quattro facce sono coperte di geroglifici, cioè di simboli misteriosi dei quali si servivano gli Egiziani per esprimere le cose sacre ed i misteri della loro teologia.

Nel fondo della piazza s’innalza la chiesa di S. Maria dei Miracoli, costruita da Alessandro VII, e chiamata così a causa di un’immagine miracolosa della Madonna che prima era dipinta sotto un arco nei pressi del Tevere. A sinistra c’è un’altra chiesa, S. Maria di Monte Santo, perché edificata sopra un’altra chiesa che apparteneva ai carmelitani della provincia di Monte Santo. Fu inaugurata nel 1662. Appagata così devozione e curiosità, siamo di nuovo saliti in vettura che ci portò a casa della principessa Potosca, dei conti e principi Sobieschi, antichi sovrani di Polonia. La colazione apparecchiata per noi era sontuosa, ma troppo signorile, quindi poco adatta al nostro appetito. Ci siamo aggiustati alla meglio. Siamo tuttavia rimasti molto soddisfatti dalla conversazione veramente cristiana, che quelle signore tennero per il tempo che ci trattenemmo a casa loro.
Una cosa suscitò la nostra meraviglia. Terminato di mangiare, la padrona di casa si fece portare un mazzetto di sigari e si mise a fumare. Malgrado una conversazione assai animata ella continuò con grande avidità a fumare un sigaro dopo l’altro, e questo mi mise a disagio, essendo costretto a sopportare l’odore di fumo che impregnava tutta la casa. Mi provocava la nausea risultandomi insopportabile […]

Città del Vaticano. La salita al Cupolone
Riservammo l’8 marzo per visitare la famosa cupola di S. Pietro. Il canonico Lantieri ci aveva procurato il biglietto necessario per appagare questa curiosità. L’orario in cui è permessa la salita va dalle 7 alle 11 ½ del mattino. Il tempo era sereno e perciò propizio. Dopo aver celebrato l’eucarestia nella Chiesa del Gesù, dove stanno i Gesuiti, sull’altare di san Francesco Saverio, giungemmo in Vaticano alle 9 in compagnia del signor Carlo De Maistre. Consegnato il biglietto, ci fu aperta la porticina e cominciammo a salire su per una scala assai comoda fatta come un ripido terrazzo. Salendo s’incontrano varie iscrizioni che ricordano il nome e l’anno di tutti i pontefici che aprirono e chiusero gli anni giubilari. Vicino al ripiano del terrazzo sono scritti i più celebri personaggi, re o principi, che salirono fino alla palla della cupola. Abbiamo letto con piacere anche il nome di vari dei nostri sovrani e della famiglia reale.

Abbiamo dato un’occhiata al terrazzo della basilica. Si presenta come una vasta piazza selciata dove si può giocare a palla, a bocce, e simili. Qui abitano alcune persone cui è affidata la cura della parte superiore del tempio: falegnami, ferrai, lavoratori dell’asfalto. Quasi nel mezzo del terrazzo è posta una fontana sempre aperta, dove Rua andò a bere.
Dalla piazza sottostante avevamo osservato le statue dei dodici apostoli che ornano l’alto cornicione della basilica. Da laggiù apparivano piccole, ma da vicino ci accorgemmo che il solo dito pollice del piede aveva la grossezza del corpo d’un uomo. Da ciò si può capire a quale altezza eravamo. Abbiamo anche visitato la campana maggiore che ha un diametro di oltre tre metri che significano tre trabucchi di circonferenza (c.ca 9 metri n.d.r.).

Una veduta per noi assai curiosa fu il giardino vaticano dove il papa suole andare a passeggiare a piedi. Si calcola che esso abbia la lunghezza che vi è da Porta Susa al principio di Via Po. A Sud si scorgevano vaste campagne. La nostra guida ci disse:
Tutto quel piano era coperto di soldati francesi quando vennero a liberare la nostra città dai ribelli. E ci indicava la basilica di S. Sebastiano, S. Pietro in Montorio, Villa Panfili, Villa Corsini, tutti edifici che soffrirono gravissimi danni per essere stati fatti campi di battaglia.
Una scaletta a chiocciola ai fianchi della cupola ci condusse su fino alla prima ringhiera. Da questo ripiano ci pareva di volare in alto e allontanarci da terra. La guida ci aprì una porticina la quale immetteva su una ringhiera interna che faceva il giro della cupola. L’ho voluta misurare, e camminando da buon viaggiatore ho contato 230 passi prima di completare il giro. Una curiosità: in qualsiasi punto della ringhiera ti trovi, parlando anche sottovoce con la faccia rivolta al muro, il più piccolo suono si comunica nitidamente da una parete all’altra. Abbiamo anche notato che i mosaici della chiesa che da sotto apparivano molto piccoli, da lì prendevano una forma gigantesca.
Coraggio, ci esortò la guida, se vogliamo vedere altre cose. Così infilammo un’altra scala a chiocciola e arrivammo alla seconda ringhiera. Qui ci pareva di esserci innalzati verso il Paradiso, e quando entrammo nella ringhiera interna e lasciammo cadere lo sguardo sul pavimento della basilica, ci rendemmo conto della straordinaria altezza cui eravamo giunti. Le persone che lavoravano o camminavano laggiù sembravano bambini. L’altare papale che è sormontato da un baldacchino di bronzo che in altezza sorpassa le più alte case di Torino, da lì pareva un semplice seggiolone.

L’ultimo piano sopra cui siamo saliti è quello che posa sopra la punta della cupola, da dove si gode forse la veduta più maestosa del mondo. Tutto intorno lo sguardo va a perdersi in un orizzonte formato dai limiti della vista umana. Dicono che guardando verso levante si può vedere il mare Adriatico, a ponente il Mediterraneo. Noi però abbiamo soltanto potuto scorgere la nebbia che il tempo piovoso dei giorni passati aveva sparso un po’ dovunque.

C’era rimasta la palla, un globo che da terra pare una delle bocce di cui ci serviamo per passare un po’ di tempo; da lì appariva grandissima. I più coraggiosi, passando per una scaletta perpendicolare e camminando come dentro a un sacco, si arrampicarono come gatti per l’altezza di due trabucchi, ossia sei metri. Alcuni non ebbero abbastanza coraggio. Noi, che eravamo un po’ più temerari, ci siamo riusciti. Dalla palla tutto appare meraviglioso. Mi avevano detto che avrebbe potuto contenere sedici persone; a me pareva però che ce ne potessero stare comodamente trenta. Alcuni buchi, quasi piccole finestre, permettono di osservare la città e le campagne. Ma la grande altezza dà una certa sensazione e non rende del tutto gradevole la visione. Pensavamo che lassù facesse freddo. Tutto il contrario: il sole battendo sul bronzo della palla la riscaldava a tal punto che ci sembrava essere in piena estate. Credo che questa sia una delle ragioni per cui dopo pranzo non è permesso salire fin lassù: per il caldo insopportabile. Qui dopo aver parlato di varie cose riguardanti i giovani dell’oratorio, soddisfatti della nostra impresa, quasi avessimo riportata una grande vittoria, abbiamo cominciato la discesa con passo lento e grave, per non romperci l’osso del collo, e senza più fermarci siamo arrivati a terra.

Per riposarci un po’ siamo andati ad ascoltare la predica che era iniziata proprio allora nella basilica. Il predicatore ci piacque. Buona lingua, bel gesto, ma il tema non ci interessò molto perché trattava dell’osservanza delle leggi civili. Quello però che non servì a nutrire lo spirito servì assai bene a dar riposo al corpo. Restandoci ancora un briciolo di tempo l’abbiamo impiegato a visitare la sacrestia che è una vera magnificenza degna di S. Pietro.
Intanto erano arrivate le undici e mezzo, e a causa del digiuno e del tanto camminare avevamo un grande appetito; perciò siamo andati a fare una piccola refezione. Rua non soddisfatto giudicò bene di andarsene a pranzo, così io rimasi solo col signor Carlo De Maistre, indivisibile compagno di quella giornata. Ristorati alquanto siamo andati a fare visita a monsignor Borromeo, maggiordomo di Sua Santità che ci accolse benissimo, e, dopo aver parlato del Piemonte e di Milano sua patria, si annotò i nostri nomi per inserirci sul catalogo delle persone che desiderano ricevere la palma dal Santo Padre nella funzione della Domenica delle Palme.

Ai famosi musei
Accanto alla loggia di questo prelato, intorno al cortile del palazzo pontificio ci sono i Musei Vaticani. Ci siamo entrati e abbiamo visto cose davvero eccezionali. Ne descrivo solo alcune. C’è una sala di lunghezza straordinaria arricchita di marmi e preziosissimi dipinti. In mezzo alla seconda arcata campeggia una acquasantiera di circa un metro e mezzo, formata di malachite, uno dei marmi più preziosi del mondo. È un dono fatto dall’imperatore di Russia al Sommo Pontefice. Ci sono vari altri oggetti di simile genere. In fondo a quella grande sala a sinistra si apre una specie di lungo corridoio che ospita il museo cristiano […] Nel medesimo si estende la Biblioteca Vaticana, dove si conservano i manoscritti più celebri dell’antichità […]

In giro per Roma
Dal Vaticano andando verso il centro di Roma siamo arrivati a piazza Scossacavalli ove lavorano gli scrittori del celebre periodico La Civiltà Cattolica. Ci siamo fermati a far loro una visita e abbiamo provato un vero piacere nell’osservare che i principali sostenitori di questa pubblicazione sono piemontesi. Sentivo ormai un vivo desiderio di tornare a casa, superando ogni indugio, ed eravamo quasi giunti al Quirinale, quando il signor Foccardi ci vide passare davanti la sua bottega e ci chiamò dentro. A forza di inviti e cortesia ci trattenne alquanto, e nel momento in cui chiedemmo di partire ci disse:
Ecco la vettura, vi accompagno fino a casa. Sebbene mi mettessi di mala voglia in vettura, tuttavia per compiacerlo accondiscesi. Ma il Foccardi desiderando trattenersi più a lungo con noi ci fece fare un lungo giro tanto che siamo arrivati a casa a notte inoltrata.

Qui mi venne consegnata una lettera. L’apro e la leggo. Si notifica al signor Abate Bosco che Sua Santità si è degnata di ammetterlo all’udienza domani, nove di marzo, dalle ore undici e tre quarti ad un’ora. Questa notizia, attesa e molto desiderata, mi procurò una rivoluzione interiore e per tutta la serata non riuscii a parlare d’altro se non del Papa e dell’udienza.

L’udienza papale. S. Maria sopra Minerva
Era arrivato il 9 marzo, il grande giorno dell’udienza papale. Prima però avevo bisogno di parlare col cardinale Gaude; perciò mi recai a dire messa nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, dove il porporato aveva la sua dimora. Anticamente era un tempio che Pompeo il Grande aveva fatto edificare alla dea Minerva; fu chiamata S. Maria sopra Minerva perché fu fabbricata precisamente sopra le rovine di questo tempio. L’anno 750 papa Zaccaria la donò ad un convento di monache greche. L’anno 1370 passò ai padri predicatori che tuttora la officiano. Dinanzi a questa chiesa si apre una piazza ove abbiamo ammirato un obelisco egizio con geroglifici, la cui base poggia sul dorso di un elefante di marmo. Entrati abbiamo potuto ammirare uno degli edifici sacri più belli di Roma. Sotto l’altare maggiore riposa il corpo di S. Caterina da Siena. Celebrata la messa e recatomi con tutta fretta dal cardinale Gaude, gli parlai, quindi partimmo alla volta del Quirinale.

Il piccolo bugiardo
Lungo la via abbiamo incontrato un ragazzo che con buona grazia ci chiese l’elemosina e per farci conoscere la sua condizione ci disse che suo padre era morto, sua madre aveva cinque figlie e che egli sapeva parlare italiano, francese e latino. Meravigliato, gli indirizzai un discorso in francese a cui diede per risposta un solo oui senza né intendere quel che dicevo, né articolare altre espressioni; lo invitai allora a parlare latino, ed egli senza badare alle mie parole si mise a recitare a memoria le seguenti parole: ego stabam bene, pater meus mortuus est l’annus passatus et ego sum rimastus poverus. Mater mea etc. Qui non abbiamo più potuto trattenere le risa. Però l’abbiamo poi avvertito di non dire bugie e gli abbiamo regalato un baiocco.

L’anticamera
Intanto l’ora dell’udienza si avvicinava […] Giunti in Vaticano, salimmo le scale macchinalmente. Ovunque c’erano le guardie nobili, vestite da sembrare tanti principi. Al piano nobile ci aprirono la porta che introduceva nelle sale pontificie. Guardie e camerieri, abbigliati con gran lusso, ci salutavano con profondi inchini. Consegnato il biglietto per l’udienza, fummo condotti di sala in sala fino all’anticamera papale. Siccome vi erano parecchi altri che attendevano, abbiamo aspettato circa un’ora e mezzo prima di essere ricevuti.

Quel tempo l’abbiamo impiegato a osservare le persone e il posto dove ci trovavamo. I domestici del Papa erano vestiti quasi come i vescovi dei nostri paesi. Un monsignore, cui si dà il titolo di prelato domestico introduceva a turno le persone per l’udienza man mano che finiva quella precedente. Abbiamo ammirato grandi sale ben tappezzate, maestose, ma senza lusso. Un semplice tappeto di panno verde copriva il pavimento. Le tappezzerie erano di seta rossa ma senza ornati. Le sedie di legno duro. Un seggiolone posto sopra un palchetto alquanto elegante indicava che quella era la sala pontificia. Tutto questo ci ha fatto piacere, perché coi nostri occhi abbiamo potuto renderci conto della falsità delle dicerie che taluni vanno spargendo contro lo spazio e il lusso della corte pontificia. Mentre eravamo immersi in vari pensieri, suonò il campanello, e il prelato ci fece cenno di avanzare per presentarci a Pio IX. In quel momento io rimasi veramente confuso e dovetti farmi violenza per rimanere calmo.

Pio IX
Rua mi seguì recando una copia delle Letture Cattoliche. Entrati, facemmo la genuflessione all’inizio, poi a metà della sala, infine, la terza, ai piedi del Papa. Cessò ogni apprensione quando scorgemmo nel Pontefice l’aspetto di un uomo affabile, venerando, e al tempo stesso il più bello che potesse dipingere un pittore. Non gli potemmo baciare il piede, perché era seduto al tavolino; gli baciammo però la mano, e Rua, memore della promessa fatta ai chierici, la baciò una volta per sé e una volta per suoi compagni. Allora il Santo Padre fece segno di alzarci e metterci davanti a lui. Io, secondo l’etichetta, avrei voluto parlare restando in ginocchio.
No, egli disse, alzatevi pure. Conviene qui notare che nell’annunziarci al Papa fu letto male il nostro nome. Infatti invece di scrivere Bosco era stato scritto Bosser, perciò il Papa cominciò ad interrogarmi:
– Voi siete piemontese?
– Sì, Santità, sono piemontese, e in questo momento provo la più grande consolazione della mia vita, trovandomi ai piedi del Vicario di Cristo.
– Di che cosa vi occupate?
– Santità, io mi occupo dell’istruzione della gioventù e delle Letture Cattoliche.
– L’istruzione della gioventù è stato un apostolato utile in tutti i tempi, ma oggi lo è molto di più.
C’è anche un altro a Torino che si occupa di giovani. Allora mi accorsi che il Papa aveva sottomano un nome sbagliato, ma, senza saper come, anche lui si rese conto che io non ero Bosser, ma Bosco; così assunse un aspetto molto più festoso, e chiese tante cose riguardanti i giovani, i chierici, gli oratori […] Quindi con volto ridente mi disse:
– Mi ricordo dell’offerta mandatami a Gaeta e dei teneri sentimenti con cui quei giovani l’accompagnarono. Approfittai per esprimergli l’attaccamento dei nostri giovani alla sua persona e lo pregai di gradire una copia delle Letture Cattoliche:
– Santità, gli dissi, le offro una copia dei volumetti finora stampati a nome della direzione; la legatura è opera dei giovani della nostra scuola.
– Quanti sono questi giovani?
– Santità, i giovani della casa sono circa duecento, i legatori sono quindici.
Bene, egli rispose, voglio mandare una medaglia a ciascuno. Quindi andato in un’altra stanza, dopo brevi istanti tornò portando quindici piccole medaglie della Concezione:
Queste saranno per i giovani legatori, disse mentre me le porgeva. Rivoltosi poi a Rua, gliene diede una più grande dicendo:
Questa è per il suo compagno. Quindi rivoltosi nuovamente a me, mi porse una piccola scatola che ne rinchiudeva un’altra più grande:
E questa è per voi. Essendoci inginocchiati per ricevere i regali, il Santo Padre ci invitò ad alzarci, e credendo poi che volessimo partire, stava per congedarci, quando io presi a parlargli così:
– Santità, avrei qualche cosa di particolare da comunicarle.
Va bene, rispose […].
Il Santo Padre è speditissimo nel capire le domande e prontissimo nel dare le risposte, perciò con lui si tratta in cinque minuti quello che con altri richiederebbe oltre un’ora. Tuttavia la bontà del Papa e il mio vivo desiderio di trattenermi con lui prolungarono l’udienza di oltre mezz’ora, tempo assai considerevole sia riguardo alla sua persona sia riguardo all’ora del pranzo che per nostra cagione le era ritardato […].

Il Gianicolo
Alle 13,30 del 10 marzo il padre Giacinto dei Carmelitani Scalzi passava a prenderci con un calesse per trasportarci alla basilica di S. Pancrazio e di S. Pietro in Montorio. Sono due chiese situate sul Gianicolo, chiamato così a causa di Giano che dicono vi abitasse. Sulla sommità di questo colle al di là del Tevere, è situata la basilica di S. Pancrazio, costruita da papa Felice II nel 485, circa 100 anni dopo il martirio di Pancrazio. Il generale Narsete, vinti i Goti, fece una solenne processione insieme con papa Pelagio da S. Pancrazio a S. Pietro. San Gregorio Magno che aveva grande venerazione per questa chiesa vi celebrò più volte la messa e vi tenne alcune omelie, infine la donò ai monaci benedettini. Nel 1673 venne affidata ai Carmelitani Scalzi col convento annesso e un seminario per le missioni delle Indie […]

Sotto l’altare maggiore, vi è un altro altare sotterraneo dove anticamente veniva conservato il corpo del Santo, protetto da una cancellata di ferro. C’era l’usanza di condurre quelli che erano sospettati di spergiuro davanti a questa cancellata, perché se erano colpevoli venivano presi da un vistoso tremolio o da altro accidente.

Le Catacombe
Venite con me, ci disse il padre Giacinto, andremo nelle catacombe. Aveva approntato un lume per ciascuno. Noi ci siamo messi a seguirlo. A metà chiesa sul pavimento ci indicò una botola. Alzato il coperchio apparve una cavità oscura e profonda: cominciavano le catacombe. All’entrata era scritto in latino: “In questo luogo è stato decollato il martire di Cristo Pancrazio”. Eccoci nelle catacombe. Immaginatevi lunghi corridoi ora più stretti e più bassi, ora più alti e spaziosi, ora tagliati da altri corridoi, ora in discesa, ora in salita, e avrete la prima idea di questi sotterranei. A destra e a sinistra vi sono piccole tombe scavate parallelamente nel tufo. Qui anticamente venivano seppelliti i cristiani, soprattutto i martiri. Quelli che avevano dato la vita per la fede erano designati con emblemi particolari. La palma era segno della vittoria riportata contro i tiranni; l’ampolla indicava che aveva sparso il sangue per la fede; il “” significava che era morto nella pace del Signore oppure che aveva patito per Cristo. In altri comparivano gli strumenti con cui erano stati martirizzati. Talvolta questi emblemi erano chiusi nella piccola tomba del santo. Quando non infierivano molto le persecuzioni si scriveva nome e cognome del martire e qualche riga che sottolineava qualche importante circostanza della sua vita. […]
Ecco, ci disse la guida, questo è il luogo dov’era sepolto san Pancrazio, accanto a lui san Dionigi suo zio e qui vicino un altro suo parente. Poi abbiamo visitato alcune tombe riunite in una cameretta sulle cui pareti si vedevano iscrizioni antiche che non abbiamo saputo leggere. In mezzo alla volta era dipinto un giovane che ci parve rappresentasse san Pancrazio […]

Stavolta la guida ci indicò una cripta. Cripta, parola greca, vuol dire profondità. È uno spazio più grande dell’ordinario dove i cristiani solevano radunarsi, in tempo di persecuzione, per ascoltare la Parola, assistere alla messa, e alle funzioni sacre. In un lato c’è ancora un altare antico dove è possibile celebrare. Per lo più era la tomba di qualche martire a servire da altare. Fatto un po’ di cammino ci fu mostrata la cappella dove san Felice papa era solito riposarsi e celebrare l’Eucarestia. Il suo sepolcro è a poca distanza. Ovunque si vedevano scheletri umani ridotti in pezzi dal tempo. La nostra guida ci assicurò che di lì a poco saremmo arrivati a un luogo dove si conservavano lapidi con le iscrizioni intatte.

Ma eravamo molto stanchi, anche perché l’aria sotterranea, e le difficoltà del cammino – ognuno doveva badare a non sbattere il capo, non urtare con le spalle e non scivolare coi piedi – ci avevano affaticano non poco. La guida ci avvertiva che i sotterranei sono moltissimi e alcuni giungono fino alla lunghezza di quindici/venti miglia. Se fossimo andati da soli avremmo potuto cantare il requiescant in pace, perché sarebbe stato assai difficile ritrovare la strada per tornare all’aperto. La nostra guida però era molto pratica e in breve ci ricondusse al punto da dove eravamo partiti […]

San Pietro in Montorio
Saliti di nuovo in vettura col padre Giacinto ci avviammo giù dal Gianicolo per andare a S. Pietro in Montorio. La parola è una corruzione di “monte d’oro”, perché qui il terreno e la ghiaia assumono un colore giallo simile all’oro. Fu anche chiamato Castro Aureo, fortezza d’oro, per gli avanzi della rocca di Anco Marzio ancora esistenti sulla vetta. È una delle chiese fondate da Costantino il Grande, ricca di statue, dipinti e marmi. Tra la chiesa e il convento annesso si staglia un edificio chiamato Tempietto di Bramante di forma rotonda. Si tratta di uno dei più insigni lavori del Bramante. Esso venne edificato sul luogo dove fu martirizzato san Pietro. Sul retro una scaletta conduce in una cappella sotterranea circolare, in mezzo alla quale c’è un foro ove arde continuamente un lume. È il posto dove fu incastrata la cima della croce su cui san Pietro fu inchiodato a testa in giù. La chiesa è situata dove ha termine il Gianicolo e comincia il Vaticano.

Vicino a S. Pietro in Montorio è ubicata la magnifica Fontana Paolina, da Paolo V che l’ha fatta costruire nel 1612. L’acqua sgorga da tre colonne che sembrano un fiume. Arriva fin lì da Bramario, un luogo a 35 miglia da Roma. Queste acque, precipitando, servono a far girare macine da molino ed altre macchine e si diramano con gran vantaggio in vari punti della città […].

Una disavventura
L’11 marzo, siamo stati occupati a scrivere e fare commissioni. Merita un ricordo l’episodio dello smarrimento per Roma. Andai a fare una visita a monsignor Pacca, prelato domestico di Sua Santità. Al ritorno ero accompagnato da padre Bresciani avendo mandato Rua a cercare padre Botandi a Ponte Sisto. Il buon Bresciani mi condusse fino all’accademia della Sapienza quindi mi indicò dove passare per arrivare al Quirinale:
Attraversi questa contrada, poi si tenga sempre a destra. Io invece di prendere a destra presi a sinistra, sicché dopo un’ora di cammino mi sono ritrovato in Piazza del Popolo, distante quasi un miglio da casa. Povero me! Almeno avessi avuto Rua insieme, ci saremmo potuti consolare a vicenda, ma ero solo. Il tempo era nuvoloso, soffiava un vento gagliardo e cominciava a piovere. Che fare? Dormire in mezzo a quella piazza mi rincresceva, perciò con tutta pazienza salii sul Pincio, chiamato così dal palazzo di un signore detto Pincio […]. Questo monte non è molto abitato e non è uno dei sette colli di Roma […]

S. Andrea della Valle
Venerdì 12 sono andato a celebrare la messa a S. Andrea della Valle per distinguerlo da altre chiese consacrate al medesimo Apostolo. Valle gli fu aggiunto sia perché la basilica si trova nel punto più basso di Roma sia anche a causa di un palazzo appartenente alla famiglia Valle. Anticamente la chiesa era dedicata a san Sebastiano che aveva qui sofferto il martirio. Vicino ne fu costruita un’altra dedicata a san Luigi re di Francia. Ma l’anno 1591 un ricco signore di nome Gesualdo la fece ristrutturare rinnovandone interamente il disegno. Essa è una delle prime chiese di Roma. La sua cupola misura 64 palmi di diametro, e perciò dopo S. Pietro in Vaticano è la cupola più ampia di tutte le altre della città.
La prima cappella entrando a sinistra ha un cancello di ferro che indica il punto della cloaca in cui si crede sia stato gettato il corpo di san Sebastiano martire. Quasi in faccia a questa chiesa vi è il palazzo Stoppani che servì di abitazione all’imperatore Carlo V quando venne a Roma, come appare da un’iscrizione sul muro ai piedi della scala.

S. Gregorio Magno
Un’ora e mezza dopo mezzogiorno col signor Francesco De Maistre, nostra guida, siamo partiti per visitare la chiesa di S. Gregorio Magno. Essa è edificata sopra una parte del monte Celio detto anticamente clivus Scauri, cioè discesa di Scauro, ed era la casa abitata da san Gregorio e dai suoi. Fu proprio lui a convertirla in monastero, dove poi dimorò fino all’anno 590, all’inizio come semplice monaco, quindi come Abate. Quando fu eletto pontefice (nel 590) dedicò quell’edificio all’apostolo sant’Andrea, trasformando una parte dei locali ad uso di chiesa. Dopo la sua morte essa venne dedicata a lui medesimo.

È certamente una delle più belle chiese di Roma. La prima cappella entrando a sinistra è dedicata a santa Silvia, madre di san Gregorio. L’ultima a destra è quella del Sacramento, sul cui altare celebrava lo stesso san Gregorio. […]. Questo altare, venerabile per il titolo e il patrocinio del santo Papa, fu reso celebre in tutto il mondo dai privilegi concessi da molti pontefici. Capitò che un monaco del monastero avendo per comando del santo offerto la messa per trenta giorni continui in suffragio dell’anima di un suo fratello defunto, un altro monaco la vide liberata dalle pene del purgatorio.

Accanto a questa cappella ne esiste un’altra più piccola, dove san Gregorio si ritirava per riposarsi. Si fa vedere ancora con precisione il luogo dove era il suo letto. Lì accanto c’è la sedia di marmo sopra cui sedeva sia quando scriveva che quando annunziava la parola di Dio al popolo.
Passato l’altare maggiore s’incontra la cappella che custodisce un’immagine della Madonna molto antica e prodigiosa. Si crede che sia quella che il Santo teneva in casa e ogni volta che le passava davanti la salutasse dicendo “Ave, Maria”. Un giorno però il buon Pontefice per la fretta che aveva a causa di alcuni affari urgenti, uscendo non indirizzò alla Vergine il consueto saluto. Ed Ella gli fece questo dolce rimprovero: “Ave, Gregori”, con le quali parole lo invitava a non dimenticare quel saluto che a lei tornava tanto gradito.

In un’altra cappella troneggia la statua di san Gregorio, un lavoro progettato e diretto da Michelangelo Buonarroti. Il Santo è seduto sul trono con una colomba vicino all’orecchio, che ricorda quanto asserisce Pietro Diacono, famigliare del Santo, cioè che ogni qualvolta che Gregorio predicava o scriveva, sempre una colomba gli parlava all’orecchio. Al centro della cappella è collocata una grande tavola di marmo sopra la quale il Pontefice ogni giorno offriva da mangiare a dodici poveri servendoli di propria mano. Un giorno sedette a mensa con gli altri un angelo sotto forma di giovanetto, che poi ad un tratto disparve. Da allora il Santo aumentò a tredici il numero dei poveri da lui sfamati. Così ebbe origine l’usanza di porre tredici pellegrini alla tavola che nel giovedì santo il Papa ogni anno serve di sua mano. Sopra la tavola è inciso il distico seguente: “Qui Gregorio sfamava dodici poveri; un angelo sedette a mensa e compì il numero di tredici”.

Santi Giovanni e Paolo
Uscendo da questa chiesa e voltando a destra s’incontra quella dei Santi Giovanni e Paolo. L’imperatore Gioviano permise al monaco san Pammacchio di costruirla nel 400 in onore di questi due fratelli martiri. Essa fu edificata sopra la loro abitazione proprio dove subirono il martirio. Venne poi restaurata da san Simmaco Papa verso il 444 […] Entrando si presenta allo sguardo un maestoso edificio. Nel mezzo una cancellata di ferro delimita il luogo dove i santi furono uccisi. I loro corpi, chiusi in un’urna preziosa, riposano sotto l’altare maggiore. Nella cappella accanto, sotto l’altare, viene custodito il corpo del beato Paolo della Croce, fondatore dei passionisti, ai quali è affidata la chiesa. Questo servo di Dio è un piemontese, nato a Castellazzo nella diocesi di Alessandria. Morì nel 1775 all’età di 82 anni. I molti miracoli che a Roma e altrove accadono per sua intercessione, hanno fatto crescere la congregazione dei passionisti, così chiamati a motivo del quarto voto che essi fanno, cioè promuovere la venerazione verso la passione del Signore.

Uno di quei religiosi, un genovese, fra Andrea, dopo averci accompagnati a vedere le cose più importanti della chiesa ci portò in convento, un bell’edificio che ospita una ottantina di padri in gran parte piemontesi.
Questa, ci disse fra Andrea, è la camera in cui morì il nostro santo Fondatore. Ci siamo entrati ed abbiamo in devoto raccoglimento ammirato il luogo d’onde partì l’anima sua per volare al cielo.
Là c’è la sedia, gli abiti, i libri ed altri oggetti che servirono ad uso del Beato. Ogni cosa è posta sotto sigillo e si distribuiscono come reliquie ai fedeli cristiani. Quella camera oggi è una cappella dove si celebra la messa.

Archi di Costantino e Tito
Dato un saluto al cortese fra Andrea, ci siamo avviati verso S. Lorenzo in Lucina. Ma fatta un po’ di strada ci siamo ritrovati sotto all’Arco di Costantino. Esso si è conservato quasi integro. Un’iscrizione del senato e del popolo romano indica che fu dedicato all’imperatore Costantino in occasione della vittoria riportata sopra il tiranno Massenzio. Questo imperatore, divenuto cristiano, fece collocare sopra l’arco una statua con una croce in mano in memoria della croce apparsagli davanti all’esercito, per ricordare a tutto il mondo che egli professava la religione di Gesù crocifisso.
Fatto un altro tratto di strada ecco un altro arco, quello Arco di Tito. Esistono tre archi a Roma e quello di Tito è il più antico ed elegante. È arricchito da bassorilievi che commemorano le varie vittorie riportate da quel prode guerriero: tra essi è scolpito il candelabro del tempio di Gerusalemme in memoria della caduta di quella città e del suo tempio. Sotto quest’arco passava la celebre Via Sacra, una delle più antiche di Roma, così chiamata perché attraverso questa si portavano ogni mese le cose sacre sulla Rocca, e veniva percorsa dagli àuguri per recarsi a prendere i loro responsi.

Giunti a S. Lorenzo in Lucina non riuscimmo a entrare a motivo dei lavori che vi si eseguivano […] Questa chiesa è una delle più vaste parrocchie di Roma, e fu eretta da Sisto III col consenso dell’imperatore Valentiniano in onore di san Lorenzo martire. Per distinguerlo dalle altre chiese innalzate a questo levita, fu denominata in Lucina o dalla santa martire di tal nome, o forse dal luogo che così si chiamava. Annesso a questa chiesa verso il corso è il palazzo Ottobuoni, fabbricato verso l’anno 1300 sopra le rovine di un grande edificio antico chiamato Palazzo di Domiziano. Essendo ormai stanchi e avvicinandosi l’ora del pranzo siamo tornati a casa […].

Santa Maria degli Angeli
 […] Il 13 marzo la stazione quaresimale era a S. Maria degli Angeli, e noi ci siamo andati sia per guadagnare l’indulgenza plenaria, sia anche per pregare Dio a favore della nostra casa. Questa chiesa è distinta da un’altra del medesimo nome con l’aggiunta alle Terme di Diocleziano, perché è costruita sul luogo dove anticamente s’innalzavano le famose terme ossia i bagni dell’imperatore Diocleziano. Il sommo pontefice Pio IV diede incarico a Michelangelo Buonarroti che col vasto suo ingegno seppe trasformare in chiesa una parte di quei superbi edifici. In un salone delle terme esisteva già una chiesetta dedicata a san Cirillo martire. Questa fu rinchiusa nella nuova chiesa, che il Pontefice dedicò a santa Maria degli Angeli, per compiacere il duca e re di Sicilia devotissimo degli Angeli, che cooperò assai alla sua edificazione.

Nel giorno della stazione quaresimale la chiesa è ornata con speciale eleganza, e si espongono alla pubblica venerazione le reliquie più insigni. In una cappella accanto all’altare maggiore era posto il reliquiario con moltissime reliquie tra le quali abbiamo notato i corpi di san Prospero, san Fortunato, san Cirillo, inoltre la testa di san Giustino e di san Massimo martiri e di moltissimi altri. Appagata così la nostra devozione siamo giunti a casa verso le sei assai stanchi e con buon appetito.

Santa Maria della Quercia
Domenica 14 marzo abbiamo celebrato in casa, poi siamo andati a visitare un oratorio, secondo le indicazioni avute dal marchese Patrizi. La chiesa dove si radunano i giovani si chiama S. Maria della Quercia. Eccone l’origine, che risale ai tempi di Giulio II. Un’immagine di Maria era stata dipinta su una tegola da un certo Battista Calvaro, che la pose sopra una quercia entro una sua vigna a Viterbo. Questa immagine rimase nascosta sessant’anni, fino a quando nel 1467 cominciò a manifestarsi con tante grazie e miracoli che i fedeli che l’andavano a visitare, con le loro offerte innalzarono una chiesa e un monastero. Papa Giulio II desiderò che anche a Roma ci fosse un tempio dedicato a Maria della Quercia, che è quello di cui parliamo.
Entrati in chiesa, e arrivati nella spaziosa sacrestia, fummo rallegrati dalla vista di una quarantina di giovanetti. Per la vivacità del comportamento assomigliano molto ai birichini del nostro oratorio. Le loro sacre funzioni si compiono tutte al mattino. Messa, confessione, catechismo e una breve istruzione è quanto si fa per loro […]

Dopo mezzogiorno i giovani vanno a S. Giovanni dei Fiorentini, un altro oratorio dove c’è solo ricreazione senza funzioni di chiesa. Ci siamo andati ed abbiamo visto circa un centinaio di giovani che si divertivano a più non posso. I loro giuochi erano la tombola e la campana, conosciute anche da noi. Praticano pure il giuoco del buco che consiste in cinque buchi alquanto capaci entro cui si mettono due castagne o altra cosa. Da una distanza di sei passi si fa rotolare una boccia. Chi riesce a farla entrare in uno dei buchi guadagna quello che c’è dentro. Ci dispiacque molto che essi non avessero altro che la ricreazione. Se ci fosse qualche prete in mezzo a loro, costui potrebbe fare del bene alle loro anime, perché ce n’è grande bisogno. Tanto più ci rincrebbe in quanto abbiamo trovato in costoro buone disposizioni. Parecchi provavano piacere a dialogare con noi, baciando più volte la mano tanto a me che a Rua, il quale suo malgrado era costretto ad acconsentire […]

Tornati a casa ricevemmo la visita di monsignor Merode, maestro di camera di Sua Santità. Dopo alcuni convenevoli, costui mi annunciò che il Santo Padre mi invitava a predicare gli esercizi spirituali alle detenute nelle carceri presso S. Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano. Ogni desiderio del Papa è per me un comando e quindi accettai con vero piacere […]

Al carcere femminile
Alle due pomeridiane mi recai dalla superiora del carcere per combinare il giorno e l’ora in cui iniziare la predicazione. Ella mi disse:
Se per lei va bene può cominciare subito, poiché le donne sono in chiesa e non c’è nessuno che predichi. Così ho cominciato subito e la settimana fu quasi interamente dedicata a questo ministero. La casa correzionale si chiama Alle Terme di Diocleziano perché è situata nel medesimo luogo dove erano le terme di quel famoso imperatore. Vi erano ospitate 260 detenute colpevoli di gravi delitti e condannate alla galera […]. Gli esercizi andarono con soddisfazione. La predicazione semplice e popolare che usiamo tra noi riuscì fruttuosa in questo carcere. Al sabato, dopo l’ultima predica, la madre superiora mi annunziò con gran piacere che nessuna delle condannate aveva omesso di accostarsi ai Sacramenti.

Due episodi
Un piacevole episodio accadde al Santo Padre in questa settimana. Il conte Spada, andò a fargli visita, e s’intavolò questa conversazione:
– Santità, io vorrei chiederle un ricordo di questa visita.
– Chiedete quel che volete e cercherò di accontentarvi.
– Vorrei qualcosa di straordinario.
– Bene, domandate pure.
– Santità, desidererei per ricordo la vostra tabacchiera.
– Ma è piena di un tabacco di qualità infima.
– Non importa; la terrò molto cara.
– Prendetela pure, ve ne faccio un dono con piacere
. Il conte Spada partì più contento di quella tabacchiera che di un gran tesoro. Essa è semplice, di corno di bufalo, unita con due anelli di ottone e non vale quattro soldi, ma è preziosissima per la provenienza. Il buon conte la mostra ai suoi amici come un oggetto degno di venerazione […]

Un altro aneddoto mi fu raccontato di questo venerando Pontefice. L’anno scorso mentre il Santo Padre viaggiava attraverso i suoi stati si trovò nelle vicinanze di Viterbo. Una ragazzina con un fascio di legna, vedendo che la vettura pontificia s’era fermata, pensò che quei signori volessero comperare la sua fascina. Corse verso di loro:
Signore, disse al Santo Padre, compratela, il legno è molto secco.
Non ne abbiamo bisogno, rispose il Papa.
– Comperatela ve la do per tre baiocchi.
Prendi i tre baiocchi e tieni pure la tua fascina. Il Santo Padre le diede tre scudi, quindi si apprestò a risalire in vettura. Ma la ragazzina voleva che il Santo Padre prendesse la sua fascina.
Prendetela, sarete contenti; nella vostra vettura c’è posto abbondante. Mentre il Papa e la sua corte ridevano di un tale affare, la madre della ragazza, che lavorava in un campo vicino, accorse gridando:
Santo Padre, Santo Padre, perdonate; questa povera ragazza è mia figlia. Essa non vi conosce. Abbiate pietà di noi che siamo in grande miseria. Il Papa aggiunse ancora sei scudi e continuò il cammino […]

San Paolo fuori le Mura
Il giorno 22 marzo domenica Don Bosco andò dal cardinale vicario, l’eminentissimo Costantino Patrizi […] Uscito dal Vicariato, peregrinò fino a S. Paolo fuori le Mura per venerare il sepolcro del grande Apostolo delle Genti e ammirare le meraviglie di quel tempio immenso. Dopo un miglio di strada, arrivò al celebre luogo denominato Ad Aquas Salvias, dove san Paolo diede il sangue per Gesù Cristo. Proprio in questo punto, in cui sono tre miracolose sorgenti d’acqua, sgorgate nelle zolle sulle quali fece tre balzi il capo troncato del santo Apostolo, è stata costruita una chiesa. Don Bosco pregò anche nella chiesa vicina di Sancta Maria Scala Coeli, di forma ottagonale, edificata sul cimitero di san Zenone, un tribuno che subì il martirio sotto Diocleziano, assieme a 10.203 suoi commilitoni […]

Il Colosseo
Il 23 marzo il suo sguardo sbalordito contemplò le gigantesche rovine dell’anfiteatro Flavio o Colosseo, di forma ovale con 527 metri di circonferenza esterna, e alto ancora in alcuni tratti cinquanta metri. Nei tempi del suo splendore era coperto di marmi, ornato di colonnati, di centinaia di statue, di obelischi, di quadrighe di bronzo; e nell’interno sosteneva tutto all’intorno immense gradinate, che potevano contenere circa 200.000 persone, per assistere ai combattimenti delle bestie feroci e dei gladiatori, e alle stragi di migliaia e migliaia di martiri. Don Bosco entrò nell’arena degli spettacoli che misura 241 metri di circonferenza […]

San Clemente
Il 24 Don Bosco si recò alla basilica di S. Clemente per venerare le reliquie del quarto papa dopo san Pietro, e quelle di sant’Ignazio martire, vescovo di Antiochia; come anche per ammirare l’architettura dell’antichissima chiesa a tre navate. In quella di mezzo, davanti all’altare della Confessione, un recinto di marmo bianco delimita il coro per il clero minore. È dotato di due pulpiti, uno per il canto del vangelo, presso il quale si alza la colonnina del cero pasquale, e l’altro per la lettura dell’epistola. A fianco di quest’ultimo era posto il leggio per i cantori e lettori delle profezie e degli altri libri delle scritture; intorno all’abside le sedi dei sacerdoti, e, in fondo al centro su tre gradini, la cattedra episcopale […].

Da qui Don Bosco procedette verso la chiesa dei Quattro Coronati, per visitare i sepolcri dei martiri Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, uccisi sotto Diocleziano. Passò poi a S. Giovanni davanti alla Porta Latina, presso la quale sorge una cappella sul luogo dove san Giovanni Evangelista fu immerso nella caldaia d’olio bollente; da lì s’inoltrò fino alla chiesina del Quo Vadis, così chiamata perché in quel punto il Signore apparve a san Pietro che usciva da Roma per sottrarsi alla persecuzione:
Signore, dove vai? gridò l’Apostolo stupito. E Gesù gli rispose:
Vengo per essere crocifisso un’altra volta. San Pietro comprese, e ritornò a Roma dove lo aspettava il martirio. Da questo tempietto Don Bosco rifece la strada, dopo aver dato uno sguardo alla via Appia, lungo la quale si contano moltissimi mausolei dei tempi del paganesimo, che ricordano la fine di ogni grandezza umana.

Don Bosco… salesiano!
Una scena graziosa accadde la mattina del 25 marzo. Don Bosco, passato il Tevere, vide in una piccola piazza una trentina di ragazzi che si divertivano. Senz’altro si portò in mezzo a loro, che, sospesi i giochi, lo guardavano meravigliati. Egli alzò allora la mano tenendo fra le dita una medaglia, poi esclamò:
Siete troppi e mi rincresce di non aver tante medaglie per regalarne una a ciascuno di voi. Quelli, fattosi coraggio, protendendo le mani gridavano a gran voce:
Non importa, non importa… a me, a me! Don Bosco soggiunse:
– Ebbene, non avendone per tutti, questa medaglia voglio regalarla al più buono. Chi è di voi il più buono?
– Sono io, sono io! schiamazzarono tutti insieme
. Egli continuò:
– Come posso fare io, se siete tutti ugualmente buoni? Allora la darò al più discolo! Chi fra di voi è il più discolo?
– Sono io, sono io!
risposero con grida assordanti.
Il marchese Patrizi e i suoi amici, ad una certa distanza, sorridevano commossi e stupiti nel vedere Don Bosco trattare così famigliarmente con quei ragazzi, che per la prima volta aveva incontrati; ed esclamavano:
– Ecco un altro san Filippo Neri, amico della gioventù. Don Bosco infatti, come se fosse stato un amico già conosciuto da quei fanciulli, continuò ad interrogarli, se avessero già ascoltata la Messa, in quale chiesa solessero andare, se frequentassero gli oratori che erano in quelle parti […] Il dialogo era animato. Don Bosco, dopo averli esortati ad essere sempre buoni cristiani, promise che sarebbe passato altra volta per quella piazza e avrebbe regalato una medaglia ciascuno; poi, salutatili affettuosamente, tornò dai suoi accompagnatori mostrando la medaglia. Non aveva dato nulla ai ragazzi, eppure li aveva lasciati contenti.

Santo Stefano Rotondo
Il 26 marzo Don Bosco ritornò al Celio nella spaziosa chiesa di S. Stefano Rotondo, chiamata così per la sua forma. Il cornicione circolare è sostenuto da 56 colonne. Tutt’intorno alle pareti sono dipinte le scene degli atroci supplizi coi quali furono straziati i martiri. È ornata da mosaici del secolo VII, che rappresentano Gesù crocifisso, con alcuni santi, e conserva i corpi di due confessori della fede: san Primo e san Feliciano. Da lì D. Bosco passò a S. Maria in Dominica, o della Navicella, per una barca di marmo che sta sulla piazza antistante. Ha tre navate spartite da 18 colonne e contiene mosaici del secolo IX. Fra questi la Vergine è al posto d’onore fra molti angeli e ai suoi piedi è inginocchiato papa Pasquale […]

Intanto il Santo Padre aveva espresso il desiderio che Don Bosco assistesse in Vaticano al devoto e magnifico spettacolo delle funzioni della Settimana Santa. Quindi aveva dato incarico a monsignor Borromeo di invitarlo a nome suo, e di procurargli un posto dal quale potesse assistere comodamente ai sacri riti. Il monsignore lo fece ricercare tutto il giorno senza esito. Finalmente, a ora tardissima, il messo lo trovò a casa De Maistre dov’era tornato dopo una giornata di visite. Dicendo che veniva per ordine del Papa, fu introdotto e presentò a Don Bosco la lettera d’invito, con la quale era ammesso a ricevere la palma benedetta dalle mani stesse del Papa. Don Bosco la lesse subito ed esclamò che sarebbe andato con gran piacere.

Pasqua Romana di don Bosco. La Domenica delle Palme
Domenica 28 marzo, col chierico Rua, entrò nella basilica di San Pietro molto prima che incominciassero le funzioni. Il conte Carlo De Maistre lo accompagnò al suo posto, nella tribuna dei diplomatici. Egli era attentissimo poiché conosceva l’importanza delle cerimonie della Chiesa. Al suo fianco stava un milord inglese protestante, meravigliato di tanta solennità. A un certo punto un cantore della cappella Sistina eseguì un assolo così bene che Don Bosco ne restò commosso fino alle lacrime e quel milord volgendosi a lui esclamò in latino, perché in altra lingua non sapeva come farsi intendere:
Post hoc paradisus! Quel signore dopo qualche tempo si convertì al cattolicesimo non solo, ma divenne prete e vescovo. Benedette le palme, a turno il corpo diplomatico sfilò davanti al Pontefice, e ogni ambasciatore e ministro ricevette la palma dalle sue mani. Anche Don Bosco e il chierico Rua s’inginocchiarono ai piedi del Papa e ricevettero la palma. Così volle Pio IX: non era forse Don Bosco ambasciatore di Dio? Il chierico Rua, ritornato presso i Rosminiani, regalò la sua al padre Pagani, che la gradì molto […]

Don Bosco caudatario
Il cardinale Marini, uno dei due assistenti al trono, perché Don Bosco potesse assistere a tutte le funzioni della settimana santa, lo prese come caudatario. Così egli in veste violacea stette quasi a fianco del Papa per tutto il tempo, e poté gustare i canti gregoriani e le musiche dell’Allegri e del Palestrina.
Il giovedì santo pontificò il cardinale Mario Mattei, essendo il più anziano dei vescovi suburbicari, invece del cardinale decano che era impedito. D. Bosco seguì il Pontefice che processionalmente portava il SS. Sacramento nella cappella Paolina per riporlo dentro l’urna appositamente preparata; lo accompagnò fin sulla loggia vaticana dalla quale il Papa benedice Roma e il mondo; assistette alla lavanda dei piedi fatta dal Pontefice a tredici sacerdoti, e partecipò alla loro cena commemorativa, servita dallo stesso Vicario di Gesù Cristo.

La benedizione Urbi et Orbi
[…] Il 4 aprile le salve d’artiglieria di Castel S. Angelo annunciavano il giorno di Pasqua. Pio IX scese in basilica verso le dieci per il pontificale. Subito dopo, preceduto dal corteo di vescovi e cardinali, si recò alla Loggia per la benedizione Urbi et Orbi. Don Bosco col cardinale Marini ed un vescovo restò per un istante vicino al davanzale ricoperto da un magnifico drappo, sul quale erano stati deposti tre Triregni d’oro. Il cardinale disse a Don Bosco:
Osservate quale spettacolo! Don Bosco girava sulla piazza gli occhi attoniti. Una folla di 200.000 persone stava accalcata colla faccia rivolta alla Loggia. I tetti, le finestre, i terrazzi di tutte le case erano occupati. L’esercito francese riempiva una parte dello spazio compreso tra l’obelisco e la scalinata di San Pietro. I battaglioni della fanteria pontificia stavano schierati a destra e a sinistra. Indietro, la cavalleria e l’artiglieria. Migliaia di carrozze erano ferme alle due ali della piazza, vicino ai portici del Bernini, e nel fondo presso le case. Specialmente su quelle a nolo stavano in piedi gruppi di persone che parevano dominare la piazza. Era un vociare clamoroso, un calpestio di cavalli, una confusione incredibile. Nessuno può farsi un’idea di tale spettacolo.

Intrappolato
Don Bosco, che aveva lasciato il Papa in basilica mentre era in venerazione delle reliquie insigni, credeva che avrebbe tardato a comparire. Assorto nel contemplare tanta gente di ogni nazione, non s’accorse del sopraggiungere della sedia gestatoria su cui sedeva il Papa. Si venne a trovare in una posizione difficile; stretto fra la sedia e la balaustra, poteva muoversi appena; tutto intorno stavano pigiati cardinali, vescovi, cerimonieri e sediari, sicché non scorgeva alcun varco per uscirne. Rivolgere il viso al Papa era sconvenienza; voltargli le spalle inciviltà; rimanere nel centro del balcone una ridicolaggine. Non potendo far di meglio, si volse di fianco; allora la punta di un piede del Papa arrivò a posarsi sulla sua spalla.

In quel mentre un silenzio solenne regnava sulla grande piazza tanto che si sarebbe potuto udire il ronzio di una mosca. Gli stessi cavalli stavano immobili. Don Bosco, per nulla turbato, attento ad ogni minimo particolare, osservò che un solo nitrito, e il suono di un orologio che batteva le ore, si fece udire mentre il Papa recitava le preghiere di rito. Egli intanto, visto che il pavimento della Loggia era sparso di fronde e fiori, si curvò, e raccogliendo alcuni fiori li mise tra le pagine del libro che aveva in mano. Finalmente Pio IX si alzò in piedi per benedire: aperse le braccia, sollevò al cielo le mani, le stese sulla moltitudine che curvò la fronte, e la sua voce nel cantare la formula della benedizione, sonora, potente, solenne si udiva al di là di piazza Rusticucci e dalla soffitta del palazzo degli scrittori della Civiltà Cattolica.

La folla rispose con una immensa ovazione. Allora il cardinale Ugolini lesse in latino il Breve dell’indulgenza plenaria e subito dopo il cardinale Marini lo ripeté in lingua italiana. Don Bosco si era inginocchiato, e quando si rialzò il corteo papale era ormai scomparso. Tutte le campane suonavano a festa, tuonava il cannone da Castel Sant’Angelo, le musiche militari facevano risuonare le loro trombe. Il cardinale Marini, accompagnato dal caudatario, discese e andò verso la sua carrozza. Appena questa si mosse, Don Bosco si sentì preso dal male prodotto da quel moto che gli rivoltava lo stomaco; non potendo più resistere, manifestò al cardinale quel suo incomodo. Per suo consiglio salì in cassetta col cocchiere, ma il malessere non diminuì, allora scese per camminare a piedi. Essendo in veste violacea, sarebbe stato oggetto di meraviglia o di scherno, se avesse attraversato Roma così; perciò il segretario gentilmente scese dalla carrozza e lo accompagnò a palazzo […].

Il ricordo del Papa
Don Bosco il 6 aprile ritornò a un’udienza particolare di Pio IX col chierico Rua e il teologo Murialdo, ammesso in Vaticano per interposizione dello stesso Don Bosco. Entrarono nell’anticamera alle nove di sera, e subito Don Bosco venne introdotto. Il Papa appena lo ebbe innanzi gli disse con viso serio:
– Abate Bosco, dove vi siete andato a ficcare il giorno di Pasqua durante la benedizione papale? Lì, davanti al Papa, e tenendo la spalla sotto il suo piede come se il Pontefice avesse bisogno di essere sostenuto da Don Bosco.
– Santo Padre
, rispose tranquillo ed umile, sono stato colto di sorpresa e chiedo perdono se l’ho in qualche modo offesa!
– E aggiungete ancora l’affronto di chiedermi se mi avete offeso? Don Bosco guardò il Papa e gli parve che fingesse: un sorriso accennava a comparirgli sulle labbra. Ma che cosa vi è saltato in testa di raccogliere fiori in quel momento? C’è voluta tutta la serietà di Pio IX per non scoppiare dalle risa. […]
Ora, Beatissimo Padre, supplicò Don Bosco, abbiate la bontà di suggerirmi una massima che io possa ripetere ai miei giovani, come ricordo del Vicario di Cristo.
– La presenza di Dio! rispose il Papa. Dite ai vostri giovani che si regolino sempre con questo pensiero!… E voi non avete nulla da domandarmi? Certamente desiderate qualche cosa anche voi.
– Santo Padre, Vostra Santità si è degnata di concedermi quanto ho domandato, ora non mi resta che ringraziarla dal più intimo del cuore.
– Eppure, eppure, voi desiderate ancora qualche cosa.
Al che Don Bosco stava là come sospeso senza proferire parola. Il Pontefice soggiunse:
– Ma come? Non desiderate di fare stare allegri i vostri giovani, quando sarete ritornato tra loro?
– Santità, questo sì.
– Allora aspettate.
Pochi istanti prima erano entrati in quella stanza il teologo Murialdo, il chierico Rua e don Cerutti di Varazze, cancelliere nella Curia Arcivescovile di Genova. Essi rimasero stupiti della famigliarità con la quale il Papa trattava Don Bosco e di ciò che videro in quel momento. Il Papa aveva aperto lo scrigno, ne aveva tirato fuori una manciata di monete d’oro e senza contarle le aveva porte a Don Bosco dicendo:
– Prendete e date poi una buona merenda ai vostri ragazzi. Ognuno può immaginare l’impressione che fece su Don Bosco quest’atto di bontà di Pio IX, il quale con grande amorevolezza si rivolgeva anche agli ecclesiastici sopravvenuti, benediceva le corone, i crocifissi ed altri oggetti di devozione che gli presentavano, e dava a tutti una medaglia ricordo.

La sfida educativa di don Bosco
Fra i cardinali che passò ad ossequiare vi fu l’Eminentissimo Tosti, per invito del quale aveva parlato ai giovani dell’Ospizio San Michele. Costui, soddisfatto della cortesia di Don Bosco, essendo l’ora della sua passeggiata, volle averlo per compagno, così tutti e due salirono in carrozza. Si incominciò a parlare del sistema più adatto all’educazione dei giovani. Don Bosco si era andato persuadendo che gli alunni di quell’ospizio non avevano famigliarità coi superiori, anzi li temevano: cosa poco piacevole, poiché gli educatori erano sacerdoti. Perciò diceva:
– Vede, Eminenza, è impossibile educare bene i giovani se questi non hanno confidenza nei superiori.
– Ma come, replicava il cardinale, si può guadagnare questa confidenza?
– Facendo in modo che essi si avvicinino a noi, togliendo ogni causa che li allontani.
– E come si può fare per avvicinarli a noi?
– Avvicinandoci noi ad essi, cercando di adattarci ai loro gusti, facendoci simili a loro. Vuole che facciamo una prova? Mi dica: in qual punto di Roma si può trovare un bel numero di ragazzi?
– In Piazza Termini e in Piazza del Popolo, rispose il cardinale.
– Ebbene, andiamo in Piazza del Popolo.

Il cardinale passò l’ordine al carrozziere. Appena arrivati, Don Bosco scese di carrozza, e il prelato rimase ad osservarlo. Visto un crocchio di giovanetti che giocavano, si avvicinò, ma i birichini fuggirono. Allora li chiamò con le buone maniere e quelli dopo qualche esitazione si avvicinarono. Don Bosco regalò qualche cosuccia, domandò notizie delle loro famiglie, chiese che gioco stavano facendo e li invitò a continuare, fermandosi prima a guardarli, poi cominciando a prendervi parte. Allora anche altri che stavano osservando da lontano accorsero numerosissimi dai quattro angoli della piazza intorno al prete, che tutti accoglieva amorevolmente ed aveva per tutti una buona parola e un regaluccio. Chiedeva se fossero buoni, se dicessero le orazioni, se andassero a confessarsi. Quando volle allontanarsi, lo seguirono per un buon tratto, lasciandolo solo quando egli risalì in carrozza. Il cardinale era meravigliato.
– Ha visto?
– Avevate ragione!
esclamò il cardinale […]

Le ultime visite
Le ultime visite di D. Bosco furono riservate alla Confessione di San Pietro ed alle Catacombe. Dopo aver pregato nella basilica di S. Sebastiano, viste due delle frecce che ferirono il santo tribuno e la colonna a cui fu legato, scese nelle gallerie sotterranee che custodirono le ossa di migliaia e migliaia di martiri, e dove san Filippo Neri tante notti vegliò in preghiera. Passò poi alle vicine Catacombe di san Callisto. Qui lo attendeva il cavaliere G. B. De Rossi, che le aveva scoperte, al quale lo aveva presentato monsignor di San Marzano.
Chi entra in quei luoghi prova una tale commozione, che gli resta per tutta la vita. Don Bosco era assorto in santi pensieri nel percorrere quei sotterranei, ove i primi cristiani, attraverso la messa, le preghiere in comune, il canto dei salmi e delle profezie, la comunione eucaristica, l’ascolto dei vescovi e dei papi, avevano trovato la forza necessaria per affrontare il martirio. È impossibile contemplare ad occhi asciutti quei loculi che avevano rinchiuso i corpi insanguinati o bruciati di tanti eroi della fede, le tombe di ben quattordici papi che avevano data la vita per testimoniare ciò che insegnavano, e la cripta di santa Cecilia.

Don Bosco osservava gli antichissimi affreschi che ritraevano Gesù Cristo e l’Eucarestia; e le immagini che rappresentavano lo sposalizio di Maria SS. con san Giuseppe, l’Assunzione di Maria in cielo, la Madre di Dio col bambino in braccio o sulle ginocchia. Era incantato dal sentimento di modestia che splendeva in queste immagini, nelle quali l’arte cristiana primitiva aveva saputo riprodurre la bellezza incomparabile dell’anima e dell’ideale altissimo della perfezione morale che si deve attribuire alla Vergine. Non mancavano altre figure di santi e di martiri. Don Bosco uscì dalle catacombe alle 6 della sera. Vi era entrato alle 8 del mattino […]

Verso casa
Don Bosco il 14 aprile partì da Roma col chierico Rua, lieto che fossero state gettate le basi della Società di San Francesco di Sales […] Prese dunque una carrozza a nolo, fece una breve fermata nel paese di Palo dove trovò l’albergatore perfettamente libero dalle febbri: la sua guarigione era stata istantanea. Questi non dimenticherà più l’accaduto, e verso il 1875 o 76, capitato a Genova per ragioni di commercio, volle continuare il suo viaggio fino a Torino. Chiesto e saputo per telegrafo che Don Bosco era all’Oratorio, ci andò; ma egli in quel giorno era a pranzo dal signor Occelletti Carlo. Allora si recò là a trovarlo, facendogli feste senza fine. Il signor Occelletti ricordò sempre con grande piacere il racconto da lui udito di quella guarigione. Arrivato a Civitavecchia e fatta una visita al delegato pontificio, Don Bosco andò al porto per imbarcarsi.

Le onde questa volta furono calme e bello il tempo, sicché egli poté scendere a Livorno, intrattenersi con qualche amico e visitare alcune chiese. Ripreso il mare sul far della sera, don Rua ricorda come la nave giungesse nel porto di Genova al sorgere di una splendida aurora che illuminava il magnifico panorama della superba città. Don Bosco, appena messo piede in terra, si recò al collegio degli Artigianelli, dove lo aspettava don Montebruno e il signor Giuseppe Canale. Dopo mezzogiorno salì in treno. Nell’attraversare la città aveva provato una gradita sorpresa: quando le campane suonarono l’Angelus, molte persone per le vie e le piazze si scoprivano il capo, e gli stessi facchini si erano alzati dalle loro panche per recitare la preghiera. Più volte egli raccontò questo per edificazione dei suoi alunni. Giunse a Torino il 16 di aprile, accolto dai giovani con tanta festa ed affetto, che nessun padre potrebbe augurarsene di più dai propri figli.




Devozione di don Bosco al Sacro Cuore di Gesù

La devozione al Sacro Cuore di Gesù, cara a don Bosco, nasce dalle rivelazioni a Santa Margherita Maria Alacoque nel monastero di Paray-le-Monial: Cristo, mostrando il suo Cuore trafitto e coronato di spine, chiese una festa riparatrice il venerdì dopo l’Ottava del Corpus Domini. Nonostante opposizioni, il culto si diffuse perché quel Cuore, sede dell’amore divino, ricorda la carità manifestata sulla croce e nell’Eucaristia. Don Bosco invita i giovani a onorarlo costantemente, soprattutto nel mese di giugno, recitando la Corona e compiendo atti di riparazione che ottengono copiose indulgenze e le dodici promesse di pace, misericordia e santità.

            La devozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, che ogni dì più va crescendo, ascoltate, o cari giovani, come ebbe origine. Viveva in Francia nel monastero della Visitazione di Paray le Monial un’umile verginella per nome Margherita Alacoque, cara a Dio per la sua grande purezza. Un dì mentre ella se ne stava avanti al SS. Sacramento per adorarvi il benedetto Gesù, vide il Celeste suo Sposo nell’atto di scoprirsi il petto, e mostrarle il Sacratissimo suo Cuore, raggiante di fiamme, cinto di spine, trapassato da una ferita, sormontato da una croce. Nello stesso tempo lo udì lagnarsi della mostruosa ingratitudine degli uomini, e ordinarle di adoperarsi, affinché nel venerdì dopo l’Ottava del Corpus Domini fosse reso un culto speciale al Divin suo Cuore in riparazione delle offese, che Ei riceve nella SS. Eucaristia. La pia verginella piena di confusione espose a Gesù quanto fosse inetta a sì grande impresa, ma fu dal Signore confortata a proseguire nella sua opera, e la festa del Sacro Cuore di Gesù fu stabilita non ostante le vive opposizioni dei suoi avversari.
            I motivi poi di questo culto sono molteplici: 1° Perché G. Cristo ci offerse il suo S. Cuore come la sede delle sue affezioni: 2° Perché ci è simbolo di quella immensa carità, che Egli dimostrò specialmente col permettere che il SS. suo Cuore fosse ferito da una lancia: 3° Perché da questo Cuore siano mossi i fedeli a meditare i dolori di Gesù Cristo e a professargli riconoscenza.
            Onoriamo adunque costantemente questo Divin Cuore, il quale pei molti e grandi benefizi, che già ci ha fatto e ci farà, ben merita tutta la nostra più umile ed amorosa venerazione.

Mese di giugno
            Chi consacra l’intero mese di giugno ad onore del Sacro Cuore di Gesù con qualche quotidiana preghiera o devoto ossequio, acquista 7 anni d’Indulg. per ciascun giorno e Plenaria alla fine del mese.

Corona al Sacro Cuore di Gesù
            Intendete di recitar questa Corona al Divin Cuore di Gesù Cristo per risarcirlo degli oltraggi, che riceve nella SS. Eucaristia dagli infedeli, dagli eretici e dai cattivi Cristiani. Si dica adunque o da solo o con altre persone raccolte, se si può dinanzi all’Immagine del Divin Cuore o avanti al Santissimo Sacramento:
            V. Deus, in adjutorium meum intende (O Dio vieni a salvarmi).
            R. Domine ad adjuvandum me festina (Signore, vieni presto in mio aiuto).
            Gloria Patri, etc.

            1. O Cuore amabilissimo del mio Gesù, adoro umilmente quella dolcissima amabilità vostra, che in singolar modo usate nel Divin Sacramento colle anime ancor peccatrici. Mi dispiace di vedervi così ingratamente corrisposto, ed intendo risarcirvi di tante offese che ricevete nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            2. O Cuore umilissimo del mio Sacramentato Gesù, adoro quella profondissima umiltà vostra nella Divina Eucaristia, nascondendovi per nostro amore sotto le specie del pane e del vino. Deh! vi prego, Gesù mio, ad insinuare nel mio cuore così bella virtù; io intanto procurerò di risarcirvi di tante offese che ricevete nel SS. Sacramento dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            3. O Cuore del mio Gesù, desiderosissimo di patire, adoro quei desideri così accesi d’incontrare la vostra Passione dolorosissima e di assoggettarvi a quei torti da Voi preveduti nel SS. Sacramento. Ah Gesù mio! intendo ben di cuore di risarcirvene colla mia vita stessa; vorrei impedire quelle offese, che pur troppo ricevete nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            4. O Cuore pazientissimo del mio Gesù, io venero umilmente quell’invincibile pazienza vostra nel sostenere per amor mio tante pene sulla Croce, e tanti strapazzi nella Divina Eucaristia. Oh mio caro Gesù! Poiché non posso lavar col Sangue mio quei luoghi dove foste così maltrattato nell’uno e nell’altro Mistero, vi prometto, o mio Sommo Bene, di usare ogni mezzo per risarcire il vostro Divin Cuore di tanti oltraggi, che ricevete nella SS. Eucaristia dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            5. O Cuore del mio Gesù, amantissima delle anime nostre nell’istituzione ammirabile della SS. Eucaristia, io adoro umilmente quell’amore immenso, che ci portate donandoci per nutrimento il vostro Divin Corpo e Divin Sangue. Qual è quel cuore che struggere non si debba alla vista di così immensa carità? Oh mio buon Gesù! datemi abbondanti lacrime per piangere e risarcire tante offese, che ricevete nel SS. Sacramento dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            6. O Cuore del mio Gesù sitibondo della salute nostra, io venero umilmente quell’amore ardentissimo che vi spinse ad operare il Sacrificio ineffabile della Croce, rinnovandolo ogni giorno sugli Altari nella Santa Messa. Possibile che a tanto amore non arda il cuore umano pieno di gratitudine? Sì, pur troppo, o mio Dio; ma per l’avvenire vi prometto di fare quanto posso per risarcirvi di tanti oltraggi, che ricevete in questo Mistero d’amore dagli eretici, dagl’infedeli e dai cattivi Cristiani.
            Pater, Ave e Gloria.

            Chi reciterà anche solo i suddetti 6 Pater, Ave e Gloria davanti al SS. Sacramento, di cui l’ultimo Pater, Ave e Gloria sia detto secondo l’intenzione del Sommo Pontefice, acquista 300 giorni d’Indulgenza per ogni volta.

Promesse fatte da Gesù Cristo
alla beata Margherita Alacoque pei devoti del suo Divin Cuore
            Io darò loro tutte le grazie necessarie nel loro stato.
            Io farò regnare la pace nelle loro famiglie.
            Io li consolerò in tutte le loro afflizioni.
            Io sarò il loro sicuro rifugio in vita, ma specialmente in punto di morte.
            Ricolmerò di benedizioni ogni loro impresa.
            I peccatori troveranno nel mio Cuore la sorgente e l’oceano infinito della misericordia.
            Le anime tiepide diverranno fervorose.
            Le anime ferventi saliranno rapidamente ad una grande perfezione.
            Io benedirò alla stessa casa dove l’Immagine del mio Sacro Cuore sarà esposta ed onorata.
            Io darò ai Sacerdoti il dono di commuovere i cuori più induriti.
            Il nome delle persone che propagheranno questa Divozione sarà scritto nel mio Cuore, e non ne sarà mai più cancellato.

Atto di riparazione contro le bestemmie.
            Dio sia benedetto.
            Benedetto il suo Santo Nome.
            Benedetto Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo.
            Benedetto il Nome di Gesù.
            Benedetto Gesù nel Santissimo Sacramento dell’Altare.
            Benedetto il suo Amabilissimo Cuore.
            Benedetta la gran Madre di Dio Maria Santissima.
            Benedetto il Nome di Maria, Vergine e Madre.
            Benedetta la sua Santa ed Immacolata Concezione.
            Benedetto Dio nei suoi Angeli e nei suoi Santi.

            È concessa Indulgenza di un anno per ogni volta: e Plenaria a, chi lo recita per un mese, in quel giorno che farà la Santa Confessione e Comunione.

Offerta al SS. Cuore di Gesù avanti la sua s. Immagine
            Io NN. per esservi grato, e per riparare alle mie infedeltà vi dono il cuore, e interamente mi consacro a Voi, amabile mio Gesù, e col vostro aiuto propongo di non più peccare.

            Il Pontefice Pio VII concesse cento giorni d’Indulgenza una volta al giorno, recitandola con cuore contrito, e Plenaria una volta al mese, a chi la reciterà tutti i giorni.

Orazione al Sacratissimo Cuore di Maria
            Dio vi salvi, Augustissima Regina di pace, Madre di Dio; pel Sacratissimo Cuore del vostro Figlio Gesù, Principe della pace, fata che l’ira di Lui si plachi, e che regni sopra di noi in pace. Ricordatevi, o Piissima Vergine Maria, che non si è mai udito al mondo, che da Voi sia stato rigettato, od abbandonato alcuno, il quale implori i vostri favori. Io animato da questa fiducia mi presento a Voi: non vogliate, o Madre del Verbo Eterno, disprezzare le mie preghiere, ma uditele favorevolmente, ed esauditele, o Clemente, o Pia, o Dolce Vergine Maria.

            Pio IX accordò l’Indulgenza di 300 giorni ogni volta che si reciterà devotamente detta orazione, e Plenaria una volta al mese a chi l’avrà recitata ogni giorno.

O Gesù d’amor acceso,
            Non t’avessi mai offeso;
            O mio dolce e buon Gesù,
            Non ti voglio offender più.

Sacro Cuore di Maria,
            Fa, ch’io salvi l’alma mia.
            Sacro Cuor del mio Gesù,
            Fa, ch’io t’ami sempre più.

            A voi dono il mio cuore,
Madre del mio Gesù – Madre d’amore.

(Fonte: “Il Giovane Provveduto per la pratica de’ suoi doveri negli esercizi di cristiana pietà per la recita dell’Uffizio della b. Vergine dei vespri di tutto l’anno e dell’uffizio dei morti coll’aggiunta di una scelta di laudi sacre, pel sac. Giovanni Bosco, 101a edizione, Torino, 1885, Tipografia e Libreria Salesiana, S. Benigno Canavese – S. Per d’Arena – Lucca – Nizza Marittima – Marsiglia – Montevideo – Buenos-Aires”, pp. 119-124 [Opere Edite, pp. 247-253])

Foto: Statua del Sacro Cuore in bronzo dorato sul campanile della Basilica del Sacro Cuore a Roma, dono degli ex-allievi Salesiani dell’Argentina. Eretta nel 1931, è un lavoro eseguito a Milano da Riccardo Politi su progetto dello scultore Enrico Cattaneo di Torino.




Don Bosco assiste a un conciliabolo di demoni (1884)

Le pagine che seguono ci conducono nel cuore dell’esperienza mistica di San Giovanni Bosco, attraverso due vividi sogni avuti fra settembre e dicembre 1884. Nel primo, il Santo attraversa la pianura verso Castelnuovo con un misterioso personaggio e riflette sulla scarsità di preti, ammonendo che soltanto lavoro indefesso, umiltà e moralità possono far fiorire autentiche vocazioni. Nel secondo ciclo onirico, Bosco assiste a un concilio infernale: mostruosi demoni complottano di annientare la nascente Congregazione Salesiana, diffondendo gola, brama di ricchezze, libertà senza obbedienza e orgoglio intellettuale. Tra presagi di morte, minacce interne e segni di Provvidenza, questi sogni diventano uno specchio drammatico delle lotte spirituali che attendono ogni educatore e la Chiesa intera, offrendo insieme avvertimenti severi e speranze luminose.

            Ricchi di ammaestramenti sono due sogni fatti in settembre e in dicembre.

            Il primo, avuto nella notte dal 29 al 30 settembre, è una lezione per i preti. Gli parve di andare verso Castelnuovo attraverso una pianura; gli camminava a fianco un venerando sacerdote, del quale disse di non ricordare più il nome. Cadde il discorso sui preti. – Lavoro, lavoro, lavoro! dicevano. Ecco quale dovrebbe essere l’obiettivo e la gloria dei preti. Non stancarsi mai di lavorare, Così, quante anime si salverebbero! Quante cose vi sarebbero da fare per la gloria di Dio! Oh se il missionario facesse davvero il missionario, se il parroco facesse davvero il parroco, quanti prodigi di santità splenderebbero da ogni parte! Ma purtroppo molti hanno paura di lavorare e preferiscono le proprie comodità…
            Ragionando a questo modo fra loro, giunsero ad un luogo detto Filippelli. Allora Don Bosco prese a lamentare l’odierna scarsità di preti.
            – É vero, rincalzò l’altro, i preti scarseggiano; ma se tutti i preti facessero il prete, ve ne sarebbero abbastanza, Quanti preti invece vi sono che non fan nulla per il ministero! Gli unì non fanno altro che il prete di famiglia, altri per timidità se ne stanno oziosi, mentre se si mettessero nel ministero, se prendessero l’esame di confessione, riempirebbero un gran vuoto nelle file della Chiesa… Iddio le vocazioni le proporziona alla necessità. Quando venne la leva dei chierici, tutti erano spaventati, come se nessuno più si dovesse far prete; ma, quando le fantasie si calmarono, si vede che le vocazioni invece di scemare andavano crescendo.
            – E adesso, interrogò Don Bosco, che cosa bisogna fare per promuovere le vocazioni in mezzo ai giovanetti?
            – Nient’altro, rispose il compagno di viaggio, che coltivare gelosamente fra essi la moralità. La moralità è il semenzaio delle vocazioni.
            – E che cosa debbono fare specialmente i preti per ottenere che la loro vocazione rechi frutto?
            – Presbyter discat domum suam regere et sanctificare. (il sacerdote deve imparare a governare e santificare la sua casa). Ognuno sia esempio di santità nella propria famiglia e nella propria parrocchia. Non disordini di gola, non ingolfarsi nelle cure temporali… Sia anzitutto modello in casa e poi sarà il primo fuori.
            A un certo punto del cammino quel sacerdote chiese a Don Bosco ove andasse; Don Bosco indicò Castelnuovo. Egli allora, lasciatolo proseguire, rimase con un gruppo di persone che lo precedevano. Fatti pochi passi, Don Bosco si svegliò. In questo sogno possiamo vedere una rimembranza delle antiche passeggiate attraverso quei luoghi.

Predice la morte di salesiani
            Il secondo sogno si riferisce alla Congregazione e mette in guardia contro pericoli che potrebbero minacciarne l’esistenza. Veramente, più che un sogno, è un argomento che si svolge in una successione di sogni.
            Nella notte del io dicembre il chierico Viglietti fu svegliato di soprassalto da strazianti grida, che partivano dalla camera di Don Bosco. Balzò subito di letto e stette ad ascoltare. Don Bosco, con voce soffocata dal singhiozzo gridava:
            – Ohimè! ohimè! aiuto! aiuto!
            Viglietti senza più entrò e:
            – Oh Don Bosco, disse, si sente male?
            – Oh Viglietti! rispose svegliandosi. No, non sto male; ma non poteva proprio più respirare, sai. Ma basta: ritorna tranquillo a letto e dormi.
            Al mattino, quando Viglietti secondo il solito gli portò dopo la Messa il caffè:
            – Oh Viglietti! prese a dire, non ne posso proprio più, ho lo stomaco tutto rotto dalle grida di questa notte. Sono quattro notti consecutive che faccio sogni, i quali mi costringono a gridare e mi stancano all’eccesso. Quattro notti fa io vedeva una lunga schiera di Salesiani che andavano tutti uno dietro all’altro, portando ciascuno un’asta, in cima alla quale stava un cartello e sul cartello un numero stampato. Si leggeva in uno 73, in un altro 30, in un terzo 62 e così via. Dopo che furono passati molti, in cielo apparve la luna, nella quale di mano in mano che compariva un Salesiano, si vedeva una cifra non mai maggiore di 12, e dietro venivano tanti punti neri. Tutti i Salesiani da me visti andarono a sedersi ciascuno sopra una tomba preparata.
            Ed ecco la spiegazione datagli di quello spettacolo. Il numero che stava sui cartelli era il numero degli anni di vita destinato a ciascuno; l’apparire della luna in varie forme e fasi, indicava il mese ultimo di vita; i punti neri erano i giorni del mese, in cui sarebbero morti. Più e più ne vedeva talvolta riuniti in gruppi: erano quelli che dovevano morire insieme, in un medesimo giorno. Se avesse voluto narrare minutamente tutte le cose e le circostanze accessorie, assicurò che avrebbe impiegato almeno una decina di giorni interi.

Assiste a un conciliabolo di demoni
            Tre notti fa, continuò, sognai di nuovo. Ti racconterò in breve. Mi parve di essere in una gran sala, dove diavoli in gran numero tenevano congresso e trattavano del modo di sterminare la Congregazione Salesiana. Sembravano leoni, tigri, serpenti e altre bestie; ma la loro figura era come indeterminata e si avvicinava piuttosto alla figura umana. Parevano ombre, che ora si abbassavano e ora si alzavano, si accorciavano, si stendevano, come farebbero molti corpi che dietro avessero un lume trasportato or da una parte or dall’altra, ora abbassato al suolo e ora sollevato. Ma quella fantasmagoria metteva spavento.
            Or ecco uno dei demoni avanzarsi e aprire la seduta. Per distruggere la Pia Società propose un mezzo: la gola. Fece vedere le conseguenze di questo vizio: inerzia per il bene, corruzione dei costumi, scandalo, nessuno spirito di sacrificio, nessuna cura dei giovani… Ma un altro diavolo gli rispose:
            – Il tuo mezzo non è generale ed efficace, né si possono assalire con esso tutti i membri insieme, perché la mensa dei religiosi sarà sempre parca e il vino misurato: la regola fissa il loro vitto ordinario: i Superiori invigilano per impedire che succedano disordini. Chi eccedesse talvolta nel mangiare e nel bere, invece di scandalizzare, farebbe piuttosto ribrezzo. No, non è questa l’arma per combattere i Salesiani; procurerò io un altro mezzo, che sarà più efficace e ci farà ottenere meglio il nostro intento: l’amore alle ricchezze. In una Congregazione religiosa, quando c’entra l’amore alle ricchezze, c’entra insieme l’amore alle comodità, si cerca ogni via per avere un peculio, si rompe il vincolo della carità, pensando ognuno a sé stesso, si trascurano i poveri per occuparsi solo di quelli che hanno fortuna, si ruba alla Congregazione…
            Colui voleva continuare, ma sorse un terzo demonio.
            – Ma che gola! esclamò. Ma che ricchezze! Fra i Salesiani l’amore delle ricchezze può vincere pochi. Sono tutti poveri i Salesiani; hanno poche occasioni di procurarsi un peculio. In generale poi essi sono così costituiti e sono così immensi i loro bisogni per i tanti giovani e per le tante case, che qualunque somma anche grossa verrebbe consumata. Non è possibile che tesoreggino. Ma ho un mezzo io, infallibile, per guadagnare a noi la Società Salesiana, e questo è la libertà. Indurre quindi i Salesiani a sprezzare le Regole, a rifiutare certi uffizi come pesanti e poco onorifici, spingerli a fare scismi dai loro Superiori con opinioni diverse, ad andare a casa col pretesto d’inviti e simili.
            Mentre i demoni parlamentavano, Don Bosco pensava: – Io sto bene attento, sapete, a quello che andate dicendo. Parlate, parlate pure, che così potrò sventare le vostre trame.
            Intanto saltava su un quarto demonio e:
            – Ma che! gridò. Armi spezzate le vostre! I Superiori sapranno frenare questa libertà, scacceranno via dalle case chi osasse dimostrarsi ribelle alle Regole. Qualcheduno forse sarà trascinato dall’amore di libertà, ma la gran maggioranza si manterrà nel dovere. Io, ho un mezzo adattato per guastar tutto fin dalle fondamenta; un mezzo tale che a stento i Salesiani se ne potranno guardare: sarà proprio un guasto in radice. Ascoltatemi con attenzione. Persuaderli che l’essere dotto è quello che deve formare la loro gloria principale. Quindi indurli a studiare molto per sé, per acquistare fama, e non per praticare quello che imparano, non per usufruire della scienza a vantaggio del prossimo. Perciò boria nelle maniere verso gl’ignoranti e i poveri, poltroneria nel sacro ministero. Non più oratorii festivi, non più catechismi ai fanciulli, non più scuolette basse per istruii e i poveri ragazzi abbandonati, non più le lunghe ore di confessionale. Terranno solo la predicazione, ma rara e misurata e questa sterile, perché fatta a sfogo di superbia col fine di avere le lodi degli uomini e non di salvare anime.
            La proposta di costui fu accolta con applausi generali. Allora Don Bosco intravide il giorno in cui i Salesiani potrebbero darsi a credere che il bene della Congregazione e il suo onore dovesse unicamente consistere nel sapere, e paventò che non solo così praticassero, ma anche predicassero a gran voce doversi così praticare.
            Anche stavolta Don Bosco se ne stava in un angolo della sala ad ascoltare e a vedere tutto, quando uno dei demoni lo scoperse e gridando lo indicò agli altri. A quel grido, tutti si avventarono contro di lui urlando:
            – La faremo finita! Era una ridda infernale di spettri, che lo urtavano, lo afferravano per le braccia e per la persona, ed egli a gridare: Lasciatemi! Aiuto! – Finalmente si svegliò con lo stomaco tutto sconquassato dal molto gridare.

Leoni, tigri e mostri vestiti da agnelli
            La notte seguente s’avvide che il demonio aveva assalito i Salesiani nel punto più essenziale, spingendoli alla trasgressione delle Regole. Fra essi gli si parava innanzi, distintamente chi le osservava e chi non le osservava.
            Nella notte ultima poi il sogno era stato spaventevole. Don Bosco vedeva un grosso gregge di agnelli e di pecore che raffiguravano altrettanti Salesiani. Egli si avvicinò cercando di accarezzare gli agnelli; ma s’accorse che la loro lana invece di essere lana d’agnelli, faceva solo da copertura, nascondendo leoni, tigri, cani arrabbiati, porci, pantere, orsi, e ognuno aveva ai fianchi un mostro brutto e feroce. In mezzo al gregge stavano alcuni radunati a consiglio. Don Bosco inosservato si avvicinò ad essi per udire che cosa dicessero: concertavano il modo di distruggere la Congregazione Salesiana. Uno diceva:
            – Bisogna scannarli i Salesiani.
            E un altro sghignazzando soggiungeva:
            – Bisogna strangolarli.
            Ma sul più bello tino di loro vide Don Bosco là vicino che ascoltava. Diede l’allarme e tutti a una voce gridarono che bisognava cominciare da Don Bosco. Ciò detto, gli si avventarono contro come per strozzarlo. In quel punto egli mandò il grido che svegliò Viglietti. Un’altra cosa oltre le violenze diaboliche opprimeva allora il suo spirito: aveva veduto su quel gregge spiegarsi una grande insegna, che portava scritto: BESTIIS COMPARATI SUNT (sono paragonati alle bestie). Raccontato questo, chinò il capo e piangeva.
            Viglietti gli prese la mano e stringendosela al cuore:
            – Ah! Don Bosco, gli disse, noi però con l’aiuto di Dio le saremo sempre fedeli e buoni figliuoli, non è vero?
            – Caro Viglietti, rispose, sta’ buono e preparati a vedere gli avvenimenti. Questi sogni io te li ho appena accennati; che se ti dovessi narrare particolareggiatamente ogni cosa, ne avrei per molto tempo ancora. Quante cose vidi! Ci sono alcuni nelle nostre case che non arriveranno più a far la novena del Santo Natale. Oh se potessi parlare ai giovani, se mi reggessero le forze per intrattenermi con essi, se potessi girare per le case, fare quello che facevo una volta, rivelare a ciascuno lo stato della sua coscienza, come l’ho visto nel sogno e dire a certi tali: Rompi il ghiaccio, fa’ una volta una buona confessione! Essi mi risponderebbero: Ma io mi sono confessato bene! Invece io potrei replicare, dicendo loro quello che hanno taciuto le in modo che non oserebbero più aprir bocca. Anche certi Salesiani, se potessi far giungere loro una mia parola, vedrebbero il bisogno che hanno di aggiustare le proprie partite rifacendo le confessioni. Vidi chi osservava le Regole e chi no. Vidi molti giovani che andranno a S. Benigno, si faranno Salesiani e poi defezioneranno. Defezioneranno anche certuni che ora sono già Salesiani. Vi saranno di quelli che vorranno soprattutto la scienza che gonfia, che procaccia foro le lodi degli uomini e che li rende sprezzanti dei consigli di chi essi credono da meno di loro per sapere…
            A questi affliggenti pensieri s’intrecciavano provvidenziali consolazioni, che gli rallegravano il cuore. La sera del 3 dicembre giungeva all’Oratorio il Vescovo di Para, cioè del paese centrale nel sogno sulle Missioni. E giorno dopo diceva a Viglietti:
            – Come è grande la Provvidenza! Senti, e poi di’ se non siamo protetti da Dio. Don Albera mi scriveva di non poter più andare avanti e abbisognargli subito mille franchi; nel giorno stesso una signora di Marsiglia, che sospirava di rivedere tiri suo fratello religioso a Parigi, contenta d’aver ottenuta la grazia dalla Madonna, portò mille franchi a Don Albera. Don Ronchail versa in gravi strettezze ed ha assolutamente bisogno di quattromila franchi; una signora scrive oggi stesso a Don Bosco che mette a sua disposizione quattromila franchi. Don Dalmazzo non sa più ove dare del capo per aver danaro; oggi una signora dona per la chiesa del Sacro Cuore una somma considerevolissima. – E poi il 7 dicembre vi fu la gioia per la consacrazione di monsignor Cagliero. Tutti questi fatti erano tanto più incoraggianti, perché segni visibili della mano di Dio nell’Opera del suo Servo.
(MB XVII 383-389)