Don Bosco con i suoi salesiani

Se con i suoi ragazzi Don Bosco scherzava volentieri per vederli allegri e sereni, con i suoi Salesiani rivelava anche nello scherzo la stima che di essi aveva, il desiderio di vederli formare con lui una sola grande famiglia, povera sì, ma fiduciosa nella Divina Provvidenza, unita nella fede e nella carità.

I feudi di Don Bosco
            Nel 1830 Margherita Occhiena, vedova di Francesco Bosco, fece la divisione dei beni ereditati dal marito tra il suo figliastro Antonio ed i suoi due figli Giuseppe e Giovanni. Si trattava, tra l’altro, di otto appezzamenti di terreno a prato, a campo e a vigna. Nulla sappiamo di preciso sui criteri seguiti da Mamma Margherita per la divisione tra loro tre dell’eredità paterna. Però tra gli appezzamenti di terreno vi era una vigna presso i Becchi (al Bric dei Pin), un campo a Valcapone (o Valcappone) e un altro al Bacajan (o Bacaiau). Ad ogni modo questi tre terreni costituiscono i «feudi» nominati a volte scherzosamente da Don Bosco come sua proprietà.
            I Becchi, tutti lo sappiamo, sono l’umile frazione della borgata dove Don Bosco era nato; Valcapponé (o Valcapone) era un sito ad est del Colle sotto la Serra di Capriglio ma a valle nella zona detta Sbaruau (= spauracchio), perché fitta di boscaglie con qualche casotto celato tra le frasche che serviva da ripostiglio a lavandai e da rifugio a briganti. Bacajan (o Bacaiau) era un campo ad est del Colle tra il lotto Valcapone e Morialdo. Ecco i «feudi» di Don Bosco!
            Dicono le Memorie Biografiche che da tempo Don Bosco aveva conferito titoli nobiliari ai suoi collaboratori laici. Quindi c’era il Conte dei Becchi, il Marchese di Valcappone, il Barone di Bacaiau, e cioè dei tre terreni che Don Bosco doveva conoscere come parte della sua eredità. “Con questi titoli egli era solito chiamare Rossi, Gastini, Enria, Pelazza, Buzzetti, non solo in casa ma anche fuori, specialmente quando viaggiava con qualcuno di essi” (MB VIII, 198-199).
            Tra questi «nobil» salesiani, sappiamo di sicuro, che il Conte dei Becchi (o del Bricco del Pino) era Rossi Giuseppe, il primo salesiano laico, o «Coadiutore» che amò Don Bosco come un figlio affezionatissimo e gli fu fedele per sempre.
            Un giorno Don Bosco si recò alla stazione di Porta Nuova e Rossi Giuseppe lo accompagnò portandogli la valigia. Arrivarono che il treno stava per partire e le carrozze erano strapiene di gente. Don Bosco, non potendo trovare posto, si rivolse a Rossi e, ad alta voce, gli disse:
            — Oh, signor Conte, mi rincresce che si prenda tanto incomodo per me!
            — S’immagini Don Bosco, per me è un onore!
            Alcuni viaggiatori ai finestrini, udendo quelle parole «Signor Conte» e «Don Bosco», si guardarono in faccia meravigliati e uno di essi gridò dal carrozzone:
            — Don Bosco! Signor Conte! Salgano qui, ci sono ancora due posti!
— Ma io non vorrei dar loro incomodo, – rispose Don Bosco.
            — Salgano! È un onore per noi. Ritiro le mie valigie, ci staranno benissimo!…
E così il «Conte dei Becchi» poté salire sul treno con Don Bosco e la valigia.

Le pompe e una baracca
            Don Bosco visse e morì povero. Nel vitto si accontentava di ben poco. Anche un bicchier di vino era già troppo per lui, e lo annacquava sistematicamente.
            «Spesse volte si dimenticava di bere essendo assorto in ben altri pensieri, e toccava ai vicini di tavola di versarglielo nel bicchiere. Ed allora egli, se il vino era buono, cercava subito l’acqua “per farlo più buono”, diceva. E aggiungeva sorridendo: “Ho rinunciato al mondo e al demonio, ma non alle pompe”, alludendo alle trombe che estraggono l’acqua dal pozzo» (MB IV, 191-192).
            Anche per l’alloggio sappiamo come viveva. Il 12 settembre 1873 fu tenuta la Conferenza Generale dei Salesiani per rieleggere un Economo e tre Consiglieri. In quella circostanza Don Bosco proferì memorabili e profetiche parole sullo sviluppo della Congregazione. Giunto poi a parlare del Capitolo Superiore, che ormai pareva aver bisogno di residenza adatta, disse, tra l’universale ilarità: «Se fosse possibile, mi piacerebbe fare in mezzo al cortile una “sopanta” (leggi: supanta = baracca), dove il Capitolo potesse stare separato da tutti gli altri mortali. Ma poiché i suoi membri hanno ancora diritto di stare su questa terra, così potranno stare ora qui, ora là, nelle diverse case, secondo che parrà meglio!» (MB X, 1061-1062).

Otis, botis, pija tutis
            Un giovane gli chiese un giorno come facesse a conoscere l’avvenire e a indovinare tante cose segrete. Gli rispose:
— «Ascoltami. Il mezzo è questo, e si spiega con: Otis, botis, pija tutis. Sai cosa significano queste parole?… Stai attento. Sono parole greche, e, – compitando, ripeteva: – O-tis, bo-tis, pi-ja tu-tis. Capisci?
— È un affare serio!
— Lo so anch’io. Non ho mai voluto manifestare a nessuno che cosa significhi questo motto. E nessuno lo sa, né mai lo saprà, perché non mi conviene dirlo. È il mio segreto col quale opero cose straordinarie, leggo nelle coscienze, conosco i misteri. Ma se tu sei furbo, puoi capirne qualcosa.
            E ripeteva quelle quattro parole puntando il dito indice sulla fronte, sulla bocca, sul mento, sul petto del giovane. Finì per dargli all’improvviso uno schiaffetto. Il giovane rise, ma insisteva:
            — Almeno mi traduca le quattro parole!
— Posso tradurle, ma non capirai la traduzione.
            E scherzosamente gli disse in dialetto piemontese:
Quand ch’at dan ed bòte, pije tute (Quando ti dan botte, pigliale tutte) (MB VI, 424). E voleva dire che per farsi santi occorre accettare tutte le sofferenze che la vita ci riserva.

Protettore degli stagnini
            Tutti gli anni i giovani dell’Oratorio di San Leone in Marsiglia facevano una scampagnata alla villa del Sig. Olive, generoso benefattore dei Salesiani. In quell’occasione il padre e la madre servivano a tavola i superiori, e i loro figli gli alunni.

            Nel 1884 la gita si fece durante il soggiorno di Don Bosco a Marsiglia.
            Mentre gli alunni si divertivano nei giardini, la cuoca corse tutta affannata dalla signora Olive a dirle:
            — Signora, la pentola della minestra per i ragazzi perde e non si riesce in nessun modo a rimediarvi. Dovranno stare senza minestra!
            La padrona, che aveva gran fede in Don Bosco, ebbe un’idea. Mandò a chiamare tutti i giovani e:
— Sentite – disse loro – se volete mangiare la minestra, inginocchiatevi qui e recitate una preghiera a Don Bosco perché faccia ristagnare la pentola.
            Obbedirono. La pentola cessò all’istante di perdere. Ma Don Bosco, sentendo contare il fatto, rise di gusto, dicendo:
D’ora in avanti chiameranno Don Bosco patrono degli stagnin (stagnai) (MB XVII, 55-56).




Don Bosco e la chiesa del Santo Sudario

La Santa Sindone di Torino, reliquia tra le più venerate della cristianità, ha una storia millenaria intrecciata con quella dei Savoia e della città sabauda. Giunta a Torino nel 1578, divenne oggetto di profonda devozione, con ostensioni solenni legate a eventi storici e dinastici. Nell’Ottocento, figure come san Giovanni Bosco e altri santi torinesi ne promossero il culto, contribuendo alla sua diffusione. Oggi custodita nella Cappella del Guarini, la Sindone è al centro di studi scientifici e teologici. Parallelamente, la chiesa del Santo Sudario a Roma, legata ai Savoia e alla comunità piemontese, rappresenta un altro luogo significativo, dove don Bosco tentò di stabilire una presenza salesiana.

            La Santa Sindone di Torino, detta impropriamente «Santo Sudario» dall’uso francese di chiamarla «Le Saint Suaire», fu proprietà di Casa Savoia sin dal 1463, e venne trasferita da Chambery nella nuova capitale sabauda nel 1578.
            In quello stesso anno se ne celebrò la prima Ostensione, voluta da Emanuele Filiberto in omaggio al card. Carlo Borromeo che veniva a Torino in pellegrinaggio per venerarla.

Ostensioni nel secolo XIX e culto della Sindone
            Nel secolo XIX si ricordano in particolare le Ostensioni del 1815, 1842, 1868 e 1898: la prima per il rientro dei Savoia nei loro Stati, la seconda per le nozze di Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide di Asburgo-Lorena, la terza per le nozze di Umberto I con Margherita di Savoia-Genova, e la quarta in occasione dell’Esposizione Universale.
            I Santi dell’800 torinese, il Cottolengo, il Cafasso e don Bosco, furono devotissimi della Santa Sindone, emuli sull’esempio del Beato Sebastiano Valfré, l’apostolo di Torino nell’assedio del 1706.
            Le Memorie Biografiche ci assicurano che don Bosco la venerò in particolare all’Ostensione del 1842 e a quella del ’68, quando portò anche i ragazzi dell’oratorio a vederla (MB II, 117; IX, 137).
            Oggi la tela senza prezzo, donata da Umberto II di Savoia alla Santa Sede, è affidata all’Arcivescovo di Torino «Custode Pontificio» e conservata nella sontuosa Cappella del Guarini, retrostante il Duomo.
            A Torino vi è pure, in via Piave angolo via San Domenico, la Chiesa del Santo Sudario, eretta dalla Confraternita omonima e rifatta nel 1761. Adiacente alla chiesa vi è il «Museo Sindonologico» e la sede del Sodalizio «Cultores Sanctae Sindonis», centro di studi sindonologici ai quali hanno dato preziosi contributi studiosi salesiani come don Natale Noguier de Malijay, don Antonio Tonelli, don Alberto Caviglia, don Pietro Scotti e, più recentemente, don Pietro Rinaldi e don Luigi Fossati, per nominare solo i principali.

La chiesa del Santo Sudario a Roma
            Una chiesa del Santo Sudario esiste anche a Roma lungo la via omonima che parte dal Largo Argentina parallelamente a Corso Vittorio. Eretta nel 1604 su disegno di Carlo di Castellamonte, fu la Chiesa dei Piemontesi, Savoiardi e Nizzardi, fatta costruire dalla Confraternita del Santo Sudario sorta in quel tempo a Roma. Dopo il 1870 divenne la chiesa particolare di Casa Savoia.
            Don Bosco nei suoi soggiorni romani celebrò varie volte la Santa Messa in quella chiesa e formulò su di essa e sulla casa adiacente un progetto in linea con lo scopo dell’allora estinta Confraternita, dedita ad opere caritative verso la gioventù abbandonata, gli infermi ed i carcerati.
            La Confraternita aveva cessato di operare agli inizi del secolo e la proprietà ed amministrazione della chiesa erano passate alla Legazione Sarda presso la Santa Sede. Negli anni ’60 la chiesa esigeva ormai grossi restauri tanto che nel 1868 venne temporaneamente chiusa.
            Ma già nel 1867 don Bosco era giunto all’idea di proporre al Governo Sabaudo di cedergliene l’uso e l’amministrazione, offrendo la propria collaborazione in denaro per condurre a termine i restauri. Forse egli presentiva non lontana l’entrata delle truppe piemontesi in Roma e, desiderando di aprirvi una casa, pensò di farlo prima che la situazione precipitasse rendendo più difficile ottenere il beneplacito della Santa Sede ed il rispetto degli accordi da parte dello Stato (MB IX, 415-416).
            Presentò quindi la richiesta al Governo. Nel 1869, in una sosta a Firenze, preparò un progetto di convenzione che, giunto a Roma, fece conoscere a Pio IX. Ottenuto il suo assenso, passò alla richiesta ufficiale al Ministero degli Affari Esteri, ma, purtroppo, l’occupazione di Roma venne poi a pregiudicare tutto l’affare. Don Bosco stesso vide l’inopportunità di insistere. L’assumere, infatti, in quel momento, l’ufficiatura di una chiesa romana appartenente ai Savoia da parte di una Congregazione religiosa con Casa Madre a Torino, sarebbe potuto apparire un atto di opportunismo e di servilismo verso il nuovo Governo.
            Dopo la breccia di Porta Pia, con verbale del 2 dicembre 1871, la Chiesa del SS. Sudario fu annessa alla Casa Reale e designata come sede ufficiale del Cappellano maggiore palatino. In seguito all’interdetto di Pio IX sulle Cappelle dell’ex palazzo apostolico del Quirinale, fu proprio nella Chiesa del Sudario che si svolgevano tutti i riti sacri della Famiglia Reale.
            Nel 1874 don Bosco tastò nuovamente il terreno presso il Governo. Ma, sfortunatamente, notizie intempestive trapelate dai giornali, mandarono definitivamente a monte il progetto (MB X, 1233-1235).
            Con la fine della monarchia, nel 2 di giugno del 1946, l’intero complesso del Sudario passò sotto la gestione della Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica. Nel 1984, a seguito del nuovo Concordato che sancì l’abolizione delle Cappelle palatine, la Chiesa del Sudario fu affidata all’Ordinariato Militare e così è rimasta fino ad oggi.
            A noi, tuttavia, piace ricordare il fatto che don Bosco, nel cercare l’occasione propizia per aprire una casa in Roma, abbia posto lo sguardo sulla Chiesa del Santo Sudario.




Don Bosco e i titoli della Madonna

La devozione mariana di don Bosco nasce da un rapporto filiale e vivo con la presenza materna di Maria, sperimentata in ogni stagione della sua vita. Dai piloni votivi eretti durante la fanciullezza ai Becchi, alle immagini venerate a Chieri e Torino, fino ai pellegrinaggi compiuti con i suoi ragazzi nei santuari del Piemonte e della Liguria, ogni tappa rivela un titolo diverso della Vergine — Consolata, Addolorata, Immacolata, Madonna delle Grazie e molti altri — che parla ai fedeli di protezione, conforto e speranza. Quel titolo che avrebbe definito per sempre la sua venerazione, tuttavia, fu «Maria Ausiliatrice»: fu la stessa Madonna, secondo la tradizione salesiana, a indicarglielo. L’8 dicembre 1862 don Bosco confidò al chierico Giovanni Cagliero: “Sinora, soggiungeva, abbiamo celebrato con solennità e pompa la festa dell’Immacolata, ed in questo giorno sonosi incominciate le prime nostre opere degli oratorii festivi. Ma la Madonna vuole che la onoriamo sotto il titolo di Maria Ausiliatrice: i tempi corrono così tristi che abbiamo proprio bisogno che la Vergine SS. ci aiuti a conservare e difendere la fede cristiana.” (MB VII, 334)

I titoli mariani
            Stendere oggi un articolo sui «titoli mariani» sotto i quali don Bosco nella sua vita venerò la Vergine Santissima, sembrerà forse fuori luogo. Qualcuno, infatti, potrebbe dire: La Madonna non è una sola? A che servono tanti titoli se non a creare confusione? E poi, in fin dei conti, la Madonna di don Bosco non è Maria Ausiliatrice?
Lasciando agli esperti riflessioni più profonde che giustifichino questi titoli dal punto di vista storico, teologico e devozionale, noi ci accontenteremo di un passo della «Lumen gentium», documento sulla Chiesa del Concilio Vaticano II, che ci rassicura, ricordandoci che Maria ci è madre e che «con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci le grazie della salute eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata. Per questo la Beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di Avvocata, Ausiliatrice, Soccorritrice, Mediatrice» (Lumen Gentium 62).
Questi quattro appellativi ammessi dal Concilio, ben considerati, comprendono in sintesi tutta una serie di titoli ed invocazioni con cui il popolo cristiano ha chiamato Maria, titoli che fecero esclamare ad Alessandro Manzoni:
«O Vergine, o Signora, o Tuttasanta, che bei nomi ti serba ogni loquela: più d’un popol superbo esser si vanta in tua gentil tutela» (da «Il Nome di Maria»).
La stessa Liturgia della Chiesa pare comprendere e giustificare le lodi innalzate a Maria dal popolo cristiano, quando si domanda: «Come cantare le tue lodi, Santa Vergine Maria?».
E allora, lasciamo i dubbi da parte e andiamo a vedere quali furono i titoli mariani cari a don Bosco, prima ancora che diffondesse in tutto il mondo quello dell’Ausiliatrice.

Nella sua giovinezza
            Le edicole sacre o tabernacoli disseminati lungo le vie cittadine in tante parti d’Italia, le cappelle campestri ed i piloni che si incontrano agli incroci stradali o all’imbocco di stradicciole private nelle nostre terre, costituiscono un patrimonio di fede popolare che il tempo anche oggi non cancella.
Sarebbe impresa ardua calcolare esattamente quante se ne trovano per le strade del Piemonte. Nella sola zona «Becchi-Morialdo» ce ne sono una ventina, e non meno di una quindicina nella zona di Capriglio.
Si tratta per lo più di piloni votivi ereditati dai vecchi e restaurati a più riprese. Ve ne sono anche di più recenti che stanno a documentare una pietà non scomparsa.
Il più antico pilone della regione dei Becchi pare risalire al 1700. Fu eretto al fondo della «piana» verso il Mainito, ove confluivano le famiglie abitanti l’antica «Scaiota», poi cascina agricola salesiana, ora in via di ristrutturazione.
È il pilone della Consolata, con una statuetta della Vergine Consolatrice degli afflitti, sempre onorata con fiori campestri portati dai devoti.
Giovannino Bosco sarà passato tante volte davanti a quel pilone, togliendosi il cappello, piegando forse il ginocchio e mormorando un’Ave come la mamma gli aveva insegnato.
Nel 1958 i Salesiani rinnovarono il vecchio pilone e, con una solenne funzione religiosa, lo inaugurarono ad un rinnovato culto della comunità e della popolazione.
Quella statuetta della Consolata potrebbe essere la prima effigie di Maria che don Bosco abbia venerato all’aperto nella sua vita.

Nella vecchia casa
            Senza ricordare le chiese di Morialdo e di Capriglio, non sappiamo con esattezza quali immagini religiose fossero appese alle pareti nella cascina Biglione o alla Casetta. Sappiamo che, più tardi nella casa di Giuseppe, quando don Bosco vi andava ad alloggiare, poteva vedere alle pareti della sua camera da letto due vecchi quadri, uno della Sacra Famiglia e l’altro della Madonna degli Angeli. Così assicura suor Eulalia Bosco. Dove li aveva presi Giuseppe? Li vide Giovanni da ragazzo? Quello della Sacra Famiglia è ancora esposto oggi nella stanza di mezzo al primo piano della casa di Giuseppe. Rappresenta san Giuseppe seduto presso il suo tavolo di lavoro, con il Bambino in braccio, mentre la Madonna, in piedi dall’altra parte, sta a guardare.
Sappiamo poi che alla Cascina Moglia, presso Moncucco, Giovannino recitava insieme alla famiglia dei padroni le preghiere ed il rosario davanti ad un quadretto dell’Addolorata, ancora oggi conservato ai Becchi al primo piano della Casa di Giuseppe nella cameretta di don Bosco sopra la testa del letto. È molto annerito con cornice nera lineata in oro all’interno.
A Castelnuovo poi Giovannino ebbe frequenti occasioni di salire alla Chiesa della Madonna del Castello a pregare la Vergine SS. All’Assunta i paesani portavano in processione la statua della Madonna. Non tutti sanno che quella statua, come pure il dipinto sull’icona dell’altar maggiore, raffigurano la Madonna della Cintura, quella degli Agostiniani.
A Chieri, Giovanni Bosco studente e chierico seminarista pregò tante volte all’altare della Madonna delle Grazie nel Duomo di Santa Maria della Scala, a quello del Santo Rosario nella Chiesa di San Domenico, e davanti all’Immacolata nella cappella del Seminario.
Così nella sua giovinezza don Bosco ebbe modo di venerare Maria SS. sotto i titoli della Consolata, dell’Addolorata, dell’Assunta, della Madonna delle Grazie, del Rosario e dell’Immacolata.

A Torino
            A Torino Giovanni Bosco era già andato alla Chiesa della Madonna degli Angeli per l’esame di ammissione all’Ordine Francescano nel 1834. Vi ritornò più volte a fare gli Esercizi Spirituali, in preparazione alle Sacre Ordinazioni, nella Chiesa della Visitazione, e ricevette gli Ordini Sacri nella Chiesa dell’Immacolata presso la Curia Arcivescovile.
Giunto al Convitto, avrà certamente pregato spesso davanti all’immagine dell’Annunziata nella prima cappella a destra nella Chiesa di San Francesco d’Assisi. Recandosi in Duomo ed entrando, come si usa ancor oggi, dal portale di destra, quante volte si sarà fermato un istante davanti all’antica statua della Madonna delle Grazie, conosciuta dai vecchi Torinesi come «La Madòna Granda».
Se pensiamo poi alle gite pellegrinaggio che don Bosco faceva con i suoi birichini di Valdocco ai santuari mariani torinesi ai tempi dell’Oratorio ambulante, allora potremo ricordare anzitutto il Santuario della Consolata, cuore religioso di Torino, carico di ricordi del primo Oratorio. Alla «Consolà» don Bosco portò i suoi giovani tantissime volte. Alla «Consolà» ricorse egli stesso in lacrime alla morte di sua madre.
Ma non possiamo dimenticare le gite cittadine alla Madonna del Pilone, alla Madonna di Campagna, al Monte dei Cappuccini, alla Chiesa della Natività a Pozzo Strada, a quella delle Grazie alla Crocetta.
Il pellegrinaggio-gita più spettacolare di quegli anni del primo Oratorio fu quello alla Madonna di Superga. Quella Chiesa monumentale dedicata alla Natività di Maria ricordava ai birichini di don Bosco che la Madre di Dio è «come aurora che sorge», preludio alla venuta di Cristo.
Cosi don Bosco faceva vivere ai suoi ragazzi i misteri della vita di Maria attraverso i suoi titoli più belli.

Nelle passeggiate autunnali
            Nel 1850 don Bosco inaugurò le passeggiate «fuori porta» prima ai Becchi e dintorni, poi per i colli del Monferrato fino a Casale, dell’Alessandrino fino a Tortona e in Liguria fino a Genova.
Nei primi anni mèta principale, se non esclusiva, erano i Becchi e dintorni, dove si celebrava con solennità la festa del Rosario nella cappellina eretta al pian terreno della casa del fratello Giuseppe nel 1848.
Gli anni 1857-64 furono gli anni d’oro delle passeggiate autunnali, i ragazzi vi partecipavano in gruppi sempre più numerosi, entrando nei paesi con la banda musicale in testa, accolti festosamente dalla gente e dai parroci del luogo. Riposavano nei fienili, consumavano frugali pasti contadini, celebravano devote funzioni in chiesa ed alla sera davano spettacolo sopra un palco improvvisato.
Nel 1857 mèta di pellegrinaggio fu Santa Maria di Vezzolano, santuario ed abbazia tanto cari a don Bosco, situati sotto il paese di Albugnano a 5 km da Castelnuovo.
Nel 1861 fu la volta del santuario di Crea, celebre in tutto il Monferrato. In quella stessa gita don Bosco portò ancora i ragazzi alla Madonna del Pozzo a San Salvatore.
Il 14 agosto 1862 da Vignale, dove i giovani si trovavano, don Bosco guidò l’allegra comitiva in pellegrinaggio al santuarietto della Madonna delle Grazie a Casorzo. Pochi giorni dopo, il 18 ottobre, prima di lasciare Alessandria, andarono ancora in cattedrale a pregare la Madonna della Salve, venerata con tanta pietà dagli Alessandrini, per ottenere una felice conclusione della loro passeggiata.
Anche nell’ultima passeggiata del 1864 a Genova, sulla via del ritorno, tra Serravalle e Mornese, un gruppo guidato da don Cagliero salì in devoto pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora della Guardia, di Gavi.
Queste gite-pellegrinaggio ricalcavano le vestigia di una religiosità popolare caratteristica della nostra gente; erano l’espressione di una devozione mariana, che Giovanni Bosco aveva imparato da sua madre.

E poi ancora…
            Negli anni ’60 cominciò a dominare la mente e il cuore di don Bosco il titolo di Maria Ausiliatrice, con l’erezione della chiesa sognata sin dal 1844 e divenuta poi il centro spirituale di Valdocco, la chiesa-madre della Famiglia Salesiana, il punto di irradiazione della devozione alla Madonna, invocata sotto questo titolo.
Ma i pellegrinaggi mariani di don Bosco non cessarono per questo. Basterebbe seguirlo nei suoi lunghi viaggi per l’Italia e per la Francia e costatare così quante volte egli cogliesse l’occasione per una visita di sfuggita al santuario della Vergine del luogo.
Dalla Madonna di Oropa in Piemonte a quella del Miracolo a Roma, da quella del Boschetto a Camogli alla Madonna di Gennazzano, dalla Madonna del Fuoco a Forlì a quella dell’Olmo a Cuneo, dalla Madonna della Buona Speranza a Bigione a quella delle Vittorie a Parigi.
Nostra Signora delle Vittorie, posta in una nicchia d’oro, è una Regina in piedi, che sostiene con ambe le mani il suo Divin Figlio. Gesù ha i piedi poggiati sulla palla stellata che rappresenta il mondo.
Don Bosco davanti a questa Regina delle Vittorie in Parigi tenne, nel 1883, un «sermon de charité», cioè una di quelle conferenze per ottenere aiuto alle sue opere di carità per la gioventù povera ed abbandonata. Fu la sua prima conferenza nella capitale francese, nel santuario che è per i parigini ciò che il santuario della Consolata è per i torinesi.
Fu quello il culmine delle peregrinazioni mariane di don Bosco, iniziate ai piedi del Pilone della Consolata sotto la «Scaiota» dei Becchi.




San Domenico Savio. I luoghi della fanciullezza

San Domenico Savio, il “piccolo grande santo”, visse la sua breve ma intensa fanciullezza tra le colline del Piemonte, in luoghi oggi carichi di memoria e spiritualità. In occasione della sua beatificazione nel 1950, la figura di questo giovane discepolo di Don Bosco fu celebrata come simbolo di purezza, fede e dedizione evangelica. Ripercorriamo i luoghi principali della sua infanzia — Riva presso Chieri, Morialdo e Mondonio — attraverso testimonianze storiche e racconti vividi, rivelando l’ambiente familiare, scolastico e spirituale che ha forgiato il suo cammino verso la santità.

            L’Anno Santo 1950 fu anche quello della Beatificazione di Domenico Savio, avvenuta il 5 marzo. Il quindicenne discepolo di don Bosco era il primo santo laico «confessore» a salire sugli altari in così giovane età.
            Quel giorno la Basilica di San Pietro era gremita di giovani che testimoniavano, con la loro presenza a Roma, una giovinezza cristiana tutta aperta ai più sublimi ideali del Vangelo. Era trasformata, a detta della Radio Vaticana, in un immenso e rumoroso Oratorio Salesiano. Quando dalla raggiera del Bernini cadde il velario che copriva la figura del nuovo Beato, da tutta la basilica si levò un applauso frenetico e l’eco raggiunse la piazza, dove veniva scoperto l’arazzo riproducente il Beato dalla Loggia delle Benedizioni.
Il sistema educativo di don Bosco riceveva quel giorno il suo più alto riconoscimento. Abbiamo voluto rivisitare i luoghi della fanciullezza di Domenico, dopo esserci rilette le dettagliate informazioni di don Michele Molineris in quella Nuova Vita di Domenico Savio, in cui egli descrive con la sua nota serietà di documentazione ciò che le biografie di San Domenico Savio non dicono.

A Riva presso Chieri
            Eccoci anzitutto a San Giovanni di Riva presso Chieri, la borgata dove il 2 aprile 1842 nacque il nostro «piccolo grande Santo» da Carlo Savio e Brigida Gaiato, secondo di dieci figli, ereditando dal primo, sopravvissuto solo 15 giorni alla nascita, nome e primogenitura.
            Il padre, si sa, proveniva da Ranello, frazione di Castelnuovo d’Asti, e da giovane era andato ad abitare con lo zio Carlo, fabbro a Mondonio, in una casa sull’attuale via Giunipero, al n. 1, ancora oggi chiamata «ca dèlfré» o casa del fabbro. Là, da «Barba Carlòto» aveva appreso il mestiere. Qualche tempo dopo le sue nozze, contratte il 2 marzo 1840, si era reso indipendente, trasferendosi a San Giovanni di Riva in casa Gastaldi. Affittò un alloggio con locali al pian terreno adatti a cucina, ripostiglio ed officina e camere da letto al primo piano dove si giungeva da una scala esterna oggi scomparsa.
            Gli eredi dei Gastaldi vendettero poi ai Salesiani la casetta ed il cascinale attiguo nel 1978. Ed oggi un moderno Centro di accoglienza giovanile, gestito da exallievi e cooperatori salesiani, dà memoria e nuova vita alla casetta natia di Domenico.

A Morialdo
            Nel novembre del 1843, e cioè quando Domenico non aveva ancora compiuto due anni di età, i Savio, per ragioni di lavoro, si trasferirono a Morialdo, la frazione di Castelnuovo legata al nome di San Giovanni Bosco, nato alla Cascina Biglione, borgata dei Becchi.
            A Morialdo i Savio affittarono alcune camerette presso il portico d’entrata del cascinale di proprietà di Viale Giovanna andata sposa a Stefano Persoglio. Tutto il podere venne più tardi venduto dal figlio, Persoglio Alberto, a Pianta Giuseppe e famiglia.
            Anche questo cascinale è ora, in gran parte, proprietà dei Salesiani che, dopo averlo ristrutturato, lo hanno destinato ad incontri per ragazzi e adolescenti e alle visite dei pellegrini. Distante meno di 2 km dal Colle Don Bosco, sito in un ambiente di natura paesana, tra festoni di viti, fertili campi e prati ondulati, con un’aria di letizia in primavera e di nostalgia in autunno quando le foglie ingiallite vengono indorate dai raggi del sole, con un panorama incantevole nelle giornate più belle, quando la catena delle Alpi si distende all’orizzonte dalla vetta del Rosa a ridosso di Albugnano, al Gran Paradiso, al Rocciamelone, giù fino al Monviso, è davvero un posto da visitare e da utilizzare per giornate di intensa vita spirituale, una scuola di santità stile don Bosco.
I Savio rimasero a Morialdo fino al febbraio del 1853, e cioè ben 9 anni e 3 mesi. Domenico, vissuto solo 14 anni eli mesi, passò lì quasi due terzi della sua breve esistenza. Può quindi essere considerato non solo allievo e figlio spirituale di don Bosco, ma anche suo conterraneo.

A Mondonio
            Perché i Savio abbiano lasciato Morialdo, ce lo suggerisce don Molineris. Lo zio fabbro era morto e il papà di Domenico, oltre ai ferri del mestiere, ne poteva ereditare a Mondonio anche la clientela. Probabilmente quella fu la ragione del trasloco, avvenuto però non nella casa di via Giunipero, ma nella parte più bassa del paese, dove presero in affitto dai fratelli Bertello la prima casa a sinistra della strada principale del paese. La casetta consisteva, e consiste ancor oggi, di un pian terreno a due stanze, adattate a cucina e camera da lavoro, e di un piano superiore, sopra la cucina, con due camere da letto e lo spazio sufficiente per un’officina con porta sulla rampa della strada.
            Sappiamo che i coniugi Savio ebbero dieci figli, di cui tre morirono in tenerissima età ed altri tre, tra cui il nostro, non raggiunsero i 15 anni. La madre moriva nel 1871 a 51 anni. Il padre, rimasto solo in casa col figlio Giovanni, dopo avere accasato le tre figlie superstiti, chiese nel 1879 ospitalità a don Bosco e morì poi a Valdocco il 16 dicembre 1891.
A Valdocco, Domenico era entrato il 29 ottobre 1854, rimanendovi, tranne brevi periodi di vacanza, fino al 1° marzo 1857. Moriva otto giorni dopo a Mondonio, nella stanzetta accanto alla cucina, il 9 marzo di quell’anno. La sua permanenza a Mondonio quindi fu in tutto di 20 mesi circa, a Valdocco di 2 anni e 4 mesi.

Ricordi di Morialdo
            Da questa breve scorsa sulle tre case del Savio appare evidente che quella di Morialdo dev’essere la più ricca di memorie. San Giovanni di Riva ricorda la nascita di Domenico, e Mondonio un anno di scuola e la sua santa morte, ma Morialdo ricorda la sua vita in famiglia, in chiesa e a scuola. «Minòt», come egli era lì chiamato, quante cose avrà sentito, visto e imparato da papà e mamma, quanta fede ed amore dimostrato nella chiesetta di San Pietro, quanta intelligenza e bontà alla scuola di don Giovanni Zucca, e quanta allegria e vivacità nei trastulli con i compagni di borgata.
            Fu a Morialdo che Domenico Savio si preparò alla Prima Comunione, fatta poi nella Chiesa parrocchiale di Castelnuovo l‘8 aprile 1849. Fu lì che a soli 7 anni scrisse i «Ricordi» e cioè i propositi della sua Prima Comunione:
            1. Mi confesserò molto sovente e farò la comunione tutte le volte che il confessore me ne darà licenza;
            2. Voglio santificare i giorni festivi;
            3. I miei amici saranno Gesù e Maria;
            4. La morte ma non peccati.
            Ricordi che furono la guida delle sue azioni sino alla fine della vita.
Il contegno, il modo di pensare e di agire di un ragazzo riflettono l’ambiente in cui vive, e soprattutto la famiglia in cui ha passato la sua fanciullezza. Se si vuol quindi capire qualcosa di Domenico, sarà sempre bene riflettere sulla sua vita in quella cascina di Morialdo.

La famiglia
            La sua non era una famiglia di contadini. Il padre era fabbro ferraio e la madre sarta. I suoi genitori non erano di costituzione robusta. I segni della fatica si potevano scorgere sul volto del padre mentre la finezza del tratto distingueva il volto materno. Il papà di Domenico era uomo di iniziativa e di coraggio. La mamma veniva dal non lontano Cerreto d’Asti dove teneva bottega di sarta «e con la sua perizia toglieva a quegli abitanti la noia di scendere a valle a provvedersi di panni». E fece ancora la sarta anche a Morialdo. Lo avrà saputo don Bosco? Curioso, comunque, il suo dialogo col piccolo Domenico che lo era andato a cercare ai Becchi:
— Ebbene, che gliene pare?
— Eh, mi pare che ci sia buona stoffa (in piem.: Eh, m’a smia ch’a-j sia bon-a stòfa!).
— A che può servire questa stoffa?
— A fare un bell’abito da regalare al Signore.
— Dunque, io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; mi prenda con lei (in piem.: ch’èmpija ansema a chiel) e farà un bell’abito per il Signore» (OE XI, 185).
            Dialogo impagabile tra due conterranei che si compresero a prima vista. E il loro linguaggio veniva proprio a taglio per il figlio della sarta.
            Quando la mamma morì, il 14 luglio 1871, alle figlie piangenti, il parroco di Mondonio, don Giovanni Pastrone, per consolarle diceva: «Non piangete, perché vostra madre era una santa donna; ed ora è già in Paradiso».
Suo figlio Domenico, che l’aveva preceduta in cielo di parecchi anni, aveva pure detto a lei ed al papà, prima di spirare: «Non piangete, io vedo già il Signore e la Madonna colle braccia aperte che mi aspettano». Queste sue ultime parole, testimoniate da Anastasia Molino, vicina di casa, presente al momento della sua morte, erano il suggello di una vita gioiosa, il segno manifesto di quella santità che la Chiesa riconosceva solennemente il 5 marzo 1950, dandole poi definitiva conferma il 12 giugno 1954 con la sua canonizzazione.

Foto nel frontespizio. La casa ove morì Domenico nel 1857. È una costruzione di tipo rurale risalente probabilmente alla fine del 1600. Ricostruita su di un’altra casa ancor più antica, è uno dei monumenti più cari ai Mondoniesi.




La «buona notte»

            Una sera, Don Bosco, addolorato per una certa indisciplinatezza generale notata all’Oratorio di Valdocco tra i ragazzi interni, si presentò, come al solito, a dir loro due parole dopo la preghiera della sera. Stette un istante in silenzio sulla piccola cattedra posta all’angolo dei portici dove usava dare ai giovani la cosiddetta «Buona Notte» che consisteva in un breve sermoncino serale. Dato uno sguardo attorno, disse:
            — Non sono contento di voi. Questa sera non posso dir altro!
            E discese dalla cattedra nascondendo le mani nelle maniche della veste, per non permettere che gli fossero baciate, come allora i ragazzi, prima di andare a riposo, usavano fare. Poi, lentamente, si avvicinò alla scala per salire in camera sua senza indirizzare parola ad alcuno. Quel suo modo di fare produsse un effetto magico. Si sentì tra i giovani qualche singhiozzo represso, molte facce erano rigate di lacrime e tutti andarono a dormire pensierosi, convinti di aver disgustato non solo Don Bosco ma anche il Signore (MB IV, 565).

Lo squillo della sera
            Il salesiano Don Giovanni Gnolfo nel suo studio: La «Buona Notte» di Don Bosco, fa notare che il mattino è risveglio di vita e di attività, la sera invece è adatta a seminare nella mente dei giovani un’idea che germogli in loro anche nel sonno. E con un ardito paragone si richiama addirittura al dantesco «squillo della sera»:
Era già l’ora che volge il desìo
ai naviganti e intenerisce il core…
            Proprio nell’ora della preghiera serale l’Alighieri descrive, infatti, nel Canto ottavo del «Purgatorio», i Re in una valletta mentre cantano l’inno della Liturgia delle Ore Te lucis ante terminum… (Prima che termini la luce, o Dio, noi cerchiamo Te, perché ci custodisca).
            Caro e sublime momento quello della «Buona Notte» di Don Bosco! Iniziava con una lode e le preghiere della sera e terminava con le sue parole che aprivano il cuore dei suoi figli alla riflessione, alla gioia, alla speranza. Egli ci teneva proprio a quell’incontro serale con tutta la comunità di Valdocco. Don G. B. Lemoyne ne fa risalire l’origine a Mamma Margherita. La buona madre nel mettere a letto il primo orfanello giunto dalla Val Sesia, gli fece alcune raccomandazioni. Di lì sarebbe derivata nei collegi salesiani la bella usanza di rivolgere brevi parole ai giovani prima di mandarli a riposo (MB III, 208-209). Don E. Ceria, riportando le parole pronunciate dal Santo nel ripensare ai primi tempi dell’Oratorio, «Ho cominciato a fare un brevissimo sermoncino alla sera dopo le orazioni» (MO, 205), pensa piuttosto ad un’iniziativa diretta di Don Bosco. Comunque, se Don Lemoyne accettò l’idea di alcuni dei primi discepoli, era perché pensava che la «Buona Notte» di Mamma Margherita rispondesse emblematicamente allo scopo di Don Bosco nel l’introdurre quell’usanza (Annali III, 857).

Caratteristiche della «Buona Notte»
            Una caratteristica della «Buona Notte» di Don Bosco era l’argomento da lui trattato: un fatto di attualità che colpisse, qualcosa di concreto che creasse suspense e permettesse anche domande da parte degli ascoltatori. A volte interrogava lui stesso, instaurando così un dialogo di grande attrattiva per tutti.
            Altre caratteristiche erano la varietà degli argomenti trattati e la brevità del discorso per evitare monotonia e conseguente noia negli ascoltatori. Non sempre, però, Don Bosco era breve, specialmente quando raccontava i suoi famosi sogni o i viaggi da lui compiuti. Ma abitualmente si trattava di un discorsetto di pochi minuti.
            Non si trattava, insomma, né di prediche né di lezioni scolastiche, ma di brevi parole affettuose che il buon padre rivolgeva ai suoi figli prima di mandarli a riposo.
            Le eccezioni alla regola facevano, naturalmente, enorme impressione, come avvenne la sera del 16 settembre 1867. Dopo essere stato tentato dai superiori ogni mezzo di correzione, alcuni ragazzi risultavano incorreggibili ed erano di scandalo ai compagni.
            Don Bosco salì sulla piccola cattedra. Incominciò con il citare il brano del Vangelo dove il Divin Salvatore pronuncia parole terribili contro chi scandalizza i pargoli. Ricordò le serie ammonizioni da lui ripetutamente fatte a quegli scandalosi, i benefici che essi avevano ottenuto in collegio, l’amore paterno di cui erano stati circondati, e poi proseguì:
«Costoro credono di non essere conosciuti, ma io so chi sono e potrei nominarli in pubblico. Se non li nomino, non credete che non ne sia pienamente informato… Che se volessi nominarli, potrei dire: Sei tu, o A… (e pronunciò nome e cognome) un lupo che ti aggiri in mezzo ai compagni e li allontani dai superiori mettendo in ridicolo i loro avvisi… Sei tu, o B… un ladro che coi discorsi appanni il candore dell’innocenza altrui… Sei tu o C… un assassino che con certi biglietti, con certi libri, strappi dal fianco di Maria i suoi figlioli… Sei tu o D… un demonio che guasti i compagni e impedisci loro con i tuoi scherni la frequenza ai Sacramenti…».
            Sei furono nominati. La voce di Don Bosco era calma. Ogni volta che pronunciava un nome si udiva un grido soffocato del colpevole che risuonava in mezzo al cupo silenzio dei compagni esterrefatti.
            Il giorno dopo alcuni furono mandati a casa. Quelli che poterono rimanere, cambiarono vita: Il «buon padre» Don Bosco non era un buonuomo davvero! Ed eccezioni di questo genere confermano la regola della sua «Buona Notte».

La chiave della moralità
            Non per nulla Don Bosco un giorno del 1875, a chi si stupiva come mai nell’Oratorio non si verificassero certi disordini lamentati in altri collegi, enumerò i segreti messi in azione a Valdocco, e tra questi indicò il seguente: «Mezzo potente di persuasione al bene è il rivolgere ai giovani due parole confidenziali ogni sera dopo le orazioni. Si taglia la radice ai disordini, prima ancora che nascano» (MB XI, 222).
            E nel suo prezioso documento Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, lasciò scritto che la «Buona Notte» del Direttore della Casa poteva divenire «la chiave della moralità, del buon andamento e del successo dell’educazione» (Costituzioni della Società di San Francesco di Sales, p. 239-240)
            Don Bosco faceva vivere la giornata ai suoi giovani tra due momenti solenni, anche se ben diversi tra loro, al mattino l’Eucaristia, perché la giornata non stemperasse il loro ardore giovanile, alla sera le preghiere e la «Buona Notte» perché prima del sonno riflettessero su valori che avrebbero illuminato la notte.




Don Rinaldi ai Becchi

Il beato don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, è ricordato come una figura straordinaria, capace di unire in sé le qualità di Superiore e Padre, insigne maestro di spiritualità, pedagogia e vita sociale, oltre che guida spirituale impareggiabile. La sua profonda ammirazione per don Bosco, che ebbe il privilegio di conoscere personalmente, lo rese una viva testimonianza del carisma del fondatore. Consapevole dell’importanza spirituale dei luoghi legati all’infanzia di don Bosco, don Rinaldi dedicò particolare attenzione a visitarli, riconoscendone il valore simbolico e formativo. In questo articolo, ripercorriamo alcune delle sue visite al Colle Don Bosco, alla scoperta del legame speciale che lo univa a questi luoghi santi.

Per il santuarietto di Maria Ausiliatrice
            Con l’inaugurazione del Santuarietto di Maria Ausiliatrice, voluto davanti alla Casetta di don Bosco da don Paolo Albera, e precisamente dal due agosto 1918, quando Mons. Morganti, Arcivescovo di Ravenna, assistito dai nostri Superiori Maggiori, benedisse solennemente la chiesa e le campane, ebbe inizio la presenza stabile dei Salesiani ai Becchi. In quel giorno c’era pure don Filippo Rinaldi, Prefetto Generale, e, con lui, don Francesco Cottrino, primo direttore della nuova casa.
            D’allora in poi le visite di don Rinaldi ai Becchi si rinnovarono ogni anno a ritmo serrato, vera espressione del suo grande affetto al buon padre don Bosco e del suo vivissimo interessamento per l’acquisto e l’appropriata sistemazione dei luoghi memorabili della fanciullezza del Santo.
            Dalle scarne notizie di cronaca della casa salesiana dei Becchi si possono facilmente dedurre la cura e l’amore con cui don Rinaldi promosse e seguì personalmente i lavori necessari a rendere onore a don Bosco ed appropriato servizio ai pellegrini.
            Nel 1918, dunque, don Rinaldi, dopo la sua venuta ai Becchi per la benedizione della chiesa, vi ritornò il 6 ottobre assieme al Card. Cagliero per la Festa del Santo Rosario, e ne approfittò per avviare le trattative dell’acquisto della Casa Cavallo retrostante a quella di don Bosco.

Cura dei lavori per la casetta
            Nel 1919 furono due le visite di don Rinaldi ai Becchi: quella del 2 giugno e quella del 28 settembre, tutte e due in vista dei restauri da effettuare nella zona storica del Colle.
            Tre invece furono le visite nel 1920: quella del 16-17 giugno, per trattare l’acquisto della casa Graglia e del prato dei fratelli Bechis; quella dell’11 settembre per visitare i lavori e la proprietà dei Graglia; e, infine, quella del 13 dello stesso mese, per presenziare alla stesura dello strumento notarile di acquisto della medesima casa Graglia.
            Due furono le visite del 1921: il 16 marzo, con l’Arch. Valotti, per il progetto di una strada che conducesse al Santuario e di un Pilone e di un Capannone per pellegrini sulla piazzetta; il 12-13 settembre, con l’Arch. Valotti ed il Cav. Melle, per lo stesso scopo.
            Nel 1922 don Rinaldi fu di nuovo ai Becchi due volte: il 4 maggio con il Card. Cagliero, don Ricaldone, don Conelli e tutti i Membri del Capitolo Generale (inclusi i Vescovi Salesiani), per pregare presso la Casetta dopo la sua elezione a Rettor Maggiore; ed il 28 settembre con i suoi più diretti collaboratori.
            Vi giunse poi il 10 giugno 1923 per celebrare la Festa di Maria Ausiliatrice. Presiedette ai Vespri nel santuario, fece la predica ed impartì la benedizione eucaristica. Nell’Accademia che seguì, presentò la Croce «Pro Ecclesia et Pontifice» al sig. Giovanni Febbraro, nostro benefattore. Vi ritornò poi in ottobre con il Card. G. Cagliero per la festa del Santo Rosario, celebrando la Santa Messa alle ore 7 e portando il SS. nella processione eucaristica cui seguì la Benedizione impartita dal Cardinale.
            Il 7 settembre 1924 don Rinaldi guidò ai Becchi il Pellegrinaggio dei Padri di Famiglia e de-gli Exallievi delle Case di Torino. Celebrò la Santa Messa, fece la predica e poi, dopo colazione, partecipò al Concerto organizzato per l’occasione. Ritornò ancora il 22 ottobre dello stesso anno assieme a don Ricaldone, ed ai sigg. Valotti e Barberis, per risolvere la spinosa questione della strada al santuario che implicava difficoltà da parte dei proprietari dei terreni adiacenti.
            Ben tre volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1925: il 21 maggio per lo scoprimento della lapide a don Bosco, e poi il 23 luglio ed il 19 settembre, accompagnato questa volta nuovamente dal Card. Cagliero.
            Il 13 maggio 1926 don Rinaldi guidò un pellegrinaggio di circa 200 soci dell’Unione Insegnanti don Bosco, celebrando la Santa Messa e presiedendo alla loro adunanza. Il 24 luglio dello stesso anno ritornò, assieme a tutto il Capitolo Superiore, alla guida del pellegrinaggio dei Direttori delle Case d’Europa; e, di nuovo, il 28 agosto con il Capitolo Superiore ed i Direttori delle case d’Italia.

Ristrutturazione del centro storico
            Tre altre visite di don Rinaldi ai Becchi risalgono al 1927: quella del 30 maggio con don Giraudi ed il sig. Valotti per definire i lavori edilizi (costruzione del portico ecc.); quella del 30 agosto con don Tirone e con i Direttori degli Oratori festivi; e quella del 10 ottobre con don Tirone ed i giovani missionari di Ivrea. In quest’ultima occasione don Rinaldi esortò il Direttore di allora, don Fracchia, a collocare piante dietro la casa Graglia e nel prato del Sogno,
            Quattro volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1928: — Il 12 aprile con don Ricaldone per l’esame dei lavori eseguiti e di quelli in corso. — Il 9-10 giugno con don Candela e don V. Bettazzi per la Festa di Maria Ausiliatrice e per l’inaugurazione del Pilone del Sogno. In quest’occasione cantò la Santa Messa e, dopo i Vespri e la Benedizione eucaristica pomeridiana, benedisse il Pilone del Sogno ed il nuovo Portico, dirigendo a tutti dalla veranda la sua parola. Alla sera assistette alla luminaria. — Il 30 settembre giunse con don Ricaldone e don Giraudi per visitare la località «Gaj». — L’8 ottobre ritornò alla testa del pellegrinaggio annuale dei giovani missionari della casa di Ivrea. Fu in quell’anno che don Rinaldi manifestò il desiderio dell’acquisto della villa Damevino per adibirla ad alloggio per pellegrini o, meglio ancora, destinarla ai Figli di Maria aspiranti missionari.
            Ben sei furono le visite ai Becchi nel 1929: — La prima, del 10 marzo, con don Ricaldone, fu per visitare la villa Damevino e la casa Graglia (la prima delle quali venne poi acquistata quello stesso anno). Essendo ormai imminente la beatificazione di don Bosco, don Rinaldi volle pure che si allestisse un altarino al Beato nella cucina della Casetta (il che fu poi eseguito più tardi, nel 1931). — La seconda, del 2 maggio, fu pure una visita di studio, con don Giraudi, il sig. Valotti ed il pittore prof. Guglielmino. — La terza, del 26 maggio, fu per partecipare alla festa di Maria Ausiliatrice. — La quarta, del 16 giugno, la fece con il Capitolo Superiore e con tutti i Membri del Capitolo Generale per la Festa di don Bosco. — La quinta, del 27 luglio, fu una breve visita con don Tirone e Mons. Massa. — La sesta, infine, fu con Mons. Mederlet ed i giovani missionari della Casa di Ivrea, per i quali don Rinaldi non nascondeva le sue predilezioni.
            Nel 1930 don Rinaldi venne ancora due volte ai Becchi: il 26 giugno per una breve visita di ricognizione delle varie località; ed il 6 agosto, con don Ricaldone, il sig. Valotti ed il cav. Sartorio, per la ricerca dell’acqua (trovata poi da don Ricaldone in due punti, a 14 e a 11 metri di distanza dalla fonte chiamata Bacolla).
            L’anno 1931, che fu l’anno della sua morte, avvenuta il 5 dicembre, don Rinaldi giunse ai Becchi almeno tre volte: Il 19 luglio, di pomeriggio. In quell’occasione raccomandò di fare la commemorazione di don Bosco il 16 di ogni mese o la domenica seguente. Il 16 settembre, quando approvò e lodò il campo di ricreazione preparato per i giovani della Comunità. Il 25 settembre, e fu l’ultima, quando, con don Giraudi ed il sig. Valotti, esaminò il progetto degli alberi da piantare nella zona (sarà eseguito più tardi, nel 1990, quando cominciò la realizzazione del progetto di alberazione di 3000 piante sui vari versanti del Colle dei Becchi, proprio nell’anno della sua beatificazione).
            Non calcolando eventuali visite precedenti, sono quindi 41 le visite fatte da don Rinaldi ai Becchi tra il 1918 e il 1931.




Don Bosco e la musica

            Per l’educazione dei suoi giovani Don Bosco si servì molto della musica. Sin da ragazzo amava il canto. Avendo egli una bella voce, il Sig. Giovanni Roberto, capo-cantore della parrocchia, gli insegnò il canto fermo. In pochi mesi Giovanni poté salire sull’orchestra ed eseguire parti musicali con ottimo risultato. Nello stesso tempo incominciò ad esercitarsi a suonare una “spinetta”, che era lo strumento a corde pizzicate a mezzo di tastiera, ed anche il violino (MB I, 232).
            Sacerdote a Torino, fece da maestro di musica ai suoi primi oratoriani, formando a poco a poco dei veri cori che attiravano, con il loro canto, la simpatia degli ascoltatori.
            Dopo l’apertura dell’ospizio, avendo ormai ragazzi interni, iniziò la scuola di canto gregoriano e, con il tempo, portò pure i suoi piccoli cantori nelle chiese della città e fuori Torino ad eseguire il loro repertorio.
            Egli stesso compose lodi sacre come quella a Gesù Bambino, “Ah, si canti in suon di giubilo…”. Avviò pure allo studio della musica alcuni suoi discepoli, tra i quali si distinse don Giovanni Cagliero, che poi si rese celebre per le sue creazioni musicali guadagnandosi la stima degli esperti. Nel 1855 Don Bosco organizzò la prima banda strumentale dell’Oratorio.
            Non andava, tuttavia, avanti alla buona Don Bosco! Già negli anni ’60 incluse in un suo Regolamento un capitolo sulle scuole serali di musica, nel quale diceva, fra l’altro:
“Da ogni allievo musico si esige formale promessa di non andare a cantare né a suonare nei pubblici teatri, né in altro trattenimento in cui possa essere compromessa la Religione ed il buon costume” (MB VII, 855).

La musica dei ragazzi
            Ad un religioso francese che aveva fondato un Oratorio festivo e gli chiedeva se conveniva insegnare la musica ai ragazzi, rispose: “Un Oratorio senza musica è come un corpo senz’anima!” (MB V, 347).
            Don Bosco parlava il francese abbastanza bene sia pure con una certa libertà di grammatica e di espressione. In proposito riuscì celebre una sua risposta sulla musica dei ragazzi. L’Abate L. Mendre di Marsiglia, Curato della parrocchia di San Giuseppe, gli portava grande affetto. Un giorno gli sedeva a fianco durante un trattenimento nell’Oratorio di San Leone. I piccoli musici facevano ogni tanto qualche stecca. L’abate, che di musica se ne intendeva assai, friggeva e scattava ad ogni stonatura. Don Bosco gli sussurrò all’orecchio nel suo francese: “Monsieur Mendre, la musique de les enfants elle s’écoute avec le coeur et non avec les oreilles” (Signor abate Mendre, la musica dei ragazzi si ascolta con il cuore e non con le orecchie). L’abate ricordò poi infinite volte quella risposta, che rivelava la saggezza e la bontà di Don Bosco (MB XV, 76 n.2).
            Tutto questo non significa, però, che Don Bosco anteponesse la musica alla disciplina nell’Oratorio. Era sempre amabile ma non passava facilmente sopra alle mancanze di obbedienza. Per alcuni anni aveva permesso ai giovani bandisti che nella festa di Santa Cecilia andassero in luogo da lui designato a fare una passeggiata ed un pranzetto campestre. Ma nel 1859, a causa di accaduti inconvenienti, cominciò a proibire tale svago. I giovani non protestarono apertamente, ma una metà di essi, sobillati da un capo che aveva loro promesso di ottenerne licenza da Don Bosco, e sperando impunità, si decisero di uscire ugualmente dall’Oratorio ed organizzare di loro iniziativa un pranzo fuori casa prima della Festa di Santa Cecilia. Avevano preso questa decisione pensando che Don Bosco non se ne sarebbe accorto e non avrebbe preso provvedimenti. Si recarono, quindi, negli ultimi giorni di ottobre, a pranzare in una vicina trattoria. Dopo il pranzo andarono ancora a girovagare in città ed alla sera ritornarono a cenare nello stesso posto, rientrando poi a Valdocco mezzo brilli a notte tarda. Solo il sig. Buzzetti, invitato all’ultimo momento, si era rifiutato di unirsi a quei disubbidienti e ne avvertì Don Bosco. Questi, con tutta calma, dichiarò sciolta la banda musicale e ordinò al Buzzetti di ritirare e chiudere a chiave tutti gli strumenti e pensare a nuovi allievi da avviare alla musica strumentale. All’indomani mattina, poi, mandò a chiamare ad uno ad uno tutti i musici riottosi rammaricandosi con ciascuno di loro che lo costringevano ad essere molto severo. Poi li rimandò dai loro parenti o tutori raccomandandone qualcuno più bisognoso in opifici cittadini. Solo uno di quei birichini fu poi riaccettato perché Don Rua aveva assicurato Don Bosco trattarsi di un ragazzo inesperto che si era lasciato ingannare dai compagni. E Don Bosco lo tenne ancora qualche tempo in prova!
            Ma con i dispiaceri non bisogna dimenticare le consolazioni. Il 9 giugno 1868 fu una data memorabile nella vita di Don Bosco e nella storia della Congregazione. La nuova Chiesa di Maria Ausiliatrice, da lui fatta costruire con immensi sacrifici, veniva finalmente consacrata. Chi fu presente ai solennissimi festeggiamenti ne rimase profondamente commosso. Una folla strabocchevole stipava la bella chiesa di Don Bosco. L’Arcivescovo di Torino, Mons. Riccardi, compì il solenne rito della consacrazione. Alla funzione serale del giorno seguente, durante i Vespri solenni, il coro di Valdocco intonò la grandiosa antifona musicata da don Cagliero: Sancta Maria succurre miseris. La folla dei fedeli ne rimase elettrizzata. Tre cori poderosi l’avevano eseguita in modo perfetto. Centocinquanta tenori e bassi cantavano nella navata presso l’altare di San Giuseppe, duecento soprani e contralti stavano in alto lungo la ringhiera sotto la cupola, un terzo coro, composto di altri cento tenori e bassi, erano collocati sull’orchestra che allora sovrastava il fondo della chiesa. I tre cori, collegati da un congegno elettrico, mantenevano la sincronia ai comandi del Maestro. Il biografo, presente all’esecuzione, ebbe poi a scrivere:
            “Nel momento in cui tutti i cori riuscirono a fare una sola armonia, si provò una specie di incantesimo. Le voci si collegavano insieme e l’eco le rimandava per tutte le direzioni in modo che l’uditorio si sentiva immerso in un mare di voci, senza che potesse discernere come e donde veniva. Le esclamazioni, che si udirono poi, indicavano come tutti si fossero sentiti soggiogati da così alta maestrìa. Don Bosco stesso non poté trattenere l’intensa commozione. Ed egli che mai in chiesa, durante la preghiera, si permetteva di dire una parola, rivolse gli occhi umidi di pianto ad un canonico suo amico e a bassa voce gli disse: “Caro Anfossi, non ti pare di essere in Paradiso?” (MB IX, 247-248).




Dov’è nato don Bosco?

            Nel primo anniversario della morte di don Bosco i suoi Antichi Alunni vollero continuare a celebrare la Festa della Riconoscenza, come avevano fatto ogni anno al 24 giugno, organizzandola per il nuovo Rettor Maggiore, don Rua.
            Il 23 giugno del 1889, dopo aver posto una lapide-ricordo nella Cripta di Valsalice dove don Bosco era sepolto, il giorno 24 festeggiarono don Rua a Valdocco.
            Il prof. Alessandro Fabre, exallievo degli anni 1858-66, presa la parola, disse fra l’altro:
            «Non le sarà discaro di sapere, ottimo sig. don Rua, che abbiamo deciso di aggiungere come appendice l’inaugurazione pel 15 agosto prossimo venturo di un’altra lapide, di cui è già data la commissione e qui riprodotto il disegno, e che porremo sulla casa ove nacque e molti anni abitò il nostro caro don Bosco, perché rimanga segnalato ai contemporanei ed ai posteri il luogo dove prima palpitò per Dio e per gli uomini il cuore di quel Grande che del suo nome, delle sue virtù, delle sue istituzioni ammirabili doveva riempire più tardi l’Europa e il mondo».
            Come si vede, l’intenzione degli Antichi Alunni era di porre una lapide sulla Casetta dei Becchi, da tutti creduta la casa natia di don Bosco, perché egli l’aveva sempre indicata come la sua casa. Ma poi, trovando la Casetta in rovina, furono indotti a ritoccare la bozza dell’iscrizione e a collocare la lapide sulla vicina casa di Giuseppe con la seguente dicitura dettata dal Prof. Fabre stesso:
            L’11 agosto, pochi giorni prima del compleanno di don Bosco, gli Antichi Alunni si recarono ai Becchi per scoprire la lapide. Tenne il discorso d’occasione il Teol. Felice Reviglio, Curato di S. Agostino, uno dei primissimi allievi di don Bosco. Parlando della Casetta egli disse: «La casa stessa qui presso ove nacque, che è quasi del tutto rovinata…» è «un vero monumento dell’evangelica povertà di don Bosco».
            Della «completa rovina» della Casetta aveva già fatto cenno il Bollettino Salesiano nel marzo del 1887 (BS 1887, marzo, p. 31), e di tale situazione parlavano, evidentemente, don Reviglio e l’iscrizione sulla lapide («una casa ora demolita»). L’iscrizione copriva pietosamente il fatto increscioso che la Casetta, non ancora di proprietà salesiana, pareva ormai inesorabilmente perduta.
            Ma don Rua non si diede per vinto e nel 1901 si offerse di restaurarla a spese dei salesiani nella speranza di poterla poi ottenere dagli eredi di Antonio e Giuseppe Bosco, come avvenne nel 1919 e 1926 rispettivamente.
            A lavori ultimati una lapide fu posta sulla «Casetta» con l’iscrizione seguente: IN QUEST’UMILE CASETTA ORA PIAMENTE restaurata nacque don giovanni bosco il dì 16 agosto 1815
            Poi anche l’iscrizione sulla casa di Giuseppe venne così corretta: «Nato qui presso in una casa ora ristorata… ecc.», con relativa sostituzione della lapide.
            Quando poi, nel 1915 si celebrò il centenario della nascita di don Bosco, il Bollettino pubblicò la foto della Casetta, precisando: «E quella ove il 16 agosto 1815 nacque il Venerabile Giovanni Bosco. Essa fu salvata dalla rovina alla quale l’edacità del tempo l’aveva condannata, con una provvida riparazione generale, l’anno 1901».
            Negli anni ’70 le ricerche d’archivio compiute dal Comm. Secondo Caselle, convinsero i Salesiani che don Bosco era, sì, vissuto dal 1817 al 1831 alla Casetta acquistata da suo padre, casa sua quindi, come egli aveva sempre detto, ma era nato alla cascina Biglione, di cui il padre era massaro abitandovi con la famiglia, fino alla sua morte avvenuta l’11 maggio 1817, sul sommo del Colle ove ora sorge il Tempio a San Giovanni Bosco.
            La lapide sulla casa di Giuseppe era stata cambiata, mentre quella sulla Casetta venne sostituita dall’attuale iscrizione marmorea: questa è la mia casa Don Bosco
            Rimane così sfatata l’opinione recentemente espressa, secondo la quale gli Antichi Alunni, nel 1889, con le parole: «Nato qui presso in una casa ora demolita» non intendevano parlare della Casetta dei Becchi.

I toponimi dei Becchi
            Abitavano i Bosco alla Cascina Biglione quando nacque Giovanni?
            Qualcuno ha affermato che è permesso dubitarne, perché, quasi certamente abitavano, invece, in un’altra casa di proprietà Biglione al «Meinito». Prova ne sarebbe il Testamento di Francesco Bosco, stilato dal notaio C. G. Montalenti l’8 maggio del 1817, dove si legge: «…in casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore nella regione del Monastero borgata di Meinito…» (S. CASELLE, Cascinali e Contadini del Monferrato: i Bosco di Chieri nel secolo XVIII, Roma, LAS, 1975, p. 94).
            Che dire di questa opinione?
            Oggi «Meinito» (o «Mainito») è solo più il sito di una cascina posta a sud del Colle Don Bosco, al di là della strada provinciale che da Castelnuovo va in direzione di Capriglio, ma un tempo indicava un territorio più esteso, contiguo a quello chiamato Sbaraneo (o Sbaruau). E Sbaraneo non era altro che il vallone ad est del Colle.
«Monastero», poi, non corrispondeva solo all’attuale zona boschiva a ridosso del Mainito, ma copriva un’area molto vasta, dal Mainito alla Barosca, tanto è vero che la stessa «Casetta» dei Becchi venne registrata nel 1817 in «regione di Cavallo, Monastero» (S. CASELLE, o. c., p. 96).
            Quando non c’erano ancora mappe con lotti numerati, cascine e poderi venivano individuati a base di toponimi o nomi di luogo, derivati da cognomi di antiche famiglie o da caratteristiche geografiche e storiche.
            Essi servivano da punti di riferimento, ma non corrispondevano all’attuale significato di «regione» o «borgata» se non molto approssimativamente, e venivano usati con molta libertà di scelta da parte dei notai.
            La più antica Carta del Castelnovese, conservata nell’archivio comunale e gentilmente postaci a disposizione, risale al 1742 e viene chiamata «Carta napoleonica» probabilmente per il maggior uso fattone durante l’occupazione francese. Un estratto di questa mappa, curato nel 1978 con elaborazione fotografica del testo originale dai Sigg. Polato e Occhiena, che confrontarono i documenti d’archivio con i lotti numerati sulla Carta napoleonica, dà l’indicazione di tutti i terreni di proprietà dei Biglione sin dal 1773 e lavorati dai Bosco dal 1793 al 1817. Da questo «Estratto» risulta che i Biglione non possedevano alcun terreno o casa al Mainito. E d’altra parte non è sinora reperibile altro documento che provi il contrario.
            E allora che significato possono avere quelle parole «in casa del Signor Biglione… in regione Monastero borgata di Meinito»?
            Anzitutto è bene sapere che solo nove giorni dopo, lo stesso notaio che redasse il testamento di Francesco Bosco, scriveva nell’inventario della sua eredità: «…in casa del Signor Giacinto Biglione abitata degli infranominati pupilli [i figli di Francesco] regione di Meinito…» (S. CASELLE, o. c., p. 96), promuovendo così in pochi giorni Mainito da «borgata» a «regione». E poi è curioso constatare che anche la Cascina Biglione propriamente detta, in documenti diversi risulta a Sbaconatto, a Sbaraneo o Monastero, al Castellero, e chi più ne ha più ne metta.
            E allora come la mettiamo? Tenuto conto di tutto, non è difficile accorgersi che si tratta sempre della stessa zona, il Monastero, che al suo centro aveva come punti di riferimento Sbaconatto e Castellerò, ad est lo Sbaraneo, a sud il Mainito. Il notaio Montalenti scelse «Meinito» come altri scelsero «Sbaraneo» o «Sbaconatto» o «Castellero». Ma il sito e la casa erano sempre gli stessi!
            Sappiamo, inoltre, che i Sigg. Damevino, proprietari della Cascina Biglione dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca; ma, come assicurano gli anziani del luogo, non possedettero mai case al Mainito. Eppure avevano acquistato le proprietà che i Biglione avevano venduto al Sig. Giuseppe Chiardi nel 1818.
            Non resta che concludere che il documento stilato dal notaio Montalenti l’8 maggio 1817, se pur non contiene errori, si riferisce alla Cascina Biglione propriamente detta, ove il 16 agosto 1815 nacque don Bosco, l’11 maggio 1817 morì suo padre e, ai giorni nostri, fu costruito il grandioso Tempio a san Giovanni Bosco.
            L’esistenza, infine, di una fantomatica casa dei Biglione abitata dai Bosco al Mainito e poi demolita non si sa quando né da chi né perché prima del 1889, come da qualcuno si è ipotizzato, non ha (almeno sinora) alcuna vera prova in suo favore. Gli stessi Antichi Alunni quando posero sulla lapide dei Becchi le parole «Nato qui presso…» (si veda il nostro articolo di gennaio) non potevano certo riferirsi al Mainito che dista oltre un chilometro dalla Casa di Giuseppe!

Cascine, massari e mezzadri
            Francesco Bosco, massaro della Cascina Biglione, desiderando mettersi in proprio, acquistò terreni e la casetta dei Becchi, ma la morte lo colse all’improvviso l’11 maggio 1817 prima di aver potuto pagare tutti i relativi debiti contratti. Nel novembre la vedova, Margherita Occhiena, si trasferì con i figli e la suocera nella «Casetta» fatta ristrutturare allo scopo. Prima di allora quella Casetta, già contrattata dal marito sin dal 1815 ma non ancora pagata, consisteva solo di «una crotta e stalla accanto, coperta a coppi, in cattivo stato» (S. CASELLE, Cascinali e contadini […], p. 96-97), e quindi inabitabile da una famiglia di cinque persone, con animali ed attrezzi da lavoro. Nel febbraio del 1817 era stato stilato l’atto notarile di vendita, ma il debito rimaneva ancora aperto. Margherita dovette risolvere la situazione come tutrice di Antonio, Giuseppe e Giovanni Bosco, ormai piccoli proprietari ai Becchi.
            Non era la prima volta che i Bosco passavano dalla condizione di massari a quella di piccoli proprietari e viceversa. Ce ne ha data ampia documentazione il compianto Comm. Secondo Caselle.
            Il trisavolo di don Bosco, Giovanni Pietro, già massaro alla Cascina Croce di Pane, tra Chieri e Andezeno, proprietà dei Padri Barnabiti, nel 1724 andò massaro alla Cascina di San Silvestro presso Chieri, appartenente alla Prevostura di San Giorgio. E che egli abitasse proprio nella Cascina di San Silvestro con i familiari risulta dai «Registri del Sale» del 1724. Suo nipote, Filippo Antonio, orfano di padre e preso in casa dal figlio maggiore di Giovanni Pietro, Giovanni Francesco Bosco, fu adottato da un pro-zio, da cui ereditò casa, giardino e 2 ettari di terreno a Castelnuovo. Ma, per la critica situazione economica in cui venne a trovarsi, dovette vendere la casa e gran parte delle sue terre e trasferirsi con la famiglia nella frazione Morialdo, come massaro della Cascina Biglione, ove morì nel 1802.
            Paolo, suo figlio di primo letto, divenne così il capo-famiglia e il massaro, come risulta dal censimento del 1804. Ma qualche anno dopo lasciò la cascina al fratellastro Francesco e andò a stabilirsi a Castelnuovo dopo essersi presa la sua parte di eredità e aver operato delle compra-vendite. Fu allora che Francesco Bosco, figlio di Filippo Antonio e di Margherita Zucca, divenne massaro della Cascina Biglione.
            Che cosa s’intendeva in quei luoghi per «cascina», per «massaro» e per «mezzadro»?
            La parola «cascina» (in piemontese: cassin-a) indica in sé una casa colonica o l’insieme di un’azienda agricola; ma nei luoghi di cui parliamo, l’accento era posto sulla casa, cioè sul caseggiato agricolo adibito in parte ad abitazione e in parte a rustico per l’allevamento del bestiame, ecc. Il «massaro» (in piemontese: massé) in sé è il conduttore della cascina e dei poderi, mentre il «mezzadro» (in piemontese: masoé) è solo il coltivatore di terre di un padrone con cui divide i raccolti. Ma in pratica in quei luoghi il massaro era anche mezzadro e viceversa, tanto che la parola massé non era gran ché usata, mentre masoé indicava generalmente anche il massaro.
            I Sigg. Damevino, proprietari della Cascina «Bion» o Biglione al Castellero dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca e, come ci assicurò il sig. Angelo Agagliate, avevano 5 massari o mezzadri, uno alla Cascina Biglione, due alla Scajota e due alla Barosca. Naturalmente i vari massari abitavano nella cascina loro propria.
            Ora, se un contadino era massaro, ad es., della Cascina Scajota, proprietà dei Damevino, non lo si diceva «abitante in casa Damevino», ma semplicemente «alla Scajota». Se Francesco Bosco avesse abitato nella supposta casa dei Biglione al Mainito, non lo si sarebbe, quindi, detto, abitante «in casa del signor Biglione» anche se questa casa fosse ai Biglione appartenuta. Se il notaio scrisse: «In casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore» era segno che Francesco abitava con la famiglia alla Cascina Biglione propriamente detta.
            E questa è un’ulteriore conferma ai precedenti articoli che smentiscono l’ipotesi dalla nascita di don Bosco al Mainito «in una casa ora demolita».
            Concludendo, non si può dare esclusiva importanza al significato letterale di certe espressioni, ma occorre vagliarne il vero senso nell’uso locale del tempo. In studi di questo genere il lavoro del ricercatore locale è complementare a quello dello storico accademico, e particolarmente importante, perché il primo, favorito dalla conoscenza dettagliata del territorio, può fornire al secondo, il materiale occorrente per le sue conclusioni generali, ed evitargli erronee interpretazioni.




Don Bosco e “la Consolata”

            Il più antico pilone nella zona dei Becchi pare risalire al 1700. Fu eretto al fondo della piana verso il «Mainito», ove confluivano le famiglie che abitavano nell’antica «Scaiota», divenuta poi cascina agricola salesiana, oggi ristrutturata e trasformata in Casa dei giovani che ospita gruppi giovanili pellegrini al Tempio e alla Casetta di Don Bosco.
            È il pilone della Consolata, con una statua della Vergine Consolatrice degli afflitti, sempre onorata con fiori campestri portati dai devoti. Giovannino Bosco sarà passato tante volte davanti a quel pilone, togliendosi il cappello e mormorando un’Ave come la mamma gli aveva insegnato.
            Nel 1958 i Salesiani restaurarono il vecchio pilone e, con una solenne funzione religiosa, lo inaugurarono ad un rinnovato culto della comunità e della popolazione, come risulta dalla Cronaca di quell’anno conservata nell’archivio dell’Istituto «Bernardi Semeria».
            Quella statua della Consolata potrebbe quindi essere la prima immagine di Maria Santissima che Don Bosco venerò nella fanciullezza presso casa sua.

Alla «Consolata» di Torino
            Già da studente e da seminarista a Chieri Don Bosco dev’essere andato a Torino a venerare la Vergine Consolatrice (MB I, 267-68). Ma risulta con certezza che, novello sacerdote, egli celebrò la sua seconda Santa Messa proprio nel Santuario della Consolata «per ringraziare – come egli scrisse – la Gran Vergine Maria degli innumerevoli favori che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù» (MO 115).
            Ai tempi dell’Oratorio vagante senza fissa dimora, Don Bosco andava con i suoi ragazzi in qualche chiesa di Torino per la messa domenicale, e per lo più si recavano alla Consolata (MB II, 248; 346).
            Nel mese di maggio degli anni 1846-47, per ringraziare la Vergine Consolatrice di aver finalmente fatto trovar loro sede stabile, vi portò i suoi giovani a fare la Santa Comunione mentre i buoni Padri Oblati di Maria Vergine, che officiavano il Santuario, si prestarono ad ascoltarne le confessioni (MB II, 430).
            Quando, nell’estate del 1846, Don Bosco si ammalò gravemente, i suoi ragazzi non solo mostrarono in lacrime il loro dolore, ma temendo che i mezzi umani non sarebbero bastati alla sua guarigione, si alternarono dal mattino alla sera nel Santuario della Consolata a pregare Maria SS. di conservare loro l’amico e padre infermo.
            Ci fu chi fece anche dei voti infantili e chi digiunò a pane ed acqua perché la Madonna li esaudisse. Furono esauditi e Don Bosco promise a Dio che fin l’ultimo suo respiro sarebbe stato per loro.
            Le visite di Don Bosco e dei suoi ragazzi alla Consolata continuarono. Invitato una volta a cantare con i suoi giovani una Messa nel Santuario, arrivò all’ora convenuta con la «Schola cantorum» improvvisata portandosi lo spartito di una «messa» da lui stessa composta per l’occasione.
            Organista nel santuario era il celebre maestro Bodoira che Don Bosco invitò all’organo. Questi non degnò neanche di uno sguardo lo spartito di Don Bosco, ma quando poi si accinse a suonarne la musica, non ci capì proprio nulla e, abbandonato indispettito il posto di organista, se ne andò.
            Don Bosco allora si sedette all’organo ed accompagnò la Messa seguendo la sua composizione tempestata di segni che solo lui poteva capire. I giovani che prima si erano smarriti alle note del celebre organista, proseguirono sino alla fine senza una stecca e le loro voci argentine attirarono l’ammirazione e la simpatia di tutti i fedeli presenti alla funzione (MB II, 148).
            Dal 1848 sino al 1854 Don Bosco accompagnava in processione i suoi ragazzi per le vie di Torino sino alla Consolata. I suoi birichini cantavano lungo il percorso lodi alla Vergine per poi partecipare alla Santa Messa da lui celebrata.
            Alla morte di Mamma Margherita, avvenuta il 25 novembre 1856, Don Bosco il mattino stesso andò a celebrare la Santa Messa di suffragio nella cappella sotterranea del Santuario della Consolata, fermandosi poi a pregare lungamente dinanzi all’immagine di Maria Consolatrice, supplicandola di far Essa da madre a lui ed ai suoi figli. E Maria SS. esaudì le sue preghiere (MB V, 566).
            Don Bosco al Santuario della Consolata non solo ebbe più volte occasione di celebrare la Santa Messa, ma un giorno volle anche servirla. Entrato nel santuario per farvi una visita, sentì il segnale dell’inizio della Messa e si accorse che mancava il ministrante. Si alzò, andò in sacrestia, prese il messale e servì con devozione la Messa (MB VII, 86).
            E la frequenza di Don Bosco al Santuario non cessò mai più soprattutto in occasione della Novena e della festa della Consolata.

Statuetta della Consolata nella Cappella Pinardi
            Il 2 settembre 1847 Don Bosco acquistò al prezzo di 27 lire una statuetta di Maria Consolatrice collocandola nella Cappella Pinardi.
            Nel 1856, nei lavori di demolizione della Cappella, Don Francesco Giacomelli, compagno di seminario e grande amico di Don Bosco, volendo ritenere per sé ciò che egli chiamava il più insigne monumento della fondazione dell’Oratorio, trasportò la statuetta ad Avigliana nella sua casa paterna.
            Nel 1882 sua sorella fece costruire presso casa un pilone con nicchia e vi collocò la preziosa reliquia.
            Quando i Salesiani vennero a sapere, dopo l’estinzione della famiglia Giacomelli, del pilone di Avigliana, riuscirono a riavere l’antica statuetta, che il 12 aprile 1929 ritornava all’Oratorio di Torino dopo 73 anni dal giorno in cui Don Giacomelli l’aveva tolta dalla prima cappella (E. GIRAUDI, L’Oratorio di Don Bosco, Torino, SEI, 1935, p. 89-90).
            Oggi la storica piccola statua rimane l’unico ricordo del passato nella nuova Cappella Pinardi, formandone il tesoro più caro e prezioso.
            Don Bosco, che diffuse il culto a Maria Ausiliatrice in tutto il mondo, non dimenticò mai la prima sua devozione alla Vergine, venerata sin da fanciullo presso il pilone dei Becchi sotto l’effigie della «Consolata». Giunto a Torino, giovane sacerdote diocesano, nel periodo eroico del suo «Oratorio», attinse dalla Vergine Consolatrice nel suo Santuario luce e consiglio, coraggio e conforto per la missione che il Signore gli aveva affidato.
            Anche per questo è considerato a pieno titolo uno dei Santi Torinesi.




Don Bosco e la lingua italiana

            Il Piemonte del primo ’800 era ancora zona periferica rispetto al resto d’Italia. La lingua parlata era il piemontese. Si ricorreva all’italiano solo in casi particolari, come si indossa un vestito nelle grandi occasioni. Le classi alte usavano piuttosto il francese nello scrivere e ricorrevano al dialetto nella conversazione.
            Nel 1822 re Carlo Felice approvò un Regolamento per le scuole con disposizioni particolari per l’insegnamento della lingua italiana. Tali disposizioni però non furono granché efficaci, dato soprattutto il metodo con cui venivano applicate.
            Non c’è quindi da meravigliarsi se anche a don Bosco l’uso corretto della lingua italiana sia costato non poca fatica. Non per nulla nel manoscritto delle sue Memorie è facile incontrare parole piemontesi italianizzate o parole italiane usate nel significato dialettale come nei casi seguenti:
«Mi accorsi che […] faceva la comparsa di uno sfrosadore» (ASC 132 / 58A7), dove sfrosadore (piemontese: sfrosador) sta per frodatore, e così: «Don Bosco co’ suoi figli poteva ad ogni momento eccitare una rivoluzione» (ASC 132 / 58E4), dove figli (piemontese: fieuj) sta per giovani. E così via.
            Se don Bosco riuscì poi a scrivere con proprietà di linguaggio, unita a semplicità e chiarezza, lo si deve, tra l’altro, al paziente uso del vocabolario consigliatogli da Silvio Pellico (MB III, 314-315).

Una correzione
            Un esempio significativo lo si può avere nella correzione di una frase del primo sogno da lui descritto nelle sue Memorie: «Renditi sano, forte e robusto».
            Don Bosco, rivedendo il manoscritto, tirò una righetta sopra la parola “sano” e scrisse al suo posto: “umile” (ASC 132 / 57A7).
            Che cosa sentì veramente don Bosco in sogno e perché poi cambiò quella parola? Si è parlato di un cambio di significato fatto a scopo didascalico, come pare fosse uso a volte di don Bosco nel narrare e scrivere i suoi sogni. Ma non potrebbe trattarsi invece di una semplice precisazione del significato originale?
            A 9 anni Giovannino Bosco parlava e sentiva solo in piemontese. Aveva appena cominciato a studiare «gli elementi di lettura e scrittura» alla scuola di don Lacqua a Capriglio. In casa e in borgata si usava unicamente il dialetto. In chiesa Giovannino sentiva il Parroco o il Cappellano leggere il Vangelo in latino e spiegarlo in piemontese.
            E quindi più che ragionevole supporre che in sogno Giovannino abbia udito sia «l’Uomo venerando» sia la «Donna di maestoso aspetto» esprimersi in dialetto. Bisogna allora ripensare in dialetto le parole da lui udite nel sogno. Non: «umile, forte, robusto», ma piuttosto: «san, fòrt e robust» nell’accento caratteristico locale.
            In tale circostanza questi aggettivi non potevano avere un significato puramente letterale ma figurato. Ora «san», in senso figurato, vuole dire: senza magagne, retto nella condotta morale, ossia buono (C. ZALLI, Dizionario Piemontese-Italiano, Carmagnola, Tip. di P. Barbié, 2 a ed, 1830, vol. II, p. 330, usato da don Bosco); «fòrt e robust» significano gagliardo e cioè dotato di resistenza in senso fisico e morale (C. ZALLI, o. c., vol. I, 360; vol. II, 309).
            Don Bosco non dimenticherà più quei tre aggettivi «san, fòrt e robust» e quando stenderà le sue Memorie, mentre di primo acchito li tradurrà letteralmente, ripensandoci poi sopra, troverà più opportuno precisare meglio il significato della prima parola. Quel san (= buono) per un ragazzo di 9 anni voleva dire ubbidiente, docile, non capriccioso, non superbietto, in una sola parola: «umile»!
            Si tratterebbe quindi di una precisazione, non di un cambio di significato.

Conferme a questa interpretazione
            Don Bosco, stilando le sue Memorie, pose candidamente l’accento sui difettucci della sua fanciullezza. Due passi presi dalle stesse Memorie lo confermano.
            L’uno riguarda l’anno della prima Confessione e Comunione a cui Mamma Margherita aveva preparato il suo Giovanni: Scrive Don Bosco: «Ritenni e procurai di praticare gli avvisi della pia genitrice; e mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nella ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provavo prima grande ripugnanza, volendo sempre fare i miei fanciulleschi riflessi a chi mi comandava o mi dava buoni consigli» (ASC 132 / 60B5).
            L’altro si può trovare poco oltre, dove don Bosco parla delle difficoltà incontrate con il fratellastro Antonio per darsi allo studio. È un particolare per noi divertente ma che tradisce il caratteraccio di Antonio e il caratterino di Giovannino. Antonio dunque gli avrebbe detto un giorno, vedendolo in cucina, seduto al tavolo, tutto intento sui libri: «Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto grande e grosso e non ho mai veduto questi libri». E don Bosco aggiunge: «Dominato in quel momento dall’afflizione e dalla rabbia, risposi quello che non avrei dovuto. “Tu parli male, gli dissi. Non sai che il nostro asino è più grosso di te e non andò mai a scuola? Vuoi tu divenire simile a lui?” A quelle parole saltò sulle furie, e soltanto colle gambe, che mi servivano assai bene, potei fuggire e scampare da una pioggia di busse e di scappellotti» (ASC 132 / 57B5).
            Questi particolari fanno meglio comprendere il monito del sogno e nello stesso tempo possono spiegare il motivo della «precisazione» linguistica cui abbiamo fatto cenno.
            Nell’interpretare, quindi, i manoscritti di don Bosco sarà utile non dimenticare il problema della lingua, perché don Bosco parlava e scriveva correttamente in italiano, ma la lingua materna era quella in cui egli pensava.
            A Roma l’8 maggio 1887, in un ricevimento in suo onore interrogato quale fosse la lingua che maggiormente gli piaceva, ebbe a dire: «La lingua che più mi piace è quella che m’insegnò mia madre, perché mi costò poca fatica l’impararla e provo con essa maggior facilità a esprimere le mie idee, e poi non la dimentico tanto facilmente come le altre lingue!» (MB XVIII, 325).