L’infanzia di un futuro santo: san Francesco di Sales

            Francesco nacque il 21 agosto 1567 al castello di Sales, a Thorens, vicino ad Annecy, nella Savoia, in un paesaggio di monti e di valli campestri.
            Il padre di Francesco era un uomo leale, cavalleresco, generoso e allo stesso tempo emotivo e impulsivo. In virtù della sua saggezza e del suo senso d’equità, era sovente scelto come arbitro nelle dispute e nei processi. Inoltre si dimostrava assai accogliente verso i poveri del vicinato, al punto che avrebbe dato la sua minestra a un povero piuttosto che rinviarlo a chiedere l’elemosina. Di sua madre Francesca, santa Giovanna di Chantal ha tracciato questo mirabile ritratto:

            Era una signora tra le più ragguardevoli del suo tempo. Era dotata di un animo nobile e generoso, ma puro, innocente e semplice, da vera madre e nutrice dei poveri. Era modesta, umile e bonaria con tutti, molto tranquilla nella sua casa; governava con saggezza la propria famiglia, preoccupata di farla vivere nel timore di Dio.

            Alla nascita di Francesco, suo primogenito, aveva solo quindici anni, mentre suo marito ne aveva più di quaranta. Questa differenza di età non era rara all’epoca, soprattutto tra i nobili, dato che il matrimonio era considerato prima di tutto come l’alleanza tra due famiglie per avere figli e ingrandire le proprie terre e i propri titoli. Il sentimento contava poco allora, il che non impedì che tale unione, all’apparenza mal combinata, si rivelasse solida e felice.
            La maternità si annunciava particolarmente difficile. La futura mamma pregò davanti alla Santa Sindone, allora conservata a Chambéry, capitale della Savoia. Francesco venne al mondo due mesi prima del termine naturale e, nel timore della sua sopravvivenza, venne tosto battezzato.
            Su Francesco, figlio primogenito, erano riposte tutte le speranze del padre, il quale prevedeva per lui una prestigiosa carriera al servizio del suo paese. Tale progetto sarà una fonte di difficoltà durante tutto il periodo della sua giovinezza, segnata da una tensione tra l’obbedienza al padre e la propria particolare vocazione.

I primi sei anni (1567-1573)
            Alla nascita del piccolo Francesco, sua giovane madre non essendo in grado di allattarlo, si fece ricorso a une contadina del paese. Tre mesi più tardi, se ne prese cura per qualche tempo la sua madrina, cioè la sua nonna materna.
            «Mia madre ed io» – scriverà un giorno – «siamo un tutt’uno». In effetti, il bimbo «non è ancora in grado di usare la sua volontà, né può amare altro che il seno e il volto della sua cara madre». È un modello di abbandono alla volontà di Dio:

            Non pensa affatto a voler esser da un lato o dall’altro e non desidera altro che essere tra le braccia di sua madre, con la quale pensa di formare una cosa sola; né si preoccupa punto di conformare il proprio volere a quello della madre, perché non lo percepisce, né si cura di averlo, e lascia che sua madre si muova, faccia e decida ciò che ritiene bene per lui.

            Francesco di Sales affermava inoltre che i bambini non ridono prima del quarantesimo giorno. Solo dopo quaranta giorni essi ridono, cioè sono consolati, perché, come dice Virgilio, «solo allora incominciano a conoscere la propria madre».
            Il piccolo Francesco venne svezzato solamente nel novembre del 1569, quando aveva ormai due anni e tre mesi. A tale età aveva già incominciato a camminare e a parlare. Imparare a camminare avviene in maniera progressiva e capita sovente che i bambini cadano in terra, il che non è affatto grave, perché «mentre sentono che la loro madre li tiene per le maniche, camminano svelti e si aggirano qua e là, senza meravigliarsi dei capitomboli che le loro gambe insicure fanno far loro». Talvolta è il padre che osserva il suo bimbo, tuttora debole e incerto nel muovere i primi passi, e gli dice: “adagio adagio, bambino mio”; se poi cade, lo incoraggia dicendo: “ha fatto un salto, è saggio, non piangere”; poi gli si avvicina e gli dà la mano».
            D’altra parte, imparare a camminare come a parlare avviene per imitazione. È «a forza di udire la madre e di balbettare con lei», che il bambino impara a parlarne la stessa lingua.

Avventure e giochi infantili
            L’infanzia è il tempo della scoperta e dell’esplorazione. Il piccolo Savoiardo ha osservato la natura che lo circondava e ne rimase estasiato. A Sales, sul versante delle montagne a est, tutto è grandioso, imponente, austero; ma lungo la valle, al contrario, tutto è verdeggiante, ubertoso e ameno. Al castello di Brens, nel Chiablese, dove probabilmente fece vari soggiorni tra i tre e i cinque anni, il piccolo Francesco poteva ammirare lo splendore del lago di Lemano. Ad Annecy, il lago circondato da colline e monti non lo lasciò mai indifferente, come lo dimostrano le numerose immagini letterarie riguardanti la navigazione. È facile costatare che Francesco di Sales non fu un uomo nato in città.
            Il mondo degli animali, all’epoca ancora così presente nei castelli, nei paesi e anche in città, è un incanto e una fonte di istruzione per il bambino. Pochi autori ne hanno parlato in maniera tanto abbondante quanto lui. Molte delle sue informazioni (sovente leggendarie) le ha attinte alle sue letture; tuttavia l’osservazione personale dovette contare non poco, ad esempio quando scrive che «l’alba fa cantare il gallo; la stella del mattino allieta i malati, invita al canto gli uccelli».
            Il piccolo Francesco ha considerato a lungo e ammirato, il lavoro delle api, ha osservato e ascoltato attentamente le rondini, i colombi, la chioccia e le rane. Quante volte ha dovuto assistere al pasto dei piccioni nel cortile del castello!
            Il bambino ha soprattutto bisogno di manifestare il suo desiderio di diventare grande e di crescere tramite il gioco, che è anche la scuola del vivere insieme e una maniera di prendere possesso dell’ambiente circostante. Francesco ha giocato a dondolo su cavalli di legno? In ogni caso, egli racconta in una sua predica che «i bambini dondolano su cavalli di legno, li chiamano cavalli, nitriscono per loro, corrono, saltano, si trastullano con questo puerile divertimento». Ed ecco un ricordo personale della sua infanzia: «Quando eravamo bambini, con quale cura assemblavamo pezzi di tegole, di legni, di fango per costruire casette e minuscoli fabbricati! E se qualcuno li distruggeva ci sentivamo smarriti e piangevamo».
            Ma la scoperta del mondo circostante non avviene sempre senza rischi e l’apprendimento del camminare riserva delle sorprese. La paura a volte è un’ottima consigliera, specialmente nel caso in cui c’è un rischio reale. Se i bambini vedono un cane che abbaia, “subito si mettono a gridare e non smettono fino a quando non sono vicini alla loro mamma. Tra le sue braccia si sentono sicuri e fin tanto che ne stringono la mano pensano che nessuno gli possa far del male”. A volte però il pericolo è immaginario. Il piccolo Francesco aveva paura del buio, ed ecco come ne fu guarito dalla paura del buio: “Mi sforzai poco alla volta di andare da solo, con il cuore armato unicamente della fiducia in Dio, nei luoghi dove la mia immaginazione mi incuteva paura; alla fine mi sono rinfrancato a tal punto da considerare deliziose le tenebre e la solitudine della notte, a motivo di questa presenza di Dio, che in tale solitudine diventa ancor più desiderabile”.

L’educazione familiare
            La prima educazione spettava alla madre. Tra la giovane mamma e il suo primogenito si stabilì un’intimità eccezionale. Si disse che ella fosse incline a coccolare il suo figlio, il quale peraltro le assomigliava parecchio. Preferiva vederlo vestito da paggetto piuttosto che in costume da gioco. La madre si prese cura della sua educazione religiosa, e, preoccupata di insegnargli il suo «piccolo credo», lo conduceva con sé alla chiesa parrocchiale di Thorens.
            Da parte sua, il bambino sperimentava tutto l’affetto di cui era fatto oggetto e la prima parola del bimbo sarebbe stata questa: «Mio Dio e madre mia, mi amano tanto». «L’amore delle madri verso i figli è sempre più tenero di quello dei padri» – scriverà Francesco di Sales –, perché a suo modo di vedere, «a loro costa di più». Secondo un testimone, è lui che consolava talvolta sua madre nei suoi momenti di melanconia dicendole: “Ricorriamo al buon Dio, mia buona madre, ed egli ci aiuterà”.
            Da suo padre incominciò ad apprendere uno «spirito giusto e ragionevole». Egli gli faceva comprendere il motivo di ciò che gli era chiesto, insegnandogli a essere responsabile dei propri atti, a non mentire mai, a evitare i giochi d’azzardo, ma non quelli di destrezza e di intelligenza. Fu sicuramente assai soddisfatto della risposta che suo figlio gli diede allorché all’improvviso gli chiese a che cosa pensava: «Padre mio, penso a Dio e a essere un uomo da bene».
            Per rinforzarne il carattere, suo padre gli impose uno stile di vita virile, la fuga di comodità corporali, ma anche giochi all’aria aperta con i cugini Amé, Louis e Gaspard. Soprattutto con costoro Francesco passerà la sua infanzia e giovinezza, durante il gioco e in collegio. Imparò a montare a cavallo e a maneggiare le armi da caccia. Gli vennero dati come compagni anche ragazzi del paese, ma scelti con cura.
            Fanciullo di solito saggio e tranquillo, Francesco manifestava però in alcune circostanze impeti d’ira sorprendenti. In occasione della visita di un protestante al castello della famiglia, diede sfogo alla sua animosità contro le galline, che si mise a bastonare, gridando a squarcia gola: «Su! su! addosso agli eretici!». Ci vorranno tempo e sforzi per convertirsi alla “dolcezza salesiana”.

L’entrata a scuola
            A sei o sette anni il bambino raggiunge l’uso della ragione. Per la Chiesa, ha ormai la capacità di discernere il bene e il male, e, per gli umanisti, può incominciare a frequentare la scuola primaria. È l’età in cui di solito nelle famiglie nobili i fanciulli passano dalle mani delle donne a quelle degli uomini, dalla madre al padre, dalla governante al tutore o precettore. L’età della ragione segnava anche, per un’esigua minoranza di fanciulli, l’entrata in una scuola o in un collegio. Ora Francesco dimostrava notevoli disposizioni allo studio, anzi una tale impazienza da fargli supplicare di mandarlo a scuola senza indugi.
            Nell’ottobre del 1573, Francesco venne inviato al collegio di La Roche, in compagnia dei suoi cugini Amé, Louis et Gaspard. Alla tenera età di sei anni, Francesco si allontanò quindi dalla famiglia. Vi resterà due anni per fare la sua «piccola grammatica». I fanciulli alloggiati nella città, posti sotto la sorveglianza di un pedagogo particolare, si mescolavano durante la giornata nella massa dei trecento allievi che frequentavano il collegio. Un servo della famiglia si occupava in modo speciale di Francesco che era il più piccolo.
            Stando a ciò che conosciamo delle scuole dell’epoca, i fanciulli cominciavano a leggere e a scrivere, servendosi di sillabari e di primi elementi di grammatica, a recitare a memoria le preghiere e alcuni testi scelti, a imparare i rudimenti della grammatica latina, le declinazioni e le coniugazioni dei verbi. L’impegno della memoria, ancora molto dipendente dal metodo didattico in uso, era concentrato soprattutto sui testi di religione, ma si insisteva già sulla qualità della dizione, tratto caratteristico dell’educazione umanista. In fatto di educazione morale, che occupava allora un posto importante nella formazione umanista degli allievi, essa mutuava i suoi modelli più dall’antichità pagana che dagli autori cristiani.
            Fin dall’inizio dei suoi studi al collegio di La Roche, Francesco si comportò da eccellente allievo. Ma questo primo contatto con il mondo scolastico può aver lasciato in lui qualche ricordo meno gradevole, come racconterà lui stesso a un amico. Non gli era mai capitato di mancare senza volerlo alla scuola e di essere «nella situazione in cui si trovano talvolta dei buoni scolari che, giunti in ritardo, hanno marinato certe lezioni»?

            Essi vorrebbero certo rientrare nell’orario d’obbligo e riconquistarsi la benevolenza dei loro professori; ma oscillando tra la paura e la speranza, non sanno decidersi in quale ora comparire davanti al professore irritato; bisogna evitare la sua attuale collera sacrificando il perdono sperato, oppure ottenerne il perdono esponendosi al rischio di essere puniti? In tale esitazione lo spirito del fanciullo deve penare non poco nel discernere ciò che gli è più vantaggioso.

            Due anni più tardi, sempre con i suoi cugini, eccolo al collegio d’Annecy, dove Francesco studierà per tre anni. Con i suoi cugini alloggiava in città presso una signora, che chiamava sua zia. Dopo i due anni di grammatica a La Roche, entrò nel terzo anno di studi classici e fece dei rapidi progressi. Tra le esercitazioni in uso al collegio vi erano le declamazioni. Il ragazzo vi eccelleva, «perché aveva un portamento nobile, un bel fisico, un viso attraente e un’ottima voce».
            Sembra che la disciplina fosse quella tradizionale e severa, e sappiamo che un reggente si comportava come un vero castigamatti. Ma la condotta di Francesco non lasciava punto a desiderare; un giorno avrebbe lui stesso chiesto di essere castigato al posto del cugino Gaspard che piangeva impaurito.
            L’evento religioso più importante per un fanciullo era la prima comunione, sacramento con il quale “siamo uniti e congiunti alla divina bontà e riceviamo la vera vita delle nostre anime”. Come dirà più tardi a proposito della comunione, egli avrà preparato “il suo piccolo cuore per essere la dimora di Colui” che vuole “possederlo” tutto intero. Lo stesso giorno ricevette a poche ore di distanza il sacramento della cresima, sacramento con il quale ci uniamo cin Dio “come il soldato con il suo capitano”. In tale occasione i suoi genitori gli diedero come precettore don Jean Déage, un uomo burbero, perfino collerico, ma totalmente dedito al suo allievo che accompagnerà durante tutto il tempo della sua formazione.

Alla soglia dell’adolescenza
            Gli anni dell’infanzia e della fanciullezza di Francesco nella Savoia lasceranno in lui in modo incontestabile un’impronta indelebile, ma susciteranno anche nel suo animo i primi germi di una vocazione particolare. Impegnato a dare agli altri il buon esempio con discrezione, interveniva presso i suoi compagni con opportune iniziative. Ancora molto giovane, gli piaceva riunirli per insegnare loro la lezione di catechismo, che stava imparando. Dopo i giochi, li conduceva a volte alla chiesa di Thorens, dove erano diventati figli di Dio. Nei giorni di vacanza, li portava con sé a passeggio nei boschi e ai bordi del fiume a cantare e pregare.
            Ma la sua formazione intellettuale era solo agli inizi. Al termine di tre anni al collegio d’Annecy, conosceva tutto ciò che la Savoia era in grado di insegnargli. Suo padre decise di inviarlo a Parigi, la capitale del sapere, per fare di lui un «dotto». Ma in quale collegio inviare un figlio tanto dotato? La sua scelta era indirizzata dapprima al collegio di Navarre frequentato dai nobili. Ma Francesco intervenne abilmente aiutato dalla madre. Dietro le insistenze del figlio, alla fine il padre accettò di mandarlo al collegio di Clermont dei padri gesuiti.
            Fatto significativo: prima di partire, Francesco chiese di ricevere la tonsura, una pratica ancora ammessa all’epoca per i fanciulli destinati alla carriera ecclesiastica, che però non dovette essere gradita a suo padre, che non si augurava una vocazione ecclesiastica per il figlio primogenito.
            Giunto alla soglia dell’adolescenza, il ragazzo inizia una nuova tappa della sua vita. «L’infanzia è bella – scriverà un giorno – ma volere essere sempre bambini è compiere una scelta sbagliata, perché un bambino di cento anni è disprezzato. Incominciare ad apprendere è molto lodevole, ma chi incomincia con l’intento di non perfezionarsi mai, agirebbe contro ragione». Dopo aver ricevuto in Savoia i germi di questi «molteplici doni di natura e di grazia», Francesco troverà a Parigi grandi possibilità di coltivarli e di svilupparli.




Il piacere di amare Dio come san Francesco di Sales

            Nel suo famoso Trattato sull’amore di Dio, san Francesco di Sales ha voluto presentare al suo lettore una sintesi di tutta la sua dottrina in dodici punti. Come Gesù, che praticò dodici “atti d’amore”, vuole incoraggiarci a praticare a nostra volta i seguenti atti: compiacenza, benevolenza e unione; umiltà, estasi e ammirazione; contemplazione, riposo e tenerezza; gelosia, malattia e morte d’amore. Parlando degli atti d’amore, non sminuisce affatto il ruolo dei sentimenti, ma propone gli esercizi pratici che il vero amore richiede. Non sorprende che l’autore di questo Trattato sia stato proclamato “dottore dell’amore”.

Il piacere del cuore umano
            Il primo atto dell’amore verso Dio – ma questo vale anche per l’amore verso il prossimo – consiste nel praticare la “compiacenza”, cioè nel cercare e trovare piacere con Lui e in Lui. Non c’è amore senza piacere, come si dice. Per illustrare questa verità, san Francesco di Sales offre l’esempio dell’ape: “Come l’ape nasce nel miele, si nutre di miele e vola solo per il miele, così l’amore nasce dalla compiacenza, si mantiene con la compiacenza e tende alla compiacenza”. Questo vale per l’amore umano, ma vale anche per l’amore divino.
            Quando Francesco era un giovane studente a Parigi, aveva cercato e trovato questo piacere nella storia d’amore raccontata in quel meraviglioso libro della Bibbia chiamato “il Cantico dei Cantici”, al punto da esclamare in un trasporto di gioia: “Ho trovato Colui che il mio cuore ama e non lo lascerò mai più!”.
            Il piacere muove il nostro cuore in direzione di una bellezza che ci attrae, di un bene che ci delizia, di una gentilezza che ci rende felici. Come nell’amore umano, il piacere è il grande motore dell’amore di Dio. L’amata del Cantico dei Cantici ama il suo amato perché la sua vista, la sua presenza, tutte le sue qualità le procurano una grande felicità.
            Meditando sul Cantico dei Cantici, il dottore dell’amore non ha voluto soffermarsi sui piaceri carnali ivi descritti. Non che siano cattivi in sé, perché è il Creatore che li ha ordinato nella sua saggezza, ma in certi casi possono dare origine a comportamenti sbagliati. Da cui questo avvertimento: “Chi non sa spiritualizzarli bene ne godrà solo nel male”.
            Per evitare eventuali inconvenienti, Francesco di Sales preferisce spesso descrivere il piacere del bambino al seno della madre: “Il seno e le mammelle della madre sono le stanze dei tesori del bambino; non ha altre ricchezze che queste, che sono per lui più preziose dell’oro e del topazio, più amabili del resto del mondo”.
            Con queste considerazioni sull’amore umano, san Francesco di Sales vuole introdurci all’amore di Dio. Sappiamo per fede che “la Divinità è un abisso incomprensibile di ogni perfezione, sovranamente infinito nell’eccellenza e infinitamente sovrano nella bontà”. Se dunque consideriamo con attenzione l’immensità delle perfezioni che sono in Dio, è impossibile per noi non provare un grande piacere. È questo piacere che fa dire all’amata del Cantico: “Come sei bello, mio amato, come sei bello! Sei tutto desiderabile, anzi sei il desiderio stesso!”.

Il piacere di Dio
            La cosa più bella è che nell’amore divino il piacere è reciproco, cosa che non sempre avviene nell’amore umano. Da un lato, l’anima umana riceve piacere nello scoprire tutte le perfezioni di Dio, dall’altro Dio si rallegra nel vedere il piacere che le dà. In questo modo, questi piaceri reciproci “rendono l’amore di incomparabile compiacimento”. Così l’anima può gridare: “O mio Re, come sono amabili le tue ricchezze e come sono ricchi i tuoi amori! Ehi, chi ne ha più gioia, tu che ne godi o io che ne gioisco?”.
            Nel duetto d’amore tra Dio e noi, in realtà è Dio ad avere più piacere di noi. Francesco di Sales lo afferma espressamente: Dio ha “più piacere nel dare le sue grazie che noi nel riceverle”. Gesù ci ha amati con un amore di compiacenza perché, come dice la Bibbia, “il suo piacere era stare con i figli degli uomini”.
            Dio non si è fatto uomo a malincuore, ma volentieri e con gioia, perché ci ha amati da sempre. Sapendo questo, e sapendo che Dio stesso è la fonte del nostro amore, “ci dilettiamo nel piacere di Dio infinitamente più che nel nostro”.
            Quando pensiamo a questa felicità reciproca, come non pensare a un pasto condiviso con gli amici? È questa felicità che fa dire al Signore nell’Apocalisse: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e mangerò con lui ed egli con me”.
            Un’altra immagine, trovata anch’essa nel Cantico dei Cantici, è quella del giardino pieno di “meli di delizia”. È in questo giardino, immagine dell’anima umana, che lo Sposo divino viene ad abitare con tutti i suoi doni. Ci viene volentieri, perché si diletta a stare con i figli degli uomini che ha fatto a sua immagine e somiglianza. E in questo giardino è lui stesso che ha piantato l’amorevole compiacimento che abbiamo nella sua bontà.
            Niente esprime meglio la felicità reciproca di coloro che si amano dell’espressione usata dalla sposa nel Cantico per descrivere la loro reciproca appartenenza: “Il mio amato è mio e io sono sua”. In altre parole, lei può anche dire: “La bontà di Dio è tutta mia, poiché godo delle sue eccellenze, e io sono tutta sua, poiché i suoi piaceri mi possiedono”.

Un desiderio senza fine
            Chi ha già assaporato l’amore di Dio non smetterà di desiderare di assaporarlo sempre di più, perché “nel saziarci vorremmo sempre mangiare, così come nel mangiare ci sentiamo sazi”. Gli angeli che vedono Dio continuano a desiderarlo.
            Il godimento non è diminuito dal desiderio, ma è perfezionato da esso; il desiderio non è soffocato, ma affinato dal godimento. Il godimento di un bene che soddisfa sempre non appassisce mai, ma si rinnova e fiorisce continuamente; è sempre amabile e allo stesso tempo sempre desiderabile.
            Si dice che esista un’erba dalle proprietà straordinarie: chi la tiene in bocca non ha mai fame né sete, tanto è piena, eppure non fa mai perdere l’appetito. Il riposo del cuore non consiste nel rimanere immobile, ma nel non aver bisogno di nient’altro che di Dio; non consiste nel non muoversi, ma nel non avere alcun impedimento a muoversi.
            Si dice che il camaleonte viva dell’aria e del vento; ovunque vada, ha qualcosa da mangiare. Allora perché va sempre da un posto all’altro? Non perché cerca qualcosa per soddisfare la sua fame, ma per esercitarsi sempre a nutrirsi dell’aria del tempo. Chi desidera Dio possedendolo non lo desidera per cercarlo, ma per esercitare l’affetto di cui gode.
            Quando camminiamo verso un bel giardino, non smettiamo di camminare una volta arrivati, ma ne approfittiamo per passeggiare e passare piacevolmente il tempo.
            Seguiamo quindi l’esortazione del Salmista: “Cercate il Signore con grande coraggio, senza mai smettere di cercare il suo volto”. Cerchiamo sempre colui che amiamo sempre, dice sant’Agostino; l’amore cerca ciò che ha trovato, non per averlo, ma per averlo sempre.

Il piacere oltre la sofferenza
            La sofferenza non è contraria al compiacimento. Secondo san Francesco di Sales, Gesù provava piacere nella sofferenza, perché amava i suoi tormenti. Al culmine della sua passione, morì soddisfatto di morire nel dolore per me. È stato questo piacere a fargli dire sulla croce: “Tutto è compiuto”.
            Sarà lo stesso per noi, se condivideremo le nostre sofferenze con le sue. “Quanto più il nostro amico ci è caro”, dice il dottore dell’amore, “tanto più ci piace condividere le sue gioie e i suoi dolori”. “Morirò felice”, disse Giacobbe dopo aver visto suo figlio Giuseppe, che credeva morto. È stato il compiacimento per la passione di Gesù ad attirare le sue stimmate su san Francesco e santa Caterina da Siena. Curiosamente, il miele rende l’assenzio ancora più amaro, ma il dolce profumo delle rose viene affinato dalla vicinanza dell’aglio dal sapore aspro. Allo stesso modo, la compassione che proviamo per le sofferenze di Gesù non ci toglie il compiacimento per il suo amore.
            San Francesco di Sales vuole insegnarci sia la sofferenza che viene dall’amore sia l’amore della sofferenza, la compassione amorosa e il compiacimento doloroso, l’estasi amorosamente dolorosa e l’estasi dolorosamente amorosa. Quando le grandi anime sante furono stigmatizzate, assaporarono il “gioioso amore di sopportazione per l’amico” morto sulla croce. L’amore dava loro una tale felicità che condividere le sofferenze di Gesù li riempiva di un senso di consolazione e di felicità.
            L’amore di san Paolo per la vita, la passione e la morte del suo Signore era così grande che ne traeva un piacere straordinario. Lo vediamo chiaramente quando dice di volersi gloriare della croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Altrove dice anche: “Non sono io che vivo, ma Cristo vive in me; e ciò che vivo ora nella carne, lo vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me”. Santa Chiara si compiaceva talmente della passione del Salvatore da attirare su di sé tutti i segni della sua passione: “il suo cuore era fatto come le cose che egli amava”.
            Tutti dovrebbero sapere quanto il Salvatore desideri entrare nelle nostre anime attraverso questo amore di dolorosa compassione. Nel Cantico dei Cantici, l’amato implora la sua amata: “Aprimi, mia cara sorella, mio amore, mia colomba, mia pura, perché il mio capo è pieno di rugiada e i miei capelli di gocce della notte”. Questa rugiada e queste gocce della notte sono le afflizioni e i dolori della sua passione. Il divino Amante, carico dei dolori e dei sudori della sua passione, dice anche a me: “Aprimi dunque il tuo cuore e io verserò su di te la rugiada della mia passione, che si trasformerà in perle di consolazione”.




Il Dio “misconosciuto” di san Francesco di Sales

Un episodio curioso
            Nella vita di Francesco di Sales, giovane studente a Parigi, c’è un episodio curioso che ha avuto grandi ripercussioni in tutto il resto della sua vita e nel suo pensiero. Era il giorno del carnevale. Mentre tutti pensavano a divertirsi, il diciasettenne sembrava preoccupato, persino triste. Non sapendo se fosse malato o semplicemente malinconico, il suo precettore suggerì di andare a vedere gli spettacoli della festa. Di fronte a questa proposta, il giovane formulò improvvisamente questa preghiera biblica: “Distogli i miei occhi dal vedere le cose vane”. Poi aggiunse: “Signore, fammi vedere”. Vedere che cosa? Rispose: “La sacra teologia; è lei che mi insegnerà ciò che Dio vuole che la mia anima impari”.

            Fino ad allora Francesco aveva studiato con grande profitto e anche successo gli autori pagani dell’antichità. Gli piacevano e poi riusciva molto bene negli studi. Il suo cuore però era insoddisfatto, cercava qualcosa o meglio qualcuno che potesse soddisfare il suo desiderio. Con il permesso del suo precettore, cominciò in quel periodo a frequentare le lezioni tenute dal grande professore di Sacra Scrittura Gilberto Genebrardo, che commentava proprio in quel tempo un libro della Bibbia che racconta la storia d’amore di due innamorati: il Cantico dei Cantici.

            L’amore che viene descritto in questo libro è l’amore tra un uomo e una donna. Tuttavia, l’amore celebrato nel Cantico dei Cantici può essere anche compreso come l’amore spirituale dell’anima umana con Dio, spiegava Genebrardo ai suoi allievi, ed è questa interpretazione tutta spirituale che incantò il giovane studente, il quale esultava con le parole della sposa: “Ho trovato Colui che il mio cuore ama”.

            Il Cantico dei Cantici diventò da allora in poi il libro preferito di san Francesco di Sales. Secondo il padre Lajeunie, il futuro dottore della Chiesa aveva trovato in questo libro sacro “l’ispirazione della sua vita, il tema del suo capolavoro (il Trattato dell’amor di Dio), e la migliore fonte del suo ottimismo”. Per Francesco, assicura anche padre Ravier, è stata come una rivelazione, e da allora “non ha più potuto concepire la vita spirituale che come una storia d’amore, la più bella delle storie d’amore”.

            Non c’è quindi da meravigliarsi se Francesco di Sales è diventato il “dottore dell’amore” e se il tema dell’amore è stato al centro della commemorazione fatta in occasione del quarto centenario della sua morte (1622-2022). Già nel 1967, in occasione del quarto centenario della sua nascita, san Paolo VI l’aveva definito “dottore dell’amore divino e della dolcezza evangelica”. Cinquantacinque anni dopo, in occasione dell’anniversario della sua nascita al cielo, papa Francesco con la sua Lettera apostolica Totum amoris est, ci offre nuovi tratti della vita e della dottrina del santo vescovo e ci ripropone autorevolmente il vero volto di Dio spesso ignorato o misconosciuto.

Il Dio misconosciuto
            Ai tempi di Francesco di Sales, il re di Francia Enrico IV, grande ammiratore delle capacità e delle virtù del vescovo di Ginevra, si rammaricava un giorno con lui per l’immagine distorta che i suoi contemporanei avevano di Dio. Secondo un testimone, il re “vedeva parecchi suoi sudditi vivere ogni sorta di libertà, dicendo che la bontà e la grandezza di Dio non si curava da vicino delle azioni degli uomini, ciò che egli biasimava decisamente. Vedeva poi altri, in gran numero, che avevano una bassa opinione di Dio col credere che egli fosse sempre pronto a sorprenderli, attendendo soltanto l’ora in cui fossero caduti in qualche leggera mancanza per condannarli eternamente, ciò che egli non approvava”.

            Francesco di Sales, da parte sua, era ben consapevole di offrire un’immagine di Dio diversa da quelle molto diffuse ai suoi giorni. In una sua predica, si paragonava all’apostolo Paolo mentre annunciava agli Ateniesi il Dio ignoto: “Non è che io voglia parlarvi di un Dio sconosciuto – precisava – poiché, grazie alla sua bontà, lo conosciamo – ma, senza dubbio, potrei parlare di un Dio misconosciuto. Io, dunque, non vi farò conoscere, bensì vi farò scoprire, quel Dio tanto amabile, che è morto per noi”.

            Il Dio di san Francesco di Sales non è un Dio carabiniere né un Dio lontano, come lo credevano molti del suo tempo, e non è il Dio della “predestinazione”, che da sempre ha predestinato gli uni al paradiso e gli altri all’inferno, come sostenevano molti tra i suoi contemporanei, ma un Dio che vuole la salvezza di tutti. Non è un Dio lontano, solitario e indifferente, ma un Dio provvidente e “portato alla comunicazione”, un Dio attraente come lo Sposo del Cantico dei Cantici al quale la sposa rivolge queste parole: “Traimi indietro a te e correremo noi all’odore dei tuoi profumi”.

            Se Dio attira l’uomo, è affinché l’uomo diventi cooperatore di Dio. Questo Dio rispetta la libertà e la capacità d’iniziativa dell’uomo, come ricorda papa Francesco. Con un Dio dal volto amante come quello proposto da Francesco di Sales, la comunicazione diventa un “cuore a cuore”, il cui scopo è l’unione con lui. È un’amicizia, perché l’amicizia è comunicazione di beni, scambio e reciprocità.

Il Dio del cuore umano
            Nell’Antico Testamento, Dio è chiamato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. L’alleanza stabilita da Dio con i patriarchi significa veramente il legame profondo, irremissibile, tra il Signore e il suo popolo. Nel Nuovo Testamento, l’alleanza stabilita in Gesù Cristo riunisce tutti gli uomini, tutta l’umanità. D’ora innanzi ognuno può invocare Dio con questa preghiera di san Francesco di Sales: “O mio Dio, tu sei il mio Dio, il Dio del mio cuore, il Dio della mia anima, il Dio del mio spirito”.

            Queste espressioni significano che per san Francesco di Sales il nostro Dio è non soltanto il Dio dal cuore umano nella persona del Dio fatto uomo, ma anche il Dio del cuore umano. È vero, il Figlio di Maria ricevendo da lei la sua umanità, ha ricevuto allo stesso tempo un cuore d’uomo, forte e dolce. Ma con l’espressione “Dio del cuore umano”, il dottore dell’amore intende dire che il volto del nostro Dio corrisponde ai desideri, alle attese più profonde del cuore umano. L’uomo trova nel cuore di Gesù il compimento inatteso di un amore che non osava nemmeno pensare o immaginare.

            Il giovane Francesco l’ha sentito bene quando ha scoperto la storia d’amore consegnata nel Cantico dei Cantici. La sposa e lo Sposo, l’anima umana e Gesù si scoprono fatti l’uno per l’altro. Non è possibile che il loro incontro sia stato casuale. Dio li ha fatti l’uno per l’altro in tal modo che la sposa può dire: “Tu sei mio e io sono tua”. Tutto quello che san Francesco di Sales ha detto e scritto vibra di questa storia meravigliosa di appartenenza reciproca.

            Nel Salmo 72 san Francesco di Sales leggeva queste parole che lo hanno colpito: “Dio del mio cuore, mia parte è Dio per sempre”. L’espressione “Dio del mio cuore” gli piaceva molto. Secondo il dottore dell’amore, “se l’uomo pensa con un po’ di attenzione alla divinità, immediatamente sente una qual dolce emozione nel cuore, il che prova che Dio è il Dio del cuore umano”. A santa Giovanna di Chantal, con la quale fonderà l’ordine della Visitazione, raccomandava di dire spesso: “Tu sei il Dio del mio cuore e l’eredità che desidero eternamente”.

            Se abbiamo degli affetti sregolati oppure se i nostri affetti in questo mondo sono troppo forti, anche se buoni e legittimi, occorre tagliarli per poter dire a Nostro Signore come Davide: “Tu sei il Dio del mio cuore e mia parte di eredità eterna. Perché è per questa intenzione che Nostro Signore viene a noi, affinché siamo tutti in lui e a lui”.

            Il cuore di Gesù è il luogo del vero riposo. È la dimora “più spaziosa e più cara al mio cuore”, confidava san Francesco di Sales che aveva fatto questo proposito: “Stabilirò la mia dimora nella fornace d’amore, nel divin cuore trafitto per me. Presso questo focolare ardente, sentirò rianimarsi in mezzo alle mie viscere la fiamma d’amore finora così languida. Ah! Signore, il vostro cuore è la vera Gerusalemme; permettetemi di sceglierlo per sempre come il luogo del mio riposo.”

            Non c’è da dunque meravigliarsi se i tesori del Cuore di Gesù siano stati rivelati ad una figlia spirituale di san Francesco di Sales, Margherita Maria Alacoque, la religiosa della Visitazione di Paray-le-Monial. Gesù le disse: “Ecco questo Cuore che ha tanto amato gli uomini, fino a consumarsi interamente per loro”.

            Due secoli dopo san Francesco di Sales, suo discepolo e imitatore, don Bosco, diceva che “l’educazione è cosa di cuore”: tutto il lavoro parte da qui, e se il cuore non c’è, il lavoro è difficile e l’esito è incerto. Diceva inoltre: “Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati”. Amati da Dio e dai loro educatori. Da questo assunto che Don Bosco ha tramandato alla Famiglia Salesiana, prende avvio l’azione educativa salesiana.