Verso l’alto! San Pier Giorgio Frassati

“Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù. È Lui, come diceva San Giovanni Paolo II, «che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande […], per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna» (XV Giornata Mondiale della Gioventù, Veglia Di Preghiera, 19 agosto 2000). Teniamoci uniti a Lui, rimaniamo nella sua amicizia, sempre, coltivandola con la preghiera, l’adorazione, la Comunione eucaristica, la Confessione frequente, la carità generosa, come ci hanno insegnato i beati Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, che presto saranno proclamati Santi. Aspirate a cose grandi, alla santità, ovunque siate. Non accontentatevi di meno. Allora vedrete crescere ogni giorno, in voi e attorno a voi, la luce del Vangelo” (Papa Leone XIV – omelia Giubileo dei giovani – 3 agosto 2025).

Pier Giorgio e don Cojazzi
Il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore del Regno d’Italia a Berlino, era il proprietario e direttore del quotidiano La Stampa di Torino. I Salesiani avevano un grosso debito di riconoscenza verso di lui. In occasione della grande montatura scandalistica nota come “I fatti di Varazze”, in cui si era cercato di gettare fango sulla onorabilità dei Salesiani, Frassati ne aveva preso le difese. Mentre persino alcuni giornali cattolici sembravano smarriti e disorientati di fronte alle pesanti e penose accuse, La Stampa, condotta una rapida inchiesta, aveva precorso le conclusioni della magistratura proclamando l’innocenza dei Salesiani. Così, quando da casa Frassati giunse la richiesta di un salesiano che si occupasse di seguire negli studi i due figli del senatore, Pier Giorgio e Luciana, don Paolo Albera, Rettor Maggiore, si sentì in obbligo di accettare. Inviò don Antonio Cojazzi (1880-1953). Era l’uomo adatto: buona cultura, temperamento giovanile di un’eccezionale capacità comunicativa. Don Cojazzi si era laureato in lettere nel 1905, in filosofia nel 1906, e aveva conseguito il diploma di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese dopo un serio perfezionamento in Inghilterra.
In casa Frassati don Cojazzi diventò qualcosa di più del ‘precettore’ che segue i ragazzi. Diventò un amico, specialmente di Pier Giorgio, di cui dirà: “Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e il liceo con lezioni che nei primi anni erano quotidiane; lo seguii con crescente interesse e affetto”. Pier Giorgio, diventato uno dei giovani di punta dell’Azione Cattolica torinese, ascoltava le conferenze e le lezioni che don Cojazzi teneva ai soci del Circolo C. Balbo, seguiva con interesse la Rivista dei Giovani, saliva talvolta a Valsalice in cerca di luce e di consiglio nei momenti decisivi.

Un momento di notorietà
Pier Giorgio lo ebbe durante il Congresso Nazionale della Gioventù Cattolica italiana, nel 1921: cinquantamila giovani che sfilavano per Roma, cantando e pregando. Pier Giorgio, studente del politecnico, reggeva la bandiera tricolore del circolo torinese C. Balbo. Le truppe regie, ad un tratto, circondarono l’enorme corteo e lo presero d’assalto per strappare le bandiere. Si volevano impedire disordini. Un testimone raccontò: “Picchiano con i calci dei moschetti, afferrano, spezzano, strappano le nostre bandiere. Vedo Pier Giorgio alle prese con due guardie. Accorriamo in suo aiuto, e la bandiera, con l’asta spezzata, resta nelle sue mani. Imprigionati a forza in un cortile, i giovani cattolici vengono interrogati dalla polizia. Il testimone ricorda il dialogo condotto con i modi e le cortesie che usano in simili contingenze:
– E tu, come ti chiami?
– Pier Giorgio Frassati di Alfredo.
– Che cosa fa tuo padre?
– Ambasciatore d’Italia a Berlino.
Stupore, cambiamento di tono, scuse, offerta di immediata libertà.
– Uscirò quando usciranno gli altri.
Intanto lo spettacolo bestiale continua. Un sacerdote è buttato, letteralmente buttato nel cortile con l’abito talare strappato e una guancia sanguinante… Insieme ci inginocchiammo per terra, nel cortile, quando quel prete lacero alzò il rosario e disse: Ragazzi, per noi e per quelli che ci hanno percosso, preghiamo!”.

Amava i poveri
Pier Giorgio amava i poveri, li andava a cercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte dove soltanto abitano la miseria e il dolore. Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva nel cuore. Arrivava a passare le notti al capezzale di ammalati sconosciuti. Una notte che non rincasava, il padre sempre più ansioso telefonò alla questura, agli ospedali. Alle due si sentì girare la chiave nella porta e Pier Giorgio entrò. Papà esplose:
– Senti, puoi stare fuori di giorno, di notte, nessuno ti dice niente. Ma quando fai così tardi, avverti, telefona!
Pier Giorgio lo guardò, e con la solita semplicità rispose:
– Babbo, dov’ero io, non c’era telefono.
Le Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli lo videro assiduo cooperatore; i poveri lo conobbero consolatore e soccorritore; le misere soffitte lo accolsero sovente fra le loro squallide mura come un raggio di sole per i suoi derelitti abitanti. Dominato da una profonda umiltà, quello che faceva non voleva che fosse conosciuto da alcuno.

Giorgetto bello e santo
Nei primi giorni del luglio 1925 Pier Giorgio fu assalito e stroncato da un violento attacco di poliomielite. Aveva 24 anni. Sul letto di morte, mentre un male terribile gli devastava la schiena, pensò ancora ai suoi poveri. Su un biglietto, con grafia ormai quasi indecifrabile, scrisse per l’ingegnere Grimaldi, suo amico: Ecco le iniezioni di Converso, la polizza è di Sappa. L’ho dimenticata, rinnovala tu.
Di ritorno dal funerale di Pier Giorgio, don Cojazzi scrive di getto un articolo per la Rivista dei Giovani: “Ripeterò la vecchia frase, ma sincerissima: non credevo di amarlo tanto. Giorgetto bello e santo! Perché mi cantano in cuore insistenti queste parole? Perché le udii ripetere, le udii pronunciare per quasi due giorni, dal padre, dalla madre, dalla sorella, con voce che diceva sempre e non ripeteva mai. E perché affiorano certi versi d’una ballata del Deroulède: «Si parlerà di lui a lungo, nei palazzi dorati e nei casolari sperduti! Perché di lui parleranno anche i tuguri e le soffitte, dove passò tante volte angelo consolatore». Lo conobbi decenne e lo seguii per quasi tutto il ginnasio e parte del liceo… lo seguii con crescente interesse e affetto fino alla sua odierna trasfigurazione… Scriverò la sua vita. Si tratta della raccolta di testimonianze che presentano la figura di questo giovane nella pienezza della sua luce, nella verità spirituale e morale, nella testimonianza luminosa e contagiosa di bontà e di generosità”.

Il best-seller dell’editoria cattolica
Incoraggiato e spinto anche dall’arcivescovo di Torino, Mons. Giuseppe Gamba, don Cojazzi si mise al lavoro di buona lena. Le testimonianze arrivarono numerose e qualificate, furono ordinate e vagliate con cura. La mamma di Pier Giorgio seguiva il lavoro, dava suggerimenti, forniva materiale. Nel marzo del 1928 esce la vita di Pier Giorgio. Scrive Luigi Gedda: “Fu un successo strepitoso. In soli nove mesi vennero esaurite 30 mila copie del libro. Nel 1932 erano già state diffuse 70 mila copie. Nel giro di 15 anni il libro su Pier Giorgio raggiunse 11 edizioni, e forse fu il best-seller dell’editoria cattolica in quel periodo”.
La figura illuminata da don Cojazzi fu una bandiera per l’Azione Cattolica durante il difficile tempo del fascismo. Nel 1942 avevano preso il nome di Pier Giorgio Frassati: 771 associazioni giovanili di Azione Cattolica, 178 sezioni aspiranti, 21 associazioni universitarie, 6o gruppi di studenti medi, 29 conferenze di S. Vincenzo, 23 gruppi del Vangelo… Il libro fu tradotto almeno in 19 lingue.
Il libro di don Cojazzi segnò una svolta nella storia della gioventù italiana. Pier Giorgio, fu l’ideale additato senza alcuna riserva: uno che ha saputo dimostrare che essere cristiano fino in fondo non è affatto utopistico, né fantastico.
Pier Giorgio Frassati segnò una svolta anche nella storia di don Cojazzi. Quel biglietto scritto da Pier Giorgio sul letto di morte gli rivelò in maniera concreta, quasi brutale, il mondo dei poveri. Scrive lo stesso don Cojazzi: “Il Venerdì Santo di quest’anno (1928) con due universitari visitai per quattro ore i poveri fuori Porta Metronia. Quella visita mi procurò una salutarissima lezione e umiliazione. Io avevo scritto e parlato moltissimo sulle Conferenze di S. Vincenzo… eppure non ero mai andato una sola volta a visitare i poveri. In quei luridi capannoni mi vennero spesso le lacrime agli occhi… La conclusione? Eccola chiara e cruda per me e per voi: meno parole belle e più opere buone”.
Il contatto vivo con i poveri non solo un’attuazione immediata del Vangelo, ma una scuola di vita per i giovani. Sono la migliore scuola per i giovani, per educarli e tenerli nella serietà della vita. Chi si reca a visitare i poveri e ne tocca con mano le piaghe materiali e morali, come può sprecare il suo denaro, il suo tempo, la sua giovinezza? Come può lamentarsi dei propri lavori e dolori, quando ha conosciuto, per diretta esperienza, che altri soffrono più di lui?

Non vivacchiare, ma vivere!
Pier Giorgio Frassati è un esempio luminoso di santità giovanile, attuale, «inquadrato» nel nostro tempo. Egli attesta ancora una volta che la fede in Gesù Cristo è la religione dei forti e dei veramente giovani, che sola può illuminare tutte le verità con la luce del «mistero» e che soltanto essa può regalare la perfetta letizia. La sua esistenza è il perfetto modello della vita normale alla portata di tutti. Egli, come tutti i seguaci di Gesù e del Vangelo, incominciò dalle piccole cose; giunse alle altezze più sublimi a forza di sottrarsi ai compromessi di una vita mediocre e senza senso e impiegando la naturale testardaggine nei suoi fermi propositi. Tutto, nella sua vita, gli fu gradino per salire; anche ciò che gli avrebbe dovuto essere di inciampo. Fra i compagni era l’intrepido ed esuberante animatore di ogni impresa facendo convergere intorno a sé tanta simpatia e tanta ammirazione. La natura gli era stata larga di favori: di famiglia rinomata, ricco, d’ingegno sodo e pratico, fisico prestante e robusto, educazione completa, nulla gli mancava per farsi largo nella vita. Ma egli non intendeva vivacchiare, bensì conquistarsi il suo posto al sole, lottando. Era una tempra di uomo ed un’anima di cristiano.
La sua vita aveva in sé stessa una coerenza che riposava nell’unità dello spirito e della esistenza, della fede e delle opere. La sorgente di questa personalità così luminosa era nella profonda vita interiore. Frassati pregava. La sua sete della Grazia gli faceva amare tutto ciò che riempie e arricchisce lo spirito. S’accostava ogni giorno alla Santa Comunione, poi restava ai piedi dell’altare, a lungo, senza che nulla valesse a distrarlo. Pregava sui monti e per la via. Non era però, la sua, una fede ostentata, anche se i segni di croce fatti sulla pubblica strada passando davanti alle chiese erano grandi e sicuri, anche se il Rosario era detto ad alta voce, in una carrozza ferroviaria o nella camera di un albergo. Ma era piuttosto una fede vissuta così intensamente e schiettamente che erompeva dalla sua anima generosa e franca con una semplicità di atteggiamento che convinceva e commoveva. La sua formazione spirituale si irrobustì nelle adorazioni notturne di cui fu fervido propugnatore ed immancabile partecipante. Fece più di una volta gli esercizi spirituali traendone serenità e vigoria spirituale.
Il libro di don Cojazzi si chiude con la frase: «Averlo conosciuto o averne udito parlare significa amarlo, ed amarlo significa seguirlo». L’augurio che la testimonianza di Piergiorgio Frassati sia “sale e luce” per tutti, soprattutto per i giovani di oggi.




La radicalità evangelica del Beato Stefano Sándor

Stefano Sándor (Szolnok 1914 – Budapest 1953) è un martire coadiutore salesiano. Giovane allegro e devoto, dopo gli studi metallurgici entrò tra i Salesiani, diventando maestro tipografo e guida dei ragazzi. Animò oratori, fondò la Gioventù Operaia Cattolica e trasformò trincee e cantieri in “oratori festivi”. Quando il regime comunista confiscò le opere ecclesiali, continuò clandestinamente a educare e salvare giovani e macchinari; arrestato, fu impiccato l’8 giugno 1953. Radicato nell’Eucaristia e nella devozione a Maria, incarnò la radicalità evangelica di Don Bosco con dedizione educativa, coraggio e fede incrollabile. Beatificato da papa Francesco nel 2013, resta modello di santità laicale salesiana.

1. Cenni biografici
            Sándor Stefano nacque a Szolnok, in Ungheria, il 26 ottobre 1914 da Stefano e Maria Fekete, primo di tre fratelli. Il padre era impiegato presso le Ferrovie dello Stato, la madre invece era casalinga. Entrambi trasmisero ai propri figli una profonda religiosità. Stefano studiò nella sua città ottenendo il diploma di tecnico metallurgico. Fin da ragazzo veniva stimato dai compagni, era allegro, serio e gentile. Aiutava i fratellini a studiare e a pregare, dandone per primo l’esempio. Fece con fervore la cresima impegnandosi a imitare il suo santo protettore e san Pietro. Serviva ogni giorno la santa Messa dai padri francescani ricevendo l’Eucaristia.
            Leggendo il Bollettino Salesiano conobbe Don Bosco. Si sentì subito attratto dal carisma salesiano. Si confrontò col suo direttore spirituale, esprimendogli il desiderio di entrare nella Congregazione salesiana. Ne parlò anche ai suoi genitori. Essi gli negarono il consenso, e cercarono in ogni modo di dissuaderlo. Ma Stefano riuscì a convincerli, e nel 1936 fu accettato al Clarisseum, sede dei Salesiani a Budapest, dove in due anni fece l’aspirantato. Frequentò nella tipografia “Don Bosco” i corsi di tecnicostampatore. Iniziò il noviziato, ma dovette interromperlo per la chiamata alle armi.
            Nel 1939 ottenne il congedo definitivo e, dopo l’anno di noviziato, emise la sua prima professione l’8 settembre 1940 come salesiano coadiutore. Destinato al Clarisseum, si impegnò attivamente nell’insegnamento nei corsi professionali. Ebbe anche l’incarico dell’assistenza all’oratorio, che condusse con entusiasmo e competenza. Fu il promotore della Gioventù Operaia Cattolica. Il suo gruppo venne riconosciuto come il migliore del movimento. Sull’esempio di Don Bosco, si mostrò un educatore modello. Nel 1942 fu richiamato al fronte, e si guadagnò una medaglia d’argento al valore militare. La trincea era per lui un oratorio festivo che animava salesianamente, rincuorando i compagni di leva. Alla fine della Seconda guerra mondiale si impegnò nella ricostruzione materiale e morale della società, dedicandosi in particolare ai giovani più poveri, che radunava insegnando loro un mestiere. Il 24 luglio 1946 emise la sua professione perpetua. Nel 1948 conseguì il titolo di maestro-stampatore. Alla fine degli studi gli allievi di Stefano venivano assunti nelle migliori tipografie della capitale Budapest e dell’Ungheria.

            Quando lo Stato nel 1949, sotto Mátyás Rákosi, incamerò i beni ecclesiastici e iniziarono le persecuzioni nei confronti delle scuole cattoliche, che dovettero chiudere i battenti, Sándor cercò di salvare il salvabile, almeno qualche macchina tipografica e qualcosa dell’arredamento che tanti sacrifici era costato. Di colpo i religiosi si ritrovarono senza più nulla, tutto era diventato dello Stato. Lo stalinismo di Rákosi continuò ad accanirsi: i religiosi vennero dispersi. Senza più casa, lavoro, comunità, molti si ridussero allo stato di clandestini. Si adattarono a fare di tutto: spazzini, contadini, manovali, facchini, servitori… Anche Stefano dovette “sparire”, lasciando la sua tipografia che era diventata famosa. Invece di rifugiarsi all’estero rimase in patria per salvare la gioventù ungherese. Colto sul fatto (stava cercando di salvare delle macchine tipografiche), dovette fuggire in fretta e rimanere nascosto per alcuni mesi; poi, sotto altro nome, riuscì a farsi assumere in una fabbrica di detergenti della capitale, ma continuò impavido e clandestinamente il suo apostolato, pur sapendo che era attività rigorosamente proibita. Nel luglio del 1952 fu catturato sul posto di lavoro, e non fu più rivisto dai confratelli. Un documento ufficiale ne certifica il processo e la condanna a morte, eseguita per impiccagione l’8 giugno 1953.
            La fase diocesana della Causa di martirio iniziò a Budapest il 24 maggio 2006 e si concluse l’8 dicembre 2007. Il 27 marzo 2013 papa Francesco autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto di martirio e a celebrare il rito di beatificazione, che si svolse sabato 19 ottobre 2013 a Budapest.

2. Testimonianza originale di santità salesiana
            I rapidi cenni sulla biografia di Sándor ci hanno introdotto nel cuore della sua vicenda spirituale. Contemplando la fisionomia che ha assunto in lui la vocazione salesiana, segnata dall’azione dello Spirito e ora proposta dalla Chiesa, scopriamo alcuni tratti di quella santità: il senso profondo di Dio e la disponibilità piena e serena alla sua volontà, l’attrazione per Don Bosco e la cordiale appartenenza alla comunità salesiana, la presenza animatrice ed incoraggiante tra i giovani, lo spirito di famiglia, la vita spirituale e di preghiera coltivata personalmente e condivise con la comunità, la totale consacrazione alla missione salesiana vissuta nella dedizione agli apprendisti e ai giovani lavoratori, ai ragazzi dell’oratorio, all’animazione di gruppi giovanili. Si tratta di un’attiva presenza nel mondo educativo e sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo spinge interiormente!

            Non mancarono gesti che hanno dell’eroico e dell’insolito, fino a quello supremo di donare la propria vita per la salvezza della gioventù ungherese. «Un giovanotto voleva saltare sul tram che passava davanti alla casa salesiana. Sbagliando mossa, cadde sotto il veicolo. La carrozza si fermò troppo tardi; una ruota lo ferì profondamente alla coscia. Una grande folla si radunò a guardare la scena senza intervenire, mentre il povero malcapitato stava per dissanguarsi. In quel momento si aprì il cancello del collegio e Pista (nome famigliare di Stefano) corse fuori con una barella pieghevole sotto il braccio. Buttò per terra la sua giacca, si infilò sotto il tram e tirò fuori il giovanotto con prudenza, stringendo la sua cintura attorno alla coscia sanguinante, e mise il ragazzo sulla barella. A questo punto arrivò l’ambulanza. La folla festeggiò Pista con entusiasmo. Egli arrossì, ma non poté nascondere la gioia di avere salvato la vita a qualcuno».
            Uno dei suoi ragazzi ricorda: «Un giorno mi ammalai gravemente di tifo. All’ospedale di Újpest mentre al capezzale i miei genitori si preoccupavano per la mia vita, Stefano Sándor si offrì di darmi il sangue, se fosse stato necessario. Questo atto di generosità commosse molto mia madre e tutte le persone intorno a me».
            Anche se sono trascorsi oltre sessant’anni dal suo martirio e profonda è stata l’evoluzione della Vita Consacrata, dell’esperienza salesiana, della vocazione e della formazione del salesiano coadiutore, la via salesiana alla santità tracciata da Stefano Sándor è un segno e un messaggio che apre prospettive per l’oggi. Si compie in questo modo l’affermazione delle Costituzioni salesiane: «I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione». La sua beatificazione indica concretamente quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» indicata da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte.

2.1. Sotto il vessillo di Don Bosco
            È sempre interessante cercare di individuare nel piano misterioso che il Signore tesse su ciascuno di noi il filo conduttore di tutta l’esistenza. Con una formula sintetica il segreto che ha ispirato e guidato tutti i passi della vita di Stefano Sándor, si può sintetizzare con queste parole: al seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e sempre. Nella storia vocazionale di Stefano Don Bosco irrompe in modo originale e con i tratti tipici di una vocazione ben identificata, come scrisse il parroco francescano, presentando il giovane Stefano: «Qui a Szolnok, nella nostra parrocchia abbiamo un giovane molto bravo: Stefano Sándor di cui sono padre spirituale e che, finita la scuola tecnica, apprese il mestiere in una scuola metallurgica; fa la Comunione giornalmente e vorrebbe entrare in un ordine religioso. Da noi non avremmo nessuna difficoltà, ma lui vorrebbe entrare dai Salesiani come fratello laico».
            Il giudizio lusinghiero del parroco e direttore spirituale evidenzia: i tratti di lavoro e preghiera tipici della vita salesiana; un cammino spirituale perseverante e costante con una guida spirituale; l’apprendistato dell’arte tipografica che nel tempo si perfezionerà e si specializzerà.
            Era venuto a conoscere Don Bosco tramite il Bollettino Salesiano e le pubblicazioni salesiane di Rákospalota. Da questo contatto attraverso la stampa salesiana nacque forse la sua passione per la tipografia e per i libri. Nella lettera all’Ispettore dei Salesiani d’Ungheria, don János Antal, dove chiede di essere accettato tra i figli di Don Bosco, dichiarava: «Sento la vocazione di entrare nella Congregazione salesiana. Di lavoro ce n’è bisogno ovunque; senza lavoro non si può raggiungere la vita eterna. A me piace lavorare».
            Fin dall’inizio emerge la volontà forte e decisa di perseverare nella vocazione ricevuta, come poi di fatto avverrà. Quando il 28 maggio 1936 egli fece domanda di ammissione al noviziato salesiano, dichiarò di «aver conosciuto la Congregazione salesiana ed essere stato sempre più confermato nella sua vocazione religiosa, tanto da confidare di poter perseverare sotto il vessillo di Don Bosco». Con poche parole Sándor esprime una coscienza vocazionale di alto profilo: conoscenza esperienziale della vita e dello spirito della Congregazione; conferma di una scelta giusta e irreversibile; sicurezza per il futuro di essere fedele sul campo di battaglia che lo attende.
            Il verbale dell’ammissione al noviziato, in lingua italiana (2 giugno 1936), qualifica unanimemente l’esperienza dell’aspirantato: «Con ottimo risultato, diligente, di pietà buona e si offrì da sé all’oratorio festivo, fu pratico, di buon esempio, ricevette l’attestato di stampatore, ma non ha ancora la perfetta praticità». Sono già presenti quei tratti che, consolidati successivamente nel noviziato, ne definiranno la fisionomia di religioso salesiano laico: l’esemplarità della vita, la generosa disponibilità alla missione salesiana, la competenza nella professione di tipografo.
            L’8 settembre 1940 emette la sua professione religiosa come salesiano coadiutore. Di questo giorno di grazia riportiamo una lettera scritta da Pista, come veniva famigliarmente chiamato, ai suoi genitori: «Cari genitori, ho da riferire di un evento importante per me e che lascerà orme indelebili nel mio cuore. L’8 settembre per grazia del buon Dio e con la protezione della Santa Vergine mi sono impegnato con la professione ad amare e servire Dio. Nella festa della Vergine Madre ho fatto il mio sposalizio con Gesù e gli ho promesso col triplice voto di essere Suo, di non staccarmi mai più da Lui e di perseverare nella fedeltà a Lui fino alla morte. Prego pertanto tutti voi di non dimenticarmi nelle vostre preghiere e nelle Comunioni, facendo voti che io possa rimanere fedele alla mia promessa fatta a Dio. Potete immaginare che quello fu per me un giorno lieto, mai capitato nella mia vita. Penso che non avrei potuto dare alla Madonna un dono di compleanno più gradito del dono di me stesso. Immagino che il buon Gesù vi avrà guardato con occhi affettuosi, essendo stati voi a donarmi a Dio… Affettuosi saluti a tutti. PISTA».

2.2. Dedizione assoluta alla missione
            «La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto…», dicono le Costituzioni salesiane.12 Stefano Sándor visse la missione salesiana nel campo che gli era stato affidato, incarnando la carità pastorale educativa come salesiano coadiutore, con lo stile di Don Bosco. La sua fede lo portò a vedere Gesù nei giovani apprendisti e lavoratori, nei ragazzi dell’oratorio, in quelli della strada.
            Nell’industria tipografica la direzione competente dell’amministrazione è considerata un compito essenziale. Stefano Sándor era incaricato della direzione, dell’addestramento pratico e specifico degli apprendisti e della fissazione dei prezzi dei prodotti tipografici. La tipografia “Don Bosco” godeva in tutto il Paese di grande prestigio. Facevano parte delle edizioni salesiane il Bollettino Salesiano, Gioventù Missionaria, riviste per la gioventù, il Calendario Don Bosco, libri di devozione e l’edizione in traduzione ungherese degli scritti ufficiali della Direzione Generale dei Salesiani. È in quell’ambiente che Stefano Sándor prese ad amare i libri cattolici che venivano da lui non solo approntati per la stampa, ma anche studiati.
            Nel servizio della gioventù egli era pure responsabile dell’educazione collegiale dei giovani. Anche questo era un compito importante, oltre al loro addestramento tecnico. Era indispensabile disciplinare i giovani, in fase di sviluppo vigoroso, con fermezza affettuosa. In ogni momento del periodo di apprendistato egli li affiancava come un fratello maggiore. Stefano Sándor si distinse per una forte personalità: possedeva un’eccellente istruzione specifica, accompagnata dalla disciplina, dalla competenza e dallo spirito comunitario.
            Non si accontentava di un solo determinato lavoro, ma si rendeva disponibile ad ogni necessità. Si assunse il compito di sagrestano della piccola chiesa del Clarisseum e si prese cura nella direzione del “Piccolo Clero”. Prova della sua capacità di resistenza fu anche l’impegno spontaneo di lavoro volontario nel fiorente oratorio, frequentato regolarmente dai giovani dei due sobborghi di Újpest e Rákospalota. Gli piaceva giocare con i ragazzi; nelle partite di calcio faceva l’arbitro con grande competenza.

2.3. Religioso educatore
            Stefano Sándor fu educatore alla fede di ogni persona, confratello e ragazzo, soprattutto nei momenti di prova e nell’ora del martirio. Davvero Sándor aveva fatto della missione per i giovani il proprio spazio educativo, dove viveva quotidianamente i criteri del Sistema Preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza amorosa ai giovani lavoratori, nell’aiuto prestato a comprendere e accettare le situazioni di sofferenza, nella testimonianza viva della presenza del Signore e del suo amore indefettibile.
            A Rákospalota Stefano Sándor si dedicò con zelo all’addestramento dei giovani tipografi e all’educazione dei giovani dell’oratorio e dei “Paggi del Sacro Cuore”. Su questi fronti manifestò uno spiccato senso del dovere, vivendo con grande responsabilità la sua vocazione religiosa e caratterizzandosi per una maturità che suscitava ammirazione e stima. «Durante la sua attività tipografica, viveva coscienziosamente la sua vita religiosa, senza alcuna volontà di apparire. Praticava i voti di povertà, castità e obbedienza, senza alcuna forzatura. In questo campo, la sua sola presenza valeva una testimonianza, senza dire alcuna parola. Anche gli alunni riconoscevano la sua autorevolezza, grazie ai suoi modi fraterni. Metteva in pratica tutto ciò che diceva o chiedeva agli alunni, e a nessuno veniva in mente di contraddirlo in alcun modo».
            György Érseki conosceva i Salesiani fin dal 1945 e dopo la Seconda guerra mondiale andò ad abitare a Rákospalota, nel Clarisseum. La sua conoscenza con Stefano Sándor durò fino al 1947. Per questo periodo non solo ci offre uno spaccato della molteplice attività del giovane coadiutore, tipografo, catechista ed educatore della gioventù, ma anche una lettura profonda, dalla quale emerge la ricchezza spirituale e la capacità educativa di Stefano: «Stefano Sándor fu una persona molto dotata di natura. In qualità di pedagogo, posso sostenere e confermare la sua capacità di osservazione e la sua personalità poliedrica. Fu un bravo educatore e riusciva a gestire i giovani, uno per uno, in una maniera ottimale, scegliendo il tono adeguato con tutti. Vi è ancora un dettaglio appartenente alla sua personalità: considerava ogni suo lavoro un santo dovere, consacrando, senza sforzi e con grande naturalezza, tutta la sua energia alla realizzazione di questo scopo sacro. Grazie ad un intuito innato, riusciva a cogliere l’atmosfera e ad influenzarla positivamente. […] Aveva un carattere forte come educatore; si prendeva cura di tutti singolarmente. S’interessava dei nostri problemi personali, reagendo sempre nel modo più adatto a noi. In questo modo realizzava i tre principi di Don Bosco: la ragione, la religione e l’amorevolezza… I coadiutori salesiani non indossavano la veste all’infuori del contesto liturgico, ma l’aspetto di Stefano Sándor si distingueva dalla massa della gente. Per quanto riguarda la sua attività di educatore, non ricorreva mai alla punizione fisica, vietata secondo i principi di Don Bosco, diversamente da altri insegnanti salesiani più impulsivi, incapaci di padroneggiarsi e che a volte davano degli schiaffi. Gli alunni apprendisti affidati a lui formavano una piccola comunità all’interno del collegio, pur essendo diversi fra di loro dal punto di vista dell’età e della cultura. Essi mangiavano alla mensa insieme agli altri studenti, dove abitualmente durante i pasti si leggeva la Bibbia. Naturalmente vi era presente anche Stefano Sándor. Grazie alla sua presenza, il gruppo di apprendisti industriali riuscì sempre il più disciplinato… Stefano Sándor rimase sempre giovanile, dimostrando grande comprensione verso i giovani. Cogliendo i loro problemi, trasmetteva dei messaggi positivi e li sapeva consigliare sia sul piano personale, che su quello religioso. La sua personalità rivelava grande tenacia e resistenza nel lavoro; anche nelle situazioni più difficili, rimaneva fedele ai suoi ideali e a se stesso. Il collegio salesiano di Rákospalota ospitava una grande comunità, richiedendo un lavoro con i giovani a più livelli. Nel collegio, accanto alla tipografia, abitavano dei giovani salesiani in formazione, che erano in stretto rapporto con i coadiutori. Ricordo i seguenti nomi: József Krammer, Imre Strifler, Vilmos Klinger e László Merész. Questi giovani avevano compiti diversi da quelli di Stefano Sándor e ne differivano anche caratterialmente. Grazie però alla loro vita in comune, conoscevano i problemi, le virtù e i difetti gli uni degli altri. Stefano Sándor nel suo rapporto con questi chierici trovò sempre la misura adeguata. Stefano Sándor riuscì a trovare il tono fraterno per ammonirli, quando mostravano qualche loro manchevolezza, senza cadere nel paternalismo. Anzi, furono i giovani chierici a chiedere la sua opinione. A mio avviso, egli realizzò gli ideali di Don Bosco. Fin dal primo momento della nostra conoscenza, Stefano Sándor rappresentò lo spirito che caratterizzava i membri della Società Salesiana: senso del dovere, purezza, religiosità, praticità e fedeltà ai principi cristiani».

            Un ragazzo di quel tempo così ricorda lo spirito che animava Stefano Sándor: «Il mio primo ricordo di lui è legato alla sagrestia del Clarisseum, in cui egli, in qualità di sagrestano principale, esigeva l’ordine, imponendo la serietà dovuta alla situazione, rimanendo però sempre lui, con il suo comportamento, a darci il buon esempio. Era una delle sue caratteristiche quella di darci le direttive con un tono moderato, senza alzar la voce, chiedendoci piuttosto cortesemente di fare i nostri doveri. Questo suo comportamento spontaneo ed amichevole ci conquistò. Gli volevamo veramente bene. Ci incantò la naturalezza con la quale Stefano Sándor si occupava di noi. Ci insegnava, pregava e viveva con noi, testimoniando la spiritualità dei coadiutori salesiani di quel tempo. Noi, giovani, spesso non ci rendevamo conto di quanto fossero speciali queste persone, ma egli spiccava per la sua serietà, che manifestava in chiesa, nella tipografia e persino nel campo da gioco».

3. Riflesso di Dio con radicalità evangelica
            Ciò che dava spessore a tutto questo – la dedizione alla missione e la capacità professionale ed educativa – e che colpiva immediatamente coloro che lo incontravano era la figura interiore di Stefano Sándor, quella di discepolo del Signore, che viveva in ogni momento la sua consacrazione, nella costante unione con Dio e nella fraternità evangelica. Dalle testimonianze processuali emerge una figura completa, anche per quell’equilibrio salesiano per cui le diverse dimensioni si congiungono in una personalità armonica, unificata e serena, aperta al mistero di Dio vissuto nel quotidiano.
            Un tratto che colpisce di tale radicalità è il fatto che fin dal noviziato tutti i suoi compagni, anche quelli aspiranti al sacerdozio e molto più giovani di lui, lo stimassero e lo vedessero come modello da imitare. L’esemplarità della sua vita consacrata e la radicalità con cui visse e testimoniò i consigli evangelici lo distinsero sempre e ovunque per cui in molte occasioni, anche nel tempo della prigionia, diversi pensavano che fosse un sacerdote. Tale testimonianza dice molto della singolarità con cui Stefano Sándor visse sempre con chiara identità la sua vocazione di salesiano coadiutore, evidenziando proprio lo specifico della vita consacrata salesiana in quanto tale. Tra i compagni di noviziato Gyula Zsédely così parla di Stefano Sándor: «Entrammo insieme nel noviziato salesiano di Santo Stefano a Mezőnyárád. Il nostro maestro fu Béla Bali. Qui passai un anno e mezzo con Stefano Sándor e fui testimone oculare della sua vita, modello di giovane religioso. Benché Stefano Sándor avesse almeno nove-dieci anni più di me, conviveva con i suoi compagni di noviziato in modo esemplare; partecipava alle pratiche di pietà insieme a noi. Non sentivamo affatto la differenza d’età; ci stava a fianco con affetto fraterno. Ci edificava non solo attraverso il suo buon esempio, ma anche dandoci dei consigli pratici in merito all’educazione della gioventù. Si vedeva già allora come fosse predestinato a questa vocazione secondo i principi educativi di Don Bosco… Il suo talento di educatore balzò agli occhi anche di noi novizi, specialmente in occasione delle attività comunitarie. Con il suo fascino personale ci entusiasmava a tal punto, che davamo per scontato di poter affrontare con facilità anche i compiti più difficili. Il motore della sua profonda spiritualità salesiana furono la preghiera e l’Eucaristia, nonché la devozione alla Vergine Maria Ausiliatrice. Durante il noviziato, che durò un anno, vedevamo nella sua persona un buon amico. Divenne il nostro modello anche nell’obbedienza, poiché, essendo lui il più vecchio, fu messo alla prova con delle piccole umiliazioni, ma egli le sopportò con padronanza e senza dar segni di sofferenza o risentimento. In quel tempo, purtroppo, c’era qualcuno tra i nostri superiori che si divertiva ad umiliare i novizi, ma Stefano Sándor seppe resistere bene. La sua grandezza di spirito, radicata nella preghiera, era percepibile da tutti».
            Riguardo alla intensità con cui Stefano Sándor viveva la sua fede, con una continua unione con Dio, emerge una esemplarità di testimonianza evangelica, che possiamo ben definire un “riflesso di Dio”: «Mi pare che la sua attitudine interiore sia scaturita dalla devozione all’Eucaristia e alla Madonna, la quale aveva trasformato anche la vita di Don Bosco. Quando si occupava di noi, “Piccolo Clero”, non dava l’impressione di esercitare un mestiere; le sue azioni manifestavano la spiritualità di una persona capace di pregare con grande fervore. Per me e per i miei coetanei “il Signor Sándor” fu un ideale e neanche per sogno pensavamo che tutto ciò che abbiamo visto e udito fosse una messinscena superficiale. Ritengo che solo la sua intima vita di preghiera abbia potuto alimentare tale comportamento quando, ancora confratello giovanissimo, aveva compreso e preso sul serio il metodo di educazione di Don Bosco».
            La radicalità evangelica si espresse in diverse forme nel corso della vita religiosa di Stefano Sándor:
            – Nell’aspettare con pazienza il consenso dei genitori per entrare dai Salesiani.
            – In ogni passaggio della vita religiosa dovrà attendere: prima di essere ammesso al noviziato dovrà fare l’aspirantato; ammesso al noviziato dovrà interromperlo per fare il servizio militare; la domanda per la professione perpetua, prima accettata, verrà rinviata dopo un ulteriore periodo di voti temporanei.
            – Nelle dure esperienze del servizio militare e al fronte. Lo scontro con un ambiente che tendeva molte insidie alla sua dignità di uomo e di cristiano rafforzarono in questo giovane novizio la decisione di seguire il Signore, di essere fedele alla sua scelta di Dio, costi quel che costi. Davvero non c’è discernimento più duro ed esigente che quello di un noviziato provato e vagliato nella trincea della vita militare.
            – Negli anni della soppressione e poi del carcere, fino all’ora suprema del martirio.

            Tutto questo rivela quello sguardo di fede che accompagnerà sempre la storia di Stefano: la consapevolezza che Dio è presente e opera per il bene dei suoi figli.

Conclusione
            Stefano Sándor dalla nascita fino alla morte fu un uomo profondamente religioso, che in tutte le circostanze della vita rispose con dignità e coerenza alle esigenze della sua vocazione salesiana. Così visse nel periodo dell’aspirantato e della formazione iniziale, nel suo lavoro di tipografo, come animatore dell’oratorio e della liturgia, nel tempo della clandestinità e della carcerazione, fino ai momenti che precedettero la sua morte. Desideroso, fin dalla prima giovinezza, di consacrarsi al servizio di Dio e dei fratelli nel generoso compito dell’educazione dei giovani secondo lo spirito di Don Bosco, fu capace di coltivare uno spirito di fortezza e di fedeltà a Dio e ai fratelli che lo misero in grado, nel momento della prova, di resistere, prima alle situazioni di conflitto e poi alla prova suprema del dono della vita.
            Vorrei evidenziare la testimonianza di radicalità evangelica offerta da questo confratello. Dalla ricostruzione del profilo biografico di Stefano Sándor emerge un reale e profondo cammino di fede, iniziato fin dalla sua infanzia e giovinezza, irrobustito dalla professione religiosa salesiana e consolidato nell’esemplare vita di salesiano coadiutore. Si nota in particolare una genuina vocazione consacrata, animata secondo lo spirito di Don Bosco, da un intenso e fervoroso zelo per la salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Anche i periodi più difficili, quali il servizio militare e l’esperienza della guerra, non scalfirono l’integro comportamento morale e religioso del giovane coadiutore. È su tale base che Stefano Sándor subirà il martirio senza ripensamenti o esitazioni.
            La beatificazione di Stefano Sándor impegna tutta la Congregazione nella promozione della vocazione del salesiano coadiutore, accogliendo la sua testimonianza esemplare e invocando in forma comunitaria la sua intercessione per questa intenzione. Come salesiano laico, riuscì a dare buon esempio persino ai preti, con la sua attività in mezzo ai giovani e con la sua esemplare vita religiosa. È un modello per i giovani consacrati, per il modo con il quale affrontò le prove e le persecuzioni senza accettare compromessi. Le cause a cui si dedicò, la santificazione del lavoro cristiano, l’amore per la casa di Dio e l’educazione della gioventù, sono tuttora missione fondamentale della Chiesa e della nostra Congregazione.
Come educatore esemplare dei giovani, in particolare degli apprendisti e dei giovani lavoratori, e come animatore dell’oratorio e dei gruppi giovanili, ci è di esempio e di stimolo nel nostro impegno di annunciare ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà.




Venerabile Francesco Convertini, pastore secondo il Cuore di Gesu

Il venerabile don Francesco Convertini, salesiano missionario in India, emerge come un pastore secondo il Cuore di Gesù, forgiato dallo Spirito e totalmente fedele al progetto divino sulla sua vita. Attraverso le testimonianze di quanti l’hanno incontrato, si delineano la sua umiltà profonda, la dedizione incondizionata all’annuncio del Vangelo e il fervido amore per Dio e per il prossimo. Visse con gioiosa semplicità evangelica, affrontando fatiche e sacrifici con coraggio e generosità, sempre attento a chiunque incontrasse sul suo cammino.

1. Contadino nella vigna del Signore
            Presentare il profilo virtuoso di padre Francesco Convertini, missionario salesiano in India, un uomo che si è lasciato plasmare dallo Spirito e ha saputo realizzare la sua fisionomia spirituale secondo il disegno di Dio su di lui, è qualcosa di bello e di serio nello stesso tempo, perché richiama il senso vero della vita, come risposta a una chiamata, a una promessa, a un progetto di grazia.
            Molto originale è la sintesi tratteggiata su di lui da un sacerdote suo conterraneo, don Quirico Vasta, che conobbe padre Francesco nelle rare visite nella sua amata terra di Puglia. Questo testimone ci offre una sintesi del profilo virtuoso del grande missionario, introducendoci in modo autorevole e avvincente a scoprire qualcosa della statura umana e religiosa di questo uomo di Dio. «La “maniera” per misurare la statura spirituale di questo sant’uomo, di don Francesco Convertini, non è quella, analitica, di comparare la sua vita ai molteplici “parametri di condotta” religiosi (don Francesco, in quanto salesiano, accettò anche gli impegni propri di un religioso: la povertà, l’obbedienza, la castità e vi rimase fedele per tutta la vita). Al contrario, don Francesco Convertini appare, in sintesi, come fu realmente fin dall’inizio: un giovane contadino che, dopo – e forse a causa delle brutture della guerra –, si apre alla luce dello Spirito e, lasciando tutto, si pone al seguito del Signore. Da un lato sa quello che lascia; e lo lascia non solo con il vigore proprio del contadino meridionale, povero ma tenace; ma anche gioiosamente e con quella forza d’animo tutta personale che la guerra ha rinvigorito: quella di chi intende perseguire a testa bassa, ancorché silenziosamente e nel profondo dell’anima, ciò su cui ha concentrato l’attenzione. Dall’altro lato, sempre come un contadino, che ha colto in qualcosa o in qualcuno le “certezze” del futuro e la fondatezza delle proprie speranze e sa “di chi si sta fidando”; lascia che la luce di chi gli ha parlato lo ponga in condizioni di chiarezza operativa. E ne adopera fin da subito le strategie per conseguire lo scopo: la preghiera e la disponibilità senza misura, a qualunque costo. Non a caso, le virtù chiave di questo sant’uomo sono: l’azione silenziosa e senza clamori (cf. S. Paolo: “È quando sono debole che io sono forte”) e un rispettosissimo senso dell’altro (cf. Atti: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”).
Colto in tal modo, don Francesco Convertini risulta per davvero un uomo: schivo, incline a nascondere doti e meriti, alieno dal vantarsi, dolce con gli altri e forte con sé stesso, misurato, equilibrato, prudente e fedele; un uomo di fede, di speranza ed in abituale comunione con Dio; un religioso esemplare, nell’obbedienza, nella povertà, nella castità».

2. Tratti distintivi: “Sprigionava da lui un fascino, che ti sanava”
            Ripercorrendo le tappe della sua infanzia e giovinezza, della preparazione al sacerdozio e della vita missionaria, risulta evidente l’amore particolare di Dio per il suo servo e la corrispondenza di lui verso questo buon Padre. In particolare risaltano come tratti distintivi della sua fisionomia spirituale:

            – Illimitata fede-fiducia in Dio, incarnata nell’abbandono filiale alla divina volontà.
            Viveva una grandissima fiducia nella infinita bontà e misericordia di Dio e nei grandi meriti della passione e morte di Gesù Cristo, a cui tutto confidava e dal quale tutto si aspettava. Sulla salda roccia di tale fede si sobbarcò tutte le fatiche apostoliche. Freddo o caldo, pioggia tropicale o sole scottante, difficoltà o fatica, niente gli impedì di procedere sempre con fiducia, quando si trattava della gloria di Dio e della salvezza delle anime.

            – Incondizionato amore a Gesù Cristo Salvatore, a cui tutto offriva in sacrificio, cominciando dalla sua vita, consegnata alla causa del Regno.
            Padre Convertini si rallegrava della promessa del Salvatore e gioiva nella venuta di Gesù, come Salvatore universale e unico mediatore tra Dio e gli uomini: «Gesù ci diede tutto sé stesso morendo sulla croce e noi non saremo capaci di dare noi stessi a Lui completamente?».

            – Salvezza integrale del prossimo, perseguita con un’appassionata evangelizzazione.
            Gli abbondanti frutti della sua opera missionaria erano dovuti alla sua incessante preghiera e ai sacrifici senza risparmio fatti per il prossimo. Sono uomini e missionari di tale tempra che lasciano un solco indelebile nella storia delle missioni, del carisma salesiano e del ministero sacerdotale.
            Anche nel contatto con gli Indù, con i Musulmani, se da una parte era sollecitato da un vero desiderio di annuncio del Vangelo, che spesso portava alla fede cristiana, dall’altro si sentiva come obbligato a valorizzare quelle verità di fondo facilmente percepibili anche dai non cristiani, quali l’infinita bontà di Dio, l’amore del prossimo come via della salvezza e la preghiera come mezzo per ottenere grazie.

            – Incessante unione con Dio attraverso la preghiera, i sacramenti, l’affidamento a Maria Madre di Dio e nostra, l’amore alla Chiesa e al Papa, la devozione ai santi.
            Si sentiva figlio della Chiesa e la serviva con cuore di autentico discepolo di Gesù e missionario del Vangelo, affidato al Cuore Immacolato di Maria e nella compagnia dei santi sentiti come intercessori e amici.

            – Ascesi evangelica semplice e umile nella sequela della croce, incarnata in una vita straordinariamente ordinaria.
            Traspariva da tutta la sua persona la profonda umiltà, la povertà evangelica (portava con sé l’indispensabile), il volto angelico. Penitenza volontaria, controllo di sé: poco o quasi niente riposo, pasti irregolari. Si privava di tutto per donare ai poveri, anche i vestiti, le scarpe, il letto e il cibo. Dormiva sempre per terra. Digiunava a lungo. Con il passare degli anni contrasse parecchie malattie che minarono la sua salute: soffriva di asma, bronchiti, enfisema, mal di cuore… parecchie volte lo attaccavano in modo tale da costringerlo a stare a letto. Meravigliava come potesse sopportare tutto senza lamentarsi. Era proprio questo che gli attirava la venerazione degli indù, per cui egli era il “sanyasi”, colui che sapeva rinunciare a tutto per amor di Dio e per loro.

            La sua vita appare come una lineare ascesa verso le vette della santità nell’adempimento fedele della volontà di Dio e nella donazione di sé stesso ai fratelli, attraverso il ministero sacerdotale vissuto in fedeltà. Laici, religiosi ed ecclesiastici in modo concorde parlano del suo modo straordinario di vivere il quotidiano.

3. Missionario del Vangelo della gioia: «Ho annunziato loro Gesù. Gesù Salvatore. Gesù misericordioso»
            Non c’è stato un giorno in cui non sia andato da qualche famiglia per parlare di Gesù e del Vangelo. Padre Francesco aveva tale entusiasmo e zelo, da fargli sperare anche cose che sembravano umanamente impossibili. Padre Francesco divenne famoso come pacificatore tra le famiglie, o tra i villaggi in discordia. «Non è per mezzo delle discussioni che si arriva a capire. Dio e Gesù sono oltre le nostre discussioni. Bisogna soprattutto pregare e Dio ci darà il dono della fede. Per mezzo della fede si troverà il Signore. Non è forse scritto nella Bibbia che Dio è amore? Per la via dell’amore si giunge a Dio».

            Era un uomo pacificato interiormente e portava la pace. Voleva che tra la gente, nelle case o nei villaggi, non ci fossero alterchi, o risse, o divisioni. «Nel nostro villaggio eravamo cattolici, protestanti, indù e musulmani. Perché la pace regnasse tra di noi, di tanto in tanto il padre ci radunava tutti insieme e ci diceva come si poteva e si doveva vivere in pace tra di noi. Poi ascoltava coloro che volevano dire qualche cosa e alla fine, dopo aver pregato, dava la benedizione: un modo meraviglioso per conservare la pace tra di noi». Aveva una tranquillità d’animo veramente sorprendente; era la forza che gli veniva dalla certezza che aveva di fare la volontà di Dio, ricercata con fatica, ma poi abbracciata con amore una volta trovata.
            Un uomo che visse con semplicità evangelica, trasparenza di bambino, disponibilità ad ogni sacrificio, sapendo entrare in sintonia con ogni persona che incontrava sul suo cammino, viaggiando a cavallo, o in bicicletta, o più spesso camminando intere giornate a piedi con lo zaino sulle spalle. Appartenne a tutti senza distinzione di religione, di casta, di condizione sociale. Da tutti fu amato, perché a tutti portava “l’acqua di Gesù che salva”.

4. Un uomo dalla fede contagiosa: labbra in preghiera, rosario nelle mani, occhi al cielo
            «Noi sappiamo da lui che egli mai tralasciò la preghiera, sia quando si trovava con gli altri, sia quando era da solo, anche da soldato. Questo lo aiutò a fare tutto per Dio, specialmente quando faceva la prima evangelizzazione tra noi. Per lui non c’era tempo fisso: mattina o sera, sole o pioggia; caldo o freddo non erano un impedimento per lui, quando si trattava di parlare di Gesù o di fare del bene. Quando andava nei villaggi si sobbarcava a camminare anche di notte e senza prendere cibo pur di arrivare in qualche casa o in qualche villaggio per predicare il Vangelo. Anche quando fu messo come confessore a Krishnagar, veniva da noi per le confessioni durante il caldo soffocante del dopo pranzo. Gli dissi una volta: “Perché viene a quest’ora?”. Ed egli: “Nella passione, Gesù non scelse il suo tempo conveniente quando era condotto da Anna o Caifa o Pilato. Dovette farlo anche contro la sua volontà, per fare la volontà del Padre”.
            Evangelizzava non per proselitismo, ma per attrazione. Era il suo comportamento che attirava le persone. La sua dedizione e l’amore facevano dire alla gente che padre Francesco era la vera immagine del Gesù che predicava. L’amore di Dio lo portava a cercare l’intima unione con lui, a raccogliersi in preghiera, a evitare ciò che poteva dispiacere a Dio. Egli sapeva che si conosce Dio solo attraverso la carità. Soleva dire: “Ama Dio, non darGli dispiacere”».

            «Se c’era un sacramento in cui padre Francesco eccelleva in modo eroico, era l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione. Per qualsiasi persona della nostra diocesi di Krishnagar dire padre Francesco è dire l’uomo di Dio che mostrava la paternità del Padre nel perdonare specialmente al confessionale. I suoi ultimi 40 anni di vita li spese più in confessionale che in ogni altro ministero: ore e ore, specialmente in preparazione alle feste e alle solennità. Così tutta la notte di Natale e di Pasqua o delle feste patronali. Era sempre puntualmente presente nel confessionale ogni giorno, ma specialmente nelle domeniche prima delle Messe o alla vigilia vespertina delle feste e al sabato. Poi si avviava verso altri luoghi dove lui era confessore abituale. Era un compito questo molto caro a lui e molto atteso da tutti i religiosi della diocesi, dai quali appunto si recava settimanalmente. Il suo confessionale era sempre il più affollato e il più desiderato. I sacerdoti, i religiosi, la gente comune: sembrava che padre Francesco conoscesse ciascuno personalmente, tanto era pertinente nei suoi consigli e nei suoi ammonimenti. Io stesso mi meravigliavo per la saggezza dei suoi ammonimenti quando mi confessavo da lui. Infatti il servo di Dio fu il mio confessore per tutta la sua vita, da quando era missionario nei villaggi, fino al termine dei suoi giorni. Dicevo tra me: “È proprio quello che volevo sentire da lui…”. Il vescovo Mons. Morrow, che si confessava da lui regolarmente, lo considerava la sua guida spirituale, dicendo che padre Francesco era guidato dallo Spirito Santo nei suoi consigli e che la sua santità personale suppliva alla mancanza di doni naturali».

            La fiducia nella misericordia di Dio era un tema quasi assillante nelle sue conversazioni, e lo utilizzò bene come confessore. Il suo ministero del confessionale era ministero di speranza per sé e per coloro che si confessavano da lui. Le sue parole ispiravano speranza in tutti coloro che andavano a lui. «Al confessionale il servo di Dio era il sacerdote modello, famosissimo nell’amministrare questo sacramento. Il servo di Dio ammaestrava sempre cercando di condurre tutti alla salvezza eterna… Al servo di Dio piaceva indirizzare le sue preghiere al Padre che è nei cieli, e così pure insegnava alla gente di vedere in Dio il Padre buono. Specialmente a chi si trovava in difficoltà, anche spirituali e ai peccatori pentiti, ricordava che Dio è misericordioso e che si deve sempre confidare in lui. Il servo di Dio aumentava le sue preghiere e mortificazioni per scontare le sue infedeltà, come egli diceva, e per i peccati del mondo».

            Eloquenti le parole di don Rosario Stroscio, superiore religioso, che così concluse l’annuncio del decesso di padre Francesco: «Quelli che hanno conosciuto don Francesco ricorderanno sempre con amore i piccoli avvisi e le esortazioni che egli soleva dare in confessione. Con la sua vocina così debole, eppure così piena di ardore: “Amiamo le anime, lavoriamo solo per le anime… Avviciniamo il popolo… Trattiamo con esso in modo che il popolo capisca che l’amiamo…”. Tutta la sua vita fu una magnifica testimonianza della tecnica più fruttuosa del ministero sacerdotale e del lavoro missionario. Possiamo sintetizzarla nella semplice espressione: “Per vincere anime a Cristo non c’è mezzo più potente della bontà e dell’amore!”».

5. Amava Dio e amava il prossimo per amor di Dio: Metti amore! Metti amore!
            A Ciccilluzzo, nome famigliare, che aiutava nei campi guardando i tacchini e facendo altri lavori adatti alla sua giovane età, la mamma Caterina soleva ripetere: «Metti amore! Metti amore!».
            «Padre Francesco diede a Dio tutto, perché era convinto che essendosi consacrato tutto a Lui come religioso e sacerdote missionario, Iddio aveva su di lui pieno diritto. Quando gli chiedevamo perché non andasse a casa (in Italia), ci rispondeva che ormai si era dato tutto a Dio e a noi». Il suo essere sacerdote era tutto per gli altri: «Io sono prete per il bene del prossimo. Questo è il mio primo dovere». Si sentiva debitore di Dio in tutto, anzi, tutto apparteneva a Dio e al prossimo, mentre lui si era donato totalmente, non riservandosi nulla: padre Francesco ringraziava continuamente il Signore per averlo scelto ad essere sacerdote missionario. Mostrava questo senso di gratitudine verso chiunque avesse fatto qualche cosa per lui, fosse anche il più povero.
            Diede esempi di fortezza in modo straordinario adattandosi alle condizioni di vita del lavoro missionario a lui assegnato: una lingua nuova e difficile, che cercò di imparare abbastanza bene, perché questo era il modo per comunicare con il suo popolo; un clima durissimo, quello del Bengala, tomba di tanti missionari, che imparò a sopportare per amore di Dio e delle anime; viaggi apostolici a piedi attraverso zone sconosciute, con il rischio di incontrare animali selvatici.

            Fu un missionario e un evangelizzatore instancabile in una zona difficilissima come quella di Krishnagar – che voleva trasformare in Crist-nagar, città di Cristo –, dove erano difficili le conversioni, senza dimenticare l’opposizione dei protestanti e dei membri di altre religioni. Per l’amministrazione dei sacramenti affrontò tutti i pericoli possibili: pioggia, fame, malattie, belve selvatiche, persone malevoli. «Ho sentito spesso l’episodio di padre Francesco, che una notte, portando il SS. Sacramento ad un ammalato, s’imbatté in una tigre che stava accovacciata sul sentiero dove lui e i suoi compagni dovevano passare… Mentre gli accompagnatori cercavano di fuggire, il servo di Dio ordinò alla tigre: “Lascia passare il tuo Signore!”; e la tigre si scostò. Ma ho sentito altri simili esempi sul servo di Dio, che moltissime volte viaggiava a piedi di notte. Una volta un gruppo di briganti lo assaltò, credendo di avere qualche cosa da lui. Ma quando lo videro così privo di ogni cosa eccetto ciò che portava addosso, si scusarono e lo accompagnarono fino al prossimo villaggio».
            La sua vita di missionario è stata un continuo viaggiare: in bicicletta, a cavallo e il più delle volte a piedi. Questo suo camminare a piedi è forse l’atteggiamento che meglio ritrae l’instancabile missionario e il segno dell’autentico evangelizzatore: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza» (Is 52,7).

6. Occhi limpidi e rivolti al cielo
            «Osservando il viso sorridente del servo di Dio e guardando ai suoi occhi limpidi e rivolti al cielo, si pensava che egli non fosse di quaggiù, ma del cielo». Nel vederlo, fin dalla prima volta molti riportavano un’impressione indimenticabile di lui: i suoi occhi splendenti che mostravano un volto pieno di semplicità e innocenza e la barba lunga e venerabile richiamavano l’immagine di una persona piena di bontà e compassione. Un testimone afferma: «Padre Francesco era un santo. Non saprei dare un giudizio, ma penso che persone simili non si trovino. Noi eravamo piccoli, ma egli parlava con noi, non disprezzava mai nessuno. Non faceva differenza tra musulmani e cristiani. Il padre andava da tutti allo stesso modo e quando ci trovavamo insieme ci trattava tutti nella stessa maniera. A noi piccoli dava consigli: “Obbedite ai genitori, fate bene i vostri compiti, amatevi tutti come fratelli”. Ci dava poi piccoli dolci: nelle sue tasche c’era sempre qualche cosa per noi».
            Padre Francesco manifestò il suo amore per Dio soprattutto con la preghiera, che sembrava essere senza interruzioni. Si poteva vederlo sempre muovendo le labbra in preghiera. Anche quando parlava con le persone, teneva gli occhi sempre sollevati come se stesse vedendo qualcuno a cui stava parlando. Ciò che maggiormente e spesso colpiva la gente era la capacità di padre Convertini di essere totalmente concentrato su Dio e, allo stesso tempo, sulla persona che stava di fronte a lui, guardando con occhi sinceri il fratello che incontrava sul suo cammino: «Aveva, senza alcun dubbio, i suoi occhi fissi sul volto di Dio. Questo era un tratto indelebile della sua anima, una concentrazione spirituale di impressionante livello. Ti seguiva attentamente e ti rispondeva con estrema precisione quando tu parlavi con lui. Eppure, tu avvertivi che egli era “altrove”, in un’altra dimensione, in dialogo con l’Altro».

            Alla conquista della santità incoraggiava altri, come nel caso del cugino Lino Palmisano che si preparava al sacerdozio: «Sono molto contento sapendoti già al tirocinio; anche questo passerà presto, se saprai approfittare delle grazie del Signore che ogni giorno ti darà, per trasformarti in un santo cristiano di buon senso. Ti attendono gli studi più soddisfacenti della teologia che nutrirà la tua anima di Spirito di Dio, il quale ha chiamato ad aiutare Gesù nel Suo apostolato. Non pensare ad altri, ma a te solo, del come diventare un santo sacerdote come Don Bosco. Anche a suo tempo Don Bosco diceva: i tempi sono difficili, ma noi faremo puf, puf, andremo avanti anche contro corrente. Era la mamma celeste che gli diceva: infirma mundi elegitDeus. Niente paura, io ti aiuterò. Caro fratello, il cuore, l’anima di un sacerdote santo agli occhi del Signore vale più di tutti i tesserati, il giorno del tuo sacrificio assieme a quello di Gesù sull’altare è vicino, preparati. Non ti pentirai mai di essere stato generoso verso Gesù e verso i Superiori. Confidenza in loro, essi ti aiuteranno a vincere le piccole difficoltà del giorno che la tua bell’anima potrà incontrare. Ti ricorderò nella S. Messa di ogni giorno, perché tu pure possa un giorno offrirti tutto al Buon Dio».

Conclusione
            Come all’inizio, così anche al termine di questo breve excursus sul profilo virtuoso di padre Convertini, ecco una testimonianza che sintetizza quanto presentato.
            «Una delle figure di pionieri che mi colpì profondamente fu quella del Venerando don Francesco Convertini, zelante apostolo dell’amore cristiano, che riuscì a portare la notizia della Redenzione nelle chiese, nelle zone parrocchiali, nei vicoletti e capanne dei rifugiati e con chiunque incontrava, consolando, consigliando, aiutando con la sua squisita carità: un vero testimone delle opere di misericordia corporali e spirituali, sulle quali saremo giudicati: sempre pronto e zelante nel ministero del sacramento del perdono. Cristiani di ogni confessione, musulmani e indù, accettavano con gioia e prontezza colui che chiamavano l’uomo di Dio. Egli sapeva portare a ciascuno il vero messaggio dell’amore, che Gesù predicò e portò in questa terra: con l’evangelico contatto diretto e personale, per piccoli e grandi, bambini e bambine, poveri e ricchi, autorità e paria (fuori casta), cioè l’ultimo e il più disprezzato gradino dei rifiuti (sub)umani. Per me e per molti altri, è stata un’esperienza sconvolgente che mi ha aiutato a capire e vivere il messaggio di Gesù: “Amatevi come io vi ho amati”».

            L’ultima parola è a padre Francesco, come un’eredità che consegna a ciascuno di noi. Il 24 settembre 1973, scrivendo ai parenti da Krishnagar, il missionario vuole coinvolgerli nel lavoro per i non cristiani che sta facendo con fatica dopo la sua ultima malattia, ma sempre con zelo: «Dopo sei mesi di ospedale la mia salute è un po’ debole, mi sembra di essere una pignatta rotta e rattoppata. Tuttavia il misericordioso Gesù mi aiuta miracolosamente nel Suo lavoro delle anime. Mi faccio portare in città e poi ritorno a piedi, dopo aver fatto conoscere Gesù e la nostra santa religione. Finite le confessioni a casa, vado tra i pagani, molto più buoni di certi cristiani. Aff.mo nel Cuore di Gesù, sacerdote Francesco».




Santità salesiana 2024

Ogni anno, il postulatore per le cause dei santi della Congregazione Salesiana, don Pierluigi Cameroni, pubblica il “Dossier Postulazione Generale Salesiani di Don Bosco – 2024”, che presenta l’elenco aggiornato dei santi e beati relativi all’anno appena trascorso. In questa edizione, oltre alla lista aggiornata, troviamo anche il nuovo poster dedicato a questi testimoni della fede salesiana. Vi proponiamo una panoramica dei nomi inseriti nel dossier e delle principali attività della Postulazione previste per il 2024, per continuare a diffondere lo spirito di Don Bosco e la devozione verso i suoi santi e beati.

«Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa»
(Papa Francesco).

«D’ora innanzi sia nostro motto d’ordine: la santità dei figli sia prova della santità del padre».
(Don Rua)

Occorre esprimere profonda gratitudine e lode a Dio per la santità già riconosciuta nella Famiglia Salesiana di don Bosco e per quella in via di riconoscimento. L’esito di una Causa di Beatificazione e di Canonizzazione è un evento di straordinaria rilevanza e valenza ecclesiale. Si tratta infatti di operare un discernimento sulla fama di santità di un battezzato, che ha vissuto le beatitudini evangeliche in grado eroico o che ha dato la vita per Cristo.

Da don Bosco fino ai nostri giorni è attestata una tradizione di santità cui merita dare attenzione, perché incarnazione del carisma che da lui ha avuto origine e che si è espresso in una pluralità di stati di vita e di forme. Si tratta di uomini e donne, giovani e adulti, consacrati e laici, vescovi e missionari che in contesti storici, culturali, sociali diversi nel tempo e nello spazio hanno fatto brillare di singolare luce il carisma salesiano, rappresentando un patrimonio che svolge un ruolo efficace nella vita e nella comunità dei credenti e per gli uomini di buona volontà.

1. ELENCO AL 31 DICEMBRE 2024
La nostra Postulazione interessa 179 tra Santi, Beati, Venerabili, Servi di Dio.
Le Cause seguite direttamente dalla Postulazione sono 61 (+ 5 extra).

SANTI (10)
san Giovanni Bosco, sacerdote (data di Canonizzazione: 1° aprile 1934) – (Italia)
san Giuseppe Cafasso, sacerdote (22 giugno 1947) – (Italia)
santa Maria D. Mazzarello, vergine (24 giugno 1951) – (Italia)
san Domenico Savio, adolescente (12 giugno 1954) – (Italia)
san Leonardo Murialdo, sacerdote (3 maggio 1970) – (Italia)
san Luigi Versiglia, vescovo, martire (1° ottobre 2000) – (Italia – Cina)
san Callisto Caravario, sacerdote, martire (1° ottobre 2000) – (Italia – Cina)
san Luigi Orione, sacerdote (16 maggio 2004) – (Italia)
san Luigi Guanella, sacerdote (23 ottobre 2011) – (Italia)
sant’Artemide Zatti, religioso (9 ottobre 2022) – (Italia – Argentina)

BEATI (117)
beato Michele Rua, sacerdote (data di Beatificazione: 29 ottobre 1972) – (Italia)
beata Laura Vicuňa, adolescente (3 settembre 1988) – (Cile – Argentina)
beato Filippo Rinaldi, sacerdote (29 aprile 1990) – (Italia)
beata Maddalena Morano, vergine (5 novembre 1994) – (Italia)
beato Giuseppe Kowalski, sacerdote, martire (13 giugno 1999) – (Polonia)
beato Francesco Kęsy, laico, e 4 compagni martiri (13 giugno 1999) – (Polonia)
            Czesław Józ´wiak, laico
            Edward Kaz´mierski, laico
            Edward Klinik, laico
            Jarogniew Wojciechowski, laico
beato Pio IX, papa (3 settembre 2000) – (Italia)
beato Giuseppe Calasanz, sacerdote, e 31 compagni martiri (11 marzo 2001) – (Spagna)
            Antonio Maria Martín Hernández, sacerdote
            Recaredo de los Ríos Fabregat, sacerdote
            Giuliano Rodríguez Sánchez, sacerdote
            Giuseppe Giménez López, sacerdote
            Agostino García Calvo, coadiutore
            Giovanni Martorell Soria, sacerdote
            Giacomo Buch Canal, coadiutore
            Pietro Mesonero Rodríguez, chierico
            Giuseppe Otín Aquilué, sacerdote
            Alvaro Sanjuán Canet, sacerdote
            Francesco Bandrés Sánchez, sacerdote
            Sergio Cid Pazo, sacerdote
            Giuseppe Batalla Parramó, sacerdote
            Giuseppe Rabasa Bentanachs, coadiutore
            Gil Rodicio Rodicio, coadiutore
            Angelo Ramos Velázquez, coadiutore
            Filippo Hernández Martínez, chierico
            Zaccaria Abadía Buesa, chierico
            Giacomo Ortiz Alzueta, coadiutore
            Saverio Bordas Piferrer, chierico
            Felice Vivet Trabal, chierico
            Michele Domingo Cendra, chierico
            Giuseppe Caselles Moncho, sacerdote
            Giuseppe Castell Camps, sacerdote
            Giuseppe Bonet Nadal, sacerdote
            Giacomo Bonet Nadal, sacerdote
            Alessandro Planas Saurí, collaboratore laico
            Eliseo García García, coadiutore
            Giulio Junyer Padern, sacerdote
            María Carmen Moreno Benítez, vergine
            María Amparo Carbonell Muñoz, vergine
beato Luigi Variara, sacerdote (14 aprile 2002) – (Italia – Colombia)
beata Maria Romero Meneses, vergine (14 aprile 2002) – (Nicaragua – Costa Rica)
beato Augusto Czartoryski, sacerdote (25 aprile 2004) – (Francia – Polonia)
beata Eusebia Palomino, vergine (25 aprile 2004) – (Spagna)
beata Alexandrina M. Da Costa, laica (25 aprile 2004) – (Portogallo)
beato Alberto Marvelli, laico (5 settembre 2004) – (Italia)
beato Bronislao Markiewicz, sacerdote (19 giugno 2005) – (Polonia)
beato Enrico Saiz Aparicio, sacerdote, e 62 compagni martiri (28 ottobre 2007) – (Spagna)
            Felice González Tejedor, sacerdote
            Giovanni Codera Marqués, coadiutore
            Virgilio Edreira Mosquera, chierico
            Paolo Gracia Sánchez, coadiutore
            Carmelo Giovanni Pérez Rodríguez, suddiacono
            Teodulo González Fernández, chierico
            Tommaso Gil de la Cal, aspirante
            Federico Cobo Sanz, aspirante
            Igino de Mata Díez, aspirante
            Giusto Juanes Santos, chierico
            Vittoriano Fernández Reinoso, chierico
            Emilio Arce Díez, coadiutore
            Raimondo Eirín Mayo, coadiutore
            Matteo Garolera Masferrer, coadiutore
            Anastasio Garzón González, coadiutore
            Francesco Giuseppe Martín López de Arroyave, coadiutore
            Giovanni de Mata Díez, collaboratore laico
            Pio Conde Conde, sacerdote
            Sabino Hernández Laso, sacerdote
            Salvatore Fernández Pérez, sacerdote
            Nicola de la Torre Merino, coadiutore
            Germano Martín Martín, sacerdote
            Giuseppe Villanova Tormo, sacerdote
            Stefano Cobo Sanz, chierico
            Francesco Edreira Mosquera, chierico
            Emanuele Martín Pérez, chierico
            Valentino Gil Arribas, coadiutore
            Pietro Artolozaga Mellique, chierico
            Emanuele Borrajo Míguez, chierico
            Dionisio Ullívarri Barajuán, coadiutore
            Michele Lasaga Carazo, sacerdote
            Luigi Martínez Alvarellos, chierico
            Giovanni Larragueta Garay, chierico
            Fiorenzo Rodríguez Güemes, chierico
            Pasquale de Castro Herrera, chierico
            Stefano Vázquez Alonso, coadiutore
            Eliodoro Ramos García, coadiutore
            Giuseppe Maria Celaya Badiola, coadiutore
            Andrea Jiménez Galera, sacerdote
            Andrea Gómez Sáez, sacerdote
            Antonio Cid Rodríguez, coadiutore
            Antonio Torrero Luque, sacerdote
            Antonio Enrico Canut Isús, sacerdote
            Michele Molina de la Torre, sacerdote
            Paolo Caballero López, sacerdote
            Onorio Hernández Martín, chierico
            Giovanni Luigi Hernández Medina, chierico
            Antonio Mohedano Larriva, sacerdote
            Antonio Fernández Camacho, sacerdote
            Giuseppe Limón Limón, sacerdote
            Giuseppe Blanco Salgado, coadiutore
            Francesco Míguez Fernández, sacerdote
            Emanuele Fernández Ferro, sacerdote
            Felice Paco Escartín, sacerdote
            Tommaso Alonso Sanjuán, coadiutore
            Emanuele Gómez Contioso, sacerdote
            Antonio Pancorbo López, sacerdote
            Stefano García García, coadiutore
            Raffaele Rodríguez Mesa, coadiutore
            Antonio Rodríguez Blanco, sacerdote diocesano
            Bartolomeo Blanco Márquez, laico
            Teresa Cejudo Redondo, laica
beato Zeffirino Namuncurá, laico (11 novembre 2007) – (Argentina – Italia)
beata Maria Troncatti, vergine (24 novembre 2012) – (Italia – Ecuador)
            Decreto sul miracolo: 25 novembre 2024
            Canonizzazione 7 settembre 2025?
beato Stefano Sándor, religioso, martire (19 ottobre 2013) – (Ungheria)
beato Tito Zeman, sacerdote, martire (30 settembre 2017) – (Slovacchia).

VENERABILI (20)
ven. Andrea Beltrami, sacerdote, (data del Decreto super virtutibus: 15 dicembre 1966) – (Italia)
ven. Teresa Valsè Pantellini, vergine (12 luglio 1982) – (Italia)
ven. Dorotea Chopitea, laica (9 giugno 1983) – (Spagna)
ven. Vincenzo Cimatti, sacerdote (21 dicembre 1991) – (Italia – Giappone)
ven. Simone Srugi, religioso (2 aprile 1993) – (Palestina)
ven. Rodolfo Komorek, sacerdote (6 aprile 1995) – (Polonia – Brasile)
ven. Luigi Olivares, vescovo (20 dicembre 2004) – (Italia)
ven. Margherita Occhiena, laica (23 ottobre 2006) – (Italia)
ven. Giuseppe Quadrio, sacerdote (19 dicembre 2009) – (Italia)
ven. Laura Meozzi, vergine (27 giugno 2011) – (Italia – Polonia)
ven. Attilio Giordani, laico (9 ottobre 2013) – (Italia – Brasile)
ven. Giuseppe Augusto Arribat, sacerdote (8 luglio 2014) – (Francia)
ven. Stefano Ferrando, vescovo (3 marzo 2016) – (Italia – India)
ven. Francesco Convertini, sacerdote (20 gennaio 2017) – (Italia – India)
ven. Giuseppe Vandor, sacerdote (20 gennaio – 2017) – (Ungheria – Cuba)
ven. Ottavio Ortiz Arrieta Coya, vescovo (27 febbraio 2017) – (Perù)
ven. Augusto Hlond, cardinale (19 maggio 2018) – (Polonia)
ven. Ignazio Stuchly, sacerdote (21 dicembre 2020) – (Repubblica Ceca)
ven. Carlo Crespi Croci, sacerdote (23 marzo 2023) – (Italia – Ecuador)
ven. Antonio De Almeida Lustosa, vescovo (22 giugno 2023) – (Brasile)

SERVI DI DIO (27)
Le Cause sono elencate secondo lo stato di avanzamento

Positio esaminata dai cardinali e vescovi
Elia Comini, sacerdote (Italia) martire
Congresso Peculiare dei Teologi: 5 maggio 2022
Congresso Peculiare dei teologi: 11 aprile 2024
Sessione ordinaria Cardinali e vescovi: 10 dicembre 2024
Decreto sul martirio: 18 dicembre 2024

Positio esaminata dai teologi
Giovanni Świerc, sacerdote e 8 compagni, martiri (Polonia)
            Ignazio Dobiasz, sacerdote
            Francesco Harazim, sacerdote
            Casimiro Wojciechowski, sacerdote
            Ignazio Antonowicz, sacerdote
            Lodovico Mroczek, sacerdote
            Carlo Golda, sacerdote
            Vladimiro Szembek, sacerdote
            Francesco Miśka, sacerdote
Positio consegnata: 21 luglio 2022
Congresso peculiare storici. 28 marzo 2023
Sessione ordinaria Cardinale e Vescovi: giugno 2025

Consegnata la Positio
Costantino Vendrame, sacerdote (Italia – India)
Decreto di validità dell’Inchiesta diocesana: 1° febbraio 2013
Positio consegnata: 19 settembre 2023
Congresso peculiare teologi: 23 gennaio 2025

Oreste Marengo, vescovo (Italia – India)
Decreto di validità dell’Inchiesta diocesana: 6 dicembre 2013
Positio consegnata:28 maggio 2024
Congresso peculiare teologi: settembre-ottobre 2025

Rodolfo Lunkenbein, sacerdote (Germania – Brasile) e Simão Bororo, laico (Brasile), martiri
Decreto di validità dell’Inchiesta diocesana: 16 dicembre 2020
Positio consegnata: 28 novembre 2024
Congresso peculiare teologi: settembre-ottobre 2025

È in corso la redazione della Positio
Andrea Majcen, sacerdote (Slovenia – Cina – Vietnam)
Decreto di validità dell’Inchiesta diocesana: 23 ottobre 2020

Vera Grita, laica (Italia)
Decreto di validità dell’Inchiesta diocesana: 14 dicembre 2022

Cognata Giuseppe, vescovo (Italia)
Decreto validità Inchiesta diocesana: 11 gennaio 2023

Carlo Della Torre, sacerdote (Italia – Tailandia)
Decreto di validità dell’Inchiesta diocesana: 1° aprile 2016

Silvio Galli, sacerdote (Italia)
Decreto di validità dell’Inchiesta diocesana: 19 ottobre 2022

Akash Bashir, laico, martire (Pakistan)
Decreto validità Inchiesta diocesana: 24 ottobre 2024

Attesa validità Inchiesta diocesana
Antonietta Böhm, vergine (Germania – Messico)
Apertura Inchiesta diocesana: 7 maggio 2017
Chiusura Inchiesta diocesana: 28 aprile 2024
Validità Inchiesta diocesana

Antonino Baglieri, laico (Italia)
Apertura Inchiesta diocesana: 2 marzo 2014
Chiusura Inchiesta diocesana. 5 maggio 2024
Validità Inchiesta diocesana

Causa temporaneamente ferma
Anna Maria Lozano, vergine (Colombia)
Chiusura Inchiesta diocesana: 19 giugno 2014

È in corso l’Inchiesta diocesana
Luigi Bolla, sacerdote (Italia – Ecuador – Perù)
Apertura Inchiesta diocesana: 27 settembre 2021
Chiusura Inchiesta diocesana

Rosetta Marchese, vergine (Italia)
Apertura Inchiesta diocesana: 30 aprile 2021
Chiusura Inchiesta diocesana

Matilde Salem, laica (Siria)
Apertura Inchiesta diocesana: 20 ottobre 1995

Carlo Braga, sacerdote (Italia – Cina – Filippine)
Apertura Inchiesta diocesana: 30 gennaio 2014      

Cause extra seguite dalla Postulazione (5)
Venerabile COSTA DE BEAUREGARD CAMILLO, sacerdote (Francia)
            Il Decreto super virtutibus: 22 gennaio 1991
            Consulta medica super miro: 30 marzo 2023
            Congresso peculiare teologi: 19 ottobre 2023
            Sessione Ordinaria dei Cardinali e Vescovi: 20 febbraio 2024
            Beatificazione: 17 maggio 2025
Venerabile BARELLO MORELLO CASIMIRO, terziario francescano (Italia – Spagna)
            Il Decreto super virtutibus: 1° luglio 2000
Venerabile TYRANOWSKI GIOVANNI, laico (Polonia)
            Il Decreto super virtutibus: 20 gennaio 2017
Venerabile BERTAZZONI AUGUSTO, vescovo (Italia)
            Il Decreto super virtutibus: 2 ottobre 2019
Venerabile CANELLI FELICE, sacerdote (Italia)
            Il Decreto super virtutibus: 22 maggio 2021

Vanno anche ricordati i Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio che in tempi e modi diversi si sono incontrati con il carisma salesiano quali ad esempio: la Beata, Edvige Carboni, il Servo di Dio cardinale Giuseppe Guarino, fondatore delle Appostole della Sacra Famiglia, il Servo di Dio Salvo d’Acquisto, exallievo e numerosi altri.

2. EVENTI DEL 2024

Martedì 16 gennaio 2024 presso la cappella della Fondazione del Bocage a Chambéry ha avuto luogo la sessione di apertura per la ricognizione canonica e il trattamento conservativo dei resti mortali del venerabile Camille Costa de Beauregard (1841-1910), sacerdote diocesano.

Il 27 febbraio 2024 nella Sessione ordinaria dei Cardinali e Vescovi del Dicastero delle Cause dei Santi è stato dato voto positivo (7 su 7) al presunto miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Camille Costa de Beauregard Sacerdote diocesano (1841-1910), occorso al bambino René Jacquemond, per guarigione da «cheratocongiuntivite intensa con smerigliatura della cornea, forte iniezione pericheratica, arrossamento e iniezione delle congiuntiva, fotofobia e lacrimazione dell’occhio destro per trauma violento da agente vegetale-bardana» (1910).

Il 7 marzo 2024 la Consulta medica del Dicastero delle Cause dei Santi ha dato parere positivo, con tutti voti affermativi, al presunto miracolo attribuito all’intercessione della Beata Maria Troncatti, Figlia di Maria Ausiliatrice (1883-1969), da «trauma cranico encefalico aperto con frattura comminuta della teca cranica, esposizione del tessuto cerebrale in sede fronto-parieto-temporale destra e stato di coma (G6)» (2015).

14 marzo 2024 il Sommo Pontefice ha autorizzato il medesimo Dicastero a promulgare il Decreto riguardante il miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Servo di Dio Camillo Costa de Beauregard, Sacerdote diocesano; nato a Chambéry (Francia) il 17 febbraio 1841 e ivi morto il 25 marzo 1910.Il miracolo, avvenuto nel 1910, riguarda il bambino René Jacquemond, guarito da «cheratocongiuntivite intensa con smerigliatura della cornea, forte iniezione pericheratica, arrossamento e iniezione delle congiuntiva, fotofobia e lacrimazione dell’occhio destro per trauma violento da agente vegetale-bardana» (1910).

Il 15 marzo 2024 a Lahore (Pakistan) è stata chiusa l’Inchiesta diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione di Akash Bashir (1994-2015), Laico, Ex-allievo di Don Bosco, ucciso in odio alla fede. È la prima Causa di Beatificazione del Pakistan.

L’11 aprile 2024 nel corso del Congresso peculiare dei Consultori Teologi presso il Dicastero delle Cause dei Santi è stato espresso parere positivo circa la Positio super martyrio del Servo Elia Comini, Sacerdote Professo della Società Salesiana di San Giovanni Bosco (1910-1944), ucciso in odio alla fede nella strage nazista di Monte Sole il 1° ottobre 1944.

Il 28 aprile 2024 a Cuautitlán (Messico) chiusura dell’Inchiesta diocesana della Causa della Serva di Dio Antonieta Böhm (1907-2008), Figlia di Maria Ausiliatrice.

Il 5 maggio 2024 a Modica (Ragusa) chiusura dell’Inchiesta diocesana del Servo di Dio Antonino Baglieri (1951-2007), Laico, Volontario con Don Bosco.

Il 28 maggio 2024 il Congresso peculiare dei Teologi del Dicastero delle Cause dei Santi ha dato voto positivo al presunto miracolo attribuito all’intercessione della Beata Maria Troncatti, Figlia di Maria Ausiliatrice (1883-1969), da «trauma cranico encefalico aperto con frattura comminuta della teca cranica, esposizione del tessuto cerebrale in sede fronto-parieto-temporale destra e stato di coma (G6)» (2015).

Il 31 maggio 2024 è stato consegnato presso il Dicastero delle Cause dei Santi in Vaticano il volume della Positio super Vita, Virtutibus et Fama Sanctitatis del Servo di Dio Oreste Marengo (1906-1998), Vescovo salesiano missionario nel Nord Est India.

Martedì 4 giugno 2024, presso la comunità “Zeffirino Namuncurà” a Roma, sono stati inaugurati e benedetti dal Rettor Maggiore, il Cardinale Ángel Fernández Artime, i nuovi locali della Postulazione Generale salesiana.

Il 24 novembre 2024 il Dicastero delle Cause dei Santi nel Congresso ordinario ha dato la validità giuridica all’Inchiesta diocesana per la Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Akash Bashir (Risalpur 22 giugno 1994 – Lahore 15 marzo 2015) Laico, Ex allievo di Don Bosco.

Il 19 novembre 2024 nella Sessione ordinaria dei Cardinali e Vescovi del Dicastero delle Cause dei Santi è stato dato voto positivo al presunto miracolo attribuito all’intercessione della Beata Maria Troncatti, Religiosa Professa della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1883-1969), occorso guarigione miracolosa di un Signore da «Trauma cranio-encefalico aperto con frattura comminuta della teca cranica, perdita di sostanza cerebrale ed esposizione del tessuto cerebrale in sede fronto-parieto-temporale destra, danno assonale diffuso (DAI), coma grave evoluto in stato vegetativo di tipo 2», avvenuta nel 2015 in Ecuador.

Il 25 novembre 2024, il Santo Padre ha autorizzato il medesimo Dicastero a promulgare il Decreto riguardante
– il miracolo attribuito all’intercessione della Beata Maria Troncatti, Suora professa della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, nata a Córteno Golgi (Italia) il 16 febbraio 1883 e morta a Sucúa (Ecuador) il 25 agosto 1969.

Il 28 novembre 2024 è stato consegnato presso il Dicastero delle Cause dei Santi in Vaticano il volume della Positio super martyrio dei Servi di Dio Rodolfo Lunkenbein, Sacerdote Professo della Società di San Francesco di Sales e Simão Bororo, Laico, uccisi in odio alla fede il 15 luglio 1976.

Martedì 3 dicembre 2024 i Consultori Teologi del Dicastero delle Cause dei Santi, nel corso del Congresso Peculiare, hanno risposto affermativamente in merito alla Positio super martyrio dei Servi di Dio Giovanni Świerc e VIII Compagni, Sacerdoti Professi della Società di San Francesco di Sales, uccisi in odium fidei nei campi di sterminio nazisti negli anni 1941-1942.

Martedì 10 dicembre 2024 nel corso della Sessione Ordinaria dei Cardinali e Vescovi presso il Dicastero delle Cause dei Santi è stato espresso parere positivo circa la Positio super martyrio del Servo Elia Comini, Sacerdote Professo della Società Salesiana di San Giovanni Bosco (1910-1944), ucciso in odio alla fede nella strage nazista di Monte Sole il 1° ottobre 1944.

Mercoledì 18 dicembre 2024, il Santo Padre Francesco ha autorizzato il Dicastero delle Cause dei santi a promulgare il Decreto riguardante: il martirio del Servo di Dio Elia Comini, Sacerdote professo della Società di San Francesco di Sales; nato il 7 maggio 1910 a Calvenzano di Vergato (Italia, Bologna) e ucciso, in odio alla Fede, a Pioppe di Salvaro (Italia, Bologna) il 1° ottobre 1944.




Beato Luigi Variara: 150° della nascita

Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita del Beato Luigi Variara, figura straordinaria di sacerdote e missionario salesiano. Nato il 15 gennaio 1875 a Viarigi, in provincia di Asti, Luigi crebbe in un ambiente ricco di fede, cultura e amore fraterno, che forgiò il suo carattere e lo preparò alla straordinaria missione che lo avrebbe portato a servire i più bisognosi in Colombia.
Dalla sua infanzia trascorsa nel Monferrato, in una famiglia segnata dall’influenza spirituale di Don Bosco, alla sua vocazione missionaria maturata a Valdocco, la vita del Beato Variara rappresenta un esempio luminoso di dedizione al prossimo e fedeltà a Dio. Ripercorriamo i momenti salienti della sua infanzia e formazione, offrendo uno sguardo sulla straordinaria eredità spirituale e umana che ci ha lasciato.

Da Viarigi ad Agua de Dios
            Luigi Variara nasce a Viarigi in provincia di Asti il 15 gennaio 1875, 150 anni or sono, da una famiglia profondamente cristiana. Il padre Pietro aveva ascoltato don Bosco nel 1856, quando era giunto in paese per predicare una missione. Quando nasce Luigi il papà Pietro aveva quarantadue anni ed era sposato in seconde nozze con Livia Bussa. Pietro aveva conseguito il diploma di maestro, amava la musica e il canto ed animava le funzioni parrocchiali come organista e come direttore del coro da lui stesso fondato. Era una presenza molto stimata e apprezzata nel paese di Viarigi. Quando Luigi nacque si era nel corso di un rigido inverno e per le circostanze della nascita, la levatrice giudicò prudente battezzare il neonato. Due giorni dopo vennero completati i riti battesimali.
            La fanciullezza di Luigi è contrassegnata dalle tradizioni locali e dalla vita di casa, un insieme culturale e spirituale che contribuì a modellare il carattere e a trasmettere validi contenuti alla crescita del ragazzetto e segnarne la futura vocazione missionaria in Colombia.
            Significativo è il rapporto di Luigi con papà Pietro, suo formatore e maestro, che gli trasmise il senso cristiano della vita, i primi rudimenti della scuola e l’amore per la musica e il canto: aspetti che, come sappiamo, segneranno la vita e la missione di Luigi Variara. Il fratello minore Celso così ricorda: “Pur non rivelando alcunché di eccezionale, Luigi era tutto bontà e amore nelle manifestazioni della sua vita, sia con i genitori, e in particolare con la mamma; sia con noi… Non ricordo che mio fratello abbia mai usato modi meno cortesi e meno fraterni con noi, fratelli più piccoli. Fedele e devoto frequentatore della chiesa e delle funzioni, passava il resto del tempo non già a divertirsi per strada, ma in casa, leggendo e studiando i suoi libri di scuola e tenendo compagnia alla mamma”.
            È bello ricordare anche il rapporto del piccolo Luigi con la sorella maggiore Giovanna, figlia del primo matrimonio e madrina al suo battesimo. Anche se si sposò giovane, Giovanna mantenne sempre un legame speciale con il piccolo Luigi contribuendo a rafforzare i lineamenti della sua personalità, la sua inclinazione alla pietà e allo studio. Dei figli di Giovanna uno, Ulisse, diventerà sacerdote, ed Ernestina, Figlia di Maria Ausiliatrice. Inoltre, Giovanna, che morirà novantenne nel 1947, mantenne i legami epistolari tra Luigi e la mamma Livia durante la vita missionaria del fratello.
            Un altro aspetto che influenzerà la crescita del piccolo Luigi è che la casa dei Variara era quasi sempre piena di fanciulli. Papà Pietro, al termine delle lezioni, portava con sé gli scolari più bisognosi e dopo aver fatto un po’ di ripetizione li affidava alle cure di mamma Livia. E così facevano le altre famiglie. Racconta una testimone: “La signora Livia era la mamma di tutto il vicinato; il suo cortile era sempre pieno di ragazzi e ragazze; essa ci insegnava a cucire, giocava con noi, si mostrava sempre di buon umore”. Luigi crebbe in questo clima “oratoriano”, dove ci si sentiva a casa, ci si sentiva amati e la presenza paterna di papà Pietro e quella materna di mamma Livia erano risorse educative e affettive di prima qualità non solo per i loro figli, ma per tanti altri bambini e ragazzi, soprattutto i più poveri e disagiati.
            In questi anni Luigi conosce e si dedica ad un compagno handicappato, Andrea Ferrari, prendendosi cura di lui e facendolo sentire a suo agio. In ciò si può scorgere un seme di quella sollecitudine e vicinanza che poi segnerà la vita e la missione di Luigi Variara a servizio dei malati di lebbra ad Agua de Dios in Colombia.
            Davvero Luigi Vararia da bambino e da fanciullo sperimentò, con i suoi fratelli e con i ragazzi del vicinato, l’amore sincero dei propri genitori e attraverso il loro esempio conobbe il vero volto di Dio Padre, sorgente dell’amore autentico.

Passando da Valdocco
           
Don Bosco era molto conosciuto nel Monferrato: lo aveva percorso in tutte le direzioni con le ben note passeggiate autunnali insieme ai suoi ragazzi che con i loro schiamazzi e l’allegria rumorosa e contagiosa portavano festa ovunque arrivavano. I ragazzi del posto si univano felici alla truppa allegra e chiassosa e in seguito non pochi se ne partivano per ritrovarsi con quel prete, affascinanti per farsi educare da lui nell’oratorio di Torino.
            A Viarigi era rimasto un ricordo molto sentito la visita di don Bosco avvenuta nel febbraio 1856. Don Bosco aveva accettato l’invito del parroco, don Giovanni Battista Melino, a predicare una missione, dato che il paese era profondamente turbato e diviso per gli scandali di un ex sacerdote, un certo Grignaschi, che radunava attorno a sé una vera e propria setta e riscuoteva grande popolarità. Don Bosco riuscì a guadagnare un uditorio molto numeroso e invitò la popolazione alla conversione; fu così che Viarigi ritrovò il suo equilibrio religioso e la pace spirituale. Il legame spirituale che si era creato tra questo paese astigiano e il Santo dei giovani si prolungò nel tempo e proprio il piccolo Luigi alla prima comunione fu preparato dal parroco don Giovanni Battista Melino, lo stesso che aveva invitato don Bosco a predicare la missione popolare.
            Nella famiglia Variara, secondo i desideri di papà Pietro, Luigi doveva orientarsi al sacerdozio, ma lui al termine delle elementari non aveva desideri o particolari inquietudini vocazionali. In ogni caso avrebbe dovuto continuare gli studi e a questo punto entra in gioco Don Bosco: il ricordo da lui lasciato a Viarigi, la sua fama di uomo di Dio, l’amicizia con il parroco, i sogni di papà Pietro, la fama dell’oratorio di Torino fecero sì che Luigi il 1° ottobre 1887 entrasse a Valdocco iscritto alla prima classe ginnasiale, con il desiderio del papà che voleva il figlio avviato al sacerdozio. Tuttavia, il giovane Luigi in tutta semplicità ma con fermezza non aveva esitato dichiarare che non sentiva vocazione, ma il papà ribatte: “Se non ce l’hai, Maria Ausiliatrice te la darà. Sii buono e studia!”. Don Bosco morirà quattro mesi dopo l’arrivo del giovane Variara all’oratorio di Valdocco, ma l’incontro che Luigi ne fece fu sufficiente a segnarlo per tutta la vita. Egli stesso così ricorda l’evento: «Eravamo nella stagione invernale e un pomeriggio stavamo giocando nell’ampio cortile dell’oratorio, quando all’improvviso s’intese gridare da una parte all’altra: “Don Bosco, Don Bosco!”. Istintivamente ci slanciammo tutti verso il punto dove appariva il nostro buon Padre, che facevano uscire per una passeggiata nella sua carrozza. Lo seguimmo fino al posto dove doveva salire sul veicolo; subito si vide Don Bosco circondato dall’amata turba infantile. Io cercavo affannosamente il modo per mettermi in un posto da dove potessi vederlo a mio piacere, poiché desideravo ardentemente di conoscerlo. Mi avvicinai più che potei e, nel momento in cui lo aiutavano a salire sulla carrozza, mi rivolse un dolce sguardo, e i suoi occhi si posarono attentamente su di me. Non so ciò che provai in quel momento… fu qualcosa che non so esprimere! Quel giorno fu uno dei più felici per me; ero sicuro d’aver conosciuto un Santo, e che quel Santo aveva letto nella mia anima qualcosa che solo Dio e lui potevano sapere».




Andrea Beltrami profilo virtuoso (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

3. Storia di un’anima

3.1. Amare e patire
            Don Barberis tratteggia molto bene la parabola esistenziale del Beltrami leggendovi l’azione misteriosa e trasformante della grazia operante «attraverso le principali condizioni della vita salesiana, affinché ci fosse modello generale di alunno, di chierico, di maestro, di studente universitario, di sacerdote, di scrittore, di ammalato; modello in ogni virtù, così nella pazienza come nella carità, così nell’amore alla penitenza come, nello zelo». Ed è interessante che lo stesso don Barberis, introducendo la seconda parte della sua biografia che tratta delle virtù di don Beltrami, afferma: «La vita del nostro don Beltrami piuttosto che storia d’una persona potrebbe dirsi la storia di un’anima. Essa è tutta intrinseca; ed io mi fo tutto lo studio di far penetrare il caro lettore entro a quell’anima, perché ne ammiri i celesti carismi». Il richiamo alla “Storia di un’anima” non è casuale, non solo perché don Beltrami è contemporaneo alla Santa di Lisieux, ma possiamo affermare che sono davvero fratelli nello spirito che li animò. Lo zelo apostolico per la salvezza è maggiormente autentico e fecondo in coloro che la salvezza l’hanno sperimentata e, ritrovatisi salvati per grazia, vivono la propria vita come un puro dono d’amore per i fratelli, perché anch’essi siano raggiunti dall’amore redentivo di Gesù. «Tutta la vita, in vero, del nostro don Andrea potrebbe compendiarsi in due parole, che formano la sua tessera o divisa: Amare e patire – Amore e Dolore. Amore il più tenero, il più ardente, e, direi anche, il più zelante possibile verso quel bene, in cui si concentra ogni bene. Dolore il più vivo, il più acuto, il più penetrante dei suoi peccati, e alla contemplazione di quel sommo bene che per noi si abbassò sino alla follia, ai dolori ed alla morte della Croce. Di qui nasceva in una smania febbrile di patimenti: de’ quali, quanto più abbondava, tanto più provava desiderio: di qui ancora proveniva quel gusto, quella ineffabile voluttà nel patire, che è il segreto dei santi, ed una delle più sublimi meraviglie della Chiesa di Gesù Cristo».
            «E siccome nel Sacro Cuore di Gesù, divampante fiamme e coronato di spine, ambidue quegli affetti di amore e di dolore trovan pascolo sì copioso, e sì mirabilmente ad essi proporzionato, così, dal primo istante in cui egli conobbe questa divozione, sino all’ultimo della sua vita, il suo cuore fu come un vaso d’eletti aromi che innanzi a quel cuore divino sempre ardeva, e tramandava profumo d’incenso e di mirra, d’amore e di dolore». «Ottenere dal Cuore di Gesù la sospirata grazia di vivere lunghi anni per soffrire ed espiare le mie colpe. Morire no, ma vivere per patire, salvo però sempre il volere di Dio. Così potrò saziare questa sete. È così bello, così soave il patire quando Dio aiuta e dà la pazienza!». Sono testi di sintesi della spiritualità vittimale di don Beltrami che nella prospettiva della devozione al Sacro Cuore, tanto cara alla spiritualità dell’Ottocento e allo stesso Don Bosco, fa superare ogni lettura doloristica o peggio ancora di un certo masochismo spiritualistico. Fu infatti anche grazie a don Beltrami che don Rua consacrerà ufficialmente la Congregazione salesiana al Sacro Cuore di Gesù nell’ultima notte del secolo XIX.

3.2. Nella scia della Santa di Lisieux
            Alla brevità della vita cronologica supplisce la sorprendente ricchezza di testimonianza di vita virtuosa, che in breve tempo espresse un intenso fervore spirituale e una singolare tensione alla perfezione evangelica. Non è secondario che il venerabile Beltrami chiuda la sua esistenza tre mesi esatti dopo la morte di santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto santo, proclamata da Giovanni Paolo II Dottore della Chiesa per l’eminente Scienza dell’Amore divino che la contraddistinse. Attraverso la “Storia di un’anima” emerge la biografia interiore di una vita che, plasmata dallo Spirito nel giardino del Carmelo, fiorisce con frutti di santità e di fecondità apostolica per la Chiesa universale, tanto da essere proclamata da Pio XI nel 1927 Patrona delle missioni. Anche don Beltrami morì come santa Teresina di tubercolosi, ma entrambi negli sbocchi di sangue che li portavano rapidamente alla fine non videro tanto il deperimento di un corpo e il venir meno delle forze, ma colsero una vocazione particolare a vivere in comunione con Gesù Cristo, che li assimilava al suo sacrificio d’amore per il bene dei fratelli. Il 9 giugno del 1895, nella festa della Santissima Trinità, santa Teresa di Gesù Bambino si offre vittima di olocausto all’Amore misericordioso di Dio. Il 3 aprile dell’anno successivo, nella notte fra il giovedì ed il venerdì santo, ha una prima manifestazione della malattia che la condurrà alla morte. Teresa la accoglie come misteriosa visita dello Sposo divino. Nello stesso tempo entra nella prova della fede, che durerà fino alla sua morte. Peggiorando la sua salute, a partire dall’8 luglio 1897 viene trasferita in infermeria. Le sue sorelle ed altre religiose raccolgono le sue parole, mentre i dolori e le prove, sopportati con pazienza, si intensificano fino a culminare con la morte, nel pomeriggio del 30 settembre del 1897. «Io non muoio, entro nella vita», aveva scritto a un suo fratello spirituale, don Bellière. Le sue ultime parole «Dio mio, io ti amo» sono il sigillo della sua esistenza.
            Anche don Beltrami fino al termine della vita sarà fedele alla sua offerta vittimale, come scrisse pochi giorni prima della morte al suo maestro di noviziato: «Io prego sempre e m’offro vittima per la Congregazione, per tutti i Superiori e confratelli e soprattutto per coteste case di noviziato, che contengono le speranze della nostra pia Società».

4. Spiritualità vittimale
            Anche don Beltrami si collega a questa spiritualità vittimale, grado sublime di carità: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Ciò non significa soltanto il gesto estremo, supremo del dono fisico della vita per un altro, ma tutta la vita dell’individuo orientata al bene dell’altro. Si sentì chiamato a questa vocazione: «Sono tanti, soggiungeva, anche tra noi Salesiani, che lavorano molto e fanno del gran bene; ma non sono poi tanti che amino davvero il soffrire, e vogliano soffrir molto per il Signore: io desidero essere di questi». Proprio perché non è qualcosa di ambito dai più, di conseguenza non è nemmeno compreso. Ma questo non è una novità. Anche Gesù quando parlava ai discepoli della sua Pasqua, della sua salita a Gerusalemme incontrava incomprensione e Pietro stesso lo volle distogliere da questo proposito. Nell’ora suprema i suoi “amici” lo tradirono, rinnegarono e abbandonarono. Eppure l’opera della redenzione si è compiuta e si compie solo attraverso il mistero della croce e l’offerta che Gesù fa di sé al Padre come vittima di espiazione, unendo al suo sacrificio tutti coloro che accettano di partecipare alle sue sofferenze per la salvezza dei fratelli. La verità di tale offerta del Beltrami sta nella fecondità offerta dalla sua vita santa. Infatti egli dava efficacia alle sue parole sostenendo in particolare i confratelli nella loro vocazione, stimolandoli ad accettare con spirito di sacrificio le prove della vita in fedeltà alla vocazione salesiana. Don Bosco nelle primitive Costituzioni presentava il Salesiano come colui che «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo, ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime».
            La stessa malattia portò don Beltrami sia a una progressiva consumazione sia a un forzato isolamento, che gli lasciavano intatte le facoltà percettive e intellettive, anzi quasi affinandole con la lama del dolore. Solo la grazia della fede gli consentiva di accogliere quella condizione che di giorno in giorno lo assimilava sempre più al Cristo crocifisso e che una statua dell’Ecce homo, di un realismo sconvolgente e da far ribrezzo, voluta da lui nella sua camera, costantemente gli ricordava. La fede era regola della sua vita, la chiave di lettura delle persone e delle diverse situazioni; «gli stessi suoi patimenti egli al lume della fede considerava come grazie di Dio, ed insieme coll’anniversario della professione religiosa e dell’ordinazione sacerdotale, celebrava quello dell’inizio della sua grave malattia, la quale Egli credeva avesse cominciato il 20 febbraio 1891. In questa circostanza recitava di cuore il Te Deum per avergli concesso il Signore di patire per Lui». Meditava e coltivava un vivo culto per la Passione di Cristo e per Gesù Crocifisso: «Grande devozione, che può dirsi informò tutta la vita del servo di Dio… Era questo il soggetto quasi continuo delle sue meditazioni. Aveva sempre un Crocifisso avanti agli occhi e per lo più tra le mani… che baciava di tanto in tanto con trasporto».
            Dopo la morte gli si trovò appeso al collo, col crocifisso e con la medaglia di Maria Ausiliatrice, un borsellino contente alcune carte: preghiere in ricordo della sua ordinazione; una carta geografica in cui erano disegnati i cinque continenti per ricordare sempre al Signore i missionari sparsi nel mondo e alcune preghiere con cui si costituisce formalmente vittima al Sacro Cuore di Gesù, specialmente per gli agonizzanti, per le anime del Purgatorio, per la prosperità della Congregazione e della Chiesa. Tali preghiere, nelle quali il pensiero dominante riprendeva l’assillo di Paolo “Opto ego ipse anathema esse a Christo pro fratribus meis”, vennero sottoscritte da lui col suo sangue e approvate dal suo direttore don Luigi Piscetta in data 15 novembre 1895.

5. Don Beltrami è attuale?
            La domanda, non oziosa, se la posero già i giovani confratelli dello Studentato Teologico Internazionale di Torino-Crocetta quando nel 1948, in occasione del 50° della morte del venerabile don Beltrami, indissero una giornata commemorativa. Fin dalle prime battute dell’opuscolo che raccolse gli interventi tenuti in quell’occasione ci si chiede cosa abbia a che fare la testimonianza del Beltrami in rapporto alla vita salesiana, vita apostolica e di azione. Ebbene, dopo aver ricordato come egli fu esemplare negli anni in cui poté gettarsi nel lavoro apostolico, «fu altresì salesiano nell’accettare il dolore, quando esso parve stroncare una carriera e un avvenire così brillantemente e fruttuosamente intrapreso. Perché fu lì appunto che don Andrea rivelò una profondità di sentire salesiano e una ricchezza di dedizione che prima, nel lavoro poteva essere presa per giovanile ardimento, impulso all’agire, ricchezza di doti, qualcosa di normale, di ordinario insomma. Lo straordinario comincia, o meglio, si rivela nella malattia e mediante la malattia. Don Andrea, segregato, escluso oramai per sempre dall’insegnamento, dalla vita fraterna di collaborazione coi confratelli e dalla grande impresa di Don Bosco, si sente avviato verso una via nuova, solitaria, forse ripugnante ai suoi fratelli; ripugnante certo alla natura umana, tanto più alla sua, così ricca ed esuberante! Don Beltrami accettò questa via e vi si avviò con animo salesiano: salesianamente».
            Colpisce che si affermi che don Beltrami in certo modo abbia inaugurato una nuova via nella scia tracciata da Don Bosco, una chiamata speciale a illuminare il nucleo profondo della vocazione salesiana e il vero dinamismo della carità pastorale: «Noi abbiamo bisogno di avere quello che lui aveva nel cuore, quello che viveva profondamente nel suo intimo. Senza quella ricchezza interiore la nostra azione sarebbe vanificata; don Beltrami potrebbe rimproverarci la nostra vana vita dicendoci con Paolo: “nos quasi morientes, et ecce: vivimus!”». Egli stesso era consapevole di aver iniziato una nuova via come testimoniò il fratello Giuseppe: «A metà lezione cercava di convincermi della necessità di seguire la sua via, ed io, non pensandola come lui, mi opponevo, ed egli soffriva». Questo patire vissuto nella fede fu davvero fecondo apostolicamente e vocazionalmente: «Manifestazione della nuova ed originale concezione salesiana voluta e attuata da Lui, di un dolore cioè, fisico e morale, attivo, produttivo, anche materialmente, per la salvezza delle anime».
            Occorre anche dire che, sia per un certo clima spirituale un po’ pietistico, sia forse più inconsciamente per non lasciarsi troppo provocare dalla sua testimonianza, nel tempo si sedimentò una certa interpretazione che gradualmente portò, anche per i grandi cambi avvenuti, ad un oblio. Espressione di tale processo sono ad esempio i quadri che lo riproducono, che a coloro che lo conobbero, come don Eugenio Ceria, non piacevano proprio, perché lo ricordavano gioviale, con un aspetto aperto che ispirava confidenza e fiducia in chi lo avvicinava. Sempre don Ceria ricorda che già negli anni di Foglizzo don Beltrami viveva un’intensa vita interiore, una profonda e impetuosa unione con Dio, alimentata dalla meditazione e dalla comunione eucaristica, a tal punto che anche in pieno inverno, a temperature rigidissime, non portava il pastrano e teneva la finestra aperta, così da essere chiamato “orso bianco”.

5.1. Testimone dell’unione con Dio
            Tale spirito di sacrificio lo maturò in una profonda unione con Dio: «Il suo pregare consisteva nello stare continuamente alla presenza di Dio, tener gli occhi fissi nel Tabernacolo e sfogarsi col Signore con continue giaculatorie e aspirazioni affettuose. La sua meditazione si può dire continua… lo penetrava talmente che non si accorgeva di quanto avveniva intorno a sé, e penetrava talmente il soggetto che l’udii dirmi in confidenza che generalmente veniva a capire talmente i misteri che meditava che gli pareva di vederli come se si presentassero davanti agli occhi». Tale unione significata e realizzata in modo speciale nella celebrazione dell’Eucaristia, quando per incanto cessavano tutti i dolori e i colpi di tosse, si traduceva nella perfetta conformità alla volontà di Dio, soprattutto accettando le sofferenze: «Considerò l’apostolato delle sofferenze e dei patimenti come non meno fecondo di quello della vita più attiva; e mentre altri avrebbero detto sufficientemente occupati quegli anni non brevi nel patire, egli santificò il patire offrendolo al Signore e conformandosi alla divina volontà così generalmente da esserne non solo rassegnato, ma contento».
            È di notevole valore la richiesta fatta dallo stesso venerabile al Signore, come risulta da diverse lettere e in particolare quella al suo primo direttore di Lanzo don Giuseppe Scappini, scritta poco più di un mese prima della sua morte: «Non si affligga, mio padre dolcissimo in Gesù Cristo, della mia malattia; anzi ne gioisca nel Signore. L’ho chiesta io stesso al Buon Dio, per aver occasione di espiare i miei peccati in questo mondo, dove il Purgatorio si fa con merito. Propriamente io non ho domandato questa infermità, perché non ne aveva neppur l’idea, ma ho chiesto molto da soffrire ed il Signore mi ha esaudito in questo modo. Sia adunque benedetto in eterno; e mi aiuti sempre a portare la Croce con gioia. Creda, in mezzo a’ miei dolori, io sono felice di una felicità piena e compiuta, cosicché mi viene da ridere, quando mi fanno condoglianze e auguri di guarigione».

5.2. Saper soffrire
             “Saper soffrire”: per la propria santificazione, per espiazione e per apostolato. Festeggiava l’anniversario della propria malattia: «Il giorno 20 febbraio è anniversario della mia malattia: ed io ne faccio festa, come di un giorno benedetto da Dio; giorno fausto, pieno di letizia, fra i più belli della mia vita». Forse la testimonianza di don Beltrami conferma l’affermazione di Don Bosco «di Beltrami ce n’è uno solo», quasi ad indicare l’originalità della santità di questo suo figlio nell’aver sperimentato e visibilizzato il nucleo segreto della santità apostolica salesiana. Don Beltrami esprime l’esigenza che la missione salesiana non cada nella trappola di un attivismo e di una esteriorità che con il tempo condurrebbe ad un fatale destino di morte, ma preservi e coltivi il nocciolo segreto che esprime insieme profondità e ampiezza di orizzonte. Traduzione concreta di tale cura di interiorità e profondità spirituale sono: la fedeltà alla vita di preghiera, la preparazione seria e competente alla propria missione, soprattutto per il ministero sacerdotale, combattendo contro la negligenza e una colpevole ignoranza; l’uso responsabile del tempo.
            Più profondamente la testimonianza di don Beltrami ci dice che non si vive di rendita o di glorie passate, ma che ogni confratello e ogni generazione deve far fruttificare il dono ricevuto e saperlo trasmettere in forma fedele e creativa alle future generazioni. L’interruzione di questa virtuosa catena sarà fonte di danni e rovina. Il “saper soffrire” è un segreto che dà fecondità a ogni impresa apostolica. Lo spirito di offerta vittimale di don Beltrami si associa in modo mirabile al suo ministero sacerdotale, a cui si preparò con grande responsabilità e che visse nella forma di una singolare comunione con il Cristo immolato per la salvezza dei fratelli: nella lotta e nella mortificazione contro le passioni della carne; nella rinuncia agli ideali di un apostolato attivo da sempre desiderato; nella sete insaziabile di sofferenze; nell’aspirazione ad offrirsi vittima per la salvezza dei fratelli. Ad esempio, per la Congregazione oltre che la preghiera e l’offerta nominatim per diversi confratelli, tenendo il catalogo della Congregazione tra le mani, case e missioni, chiedeva la grazia della perseveranza e dello zelo, la conservazione dello spirito di Don Bosco e del suo metodo educativo. Uno dei libri scritti su di lui porta significativamente il titolo «La passiflora serafica», cioè “fiore della passione”, nome attribuito dai missionari Gesuiti nel 1610, per la somiglianza di alcune parti della pianta con i simboli religiosi della passione di Cristo: i viticci la frusta con cui venne flagellato; i tre stili i chiodi; gli stami il martello; la raggiera corollina la corona di spine. Autorevole è il parere di don Nazareno Camilleri, anima profondamente spirituale: «Don Beltrami ci pare eminentemente rappresenti, oggi, l’ansia divina della “santificazione della sofferenza” per la sociale, apostolica e missionaria fecondità, attraverso l’eroico entusiasmo della Croce, della Redenzione di Cristo in mezzo all’umanità».

5.3 Passaggio di testimone
            A Valsalice, don Andrea era di esempio a tutti: un giovane chierico, Luigi Variara, lo scelse come modello di vita: diventerà sacerdote e missionario salesiano in Colombia e fonderà, ispirandosi a don Beltrami, la Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Nato a Viarigi (Asti) nel 1875 Luigi Variara fu condotto undicenne a Torino-Valdocco dal padre. Entrato in noviziato il 17 agosto 1891, lo concluse emettendo i voti perpetui. Dopo si trasferì a Torino-Valsalice per lo studio della filosofia. Qui conobbe il venerabile Andrea Beltrami. A lui si ispirerà don Variara quando in seguito, ad Agua de Dios (Colombia), alle sue Figlie dei Santissimi Cuori proporrà la “consacrazione vittimale”.

Fine




Sarà Santa la Beata Maria Troncatti, Figlia di Maria Ausiliatrice

Il 25 novembre 2024, il Santo Padre Francesco ha autorizzato il Dicastero delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto riguardante il miracolo attribuito all’intercessione della Beata Maria Troncatti, Suora professa della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, nata a Córteno Golgi (Italia) il 16 febbraio 1883 e morta a Sucúa (Ecuador) il 25 agosto 1969. Con questo atto del Santo Padre si apre la via alla Canonizzazione della Beata Maria Troncatti.

Maria Troncatti nasce a Corteno Golgi (Brescia) il 16 febbraio 1883. Assidua alla catechesi parrocchiale e ai sacramenti, l’adolescente Maria matura un profondo senso cristiano che la apre alla vocazione religiosa. A Corteno arriva il Bollettino Salesiano e Maria pensa alla vocazione religiosa. Per obbedienza al padre e al parroco, però, attende di essere maggiorenne prima di chiedere l’ammissione all’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Emette la prima professione nel 1908 a Nizza Monferrato. Durante la Prima guerra mondiale (1915-1918) suor Maria segue a Varazze corsi di assistenza sanitaria e lavora come infermiera crocerossina nell’ospedale militare. Nel corso di un’alluvione in cui rischia di morire annegata Maria promette alla Madonna che se le avesse salvato la vita sarebbe partita per le missioni.

La Madre Generale, Caterina Daghero, la destina nel 1922 alle missioni dell’Ecuador. Rimane tre anni a Chunchi. Accompagnate dal Vescovo missionario Mons. Comin e da una piccola spedizione, suor Maria e altre due consorelle si addentrano nella foresta amazzonica. Loro campo di missione è la terra degli indios Shuar, nella parte sud-orientale dell’Ecuador. Si stabiliscono a Macas, un villaggio di coloni circondato dalle abitazioni collettive degli Shuar. Porta avanti con le sue consorelle un difficile lavoro di evangelizzazione in mezzo a rischi di ogni genere, non esclusi quelli causati dagli animali della foresta e dalle insidie dei vorticosi fiumi. Macas, Sevilla Don Bosco, Sucúa sono alcuni dei “miracoli” tuttora fiorenti dell’azione di suor Maria Troncatti: infermiera, chirurgo e ortopedico, dentista e anestesista… Ma soprattutto catechista ed evangelizzatrice, ricca di meravigliose risorse di fede, di pazienza e di amore fraterno. La sua opera per la promozione della donna shuar fiorisce in centinaia di nuove famiglie cristiane, formate per la prima volta su libera scelta personale dei giovani sposi. Viene soprannominata “la medica della Selva”, lotta per la promozione umana, in special modo della donna.
È la “madrecita”, sempre sollecita nell’andare incontro non solo agli ammalati, ma a tutti quelli che hanno bisogno di aiuto e di speranza. Dal semplice e povero ambulatorio giunge a fondare un vero ospedale e prepara lei stessa le infermiere. Con materna pazienza ascolta, favorisce la comunione tra la gente ed educa al perdono indigeni e coloni. “Uno sguardo al Crocifisso mi dà vita e coraggio per lavorare”, questa è la certezza di fede che sostiene la sua vita. In ogni attività, sacrificio o pericolo si sente sorretta dalla presenza materna di Maria Ausiliatrice.

Il 25 agosto 1969, a Sucúa (Ecuador), il piccolo aereo che trasporta in città suor Maria Troncatti precipita pochi minuti dopo il decollo, sul limitare di quella selva che è stata per quasi mezzo secolo la sua “patria del cuore”, lo spazio della sua donazione instancabile fra gli “shuar”. Suor Maria vive il suo ultimo decollo: quello che la porta in Paradiso! Ha 86 anni, tutti spesi in un dono d’amore. Aveva offerto la sua vita per la riconciliazione tra i coloni e gli Shuar. Scriveva: “Sono ogni giorno più felice della mia vocazione religiosa missionaria!”.

            È stata dichiarata Venerabile il 12 novembre 2008 e beatificata sotto il pontificato di Benedetto XVI a Macas (Vicariato Apostolico di Méndez – Ecuador) il 24 novembre 2012. Nell’omelia di beatificazione, il Cardinale Angelo Amato ne delineò la figura di consacrata e missionaria, mettendone in luce, nella ferialità e semplicità dei gesti di maternità e misericordia, la straordinarietà dell’“esempio di dedizione a Gesù e al suo Vangelo di verità e di vita” per il quale, a più di quarant’anni dalla sua morte, era ricordata con riconoscenza: “Suor Maria, animata dalla grazia, diventò una infaticabile messaggera del Vangelo, esperta in umanità e conoscitrice profonda del cuore umano. Condivideva le gioie e le speranze, le difficoltà e le tristezze dei suoi fratelli, grandi e piccoli. Riusciva a trasformare la preghiera in zelo apostolico e in servizio concreto al prossimo”. Il Cardinale Amato terminò l’omelia rassicurando i presenti, tra cui gli shuar, che “dal cielo la Beata Maria Troncatti continua a vegliare sulla vostra patria e sulle vostre famiglie. Continuiamo a chiedere la sua intercessione, per vivere nella fraternità, nella concordia e nella pace. Rivolgiamoci con fiducia a lei, affinché assista gli ammalati, consoli i sofferenti, illumini i genitori nell’educazione cristiana dei bambini, porti armonia nelle famiglie. Cari fedeli, come lo fu sulla terra, così dal cielo la Beata Maria Troncatti continuerà a essere la nostra Buona Madre”.

La biografia scritta da Suor Domenica Grassiano “Selva, patria del cuore” contribuì a far conoscere la testimonianza di questa grande missionaria e a diffonderne la fama di santità. Questa Figlia di Maria Ausiliatrice ha incarnato in modo singolare la pedagogia e della spiritualità del sistema preventivo, soprattutto attraverso quella maternità che ha segnato tutta la sua testimonianza missionaria in tutta la sua vita.

Da giovane suora negli anni 1920: pur continuando come infermiera dedica una particolare attenzione alle ragazze oratoriane, e in modo speciale ad un gruppo di esse piuttosto trascurate, chiassose e insofferenti verso ogni disciplina. Ebbene suor Maria le sa accogliere e trattare in modo tale che “avevano per lei una venerazione: si inginocchiavano davanti a lei, tanta era loro stima. Sentivano in lei un’anima tutta di Dio e si raccomandavano alla sua preghiera”.

Anche per le postulanti riserva un’attenzione speciale, comunicando fiducia e coraggio: “Fatti coraggio, non lasciarti prendere dal rimpianto per quanto hai lasciato… Prega il Signore e ti aiuterà a realizzare la tua vocazione”. Le quaranta postulanti di quell’anno giunsero tutte alla vestizione e alla professione, attribuendo tale risultato alle preghiere di suor Maria, che infonde speranza soprattutto quando vede difficoltà nell’adattarsi al nuovo genere di vita o nell’accettare il distacco dalla famiglia.

Da Madre dei poveri e dei bisognosi. Con il suo esempio e il suo messaggio ricorda che “noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima”. Quante anime salvate! Quanti bambini salvati da morte sicura! Quante ragazze e donne difese nella loro dignità! Quante famiglie formate e custodite nella verità dell’amore coniugale e famigliare! Quanti incendi di odio e di vendetta estinti con la forza della pazienza e la consegna della propria vita! E tutto vissuto con grande zelo apostolico e missionario.

Singolare la testimonianza di padre Giovanni Vigna, che lavorò per 23 anni nella stessa missione, illustra molto bene il cuore di suor Maria Troncatti: “Suor Maria si distingueva per una squisita maternità. Trovava ad ogni problema una soluzione che risultava, alla luce dei fatti, sempre la migliore. Era sempre disposta a scoprire il lato positivo delle persone. L’ho vista trattare la natura umana sotto tutti gli aspetti, i più miserevoli anche: ebbene li ha trattati con quella superiorità e gentilezza che in lei era cosa spontanea e naturale. Esprimeva la maternità come affetto tra le consorelle in comunità: era il segreto vitale che le sosteneva, l’amore che le univa le une alle altre; la condivisione piena delle fatiche, dei dolori, delle gioie. Esercitava la sua maternità soprattutto verso le più giovani. Tante sorelle hanno sperimentato la dolcezza e la forza del suo amore. Così era per i Salesiani che cadevano frequentemente ammalati perché non si risparmiavano nel lavoro e nelle fatiche. Lei li curava, li sosteneva anche moralmente, indovinando crisi, stanchezze, turbamenti. La sua anima trasparente vedeva tutto attraverso l’amore di un Padre che ci ama e ci salva. È stata strumento nella mano di Dio per opere meravigliose!”.




Andrea Beltrami profilo virtuoso (1/2)

            Il venerabile don Andrea Beltrami (1870-1897) è espressione emblematica di una dimensione costitutiva non solo del carisma salesiano, ma del cristianesimo: la dimensione oblativa e vittimale, che in chiave salesiana incarna le esigenze del “caetera tolle”. Una testimonianza che, sia per la sua singolarità, sia per ragioni in parte legate a letture datate o tramandate attraverso una certa vulgata, è andata scomparendo dalla visibilità del mondo salesiano. Resta il fatto che il messaggio cristiano presenta intrinsecamente aspetti incompatibili con il mondo e se ignorati rischiano di rendere infecondo lo stesso messaggio evangelico e, nello specifico, il carisma salesiano, non salvaguardato nelle sue radici carismatiche di spirito di sacrificio, di faticosa laboriosità, di rinunce apostoliche. La testimonianza di don Andrea Beltrami è paradigmatica di tutto un filone della santità salesiana che, partendo dai tre santi Andrea Beltrami, beato Augusto Czartoryski, beato Luigi Variara, continua nel tempo con altre figure di famiglia quali la beata Eusebia Palomino, la beata Alexandrina Maria da Costa, la beata Laura Vicuña, senza dimenticare la numerosa schiera dei martiri.

1. Radicalità evangelica

1.1. Radicale nella scelta vocazionale
            A Omegna (Novara), sulle rive del lago d’Orta, il 24 giugno 1870, nacque Andrea Beltrami. Ricevette in famiglia un’educazione profondamente cristiana, che fu poi sviluppata nel collegio salesiano di Lanzo ove entrò nell’ottobre del 1883. Qui maturò la sua vocazione. A Lanzo, un giorno ebbe la grande fortuna di incontrare Don Bosco. Rimastone affascinato, gli nacque dentro una domanda: «Perché non potrei essere anch’io come lui? Perché non spendere anch’io la vita per la formazione e la salvezza dei giovani?». Nel 1885, Don Bosco gli disse: «Andrea, diventa anche tu salesiano!». Nel 1886 ricevette l’abito chiericale da Don Bosco a Foglizzo e il 29 ottobre 1886 iniziava l’anno di noviziato con un proposito: «Voglio farmi santo». Tale proposito non fu formale, ma diventò ragione di vita. Specialmente don Eugenio Bianchi, suo maestro di noviziato, nella relazione che fece a Don Bosco, lo descrive come perfetto in ogni virtù. Tale radicalità fin dal noviziato si espresse nell’obbedienza ai superiori, nell’esercizio della carità verso i compagni, nell’osservanza religiosa da essere definito “Regola personificata”. Il 2 ottobre 1887, a Valsalice (Torino) Don Bosco riceveva i voti religiosi di Andrea: era diventato salesiano e intraprese subito gli studi per prepararsi al sacerdozio.
            Colpisce molto la fermezza e la determinazione nella risposta alla chiamata del Signore, segno del valore che egli attribuiva alla sua vocazione: «La grazia della vocazione fu per me una grazia, affatto singolare, invincibile, irresistibile, efficace. Il Signore mi aveva messo in cuore una ferma persuasione, un intimo convincimento che la sola via a me conveniente era farmi salesiano; era una voce di comando che non ammetteva replica, che toglieva ogni ostacolo alla quale non avrei potuto resistere anche se avessi voluto, e perciò avrei superato mille difficoltà, ancorché si fosse trattato di passare sul corpo di mio padre e di mia madre, come fece la Chantal che passò sul corpo del suo figlio”. Queste espressioni molto forti e forse poco piacevoli al nostro palato; sono come il preludio a una storia vocazionale vissuta con una radicalità non facile né da comprendere e tanto meno da accettare.

1.2. Radicale nel cammino formativo
            Un aspetto interessante e rivelativo di un agire prudenziale è la capacità di lasciarsi consigliare e correggere e diventare a sua volta capace di correzione e di consiglio: «Mi getto come un bambino nelle braccia sue abbandonandomi interamente alla sua direzione. Ella mi conduca per la via della perfezione, io sono risoluto con la grazia di Dio, di superare qualunque difficoltà, di fare qualunque sforzo per seguire i suoi consigli»; così al suo direttore spirituale don Giulio Barberis. Nell’esercizio dell’insegnamento e dell’assistenza «parlava sempre con calma e serenità… prima leggeva attentamente i regolamenti dei medesimi uffici… le norme ed il regolamento sull’assistenza e sul modo di far scuola… acquistò presto la conoscenza di ciascuno dei propri allievi, dei loro bisogni individuali, quindi si fece tutto a tutti ed a ciascuno». Nella correzione fraterna si lasciava ispirare da principi cristiani e interveniva ponderando bene le parole ed esprimendo chiaramente il suo pensiero.

            Risale a questo periodo la conoscenza del principe polacco Augusto Czartoryski da poco entrato in Congregazione, con il quale Andrea si legò d’amicizia: studiavano insieme le lingue straniere e si aiutavano a salire verso la vetta della santità. Quando Augusto si ammalò, i superiori pregarono Andrea di stargli vicino e di aiutarlo. Trascorsero insieme le vacanze estive negli istituti salesiani di Lanzo, Penango d’Asti, Alassio. Augusto, che intanto era arrivato al sacerdozio, era per Andrea angelo custode, maestro ed esempio eroico di santità. Don Augusto si spegnerà nel 1893 e don Andrea dirà di lui: “Ho curato un santo”. Quando poi a sua volta don Beltrami si ammalerà della stessa malattia, tra le probabili cause bisognerà annoverare anche questa dimestichezza di vita con l’amico infermo.

1.3. Radicale nella prova
            La sua malattia iniziò in modo brutale il 20 febbraio 1891 quando, in seguito ad un viaggio molto faticoso e durante i giorni di rigido inverno, si manifestarono i primi sintomi di un male che ne avrebbe minato la salute e lo avrebbe condotto alla tomba. Se tra le cause vi sono le fatiche scolastiche e i contatti con il principe Czartoryski affetto da tale malattia, meritano di essere ricordati sia lo sforzo ascetico che l’offerta vittimale. Circa tale lotta ingaggiata con il proprio uomo vecchio testimonia il suo compaesano e compagno di noviziato Giulio Cane: «Ebbi sempre la convinzione che il servo di Dio abbia preso la scossa più grave alla sua salute dalla forma violenta e costante con cui s’impose di rinnegare ogni suo moto volontario per farsi direi schiavo della volontà del Superiore, nel quale egli vedeva quella di Dio. Solo chi poté conoscere il servo di Dio negli anni della sua adolescenza e giovinezza, dallo spirito impulsivo, ardente, quasi ribelle ad ogni freno, e che sa come sia proprio della gente dei Beltrami Manera, il carattere tenace alle proprie opinioni, può farsi un chiaro concetto dello sforzo che il servo di Dio ebbe ad imporsi per dominare se stesso. In poi dalle conversazioni avute col servo di Dio mi feci questa convinzione: che Egli, diffidando di poter vincersi a gradi nel suo carattere, abbia fatto, fino dai primi mesi del suo Noviziato, il proposito della radicale rinunzia del suo volere, delle sue tendenze, delle sue aspirazioni. Tutto ciò ottenne con una costante vigilanza su se stesso per non venir mai meno al suo proposito. È impossibile che una tale lotta interna non abbia contribuito, più che le fatiche dello studio e dell’insegnamento, a minare la salute del servo di Dio». Davvero il giovane Beltrami prese alla lettera le parole del Vangelo: «Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12).

            Visse la sua sofferenza con letizia interiore: «Il Signore mi vuole sacerdote e vittima: che c’è di più bello?». La sua giornata iniziava con la Santa Messa, in cui egli univa le sue sofferenze al Sacrificio di Gesù presente sull’altare. La meditazione diventava contemplazione. Ordinato sacerdote da mons. Cagliero, si diede tutto alla contemplazione e all’apostolato della penna. D’una tenacia di volontà a tutta prova, con un desiderio veementissimo della santità, consumò la sua esistenza nel dolore e nel lavoro incessante. «La missione che Dio mi affida è di pregare e di soffrire”, diceva. “Io sono contento e felice e faccio sempre festa. Né morire, né guarire, ma vivere per soffrire: nei patimenti ho trovato la vera contentezza», fu il suo motto. Ma la sua vocazione più vera era la preghiera e la sofferenza: essere vittima sacrificale con la Vittima divina che è Gesù. Lo rivelano i suoi scritti luminosi e ardenti: «È pur bello nelle tenebre, quando tutti riposano, tenere compagnia a Gesù, alla tremula luce della lampada davanti al Tabernacolo. Si conosce allora la grandezza infinita del suo amore». «Chiedo a Dio lunghi anni di vita per soffrire ed espiare, riparare. Io sono contento e faccio sempre festa perché lo posso fare. Né morire né guarire, ma vivere per soffrire. Nella sofferenza sta la mia gioia, la sofferenza offerta con Gesù in croce». «Mi offro vittima con Lui, per la santificazione dei sacerdoti, per gli uomini del mondo intero».

2. Il segreto
            Nel suo testo fondamentale per comprendere la vicenda di don Andrea Beltrami, don Giulio Barberis situa la santità del giovane salesiano nell’orbita di quella di Don Bosco, apostolo della gioventù abbandonata. Per fama di santità e di segni don Barberis parla di don Beltrami come «splendente come astro insigne… che tanta luce sparse di buon esempio e tanto ci incoraggiò al bene con le sue virtù!». Si tratterà quindi di cogliere di quale esemplarità di vita si tratti e in quale misura sia di incoraggiamento a quanti la guardano. La testimonianza di don Barberis si fa ancora più stringente e in forma molto ardita dichiara: «Io sono da oltre 50 anni nella Pia Società Salesiana; sono stato oltre 25 anni Maestro dei novizi: quanti santi confratelli ho conosciuto, quanti buoni giovani sono passati sotto di me in questo tempo! Quanti fiori eletti si compiacque il Signore trapiantare nel giardino salesiano in Paradiso! Eppure, se io ho da dire tutto il mio pensiero, sebbene non intenda far paragoni, mia convinzione si è, che nessuno abbia sorpassato in virtù e santità il carissimo nostro don Andrea». E nel processo affermò: «Sono persuaso che sia una grazia straordinaria che volle fare Iddio alla Congregazione fondata dall’impareggiabile don Giovanni Bosco, affinché noi cercando di imitarlo, possiamo raggiungere nella Chiesa lo scopo che ebbe il venerabile Don Bosco nel fondarla». L’attestazione, condivisa da tanti, è basata sia su una conoscenza approfondita della vita dei santi, sia su una famigliarità con don Beltrami di oltre dieci anni.
            Ad uno sguardo superficiale la luce di santità del Beltrami parrebbe in contrasto con la santità di Don Bosco di cui dovrebbe essere un riflesso, ma una lettura attenta consente di cogliere un segreto ordito su cui è intessuta l’autentica spiritualità salesiana. Si tratta di quella parte nascosta, non visibile, che tuttavia costituisce l’ossatura portante della fisionomia spirituale ed apostolica di Don Bosco e dei suoi discepoli. L’ansia del “Da mihi animas” si nutre dell’ascetica del “caetera tolle”; la parte frontale del personaggio misterioso del famoso sogno dei dieci diamanti, con le gemme della fede, speranza, carità, lavoro e temperanza, esige che nella parte posteriore corrispondano quelle dell’obbedienza, povertà, premio, castità, digiuno. La breve esistenza di don Beltrami è densa di un messaggio che rappresenta il lievito evangelico che fa fermentare tutta l’azione pastorale ed educativa tipica della missione salesiana e senza il quale l’azione apostolica è destinata ad esaurirsi in uno sterile e inconcludente attivismo. «La vita di don Beltrami, passata tutta nascosta in Dio, tutta nella preghiera, nei patimenti, nelle umiliazioni, nei sacrifizi, tutta in un lavoro nascosto ma costante, in una carità eroica, sebbene ristretta in un piccolo cerchio secondo la sua condizione, in un complesso mi pare tanto ammirabile da far dire: la fede ha operato sempre dei prodigi, ne opera anche oggidì, come certamente ne opererà finché il mondo duri».
            Si tratta di una consegna totale ed incondizionata di sé al progetto di Dio che motiva l’autentica radicalità della sequela evangelica, vale a dire di ciò che sta alla base, a fondamento di un’esistenza vissuta come risposta generosa ad una chiamata. Lo spirito con cui don Beltrami visse la sua vicenda è bene espresso da questa testimonianza riportata da un suo compagno che mentre lo commiserava per la sua malattia fu interrotto dal Beltrami in questi termini: «Lascia, disse, Dio sa quel che fa; ad ognuno accettare il suo posto ed in quello essere veramente Salesiano. Voi altri sani lavorate, io ammalato soffro e prego», così convinto di essere vero imitatore di Don Bosco.
            Certo non è facile cogliere tale segreto, tale perla preziosa. Non lo fu per don Barberis che pure lo conobbe in modo serio per ben dieci anni come direttore spirituale; non lo fu nella tradizione salesiana che gradualmente ha emarginato tale figura; non lo è nemmeno per noi oggi e per tutto un contesto culturale e antropologico che tende ad emarginare il messaggio cristiano, soprattutto nel suo nucleo di opera redentiva che passa attraverso lo scandalo dell’umiliazione, della passione e della croce. «Descrivere le singolari virtù d’un uomo vissuto sempre chiuso in una casa religiosa, e, negli anni più importanti, in una cameretta, senza pur poter scendere le scale, per ragion della sua malattia, d’un uomo poi d’una tal umiltà che fece scomparire accuratamente tutti quei documenti che avrebbero potuto far conoscere le sue virtù, e che cercava non trapelasse ombra degli alti sensi di sua pietà; di uno che, a chi voleva e a chi non voleva, si protestava gran peccatore accennando a’ suoi innumerevoli peccati, mentre invece era sempre stato tenuto il migliore in qualunque scuola e collegio si fosse presentato, è opera non pure difficile, ma quasi impossibile». La difficoltà a cogliere il profilo virtuoso dipende dal fatto che tali virtù non erano né appariscenti, né suffragate da particolari fatti esteriori da attirare l’attenzione o suscitare ammirazione.

(continua)




La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Esodo verso il sacerdozio del figlio
            Dal sogno dei nove anni, quando è la sola ad intuire la vocazione del figlio, «chissà che non abbia a diventare prete», è la più convinta e tenace sostenitrice della vocazione del figlio, affrontando per questo umiliazioni e sacrifici: «Sua madre allora, che voleva secondarlo a costo di qualunque sacrifizio, non esitò a prendere la risoluzione di fargli frequentare le scuole pubbliche di Chieri nell’anno seguente. Quindi si diede premura di trovar persone veramente cristiane presso le quali potesse collocarlo in pensione». Margherita segue con discrezione il cammino vocazionale e formativo di Giovanni, tra gravi strettezze economiche.
            Lo lascia sempre libero nelle sue scelte e non condiziona per nulla il suo cammino verso il sacerdozio, ma quando il parroco cerca di convincere Margherita perché Giovanni non intraprenda una scelta di vita religiosa, così da garantirle una sicurezza economica e un aiuto, subito raggiunge il figlio e pronuncia delle parole che resteranno scolpite tutta la vita nel cuore di Don Bosco: «Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare, e che poi seguiti la tua vocazione senza guardar ad alcuno. Il parroco voleva che io ti dissuadessi da questa decisione, in vista del bisogno che potrei avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io dico: in queste cose non c’entro, perché Dio è prima di tutto. Non prenderti fastidio per me. Io da te non voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se tu ti risolvessi allo stato di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti neppure una sola visita, anzi non porrò mai più piede in casa tua. Ricordalo bene!».
            Ma in questo cammino vocazionale non manca di essere forte nei confronti del figlio, ricordandogli, in occasione della partenza per il seminario di Chieri, le esigenze legate alla vita sacerdotale: «Giovanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale; io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare quest’abito! Deponilo tosto. Amo meglio avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato nei suoi doveri». Don Bosco non dimenticherà mai queste parole di sua madre, espressione sia della coscienza della dignità sacerdotale, che frutto di una vita profondamente retta e santa.
            Il giorno della Prima Messa di Don Bosco ancora una volta Margherita si rende presente con parole ispirate dallo Spirito, sia esprimendo il valore autentico del ministero sacerdotale, che la consegna totale del figlio alla sua missione senza alcuna pretesa o richiesta: «Sei prete; dici la Messa; da qui avanti sei adunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che incominciare a dir Messa vuol dire cominciar a patire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pregherai per me, sia ancora io viva, o sia già morta; ciò mi basta. Tu da qui innanzi pensa solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me». Lei rinuncia completamente al figlio per offrirlo al servizio della Chiesa. Ma perdendolo lo ritrova, condividendo la sua missione educativa e pastorale tra i giovani.

5. Esodo dai Becchi a Valdocco
            Don Bosco aveva apprezzato e riconosciuto i grandi valori che aveva attinti nella sua famiglia: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, l’essenzialità delle cose, l’industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, l’allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e l’intensità degli affetti, il gusto per l’accoglienza e l’ospitalità; tutti beni che aveva trovato a casa sua e che lo avevano costruito in quel modo. È talmente segnato da questa esperienza che, quando pensa a un’istituzione educativa per i suoi ragazzi non vuole altro nome che quello di “casa” e definisce lo spirito che avrebbe dovuto improntarla con l’espressione “spirito di famiglia”. E per dare l’impronta giusta chiede a Mamma Margherita, ormai anziana e stanca, di lasciare la tranquillità della sua casetta in collina, per scendere in città e prendersi cura di quei ragazzi raccolti dalla strada, quelli che le daranno non poche preoccupazioni e dispiaceri. Ma lei va ad aiutare Don Bosco e a fare da mamma a chi non ha più famiglia e affetti. Se Giovanni Bosco impara alla scuola di Mamma Margherita l’arte di amare in modo concreto, generoso, disinteressato e verso tutti, la mamma condividerà fino in fondo e fino alla fine la scelta del figlio di dedicare la vita per la salvezza dei giovani. Questa comunione di spirito e di azione tra figlio e madre segna l’inizio dell’opera salesiana, coinvolgendo tante persone in questa divina avventura. Dopo aver raggiunto una situazione di tranquillità, accetta, non più giovane, di abbandonare la quieta vita e la sicurezza dei Becchi, per recarsi a Torino in una zona periferica e in una casa spoglia di tutto. È una vera ripartenza nella sua vita!

            Don Bosco dunque, dopo aver pensato e ripensato come uscire dalle difficoltà, andò a parlarne col proprio Parroco di Castelnuovo, esponendogli la sua necessità e i suoi timori.
                – Hai tua madre! Rispose il Parroco senza esitare un istante: falla venire con te a Torino.
Don Bosco, che aveva preveduto questa risposta, volle fare alcune riflessioni, ma Don Cinzano gli replicò:
                – Piglia con te tua madre. Non troverai nessuna persona più adatta di lei all’opera. Sta tranquillo; avrai un angelo al fianco! Don Bosco ritornò a casa convinto dalle ragioni postegli sott’occhio dal Prevosto. Tuttavia lo trattenevano ancora due motivi. Il primo era la vita di privazioni e di mutate abitudini, alle quali la madre avrebbe naturalmente dovuto andare soggetta in quella nuova posizione. La seconda proveniva dalla ripugnanza che egli provava nel proporre alla madre un ufficio che l’avrebbe resa in certo qual modo dipendente da lui. Per Don Bosco sua mamma era tutto, e col fratello Giuseppe, era abituato a tenere per legge indiscutibile ogni suo desiderio. Tuttavia dopo aver pensato e pregato, vedendo che non rimaneva altra scelta, concluse:
                – Mia madre è una santa e quindi posso farle la proposta!
Un giorno dunque la prese in disparte e così le parlò:
                – Io ho deciso, o madre, di far ritorno a Torino fra i miei cari giovanetti. D’ora innanzi non stando più al Rifugio avrei bisogno di una persona di servizio; ma il luogo dove mi toccherà abitare in Valdocco, per causa di certe persone che vi dimorano vicino, è molto rischioso, e non mi lascia tranquillo. Ho dunque bisogno di avere al mio fianco una salvaguardia per levar via ai malevoli ogni motivo di sospetto e di chiacchiere. Voi sola mi potreste togliere da ogni timore; non verreste volentieri a stare con me? A questa uscita non attesa la pia donna rimase alquanto pensosa, e poi rispose:
                – Mio caro figlio, tu puoi immaginare quanto costi al mio cuore l’abbandonare questa casa, tuo fratello e gli altri cari; ma se ti pare che tal cosa possa piacere al Signore io sono pronta a seguirti. Don Bosco l’assicurò, e ringraziatala, concluse:
                – Disponiamo dunque le cose, e dopo la festa dei Santi partiremo. Margherita si recava ad abitare col figlio, non già per condurre una vita più comoda e dilettevole, ma per dividere con lui stenti e pene a sollievo di più centinaia di ragazzi poveri ed abbandonati; vi si recava, non già attirata da cupidigia di guadagno, ma dall’amor di Dio e delle anime, perché sapeva che la parte di sacro ministero, presa ad esercitare da Don Bosco, lungi dal porgergli risorsa o lucro di sorta, lo obbligava a spendere i propri beni, e inoltre a cercare elemosina. Ella non si arrestò; anzi, ammirando il coraggio e lo zelo del figlio, si sentì maggiormente stimolata a farsene compagna ed imitatrice, sino alla morte.

            Margherita vive all’oratorio portando quel calore materno e la saggezza di una donna profondamente cristiana, la dedizione eroica al figlio in tempi difficili per la sua salute e la sua incolumità fisica, esercitando in tal modo un’autentica maternità spirituale e materiale verso il figlio sacerdote. Infatti si stabilisce a Valdocco non solo per cooperare all’opera iniziata dal figlio, ma anche per fugare ogni occasione di maldicenza che potesse sorgere dalla vicinanza di locali equivoci.
            Lascia la tranquilla sicurezza della casa di Giuseppe per avventurarsi con il figlio in una missione non facile e rischiosa. Vive il suo tempo in una dedizione senza riserve per i giovanetti «di cui erasi costituita madre». Ama i ragazzi dell’oratorio come suoi figli e si adopera per il loro benessere, la loro educazione e la vita spirituale, dando all’oratorio quel clima famigliare che fin dalle origini sarà una caratteristica delle case salesiane. «Se esiste la santità delle estasi e delle visioni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così».
            Nei rapporti con i ragazzi ebbe un comportamento esemplare, distinguendosi per la sua finezza di carità e la sua umiltà nel servire, riservandosi le occupazioni più umili. Il suo intuito di madre e di donna spirituale risulta nel riconoscere in Domenico Savio un’opera straordinaria della grazia.
            Anche all’oratorio tuttavia non mancano situazioni di prova e quando ci fu un momento di tentennamento per la durezza dell’esperienza, dovuta a una vita molto esigente, lo sguardo al Crocifisso additato dal figlio basta a infonderle energie nuove: «Da quell’istante più non isfuggì dal suo labbro una parola di lamento. Parve anzi d’allora in poi insensibile a quelle miserie».
            Bene riassume don Rua la testimonianza di Mamma Margherita all’oratorio, con la quale visse quattro anni: «Donna veramente cristiana, pia, di cuore generoso e coraggiosa, prudente, che tutta si consacrò alla buona educazione dei suoi figli e della sua famiglia adottiva».

6. Esodo verso la casa del Padre
            Era nata povera. Visse povera. Morì povera con indosso l’unico abito che usava; in tasca 12 lire destinate a comprarne uno nuovo, che mai acquistò.
            Anche nell’ora della morte è rivolta al figlio amato e lo lascia con parole degne della donna saggia: «Abbi grande confidenza con quelli che lavorano con te nella vigna del Signore… Sta’ attento che molti invece della gloria di Dio cercano l’utilità propria… Non cercare né eleganza né splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio, abbi per base la povertà di fatto. Molti amano la povertà negli altri, ma non in sé stessi. L’insegnamento più efficace è fare noi per i primi quello che comandiamo agli altri».
            Margherita, che aveva consacrato Giovanni alla Vergine Santissima, a Lei lo aveva affidato agli inizi degli studi, raccomandandogli la devozione e la propagazione dell’amore a Maria, ora lo rassicura: «La Madonna non mancherà di guidare le cose tue».
            Tutta la sua vita fu un dono totale di sé. Sul letto di morte può dire: «Ho fatto tutta la mia parte». Muore a 68 anni nell’oratorio di Valdocco il 25 novembre 1856. Al cimitero l’accompagnano i ragazzi dell’oratorio piangendola come “Mamma”.
            Don Bosco addolorato dice a Pietro Enria: «Abbiamo perduto la madre, ma sono certo che essa ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!». E lo stesso Enria aggiunge: «Don Bosco non esagerò a chiamarla santa, perché essa si sacrificò per noi e fu per tutti una vera madre».

Concludendo
            Mamma Margherita fu una donna ricca di vita interiore e dalla fede granitica, sensibile e docile alla voce dello Spirito, pronta a cogliere e realizzare la volontà di Dio, attenta ai problemi del prossimo, disponibile nel provvedere ai bisogni dei più poveri e soprattutto dei giovani abbandonati. Don Bosco ricorderà sempre gli insegnamenti e ciò che aveva appreso alla scuola della mamma e tale tradizione segnerà il suo sistema educativo e la sua spiritualità. Don Bosco aveva sperimentato che la formazione della sua personalità era vitalmente radicata nello straordinario clima di dedizione e di bontà della sua famiglia; per questo ha voluto riprodurne le qualità più significative nella sua opera. Margherita intrecciò la sua vita con quella del figlio e con gli inizi dell’opera salesiana: fu la prima “cooperatrice” di Don Bosco; con bontà fattiva divenne l’elemento materno del Sistema Preventivo. Alla scuola di Don Bosco e di Mamma Margherita ciò significa curare la formazione delle coscienze, educare alla fortezza della vita virtuosa nella lotta, senza sconti e compromessi, contro il peccato, con l’aiuto dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, crescendo nella docilità personale, famigliare e comunitaria alle ispirazioni e mozioni dello Spirito Santo per rafforzare le ragioni del bene e testimoniare la bellezza della fede.
            Per tutta la Famiglia Salesiana questa testimonianza è un ulteriore invito ad assumere un’attenzione privilegiata alla famiglia nella pastorale giovanile, formando e coinvolgendo i genitori nell’azione educativa e evangelizzatrice dei figli, valorizzandone l’apporto negli itinerari di educazione affettiva e favorendo nuove forme di evangelizzazione e di catechesi delle famiglie e attraverso le famiglie. Mamma Margherita oggi è un modello straordinario per le famiglie. La sua è una santità di famiglia: di donna, di moglie, di madre, di vedova, di educatrice. La sua vita racchiude un messaggio di grande attualità, soprattutto nella riscoperta della santità del matrimonio.
            Ma occorre sottolineare un altro aspetto: uno dei motivi fondamentali per cui Don Bosco vuole sua madre accanto a sé a Torino è per trovare in lei una custodia al proprio sacerdozio. «Piglia con te tua madre», gli aveva suggerito il vecchio parroco. Don Bosco prende Mamma Margherita nella sua vita di prete e di educatore. Da bambino, orfano, era stata la mamma a prenderlo per mano, da giovane prete è lui che la prende per mano per condividere una missione speciale. Non si capisce la santità sacerdotale di Don Bosco senza la santità di Mamma Margherita, modello non solo di santità famigliare, ma anche di maternità spirituale verso i sacerdoti.




La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (1/2)

            Don Lemoyne nella prefazione alla vita di Mamma Margherita ci lascia un ritratto davvero singolare: «Non descriveremo fatti straordinari ed eroici, ma ritrarremo una vita semplice, costante nella pratica del bene, vigilante nell’educazione dei figli, rassegnata e previdente nelle angustie della vita, risoluta in tutto ciò che il dovere le imponeva. Non ricca, ma con un cuore da regina; non istruita in scienze profane, ma educata nel santo timore di Dio; priva ben presto di chi doveva essere il suo sostegno, ma sicura con l’energia della sua volontà appoggiata all’aiuto celeste, seppe condurre a termine felicemente la missione che Dio le aveva affidata».
            Con queste parole ci vengono offerti i tasselli di un mosaico e un canovaccio su cui possiamo costruire l’avventura dello Spirito che il Signore ha fatto vivere a questa donna che, docile allo Spirito, si è rimboccata le mani affrontando la vita con fede operosa e carità materna. Percorreremo le tappe di questa avventura con la categoria biblica dell’“esodo”, espressione di autentico cammino nell’obbedienza della fede. Anche Mamma Margherita ha vissuto le sue “uscite”, anche lei ha camminato verso “una terra promessa”, attraversando il deserto e superando prove. Questo cammino lo cogliamo in modo riflesso nella luce del suo rapporto con il figlio e secondo due dinamiche tipiche della vita nello Spirito: una meno visibile, costituita dal dinamismo interiore del cambiamento di sé, condizione previa e indispensabile per aiutare gli altri; l’altra più immediata e documentabile: la capacità di rimboccarsi le maniche per amare il prossimo in carne e ossa, venendo in soccorso di chi avesse bisogno.

1. Esodo da Capriglio alla cascina Biglione
            Margherita fu educata nella fede, visse e morì nella fede. «Dio era in cima a tutti i suoi pensieri». Sentiva di vivere alla presenza di Dio ed esprimeva questa persuasione con l’affermazione a lei abituale: «Dio ti vede». Tutto le parlava della paternità di Dio e grande era in lei la fiducia nella Provvidenza, dimostrando gratitudine a Dio per i doni ricevuti e riconoscenza a tutti coloro che erano strumenti della Provvidenza. Margherita trascorre la sua vita in continua e incessante ricerca della volontà di Dio, unico criterio operativo delle sue scelte e delle sue azioni.
            A 23 anni sposa Francesco Bosco, rimasto vedovo a 27 anni, con il figlio Antonio e con la madre semiparalizzata. Margherita non diventa solo moglie, ma mamma adottiva e aiuto per la suocera. Questo passo è per i due sposi il più importante perché sanno bene che l’aver ricevuto santamente il sacramento del matrimonio è per loro fonte di molte benedizioni: per la serenità e la pace in famiglia, per i futuri figli, per il lavoro e per superare i momenti difficili della vita. Margherita vive con fedeltà e fecondità il suo sposalizio con Francesco Bosco. I loro anelli saranno segno di una fecondità che si allargherà alla famiglia fondata dal figlio Giovanni. Tutto ciò susciterà in Don Bosco e nei suoi ragazzi un grande senso di riconoscenza e di amore verso questa coppia di santi coniugi e genitori.

2. Esodo dalla cascina Biglione ai Becchi
            Solo dopo cinque anni di matrimonio, nel 1817, il marito Francesco muore. Don Bosco ricorderà che, uscendo dalla stanza la mamma in lacrime «mi prese per mano», e lo portò fuori. Ecco l’icona spirituale ed educativa di questa madre. Prende per mano il figlio e lo conduce fuori. Già da questo momento c’è quel «prendere per mano», che accomunerà madre e figlio sia nel cammino vocazionale che nella missione educativa.
            Margherita si trova in una situazione molto difficile dal punto di vista affettivo ed economico, compresa una pretestuosa vertenza mossale dalla famiglia Biglione. Ci sono debiti da pagare, il duro lavoro nei campi e una terribile carestia da affrontare, ma lei vive tutte queste prove con grande fede e incondizionata fiducia nella Provvidenza.
            La vedovanza le apre una nuova vocazione di educatrice attenta e premurosa verso i propri figli. Ella si dedica con tenacia e coraggio alla sua famiglia, rifiutando una vantaggiosa proposta matrimoniale. «Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affidò tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno più bisogno di me… Il tutore… è un amico, io sono la madre dei miei figli; non li abbandonerò mai, quando anche mi si volesse dare tutto l’oro del mondo».
            Educa saggiamente i figli, anticipando l’ispirazione pedagogica del Sistema Preventivo. È una donna che ha fatto la scelta di Dio e sa trasmettere ai suoi figli, nella vita di tutti i giorni, il senso della sua presenza. Lo fa in modo semplice, spontaneo, incisivo, cogliendo tutte le piccole occasioni per educarli a vivere nella luce della fede. Lo fa anticipando quel metodo «della parola all’orecchio» che Don Bosco userà poi con i ragazzi per richiamarli alla vita di grazia, alla presenza di Dio. Lo fa aiutando a riconoscere nelle creature l’opera del Creatore, che è Padre provvidente e buono. Lo fa raccontando i fatti del Vangelo e la vita dei santi.
Educazione cristiana. Prepara i figli a ricevere i sacramenti, trasmettendo loro un vivissimo senso della grandezza dei misteri di Dio. Giovannino Bosco riceve la prima Comunione il giorno di Pasqua del 1826: «O caro figlio, fu questo per te un gran giorno. Sono persuasa che Dio ha veramente preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono fino alla fine della tua vita». Queste parole di Mamma Margherita fanno di lei una vera madre spirituale dei suoi figli, in particolare di Giovannino, che si dimostrerà subito sensibile a questi insegnamenti, che hanno il sapore di una vera iniziazione, espressione della capacità di introdurre al mistero della grazia in una donna illetterata, ma ricca della sapienza dei piccoli.
            La fede in Dio si riflette nell’esigenza di rettitudine morale che pratica con sé stessa e inculca nei figli. «Contro il peccato aveva dichiarato una guerra perpetua. Non solo abborriva essa ciò che era male, ma si studiava di tenere lontano l’offesa del Signore anche da coloro che non le appartenevano. Quindi era sempre all’erta contro lo scandalo, prudente, ma risoluta e a costo di qualunque sacrificio».
            Il cuore che anima la vita di Mamma Margherita è un immenso amore e devozione verso la santissima Eucaristia. Ne sperimenta il valore salvifico e redentore nella partecipazione al santo sacrificio e nell’accettare le prove della vita. A questa fede e a questo amore educa i suoi figli fin dalla più tenera età, trasmettendo quella convinzione spirituale ed educativa che troverà in Don Bosco un prete innamorato dell’Eucaristia e che farà dell’Eucaristia una colonna del suo sistema educativo.
            La fede trova espressione nella vita di preghiera e in particolare la preghiera in comune in famiglia. Mamma Margherita trova la forza della buona educazione in un’intensa e curata vita cristiana. Precede con l’esempio e orienta con la parola. Alla sua scuola Giovannino apprende così in forma vitale la forza preventiva della grazia di Dio. «L’istruzione religiosa, che imparte una madre con la parola, con l’esempio, col confrontare la condotta del figlio, coi precetti particolari del catechismo, fa sì che la pratica della Religione diventi normale e il peccato si rifiuti per istinto, come per istinto si ama il bene. L’esser buono diventa un’abitudine, e la virtù non costa grande sforzo. Un fanciullo così educato deve fare una violenza a sé stesso per divenir malvagio. Margherita conosceva la forza di simile educazione cristiana e come la legge di Dio, insegnata col catechismo tutte le sere e ricordata di frequente anche lungo il giorno, fosse il mezzo sicuro per rendere i figli obbedienti ai precetti materni. Essa quindi ripeteva le domande e le risposte tante volte, quanto era necessario perché i figli le imparassero a memoria».

Testimone di carità. Nella sua povertà, pratica con gioia l’ospitalità, senza fare distinzioni, né esclusioni; aiuta i poveri, visita i malati e i figli apprendono da lei ad amare smisuratamente gli ultimi. «Era di carattere sensibilissimo, ma questa sensibilità era talmente trasnaturata in carità, che a buon diritto poteva esser chiamata la mamma di coloro che si trovavano in necessità». Questa carità si manifesta in una spiccata capacità di comprendere le situazioni, di trattare con le persone, di fare scelte giuste al momento giusto, di evitare eccessi e di mantenere in tutto un grande equilibrio: «Una donna di molto senno» (Don Giacinto Ballesio). La ragionevolezza dei suoi insegnamenti, la coerenza personale e la fermezza senza ira, toccano l’animo dei ragazzi. I proverbi e i detti fioriscono con facilità sulle sue labbra e in essi condensa precetti di vita: «Una cattiva lavandaia non trova mai una buona pietra»; «Chi a vent’anni non sa, a trenta non fa e sciocco morrà»; «La coscienza è come il solletico, chi lo sente e chi non lo sente».
            In particolare va sottolineato come Giovannino Bosco sarà un grande educatore dei ragazzi, «perché aveva avuto una mamma che aveva educato la sua affettività. Una mamma buona, carina, forte. Con tanto amore educò il suo cuore. Non si può capire Don Bosco senza Mamma Margherita. Non lo si può capire». Mamma Margherita ha contribuito con la sua mediazione materna all’opera dello Spirito nella plasmazione e formazione del cuore del figlio. Don Bosco imparò ad amare, come egli stesso dichiara, in seno alla Chiesa, grazie a Mamma Margherita e con l’intervento soprannaturale di Maria, che gli fu data da Gesù come “Madre e Maestra”.

3. Esodo dai Becchi alla cascina Moglia
            Un momento di grande prova per Margherita sono le difficili relazioni tra i figli. «I tre figlioletti di Margherita, Antonio, Giuseppe e Giovanni, erano diversi per indole e per inclinazioni. Antonio era rozzo di modi, di poca o nessuna delicatezza di sentimenti, esageratore manesco, vero ritratto del Me ne infischio io! Viveva di prepotenze. Spesse volte si lasciava andare a battere i fratellini e Mamma Margherita doveva correre per levarglieli di mano. Essa però non usò mai della forza per difenderli e fedele alla sua massima, non torse mai ad Antonio neppure un capello. Si può immaginare qual padronanza avesse Margherita sovra di sé per comprimere la voce del sangue e dell’amore che portava sviscerato a Giuseppe e a Giovanni. Antonio era stato messo a scuola e avea imparato a leggere e a scrivere, ma vantavasi di non aver mai studiato e di non essere andato a scuola. Non avea attitudine agli studi, si occupava dei lavori nella campagna».
            D’altra parte Antonio era in situazione di particolare disagio: maggiore di età, era ferito nella sua duplice condizione di orfano di padre e di madre. Egli nonostante le sue intemperanze è in genere remissivo, grazie all’atteggiamento di Mamma Margherita che riesce a dominarlo con bontà ragionante. Col tempo purtroppo la sua insofferenza nei confronti soprattutto di Giovannino, che non si lasciava facilmente sottomettere, andrà crescendo e anche le sue reazioni nei confronti di Mamma Margherita saranno più dure e a volte pesanti. In particolare Antonio non accetta che Giovannino si dedichi agli studi e le tensioni arriveranno a un punto culminante: «Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso, non ho mai veduto questi libri». Antonio è figlio del suo tempo e della sua condizione contadina e non riesce né a comprendere, né ad accettare che il fratello possa dedicarsi allo studio. Tutti sono turbati, ma chi soffre più di tutti è Mamma Margherita, che era coinvolta in prima persona e aveva giorno dopo giorno la guerra in casa: «Mia madre era afflittissima, io piangeva, il cappellano addolorato».
            Di fronte alla gelosia e all’ostilità di Antonio, Margherita cerca la soluzione ai conflitti famigliari, inviando per circa due anni Giovannino alla cascina Moglia e successivamente provvede in modo irremovibile, di fronte alle resistenze di Antonio, alla divisione dei beni, al fine di permettere a Giovanni di studiare. Certamente è solo il dodicenne Giovannino che se ne va da casa, ma anche la Madre vive questo profondo distacco. Non dimentichiamo che Don Bosco nelle Memorie dell’oratorio non parla di questo periodo. Tale silenzio fa pensare ad un vissuto difficile da elaborare, essendo in quel tempo un ragazzino di dodici anni, costretto ad andarsene da casa per l’impossibilità di convivenza con il fratello. Giovanni soffre in silenzio, attende l’ora della Provvidenza e con lui Mamma Margherita, che non vuole chiudere il cammino del figlio, ma aprirlo attraverso vie speciali, affidandolo ad una buona famiglia. La soluzione presa dalla mamma e accettata dal figlio era una scelta temporanea in vista di una soluzione definitiva. Era fiducia e abbandono in Dio. Madre e figlio vivono una stagione di attesa.

(continua)