San Francesco di Sales promotore di cultura

Pastore di una diocesi composta nella sua stragrande maggioranza da contadini e da montanari analfabeti, eredi di una «cultura» ancestrale e pratica, Francesco di Sales si fece pure promotore di una cultura dotta, congeniale a una “élite” intellettuale. Per trasmettere il messaggio che gli stava a cuore, comprese che doveva conoscere il suo pubblico e prenderne in considerazione i bisogni e i gusti. Quando parlava alla gente e soprattutto quando scriveva per persone istruite, il suo metodo era quello esposto nel “Teotimo”: «Certo – diceva – ho preso in considerazione la condizione delle persone di questo secolo e lo dovevo fare: è assai importante tener conto dell’epoca in cui uno scrive».

Francesco di Sales e la cultura popolare
            Nato in una famiglia nobile molto legata alla terra, Francesco di Sales non si è mai estraniato dalla cultura popolare. Già l’ambiente in cui crebbe lo avvicinava alla gente del popolo, al punto che lui stesso seguiva volentieri l’usanza dei montanari quanto alla levata mattiniera. Durante le sue visite pastorali, si serviva del patois per farsi capire meglio. Ad ogni modo, è certo che il contatto diretto con l’insieme della popolazione conferiva alla sua esperienza pastorale una tonalità concreta e calorosa.
            Gli autori che si sono occupati della trasmissione della cultura popolare in tale epoca sottolineano, d’altronde, che non c’erano confini rigorosi tra messaggio religioso e cultura popolare, dato che elementi estranei si fondevano spontaneamente con la religione insegnata in modo ufficiale. Come è noto, la cultura popolare si esprime molto meglio in forma narrativa che per iscritto. Occorre ricordare che una certa percentuale della popolazione non sapeva leggere e la maggioranza non sapeva scrivere. In linea di massima, i vecchi, i saggi e gli uomini sapevano leggere, mentre i fanciulli, il popolino e le donne erano analfabeti.
            Ad ogni modo, i libri esposti nelle librerie o quelli dei venditori ambulanti facevano ormai la loro comparsa, non soltanto nelle città, ma anche nei paesi. Tale produzione di libretti a buon mercato doveva essere necessariamente assai varia, dipendendo probabilmente e in larga parte dalla letteratura popolare, la quale trasmetteva una sensibilità ancora medievale: vite di santi, romanzi cavallereschi, storie di briganti o almanacchi con le loro previsioni metereologiche e i loro consigli per gli uomini e per gli animali. Ma stavano arrivando anche produzioni più moderne: romanzi, forse anche manuali di buona educazione, o ancora opere di pietà nella linea del concilio di Trento.
            Ma la cultura popolare era veicolata anche tramite gli incontri quotidiani e alle feste, quando si andava a bere e mangiare insieme nelle taverne e nelle osterie, in particolare, in occasione delle nozze, dei battesimi, dei funerali e delle confraternite, durante i balli e festosi girotondi, alle fiere e ai mercati. Francesco di Sales forse rese un buon servizio alla società non bandendo sistematicamente ogni manifestazione della convivialità e dei divertimenti pubblici, limitandosi ad imporre delle restrizioni agli ecclesiastici, tenuti a un certo riserbo.

Saggezza e abilità
            Osservatore simpatico della natura e della gente, Francesco di Sales ha imparato molto a loro contatto. Sono i contadini e quanti lavorano la terra coloro che gli hanno detto che «quando nevica in giusta misura in inverno, il raccolto sarà migliore l’anno successivo». Quanto ai pastori e ai mandriani montanari, la cura che hanno dei loro greggi e delle loro mandrie è un esempio di zelo «pastorale».
            Nel mondo dei mestieri, Francesco di Sales ha potuto osservarne spesso da vicino le ammirevoli abilità: «I contadini seminano i campi solo dopo averli arati e ripuliti dagli arbusti spinosi; i muratori usano le pietre solo dopo averle squadrate; i fabbri lavorano il ferro solo dopo averlo battuto; gli orefici cesellano l’oro solo dopo averlo purificato nel crogiuolo».
            Non mancano in certe storie da lui raccontate punte di umorismo. Fin dall’antichità, i barbieri hanno la fama di essere dei grandi chiacchieroni; a uno che chiedeva a un re: come vuole che le tagli la barba? questi rispose: «Senza dire una parola». A chi va attribuito il merito dell’eleganza nel vestire? Se uno «si gloria di essere vestito con proprietà», «chi non vede che tale gloria, se ce n’è, spetta al sarto e al calzolaio?». Col suo lavoro il falegname compie dei piccoli miracoli e «uno che non conosce niente di intarsio, vedendo tronchi contorti nella bottega di un falegname, si stupirebbe sentendo dire che da tale tronco si possa ricavare un vero capolavoro». Anche i vetrai fanno stupire nel vederli creare oggetti meravigliosi col soffio della loro bocca.
            L’arte tipografica, poi, era oggetto della sua grande ammirazione, anche se in lui i motivi religiosi prevalevano rispetto a ogni altra considerazione, come emerge da una lettera in un italiano approssimativo che scrisse al nunzio di Torino nel maggio 1598: «Fra l’altre cose necessarie, una è che si habbia in Annessi un stampatore. Gl’hæretici mandano fuora ogni hora libretti pestilentissimi, et restano molte oprette catholiche nelle mani de gl’authori per non poterle sicuramente inviare in Lione et non haver commodità di stampatore».

L’arte e gli artisti
            Nel campo delle arti, il trionfo del Rinascimento splendeva nelle opere ispirate dall’antichità. Francesco di Sales le ha potute contemplare durante i suoi soggiorni in Francia e in Italia. A Roma, in occasione del suo viaggio del 1599, ha potuto ammirare la stupenda cupola di san Pietro terminata solo alcuni anni prima: “Grande il palazzo, la basilica, il monumento di san Pietro”.
            La scultura classica era allora oggetto di tale ammirazione, scriveva Francesco di Sales, che persino «pezzi di statue antiche sono conservati per ricordare l’antichità». Egli stesso nomina parecchi scultori antichi, incominciando da Fidia, questo artista, il quale «non rappresentava mai qualcosa così perfetta come le divinità». Ecco Policleto, «il mio Policleto, che mi è tanto caro», asseriva, che con «la sua mano maestra» trasfigurava il bronzo. Egli ricorda anche il colosso di Rodi, simbolo della provvidenza divina, nella quale non c’è «né cambiamento né ombra di vicissitudine».
            Ed ecco ora i famosi pittori nominati da Plinio e Plutarco: Arelio, che “dipingeva tutti i volti dei suoi ritratti a somiglianza delle donne che amava”; Apelle, pittore «unico», preferito da Alessandro Magno; Timante, che velava la testa di Agamennone  perché disperava di poter rendere a pieno la costernazione dipinta sul suo volto alla vista della figlia Ifigenia”; Zeusi, che dipinse magistralmente dell’uva, sicché «gli uccelli credettero che l’uva dipinta fosse uva vera, tanto l’arte aveva imitato la natura».
            Si percepisce in Francesco di Sales un reale apprezzamento per la bellezza dell’opera d’arte, in quanto tale, e nel contempo la capacità di comunicare le sue emozioni ai lettori. La pittura non sarebbe forse un’arte divina? La parola di Dio non si situa soltanto sul piano dell’udire, ma anche su quello del vedere e della contemplazione estetica: “Dio è il pittore, la nostra fede è la pittura, i colori sono la parola di Dio, il pennello è la Chiesa”.
            Francesco era soprattutto attirato dalla pittura religiosa, vivamente raccomandata dal suo antico direttore spirituale Possevino, il quale gli fece omaggio della sua «affascinante opera» intitolata De poesi et pictura. Egli stesso si considerava un pittore perché, come scrisse nella prefazione della Filotea, «Dio vuole che dipinga sui cuori delle persone non soltanto le virtù comuni, ma anche la tanto cara e beneamata devozione a lui dovuta».
            Amava pure il canto e la musica. Si sa che faceva cantare delle lodi durante le ore di catechismo, ma ci piacerebbe conoscere che cosa si cantava nella sua cattedrale. Scriveva in una lettera all’indomani di una cerimonia nella quale si era cantato un testo del Cantico dei cantici: «Ah, come venne cantato bene tutto questo, ieri, nella nostra chiesa e nel mio cuore!». Conosceva e sapeva distinguere i suoni dei vari strumenti: «Tra gli strumenti, i tamburi e le trombe fanno più fracasso, ma il liuto e la spinetta danno una melodia migliore; il suono degli uni è più forte, l’altro più soave e spirituale».

L’Accademia «florimontana» (1606)
            «La città d’Annecy – scriveva pomposamente suo nipote Charles-Auguste de Sales – sotto un così celebre prelato come Francesco di Sales e sotto un così illustre presidente come Antoine Favre era paragonabile alla città di Atene, ed era poi abitata da un grande numero di dottori, sia teologi che giuristi e di insigni letterati».
            Ci si è chiesto come è potuto nascere nello spirito di Francesco l’idea di fondare con l’amico Antoine Favre, alla fine del 1606, un’accademia denominata «florimontana», «perché le muse fioriscono sulle montagne della Savoia». Occorre vedervi il frutto dell’amicizia che univa il vescovo e il giureconsulto, e il risultato della loro intima collaborazione. Probabilmente i suoi contatti con l’Italia non erano estranei a tale realizzazione. Nate in Italia sul finire del secolo XIV, le accademie avevano conosciuto una grande diffusione. Tra esse si distingueva l’Accademia platonica di Firenze, animata da Marsilio Ficino, il cui influsso è riconoscibile nell’autore del Teotimo. A Torino esisteva l’Accademia «papiniana», di cui Antoine Favre aveva fatto parte. Né va dimenticato che i calvinisti di Ginevra avevano la loro, e ciò dovette pesare molto allorché si trattò di creare una «rivale» cattolica.
            L’Accademia di Annecy aveva il suo emblema: un arancio, albero ammirato da Francesco di Sales, perché è carico di fiori e di frutti in tutte le stagioni (flores fructusque perennes). Di fatto, spiegava Francesco, «in Italia, sulla costa di Genova, e anche nei paesi di Francia, come la Provenza, lungo le coste, in tutte le stagioni li potete vedere coperti di foglie, di fiori e di frutti».
            Il programma delle riunioni aveva dell’enciclopedico, atteso il fatto che secondo gli Statuti «le lezioni saranno o di teologia o di politica o di filosofia o di retorica o di cosmografia o di geometria o di aritmetica». Ad ogni modo, un’attenzione particolare era riservata alle lettere e alla bellezza formale. Un articolo degli Statuti recitava: «Lo stile nel parlare o nel leggere sarà grave, forbito, elegante e rifuggirà da ogni forma di pedanteria».
            L’Accademia era composta di scienziati e maestri riconosciuti, ma erano previsti anche corsi pubblici che ne facevano una sorte di piccola università popolare. In effetti, c’erano assemblee generali alle quali potevano partecipare «tutti i bravi maestri cultori di arti oneste, come pittori, scultori, falegnami, architetti e simili».
            Si intuisce che lo scopo dei due fondatori era quello di riunire l’élite intellettuale della Savoia e di porre le lettere e le scienze al servizio della fede e della pietà, secondo l’ideale dell’umanesimo cristiano. Le sedute si tenevano nella casa di Antoine Favre, dove la moglie e i figli si davano da fare nell’accogliere gli ospiti. L’atmosfera risentiva quindi di qualcosa di familiare. D’altronde, recitava un articolo, «tutti gli accademici saranno uniti tra loro da amore vicendevole e fraterno».
            Fra gli accademici o membri corrispondenti dell’Accademia spiccava l’abate commendatario di Hautecombe, Alfonso Delbene, discendente da una grande famiglia di Firenze, amico di Giusto Lipsio e di Ronsard che gli dedicò la sua Arte poetica; è stato qualificato come un ponte fra la cultura italiana e la cultura francese.
            Gli inizi dell’Accademia furono brillanti e sembravano promettenti. Secondo Charles-Auguste de Sales, il primo anno si aprì con «il corso di matematica con l’Aritmetica di Jacques Pelletier, gli Elementi d’Euclide, la sfera e cosmografia con le sue parti, la geografia, l’idrografia, la corografia e la topografia; seguì l’arte di navigare e la teoria dei pianeti, e infine la musica teorica». Per il resto ciò che si sa è poca cosa.
            Nel 1610, tre anni dopo gli inizi, Antoine Favre fu nominato presidente del Senato di Savoia e partì per Chambéry. Il vescovo, da parte sua, non poteva certo mantenere da solo l’Accademia florimontana, che declinò e scomparve. Tuttavia, se la sua esistenza fu effimera, il suo influsso fu duraturo. Il progetto culturale che l’aveva fatta nascere sarà ripreso dai barnabiti, giunti al collegio d’Annecy nel 1614.

Un affare Galileo ad Annecy?
            Il collegio d’Annecy vantava una celebrità nella persona del padre Redento Baranzano, un barnabita piemontese conquistato dalle nuove teorie scientifiche, professore brillante che suscitava l’ammirazione e persino l’entusiasmo degli allievi. Nel 1617 venne pubblicato, senza l’autorizzazione dei superiori, con il titolo Uranoscopia, un riassunto dei suoi corsi, dove sviluppava il sistema planetario del Copernico come pure le idee di Galileo. Il libro suscitò ben presto un subbuglio fino al punto che l’autore fu richiamato a Milano dai superiori. Nel settembre del 1617 Francesco di Sales scrisse al generale dei barnabiti una lettera in italiano per difendere l’interessato sul piano personale, senza accennare alle sue idee, affinché fosse ristabilito nelle sue funzioni.
            Il desiderio del vescovo fu esaudito: il padre Baranzano rientrò ad Annecy sul finire del mese di ottobre dello stesso anno. A fine novembre, il vescovo manifestò la sua soddisfazione al superiore generale. Il religioso fece apparire nel 1618 un nuovo opuscolo in segno di buona volontà, ma non pare che abbia rinunciato alle sue idee.
            Nel 1619, il dotto barnabita pubblicò a Lione le Novae opiniones physicae, tomo primo della seconda parte di un’ambiziosa Summa philosophica anneciensis. Il vescovo aveva dato la sua approvazione ufficiale a «quest’opera erudita di un uomo erudito», e ne aveva autorizzato la stampa. Il canonico che, su richiesta del vescovo, l’aveva esaminata, aveva ritenuto che l’opera non conteneva «niente di contrario alla fede, agli insegnamenti della Chiesa cattolica e ai buoni costumi», e che essa presentava «a ogni amante della filosofia una dottrina filosofica assai degna, pregevole per la chiara articolazione, la singolare acribia, la gradevole brevità, la non comune erudizione, e, nella sua materia assai rara».
            Va notato che Baranzano si acquistò una fama internazionale e che fu in contatto con Francesco Bacone, promotore inglese della riforma delle scienze, assieme all’astronomo tedesco Giovanni Keplero, e con lo stesso Galileo. Era l’epoca in cui venne imprudentemente istituito un processo contro quest’ultimo, allo scopo di salvaguardare, si pensava, l’autorità della Bibbia compromessa dalle nuove teorie sulla rotazione della terra attorno al sole. Mentre il cardinal Bellarmino si inquietava di fronte ai danni delle nuove teorie, per Francesco di Sales non ci potevano essere contraddizioni tra la ragione e la fede. E il sole non era forse il simbolo dell’amore celeste, attorno a cui tutto si muove, e il centro della devozione?

La cultura alta e la teologia
            Francesco si teneva informato, inoltre, degli argomenti affrontati da libri di teologia a mano a mano che apparivano. Dopo aver «visto con estremo piacere» un progetto di Somma di teologia d’un padre cistercense, inviò all’autore alcuni consigli per iscritto. Era dell’avviso che era necessario depennare «tutte le parole troppo scolastiche», «superflue» e «inopportune», impiegate nella Somma per non farla «divenire troppo grossa» e per fare in modo che fosse «tutto succo e polpa», rendendola così «più nutriente e appetitosa»; suggeriva poi di «dare maggior spazio alle questioni veramente importanti sulle quali occorre istruire meglio il lettore», e infine di non aver paura di usare uno «stile affettivo», cioè capace di emozionare. Più tardi, scrivendo a un suo prete che si dedicava a studi letterari ed eruditi, gli faceva pressappoco le medesime raccomandazioni: “Vi devo dire che la conoscenza che vado acquistando ogni giorno più degli umori del mondo mi porta ad augurarmi appassionatamente che la divina Bontà ispiri qualcuno dei suoi servi a scrivere secondo il gusto di questo povero mondo”.
            Scrivere «secondo il gusto di questo povero mondo» supponeva che fosse consentito utilizzare certi mezzi capaci di suscitare l’interesse del lettore del tempo:

Siamo infatti, Signore, pescatori, e pescatori di uomini. Dobbiamo quindi usare, per questa pesca, non solo le cure, le fatiche e le veglie, ma anche l’esca, l’industria, gli approcci e, se così è lecito esprimersi, le sante astuzie. Il mondo sta divenendo così delicato, che, fra poco, non si oserà più toccarlo, se non con guanti muschiati, né medicare le sue piaghe, se non con impiastri di zibetto; ma che importa, se gli uomini vengono guariti e, in definitiva, vengono salvati? La nostra regina, la carità, fa tutto per i suoi figli.

            Un altro difetto, specialmente presso i teologi, era la mancanza di chiarezza; ciò gli faceva venire la voglia di scrivere sulla prima pagina di certe opere: Fiat lux!

Uno scrittore pieno di progetti
            Verso la fine della sua vita, numerosi progetti coltivava ancora nel suo animo. Michel Favre ha dichiarato che Francesco si proponeva di scrivere un trattato intitolato Dell’amore del prossimo, come pure una Storia teandrica in quattro libri: una traduzione in lingua volgare dei quattro vangeli in forma di concordanza; una dimostrazione dei principali punti della fede della Chiesa cattolica; un’istruzione sui buoni costumi e sulla pratica delle virtù cristiane»; infine una storia degli Atti degli Apostoli. Aveva ancora in vista un Libro sui quattro amori, nel quale si riprometteva di insegnare come dobbiamo amare Dio, noi stessi, i nostri amici e i nostri nemici.
            Nessuno di questi volumi vedrà la luce. «Morirò come quelle donne incinte – scriveva – che non danno alla luce quello che hanno concepito». La sua «filosofia» era questa: «Occorre assumere più impegni di quanti uno sappia compiere e come se dovesse vivere a lungo, non preoccupandosi, però, di fare più di quanto uno farebbe, sapendo di dover morire all’indomani».




San Francesco di Sales a servizio dell’educazione

            Francesco di Sales era persuaso che «dalla buona o cattiva educazione della gioventù dipende radicalmente il benessere o il malessere della società e dello stato»; riteneva inoltre «che i collegi sono come vivai e seminari, da cui escono coloro che in seguito riempiranno uffici e ricopriranno incarichi, destinati a essere amministrati bene o male nella misura in cui precedentemente gli innesti siano stati bene o male coltivati». Perciò voleva «che la gioventù fosse istruita in maniera uguale nella pietà e nei costumi, come nelle lettere e nelle scienze».

Scuola, collegio e formazione professionale a Thonon
           
La formazione della gioventù negli studi e nella fede cattolica era particolarmente urgente a Thonon, città vicina a Ginevra. Diversi progetti occuparono per lunghi anni lo spirito di Francesco di Sales, all’epoca in cui era prevosto e poi come vescovo.
            Prima del ritorno della città al cattolicesimo, a Thonon c’era una scuola fondata grazie a un lascito che le assicurava risorse sufficienti per l’educazione di dodici scolari. Nel 1579 l’istruzione vi era impartita da due o tre istitutori. Con la restaurazione del cattolicesimo a Thonon nel 1598, il prevosto de Sales chiese che il lascito servisse a dodici allievi «che fossero cattolici».
            Ma il progetto che stava più a cuore al prevosto era quello di portare a Thonon i padri della Compagnia di Gesù: «Chi aggiungesse a tutto questo un collegio di gesuiti in questa città, farebbe partecipare di questo bene tutto il territorio circostante che, quanto a religione, è quasi del tutto indifferente». Il prevosto preparò un Promemoria in cui affermava con forza la convinzione generale: «Non c’è niente di più utile per questa provincia del Chiablese se non costruire un collegio della Compagnia di Gesù nella città di Thonon».
            Alla fine di ottobre 1599 arrivava un primo gesuita, alla fine di novembre un secondo e gli altri erano in viaggio provenienti da Avignone. Verso la fine dell’anno, i gesuiti giunti a Thonon iniziarono con una «piccola scuola», che l’anno successivo conterà centoventi allievi. A seguito delle turbolenze sopravvenute nel 1600, furono dispersi per vari mesi, dopo di che incominciarono di nuovo le scuole con circa trecento allievi.
            Ma a che cosa serviranno le scuole di grammatica se, per le umanità gli allievi saranno obbligati a frequentare i collegi protestanti? Urgeva creare classi secondarie e classi superiori di filosofia, teologia, sacra Scrittura e diritto. All’inizio del mese di dicembre 1602 tutto sembrava pronto per l’apertura del collegio e futura università di Thonon. Ora, alcuni giorni più tardi, il fallito tentativo del duca di Savoia di riprendere Ginevra provocò nuovamente l’allontanamento dei gesuiti. Ben presto saranno costretti a ritirarsi definitivamente.
            Dopo la partenza dei gesuiti, la scuola riprese vita con il concorso del personale locale. Il collegio di Thonon non vedrà un vero sviluppo se non verso la fine del 1615, quando il vescovo farà appello alla congregazione dei barnabiti, già impiantati nel collegio d’Annecy.
            Mentre si provvedeva agli studi letterari, un altro progetto mobilitava le energie del prevosto e dei suoi collaboratori. Nel 1599, Francesco di Sales preconizzava la fondazione di un «albergo di tutte le scienze e arti», cioè una sorte di scuola professionale con una stampa, una fabbrica di carta, un laboratorio di meccanica, una passamaneria e un’armeria.
            L’idea di un’istituzione per la formazione nelle «arti e mestieri» va sottolineata, perché l’apprendimento avveniva normalmente a casa, accanto al padre che insegnava il suo mestiere al figlio destinato a succedergli, oppure presso un artigiano. D’altra parte, si può costatare che Francesco di Sales e i suoi collaboratori si interessavano di mestieri manuali ritenute vili, che la maggioranza degli umanisti sembrava ignorare. Promuovere le «arti meccaniche», significava anche valorizzare gli artigiani che le élites tendevano a disprezzare.

Le piccole scuole della diocesi
            Nel 1606, esistevano in diocesi quindici scuole di ragazzi, dove si insegnavano la grammatica, le lettere e il catechismo. All’apparenza era poco. In realtà, nelle parrocchie veniva realizzata un’alfabetizzazione abbastanza diffusa; brevi corsi erano organizzati in certi periodi dell’anno, soprattutto nella stagione invernale, grazie a temporanei accordi con gli insegnanti e specialmente grazie alla buona volontà dei parroci e dei viceparroci.
            L’insegnamento era elementare e consisteva prima di tutto nell’imparare a leggere tramite un abbecedario. Il maestro non disponeva in genere di un proprio locale, ma utilizzava un ambiente qualunque, una scuderia o una stalla. Talvolta «le sue lezioni, tenute a cielo aperto, perfino a 1500 o a 2000 metri di altezza, con scolari seduti su una pietra, un carretto, un tronco d’abete o sulle braccia dell’aratro, non erano privi di fascino e di pittoresco».
            Come si intuisce, i maestri erano reclutati in linea di massima tra il clero diocesano e tra i religiosi. Nel testamento di un certo Nicolas Clerc è stabilito che il servizio parrocchiale «sarà svolto da un rettore capace di istruire la gioventù fino alla grammatica inclusa»; nel caso in cui «dovesse divagare e trascurare l’ufficio divino o l’istruzione della gioventù, dopo essere stato ammonito per tre volte» e «deferito al vescovo», sarà privato della rendita e sostituito da un altro ecclesiastico.
            Nel 1616 il vescovo accolse la richiesta dei principali della città di Bonne, che lo supplicavano di voler procurare loro un religioso di un convento vicino, incaricandolo «di istruire la gioventù nelle lettere e nella pietà», «atteso il grande frutto e l’utilità che ne può derivare in vista della buona istruzione che ha incominciato a impartire alla gioventù di detta città e vicinanze, le quali intendono inviare in tal luogo i propri fanciulli».

I collegi
            L’insegnamento secondario impartito nei collegi in Savoia è nato per lo più tramite lo sviluppo delle scuole primarie, le quali, grazie a donazioni, erano in grado di aggiungere classi di latino, di grammatica e di belle lettere.
            Monsignore intervenne per salvare il collegio di La Roche, dove egli aveva compiuto i suoi primi studi di grammatica. Il collegio non godette sempre di giorni tranquilli. Nel 1605, Francesco di Sales scrisse ai canonici della collegiata per far tacere «l’opinione personale» di alcuni, pregandoli di «assicurarsi un’altra volta il consenso generale»: «voi potete e dovete contribuire – scriveva loro – non solo con le vostre voci, ma anche con gli avvertimenti e l’opera di convinzione, poiché l’erezione e la conservazione di questo collegio servirà alla gloria di Dio e della Chiesa», e procurerà inoltre «il bene di cotesta città». La finalità spirituale figurava, sì, al primo posto, ma il bene temporale non era dimenticato.
            Ad Annecy, il vescovo seguiva da vicino la vita del collegio fondato da Eustache Chappuis, nel quale egli stesso aveva studiato dal 1575 al 1578. Le difficoltà che stava attraversando lo spinsero probabilmente a visitare di frequente questo istituto. D’altronde, la presenza del vescovo era un onore ricercato, soprattutto in occasione di dispute filosofiche, alle quali era invitato «monsignore, il reverendissimo vescovo di Ginevra».
            I registri delle decisioni del collegio segnalano la sua presenza in occasione di discussioni come pure di interventi diretti ad appoggiare le richieste o alla stesura di contratti con i professori. Secondo un testimone il vescovo vi si recava di buon mattino per assistere a «manifestazioni pubbliche, dispute, rappresentazioni di vicende storiche e altri esercitazioni, per incoraggiare la gioventù, e, in particolare, alle dispute pubbliche di filosofia al termine dei corsi». Il medesimo testimone aggiunge: «Lo vidi sovente partecipare personalmente alle dispute filosofiche».
            In realtà, a detta di uno dei professori dell’epoca, «le belle lettere come pure i sani costumi avevano perso parecchio del loro splendore» e gli introiti erano diminuiti. L’amministrazione conosceva degli urti. Il vescovo sognava una direzione nuova e stabile per il collegio, che gli appariva «quasi come un terreno incolto».
            Nel 1613 di passaggio a Torino, gli fu suggerito il nome di una nuova congregazione che navigava col vento in poppa: i barnabiti. A Milano incontrò il loro superiore generale e l’affare venne concluso. Nel dicembre 1614, firmò il contratto di ingresso dei barnabiti al collegio Chappuis.
            Francesco di Sales era talmente soddisfatto dei barnabiti che, come abbiamo detto, li chiamerà senza tardare a Thonon. Nell’aprile 1615, poteva scrivere a un suo amico: «Certo, i nostri buoni barnabiti sono davvero ottime persone: dolci più di quanto si possa dire, accondiscendenti, umili e gentili assai più di quanto sia di moda nel loro paese». Di conseguenza suggeriva la loro venuta anche in Francia:

Per me, penso che, un giorno, saranno di grande servizio per la Francia, perché non fanno del bene solo con l’istruzione della gioventù (cosa che non è eccessivamente necessaria in un paese in cui la fanno in modo così eccellente i padri gesuiti), ma cantano in coro, confessano, fanno il catechismo anche nei villaggi in cui vengono mandati, predicano; in una parola, fanno tutto quello che si può desiderare, lo fanno molto cordialmente, e non chiedono molto per il loro sostentamento.

            Nel 1619 fu implicato in trattative volte a far sì che i barnabiti si incaricassero del collegio di Beaune, nella Borgogna. Non essendo andato in porto questo affare, essi poterono stabilirsi a Montargis l’anno successivo.

Gli studi superiori
            Il ducato di Savoia, non potendo contare su grandi città e vedendo sovente minacciata la sua stabilità, non possedeva una propria università. Gli studenti che ne avevano le possibilità andavano a studiare all’estero. Il fratello di Francesco di Sales, Louis, fu inviato a Roma per compiervi gli studi di diritto. In Francia si trovavano studenti savoiardi a Montpellier, dove andavano a studiare medicina e a Tolosa, dove ci si recava per gli studi di diritto.
             Ad Avignone, il cardinale savoiardo di Brogny aveva fondato nel suo palazzo un collegio destinato ad accogliere gratuitamente ventiquattro studenti di diritto, di cui sedici della Savoia. Purtroppo i Savoiardi persero i posti loro riservati. Nell’ottobre del 1616 Francesco di Sales compì vari tentativi presso il duca di Savoia e anche a Roma per trovare «qualche rimedio efficace contro i disordini che, nello stesso collegio, si sono verificati» e perché i posti del collegio fossero restituiti ai «sudditi di Vostra Altezza». In occasione del suo ultimo viaggio che lo portò ad Avignone nel novembre del 1621 e prima di terminarlo definitivamente a Lione, parlerà a lungo con il vice-legato del papa per difendere ancora una volta gli interessi savoiardi di detto collegio.
            Si trovavano studenti savoiardi perfino a Lovanio, dove Eustache Chappuis aveva fondato un collegio destinato ai Savoiardi che frequentavano l’università. Il vescovo di Ginevra era in costante e amichevole relazione con Jacques de Bay, presidente del collegio; a più riprese Francesco di Sales gli scriveva per raccomandargli coloro che si recavano colà per porsi, come diceva, «sotto le vostre ali». Nei casi in cui i genitori incontrassero delle difficoltà nel sostenerne le spese, si diceva pronto a rimborsarle. Seguiva i suoi studenti: «Studiate sempre più – scriveva a uno di loro – con spirito di diligenza e d’umiltà».  Possediamo anche una lettera del 1616 al nuovo presidente del collegio, Jean Massen, in favore di uno studente di teologia, proprio parente, del quale auspicava «il progresso nelle lettere e nella virtù».

Scuole per ragazze?
            Tutto quello che è stato fin qui esposto riguarda unicamente l’istruzione dei ragazzi. Solo per loro infatti esistevano le scuole. E per le ragazze? All’epoca di Francesco di Sales, le uniche istituzioni che, a questo riguardo, potevano offrire un aiuto alle famiglie erano i monasteri femminili, i quali però erano interessati prima di tutto al reclutamento. Jeanne de Sales, ultima figlia della signora di Boisy, fu inviata al monastero nel 1605, «per farle cambiare aria e farle prendere il gusto della divozione». Vi entrò a dodici anni, ma siccome non provava nessuna attrattiva per la vita religiosa, non è ragionevole, asseriva Francesco di Sales, «lasciare per tanto tempo in un monastero una giovane che non intende restarvi per sempre». Venne ritirata già al secondo anno.
            Ma che fare se il monastero era loro precluso? C’era la soluzione delle orsoline, che incominciavano ad essere conosciute, in quanto congregazione destinata all’istruzione della gioventù femminile. Erano presenti nella capitale francese dal 1608. Il vescovo incoraggiò la loro venuta a Chambéry, scrivendo nel 1612 che «sarebbe un gran bene che, a Chambéry, vi fossero le orsoline, e io vorrei contribuire facendo qualche cosa per questo»; basterebbero, aggiungeva, «tre figlie o donne coraggiose per cominciare». La fondazione avverrà nell’antica capitale della Savoia solo nel 1625.
            Nel 1614 poté rallegrarsi del recente arrivo delle orsoline a Lione, «una delle congregazioni – diceva – che il mio spirito ama maggiormente». Le voleva altresì nella sua diocesi, in particolare a Thonon. Nel gennaio 1621, scrisse alla superiora delle orsoline di Besançon perché cercasse di favorire questo progetto, perché – scriveva – «ho sempre amato, stimato e onorato quelle opere di grandissima carità che usa praticare la vostra congregazione, e quindi, ho sempre desiderato profondamente la sua diffusione anche in questa provincia della Savoia». Il progetto, però, poté essere attuato soltanto nel 1634.

L’educazione delle giovani nei monasteri della Visitazione
            Quando, a partire dal 1610, Francesco di Sales fondò con Giovanna di Chantal quello che diventerà l’ordine della Visitazione, ben presto si pose la questione dell’ammissione ed educazione delle giovani destinate o meno alla vita religiosa. Si conosce il caso della figlia della signora di Chantal, l’allegra e civettuola Franceschetta, che era solo undicenne quando sua madre, volendola religiosa, la prese con sé nella casa che sarebbe diventata la dimora delle prime visitandine. Ma la fanciulla doveva prendere un’altra strada. Le ragazze mandate nei monasteri controvoglia non avevano altra scelta se non quella di rendersi insopportabili.
            Nel 1614, una bambina di nove anni, figlia del custode del castello d’Annecy, fu accolta al primo monastero della Visitazione. A quattordici anni, a forza di insistere, ottenne di vestire l’abito religioso, ma senza avere i requisiti per essere novizia; ammalatasi ai polmoni, suscitò l’ammirazione del fondatore, che provò «un’incredibile consolazione, trovandola indifferente alla morte e alla vita, in un atteggiamento soave di pazienza e con un volto sorridente, a dispetto della febbre altissima e dei molti dolori che soffriva. Per sua unica consolazione, mi chiese di poter fare la professione prima di morire». Molto differente, invece, era un’altra compagna, una giovane di Lione, figlia del capo dei mercanti e grande benefattore, la quale si rese insopportabile nella comunità al punto che la madre di Chantal dovette correggerla.
            Alla Visitazione di Grenoble, una ragazza di dodici anni chiese di vivere con le religiose. Alla superiora che esitava ad accogliere questa «rosa» che poteva recare qualche spina, il fondatore consigliava sorridendo e con una punta di furbizia:

È vero che queste giovanette danno dei grattacapi; ma che cosa si dovrebbe fare? In questo mondo, non ho mai trovato un bene che non costasse qualcosa. Dobbiamo disporre le nostre volontà in modo che non cerchino le comodità, o, se le cercano e le desiderano, sappiano però adattarsi serenamente alle difficoltà che sono sempre inseparabili dalle comodità. In questo mondo, non abbiamo vino senza fondaccio. Dobbiamo dunque calcolar bene. È meglio che, nel nostro giardino, vi siano spine perché possiamo aver rose, oppure che non abbiamo rose per non avere spine? Se cotesta figliola porta più bene che male, sarà bene ammetterla; se porta più male che bene, non bisogna ammetterla.

            In fin dei conti, il fondatore si mostrerà assai circospetto nell’ammettere le giovani nei monasteri della Visitazione, a motivo dell’incompatibilità con la maniera di vivere delle religiose.
            In effetti, la Visitazione non era stata concepita e voluta per tale opera: «Dio – scriveva il fondatore alla superiora di Nevers – non ha eletto il vostro istituto per l’educazione delle figliolette, ma per la perfezione delle donne e delle giovani che a esso sono chiamate in quell’età in cui sono già in grado di rispondere di quello che fanno». Sapeva bene che la vita di un monastero poteva difficilmente fornire un ambiente adatto allo sviluppo delle ragazze: «Non solo l’esperienza, ma anche la ragione ci insegna che ragazze così giovani, messe sotto la disciplina d’un monastero, generalmente sproporzionata per la loro età, prendono a detestarla e odiarla».
            Nonostante qualche rincrescimento, Francesco di Sales non divenne il fondatore di un istituto dedito all’educazione. Tuttavia, sta di fatto che gli sforzi da lui profusi a favore dell’istruzione e dell’educazione dei ragazzi e delle ragazze, in tutte le sue forme, furono numerosi e gravosi. Il motivo dominante che lo guidava era di ordine spirituale, soprattutto quando si trattava di tener lontana la gioventù dal «veleno dell’eresia», e al riguardo ci riusciva piuttosto bene, perché la riforma cattolica guadagnava terreno; tuttavia egli non trascurava il bene temporale costituito dalla formazione della gioventù a beneficio della società.




San Francesco di Sales catechista dei bambini

Formato secondo la dottrina cristiana fin dall’infanzia, nel suo ambiente familiare, poi nelle scuole, e infine a contatto con i gesuiti, Francesco di Sales aveva assimilato in modo perfetto i contenuti e il metodo della catechesi dell’epoca.

Una esperienza di catechismo a Thonon
            Come catechizzare la gioventù di Thonon cresciuta tutta impregnata di calvinismo, si chiedeva il missionario del Chiablese. I mezzi autoritari non erano necessariamente i più efficaci. Non era meglio attirare la gioventù e interessarla? Era il metodo seguito di solito dal prevosto di Sales durante tutto il tempo della missione nel Chiablese.
            Aveva pure tentato un’esperienza che merita di essere ricordata. Il 16 luglio 1596, approfittando della visita dei suoi due giovani fratelli, Jean-François di diciotto anni e Bernard di tredici anni, organizzò una specie di recitazione pubblica del catechismo allo scopo di attirare la gioventù di Thonon. Ne compose egli stesso un testo sotto forma di domande e risposte sulle verità fondamentali della fede, e invitò il fratello Bernard a rispondergli.
            Il metodo del catechista è interessante. Leggendo questo piccolo catechismo dialogato, occorre ricordare che non si tratta semplicemente di un testo scritto, bensì di un dialogo destinato a essere rappresentato davanti a un pubblico di giovani nella fattispecie di un «teatrino». La «rappresentazione» ebbe effettivamente luogo su un «palco», o podio, come soleva avvenire presso i gesuiti nel collegio di Clermont. In effetti, all’inizio si leggono delle indicazioni scenografiche:

Francesco, parlando per primo, dirà: Fratello mio, sei cristiano?
Bernard, posto vis-à-vis di Francesco, risponderà: Si, fratello mio, per grazia di Dio.

            Molto probabilmente l’autore aveva previsto l’uso di gesti per conferire maggiore vivacità alla recitazione. Alla domanda: «Quante cose devi conoscere per essere salvo?», la risposta recita: «Quante le dita della mano!», espressione che Bernardo dovette pronunciare con gesti, cioè indicando le cinque dita della mano: il pollice per la fede, l’indice per la speranza, il medio per la carità, l’anulare per i sacramenti, il mignolo per le buone opere. Parimenti, trattando delle diverse unzioni del battesimo, Bernard dovette portare la mano prima sul petto, per indicare che la prima unzione consiste «nell’essere abbracciati dall’amore di Dio»; poi sulle spalle, perché la seconda unzione è diretta a «renderci forti nel portare il peso dei comandamenti e dei precetti divini»; infine sulla fronte per rivelare che l’ultima unzione ha come scopo quello di «far in modo che confessiamo la fede in Nostro Signore pubblicamente, senza timore e senza vergogna».
            Grande importanza è data al «segno della croce», normalmente accompagnato dalla formula Nel nome del Padre con cui iniziava il catechismo, segno che col gesto della mano segue, sulle parti del corpo, un percorso inverso rispetto all’unzione battesimale: la fronte, il petto e le due spalle. Il segno della croce, doveva dire Bernard, è «il vero segno del cristiano», aggiungendovi che «il cristiano lo deve fare in tutte le sue preghiere e nelle azioni principali».
            Conviene anche notare che l’uso sistematico dei numeri serviva da mezzo mnemonico. In tal modo, infatti, il catechizzato impara che ci sono tre promesse battesimali (rinunciare al diavolo, professare la fede e osservare i comandamenti), dodici articoli del Credo, dieci comandamenti di Dio, tre tipi di cristiani  (eretici, cattivi cristiani e veri cristiani), quattro parti del corpo destinati a essere unti (il petto, le due spalle e la fronte), tre unzioni, cinque cose necessarie per essere salvi (fede, speranza, carità, sacramenti e buone opere), sette sacramenti e tre buone opere (preghiera, digiuno e elemosina).
            Se si esamina attentamente il contenuto di questo catechismo dialogato, è facile rilevarne l’insistenza su parecchi punti contestati dai protestanti. Il tono deciso di certe affermazioni richiama la vicinanza di Thonon a Ginevra e l’ardore polemico dell’epoca.
            Fin dagli inizi figura un’invocazione alla «benedetta Vergine Maria». In tema di osservanza dei dieci comandamenti si precisa che bisogna aggiungervi i precetti della «nostra santa Madre Chiesa». Nei tre tipi di cristiani, gli eretici sono coloro che «altro non hanno se non il nome», «essendo fuori della Chiesa cattolica, apostolica e romana». I sacramenti sono in numero di sette. I riti e le cerimonie della Chiesa non sono solo azioni simboliche, essi infatti producono nell’animo del credente un vero cambiamento dovuto all’efficacia della grazia. Si nota anche l’insistenza sulle «buone opere» per essere salvi e la pratica del «santo segno della Croce».
            Nonostante la «messa in scena» piuttosto eccezionale con la partecipazione del fratello più giovane, questo tipo di catechesi dovette ripetersi sovente e in forme abbastanza simili. Si sa, infatti, che l’apostolo del Chiablese «insegnava il catechismo, il più sovente possibile, in pubblico o in case particolari».

Il vescovo catechista
            Diventato vescovo di Ginevra, ma residente ad Annecy, Francesco di Sales insegnava di persona il catechismo ai fanciulli. Occorreva dare l’esempio ai canonici e ai parroci che esitavano ad abbassarsi a questo tipo di ministero: è noto, dirà un giorno, che «molti vogliono predicare, ma pochi fare il catechismo». Secondo un testimone, il vescovo «si prese la briga di insegnare di persona il catechismo per due anni nella città, senza essere aiutato da altri».
            Un testimone lo descrive assiso «su un piccolo teatro creato allo scopo, e, mentre di là interroga, ascolta, ammaestra non solamente il suo piccolo pubblico, ma anche tutti coloro che accorrono da ogni parte, accogliendoli con una spigliatezza e affabilità incredibili». La sua attenzione era concentrata sui rapporti personali da stabilire con i fanciulli: prima di interrogarli, «li chiamava tutti per nome, come se» ne «avesse in mano la lista».
            Per farsi capire usava un linguaggio semplice, ricavando a volte dalla vita di ogni giorno i paragoni più inattesi, come quello del cagnolino: «Quando veniamo al mondo come nasciamo? Nasciamo come i cagnolini, i quali, leccati dalla loro madre aprono gli occhi. Così, quando nasciamo, la nostra santa madre Chiesa ci apre gli occhi con il battesimo e la dottrina cristiana che ci insegna».
            Il vescovo preparò, con l’aiuto di qualche collaboratore, dei «biglietti» sui quali erano scritti i punti principali da imparare a memoria durante la settimana per saperli recitare la domenica. Ma come fare se i fanciulli non sapevano ancora leggere e le loro famiglie erano anch’esse formate da analfabeti? Era necessario contare sull’aiuto di persone benevole: parroci, viceparroci, maestri di scuola, che durante la settimana fossero disponibili a fare delle ripetizioni.
            Da buon educatore, anch’egli ripeteva sovente le stesse domande con le medesime spiegazioni. Quando il fanciullo sbagliava nella recita dei suoi biglietti o nella pronuncia di parole difficili, «sorrideva così gentilmente e, correggendone lo sbaglio, rimetteva in carreggiata l’interrogato in maniera così amabile da sembrare che se non avesse sbagliato, non avrebbe potuto pronunciarlo tanto bene; il che raddoppiava il coraggio dei piccoli e aumentava in maniera singolare la soddisfazione dei grandicelli».
            La tradizionale pedagogia dell’emulazione e della ricompensa aveva un suo ruolo negli interventi di questo ex-allievo dei gesuiti. Un testimone riferisce questa scenetta: «I piccoli correvano esultanti di gioia, facendo a gara, gli uni contro altri; andavano orgogliosi allorché potevano ricevere dalle mani del Beato qualche regaluccio come immaginette, medaglie, corone e agnus dei, che dava loro, quando avevano risposto bene, e anche carezze particolari che faceva loro per incoraggiarli a imparare bene il catechismo e a rispondere correttamente».
            Ora, questa catechesi ai fanciulli attirava gli adulti, e non soltanto i genitori, ma anche grandi personaggi, «dottori, presidenti di camera, consiglieri e maestri di camera, religiosi e superiori di monasteri». Tutti gli strati sociali erano rappresentati, «sia nobili, che ecclesiastici, che gente del popolo», e la folla era così ammassata che «non ci si poteva muovere». Si accorreva dalla città e dai dintorni.
            S’era quindi creato un movimento, una specie di fenomeno contagioso. Secondo alcuni, «non era più il catechismo dei fanciulli, ma l’istruzione pubblica dell’intero popolo». Il paragone con il movimento creato a Roma mezzo secolo prima dalle vivaci e gioiose assemblee di san Filippo Neri si affaccia spontaneamente alla memoria. Secondo l’espressione del padre Lajeunie, «l’Oratorio di san Filippo sembrava rinascere ad Annecy».
            Il vescovo non si accontentava di formule imparate a memoria, benché fosse lungi da lui deprezzare il ruolo della memoria. Insisteva perché i fanciulli sapessero quello che devono credere e comprendere l’insegnamento.
            Voleva soprattutto che la teoria appresa durante il catechismo diventasse pratica nella vita di ogni giorno. Come scrisse un suo biografo, «insegnava non soltanto ciò che occorre credere, ma persuadeva anche a vivere secondo ciò che si crede». Incoraggiava i suoi uditori di ogni età «ad accostarsi con frequenza ai sacramenti della confessione e della comunione», «insegnava loro personalmente la maniera di prepararsi convenientemente», e «spiegava i comandamenti del decalogo e della Chiesa, i peccati capitali, usando appropriati esempi, similitudini ed esortazioni tanto amorosamente coinvolgenti, che tutti si sentivano dolcemente forzati a fare il loro dovere e ad abbracciare la virtù loro insegnata».
            In ogni caso, il vescovo catechista era felicissimo di ciò che faceva. Quando si trovava in mezzo ai bambini, afferma un testimone, sembrava «essere tra le sue delizie». Uscendo da una di queste scuole di catechismo, nel periodo del carnevale, prese la penna per descriverla a Giovanna di Chantal:

Ho terminato or ora la scuola di catechismo, dove mi sono abbandonato un po’ all’allegria, mettendo alla berlina le maschere e i balli per far ridere l’uditorio; ero in un momento di buon umore, e un grande uditorio mi invitava coi suoi applausi a continuare a fare il bambino coi bambini. Mi si dice che, in questo, riesco bene, e io ci credo!

            Gli piaceva raccontare le belle espressioni dei fanciulli, talvolta strabilianti per la profondità. Nella lettera appena citata riferiva alla baronessa la risposta che gli era appena stata data alla domanda: Gesù Cristo è nostro? «Non bisogna dubitarne minimamente: Gesù Cristo è nostro», gli aveva risposto una bambina, la quale aggiungeva: «Sì, egli è più mio di quanto io sia sua e più di quanto sia mia io stessa».

San Francesco di Sales e il suo “piccolo mondo”
            Il clima familiare, cordiale e gaio che regnava al catechismo era un importante fattore di successo, favorito dalla naturale armonia esistente tra la limpida anima amante di Francesco e i fanciulli, che chiamava il suo «piccolo mondo», perché era riuscito a «conquistarne il cuore».
            Camminando per le strade, i fanciulli gli correvano davanti; lo si vide talvolta attorniato talmente da loro da non poter procedere oltre. Lungi dall’irritarsi, li accarezzava, si intratteneva con loro, chiedendo: «Tu di chi sei figlio? come ti chiami?».
            Secondo il suo biografo, un giorno avrebbe detto «che vorrebbe avere il piacere di vedere e considerare come lo spirito di un fanciullo si va poco a poco aprendo e espandendo».




San Francesco di Sales forma i suoi collaboratori

            Francesco di Sales non desiderava diventare vescovo. «Io non sono nato per comandare», avrebbe detto a un confratello, il quale per incoraggiarlo gli diceva: «Ma tutti vi vogliono!». Accettò quando riconobbe il volere di Dio in quello del duca, del vescovo mons. de Granier, del clero e del popolo. Fu consacrato vescovo di Ginevra l’8 dicembre 1602 nella piccola chiesa della sua parrocchia di Thorens. In una lettera a Giovanna di Chantal scriverà che, in quel giorno, «Dio mi aveva tolto a me stesso per prendermi per sé, e quindi, darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro».
            Per compiere la missione pastorale affidatagli e volta al servizio di «questa misera et afflitta diocesi di Ginevra», aveva bisogno di collaboratori. Certo, secondo le circostanze amava chiamare tutti i fedeli «miei fratelli e miei collaboratori», ma tale appellativo era diretto a maggior ragione ai membri del clero, suoi «confratelli». La riforma del popolo auspicata dal concilio di Trento poteva iniziare anzi tutto da loro e per mezzo di loro.

La pedagogia dell’esempio
            Prima di tutto, il vescovo doveva dare l’esempio: il pastore doveva divenire il modello del gregge a lui affidato, e in primo luogo del clero. A tale scopo, Francesco di Sales si impose un Regolamento episcopale. Redatto in terza persona, prevedeva non soltanto i doveri strettamente religiosi dell’incarico pastorale, ma anche la pratica di un certo numero di virtù sociali, quali la semplicità della vita, la cura abituale dei poveri, la buona educazione e la decenza. Fin dall’inizio si legge un articolo contro la vanità ecclesiastica:

In primo luogo, quanto al comportamento esterno Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, non indosserà abiti di seta e neppure vesti che siano più preziose di quelle finora portate; tuttavia esse saranno pulite, ben confezionate in modo da essere indossate con proprietà attorno al corpo.

            Nella sua casa episcopale si contenterà di due ecclesiastici e di qualche servo, sovente giovanissimo. Saranno anch’essi formati alla semplicità, alla cortesia e al senso dell’accoglienza. La tavola sarà frugale, ma curata e pulita. La sua casa dovrà essere aperta a tutti, perché «la casa d’un vescovo deve essere come una fontana pubblica, dove i poveri e i ricchi hanno lo stesso diritto di avvicinarsi per attingere l’acqua».
            Inoltre, il vescovo dovrà continuare a formarsi e a studiare: «Farà in modo di imparare ogni giorno qualcosa comunque utile e che sia conveniente per la sua professione». Di norma consacrerà due ore per studiare, tra le sette e le nove del mattino, e dopo la cena potrà leggere per la durata di un’ora. Riconosceva che lo studio gli piaceva, esso però gli era indispensabile: si considerava come un «perpetuo studente di teologia».

Conoscere le persone e le situazioni
            Un vescovo di questa levatura non poteva contentarsi di essere unicamente un buon amministratore. Per condurre il gregge, il pastore deve conoscerlo, e per conoscere l’esatta situazione della diocesi e del clero in particolare, Francesco di Sales intraprese una serie impressionante di visite pastorali. Nel 1605 visitò 76 parrocchie situate nella zona francese della diocesi e rientrò «dopo aver battuto le campagne per sei settimane senza interruzione». L’anno seguente, un grande giro pastorale durato alcuni mesi lo portò in 185 parrocchie, circondate da «monti spaventosi, coperti d’una lastra di ghiaccio spessa da dieci a dodici pertiche». Nel 1607 si rese presente in 70 parrocchie e, nel 1608, pose fine alle visite ufficiali della sua diocesi spostandosi in 20 parrocchie nei dintorni d’Annecy, ma continuerà a fare ancora non poche visite nel 1610 ad Annecy e nelle parrocchie circostanti. Nel corso di sei anni avrà visitato 311 parrocchie con le loro filiali.
            Grazie a queste visite e ai contatti personali, acquistò una conoscenza precisa della situazione reale e dei bisogni concreti della popolazione. Costatò l’ignoranza e la mancanza di spirito sacerdotale di certi preti, senza dimenticare gli scandali di alcuni monasteri dove la Regola non era più osservata. Il culto interessato, ridotto a funzione e inficiato dalla ricerca del guadagno, richiamava fin troppo i cattivi esempi tratti dalla Bibbia: «Assomigliamo a Nabal e Assalonne, che gioivano solo alla tosatura del gregge».
            Allargando il suo sguardo sulla Chiesa, giungeva a denunciare la vanità di certi prelati, veri «cortigiani di Chiesa», che paragonava ai coccodrilli e ai camaleonti: «Il coccodrillo è un animale a volte terrestre e a volte acquatico, partorisce sulla terra e va a caccia in acqua; così si comportano i cortigiani di Chiesa. Gli alberi dopo il solstizio rigirano le foglie: l’olmo, il tiglio, il pioppo, l’ulivo, il salice; avviene lo stesso tra gli ecclesiastici».
            Alle lagnanze riguardanti il comportamento del clero aggiungeva i rimproveri per la loro debolezza di fronte alle ingiustizie commesse dal potere temporale. Ricordando alcuni vescovi coraggiosi del passato, esclamava: «Oh! come vorrei vedere degli Ambrogio che comandano a Teodosio, dei Crisostomo che sgridano Eudossia, degli Ilario che correggono Costanzo!». Se si presta fede a una confidenza della madre Angelica Arnauld, mons. di Sales gemeva anche sui «disordini della Curia di Roma», veri «argomenti lacrimevoli», ben convinto però che «parlarne al mondo nella situazione in cui esso si trova, è causa di inutile scandalo».

Selezione e formazione dei candidati
            Il rinnovamento della Chiesa comportava uno sforzo teso al discernimento e alla formazione dei futuri preti, assai numerosi all’epoca. In occasione della prima visita pastorale nel 1605, il vescovo ricevette 175 giovani candidati; l’anno successivo ne ebbe 176; in meno di due anni aveva incontrato 570 candidati al ministero presbiterale o novizi nei monasteri.
            Il male nasceva in primo luogo dall’assenza di vocazione in un buon numero di loro. Sovente era preminente l’attrattiva del beneficio temporale o il desiderio delle famiglie di collocare i loro secondogeniti. In ogni caso si imponeva un discernimento diretto a valutare se la vocazione veniva «dal cielo o dalla terra».
            Il vescovo di Ginevra prendeva molto sul serio i decreti del concilio di Trento, il quale aveva previsto la creazione di seminari. La formazione doveva iniziare in tenera età. Fin dal 1603, si tentò di dar vita a un embrione di seminario minore a Thonon. Gli adolescenti erano poco numerosi, probabilmente per mancanza di mezzi e di spazio. Nel 1618 Francesco di Sales si propose di ricorrere direttamente all’autorità della Santa Sede per ottenere un appoggio giuridico e finanziario al proprio progetto. Voleva erigere un seminario, scriveva, nel quale i candidati potessero «imparare a osservare le cerimonie, a catechizzare ed esortare, a cantare ed esercitare le altre virtù clericali». Tutti i suoi sforzi, però, furono vani per la mancanza di risorse materiali.
            Come assicurare la formazione dei futuri preti in tali condizioni? Alcuni frequentavano i collegi o le università all’estero, mentre in maggioranza si formavano nelle canoniche, sotto la guida di un prete saggio e istruito o nei monasteri. Francesco di Sales voleva che in ogni centro importante della diocesi ci fosse un «teologale», ossia un membro del capitolo della cattedrale incaricato d’insegnare la sacra Scrittura e la teologia.
            L’ordinazione, ad ogni modo, era preceduta da un esame e prima di vedersi assegnata una parrocchia (con l’annesso beneficio), il candidato doveva superare un concorso. Il vescovo vi assisteva e interrogava di persona il candidato per cerziorarsi che possedesse le conoscenze e le qualità morali richieste.

Formazione permanente
            La formazione non doveva fermarsi al momento dell’ordinazione o dell’assegnazione di una parrocchia. Per assicurare la formazione continua dei suoi preti, il mezzo principale di cui disponeva il vescovo era l’annuale convocazione del sinodo diocesano. Il primo giorno di detta assemblea era solennizzato da una messa pontificale e da una processione attraverso la città di Annecy. Il secondo giorno, il vescovo lasciava la parola a uno dei suoi canonici, faceva rileggere gli statuti dei sinodi precedenti e raccoglieva le osservazioni dei parroci presenti. Dopo ciò incominciava il lavoro in commissioni per discutere di questioni riguardanti la disciplina ecclesiastica e il servizio spirituale e materiale delle parrocchie.
            Siccome le costituzioni sinodali contenevano parecchie norme disciplinari e rituali, la cura della formazione permanente, intellettuale e spirituale vi era visibile. Si riferivano ai canoni degli antichi concili, ma soprattutto ai decreti del «santissimo concilio di Trento». D’altra parte, vi si raccomandava la lettura di opere che trattavano di pastorale o di spiritualità, come quelle del Gersone (probabilmente l’Istruzione dei parroci per istruire il popolo semplice) e quelle del domenicano spagnolo Luis de Granada, autore di un’Introduzione al simbolo.
            La scienza, scriveva in una sua Esortazione agli ecclesiastici, «è l’ottavo sacramento della gerarchia della Chiesa». I mali della Chiesa erano dovuti principalmente all’ignoranza e alla pigrizia del clero. Per fortuna, sono venuti i padri gesuiti! Modelli di preti istruiti e zelanti, questi «grandi uomini», che «divorano i libri con i loro incessanti studi», hanno «ristabilito e consolidato la nostra dottrina e tutti i santi misteri della nostra fede; sicché ancor oggi, grazie al loro encomiabile lavoro, riempiono il mondo di uomini dotti che distruggono ovunque l’eresia». Nella conclusione, il vescovo riassumeva tutto il suo pensiero: «Siccome la divina Provvidenza, senza aver riguardo della mia incapacità, mi ha stabilito vostro vescovo, vi esorto a studiare senza stancarvi, affinché essendo dotti ed esemplari, siate irreprensibili, e pronti a rispondere a tutti coloro che vi interrogano su argomenti di fede».

Formare i predicatori
            Francesco di Sales predicava tanto sovente e così bene da essere considerato come uno dei migliori predicatori del suo tempo e modello dei predicatori. Predicò non soltanto nella sua diocesi, ma accettò di predicare anche a Parigi, a Chambéry, a Digione, a Grenoble e a Lione. Predicò inoltre nella Franca Contea, a Sion nel Vallese e in parecchie città del Piemonte, in particolare a Carmagnola, Mondovì, Pinerolo, Chieri e Torino.
            Per conoscere il suo pensiero sulla predicazione occorre far riferimento alla lettera che indirizzò, nel 1604, ad Andrea Frémyot, fratello della baronessa di Chantal, giovane arcivescovo di Bourges (aveva solo trentun anni), che gli aveva chiesto consiglio sul modo di predicare. Per predicare bene, diceva, occorrono due cose: la scienza e la virtù. Per ottenere un buon risultato, il predicatore deve cercare di istruire i suoi uditori e di toccare il loro cuore.
            Per istruirli bisogna andare sempre alla fonte: la Sacra Scrittura. Le opere dei Padri non dovranno essere trascurate; in effetti, «che cos’è la dottrina dei Padri della Chiesa, se non una spiegazione del Vangelo e un’esposizione della sacra Scrittura?». È bene servirsi ugualmente della vita dei santi che ci fanno sentire la musica del Vangelo. Quanto al grande libro della natura, creazione di Dio, opera della sua parola, esso costituisce una sorgente straordinaria di ispirazione se lo si sa osservare e meditare. «È un libro – scrive – che contiene la parola di Dio». Da uomo del suo tempo, cresciuto alla scuola degli umanisti classici, Francesco di Sales non escludeva dalle sue prediche gli autori pagani dell’antichità e persino un pizzico della loro mitologia, ma occorreva servirsene «come si usano i funghi, cioè, solo per stuzzicare l’appetito».
            Inoltre, ciò che aiuta parecchio la comprensione della predicazione e che la rende gradevole, è l’uso delle immagini, dei paragoni e degli esempi, tratti dalla Bibbia, dagli antichi autori o dall’osservazione personale. Le similitudini, infatti, possiedono «un’efficacia incredibile quando si tratta d’illuminare l’intelligenza e muovere la volontà».
            Ma il vero segreto dell’efficacia della predicazione è la carità e lo zelo del predicatore, che sa trovare nel più profondo del suo cuore le parole adatte. Bisogna parlare «con calore e con devozione, con semplicità, con candore e con fiducia, essere profondamente convinti di quello che si insegna e si inculca agli altri». Le parole devono uscire dal cuore più che dalla bocca, perché «il cuore parla al cuore, mentre la bocca non parla che alle orecchie».

Formare i confessori
            Un altro compito assunto da Francesco di Sales fin dagli albori del suo episcopato fu redigere una serie di Avvertimenti ai confessori. Contengono non solo una dottrina sulla grazia di questo sacramento, ma anche norme pedagogiche dirette a coloro che hanno una responsabilità di guida delle persone.
            Innanzi tutto, chi è chiamato a lavorare alla formazione delle coscienze e al progresso spirituale degli altri deve incominciare da sé stesso, per non meritare il rimprovero: «Medico, cura te stesso»; e l’ammonimento dell’apostolo: «Tu che giudichi gli altri, condanni te stesso». Il confessore è un giudice: compete a lui decidere se assolvere o meno il peccatore, tenuto conto delle disposizioni interiori del penitente e delle norme in vigore. È insieme medico, perché «i peccati sono malattie e ferite spirituali», per cui spetta a lui prescrivere i rimedi appropriati. Francesco di Sales, però, evidenzia che il confessore è soprattutto un padre:

Ricordatevi che i poveri penitenti dando inizio alla loro confessione vi chiamano padre, e che in effetti voi dovete avere un cuore paterno nei loro confronti. Accoglieteli con immenso amore, sopportandone pazientemente la rozzezza, l’ignoranza, la debolezza, la lentezza nel comprendere e altre imperfezioni, non desistendo mai dall’aiutarli e soccorrerli fin tanto che in loro c’è qualche speranza che possano correggersi.

            Un buon confessore deve essere attento allo stato di vita di ciascuno e procedere in maniera diversificata, tenendo conto della professione di ognuno, “sposato o no, ecclesiastico o no, religioso o secolare, avvocato o procuratore, artigiano o contadino”. Il tipo di accoglienza, però, doveva essere uguale per tutti. Egli, a detta della madre di Chantal, riceveva tutti «con uguale amore e dolcezza»: «signori e signore, borghesi, soldati, cameriere, contadini, mendicanti, malati, galeotti puzzolenti e abietti».
            Riguardo alle disposizioni interiori, ogni penitente si presenta a modo suo, e Francesco di Sales può fare appello alla propria esperienza quando traccia una specie di tipologia di penitenti. C’è chi si accosta «tormentato dalla paura e dalla vergogna», chi si mostra «sfrontato e senza alcun timore», chi è «timido e nutre qualche sospetto di ottenere il perdono dei suoi peccati» e chi, infine, è «perplesso perché non sa dire i propri peccati oppure perché non sa fare il proprio esame di coscienza».
            Una buona maniera di incoraggiare il penitente timido e di infondergli fiducia consiste nel riconoscere voi stessi che «non siete un angelo», e che «non trovate strano che gli uomini commettano peccati». Con lo sfrontato occorre comportarsi con serietà e gravità, ricordandogli che «all’ora della morte di nient’altro renderà strettissimo conto se non delle confessioni mal fatte». Ma soprattutto, il vescovo di Ginevra insisteva su questa raccomandazione: «Siate caritatevoli e discreti verso tutti i penitenti e specialmente verso le donne». Si ritrova questa tonalità salesiana nel frammento del seguente consiglio: «Guardatevi bene dall’usare parole troppo rudi verso i penitenti; perché talvolta noi siamo così austeri nelle nostre correzioni da mostrarci biasimevoli più di quanto sono colpevoli coloro che rimproveriamo». Inoltre, cercherà di «non imporre ai penitenti penitenze confuse, bensì specifiche, e di essere più incline alla dolcezza che al rigore».

Formarsi insieme
            Conviene infine prendere in considerazione una preoccupazione del vescovo di Ginevra concernente l’aspetto comunitario della formazione, perché era persuaso dell’utilità dell’incontro, dell’animazione vicendevole e dell’esempio. Non ci si forma bene se non insieme; di qui il desiderio di riunire i preti e anche, per quanto possibile, di dividerli in gruppi. Le assemblee sinodali che, ad Annecy, vedevano riuniti una volta all’anno i parroci attorno al loro vescovo erano una cosa buona, anche insostituibile, ma non sufficiente.
            A tal fine, il vescovo di Ginevra allargò il ruolo dei «sorveglianti», una specie di animatori di settori pastorali con la «facoltà e la missione di sostenere, avvertire, esortare gli altri preti e di vegliare sulla loro condotta». Erano incaricati non soltanto di visitare i parroci e le chiese di loro competenza, ma anche di riunire i loro confratelli due volte all’anno per trattare problematiche pastorali. Il vescovo ci teneva molto a queste riunioni, «rimarcava l’importanza delle assemblee, e ingiungeva ai suoi sorveglianti di inviargli i registri dei presenti e le ragioni degli assenti». A detta di un testimone, vi faceva tenere «prediche sulle virtù richieste a un prete e sui doveri dei pastori riguardanti il bene delle anime loro affidate». Era prevista anche «una conferenza spirituale attinente le difficoltà che potevano nascere circa il significato delle Costituzioni sinodali oppure i mezzi necessari per ottenere migliori risultati in vista della salvezza delle anime».
            Il desiderio di raggruppare i preti fervorosi gli suggerì un progetto sul modello degli Oblati di sant’Ambrogio, fondati da san Carlo Borromeo per aiutarlo nel rinnovamento del clero. Non si potrebbe forse tentare qualche cosa di simile in Savoia per favorire tra le file del clero non soltanto la riforma ma anche la devozione? Di fatto, secondo l’amico mons. Camus, Francesco di Sales avrebbe coltivato il progetto di creare una congregazione di preti secolari «libera e senza voti». Vi rinunciò quando fu fondata a Parigi la congregazione dell’Oratorio, una società di «sacerdoti riformati» che lui stesso cercò di portare in Savoia.
            I suoi sforzi non furono coronati sempre dal successo; testimoniano, in ogni caso, la sua costante cura di formare i propri collaboratori nel quadro di un progetto globale di rinnovamento della vita ecclesiale.




Correggere i “figli ribelli” con san Francesco di Sales

            Nel settembre 1594 Francesco di Sales, prevosto della cattedrale, giungeva, accompagnato dal cugino, a Thonon nel Chiablese, provincia situata a sud del lago Lemano e vicina a Ginevra, per esplorare il territorio allo scopo di riconquistare possibilmente al cattolicesimo quella provincia, divenuta protestante da sessant’anni. Iniziava così una fase acuta di confronto con i figli ribelli della santa Chiesa, che segnerà tutta la sua vita di uomo di Chiesa. Fino alla sua morte nel 1622, impiegherà tutte le risorse di un’arte che è anche caratteristica dell’educatore di fronte ai “figli ribelli”.

Riconquistare le anime
            All’epoca di Francesco di Sales, i partigiani di una «riduzione» degli eretici con la forza erano numerosi. Suo padre, il signor de Boisy, era del parere che occorreva parlare a quella gente «con la bocca dei cannoni». Mentre la forza politica e militare di cui disponeva il duca di Savoia nel Chiablese gli aveva consentito di conquistare “il corpo” degli abitanti, ciò che per Francesco di Sales era più importante, e costituiva il suo obiettivo principale, era conquistare le anime. Con un’altra parola dirà a Filotea che “chi conquista il cuore dell’uomo conquista tutto l’uomo”.
            La prima cosa da fare era conoscere con esattezza la posizione degli avversari. Come discutere con i protestanti se non si è letta l’Istituzione della religione cristiana di Calvino? Il giovane prevosto così scriveva già nel 1595 al suo ex-direttore spirituale, padre Possevino:

Io non oso più in nessun modo attaccare Calvino o Beza, […] senza che ognuno non voglia sapere con esattezza dove si trova quello che dico. Per questo, ho già subito due affronti, che non mi sarebbero toccati, se non mi fossi fidato delle citazioni di libri che m’hanno tratto in inganno. […] In una parola, in questi baliaggi, tutti hanno sempre in mano le “Istituzioni”; mi trovo in un paese in cui tutti sanno le loro “Istituzioni” a memoria.

            Possediamo una lista contenente più di sessanta libri proibiti, il cui uso era consentito a Francesco di Sales da parte della Congregazione dell’Inquisizione. Vi si trovano non solo opere di Calvino, di Beza e di diversi autori protestanti, ma anche traduzioni della Bibbia in francese, catechismi protestanti, libri di controversie calviniste, trattati di teologia protestante e di vita evangelica, pamphlets contro il papa o semplicemente libri di cattolici messi all’indice.
            Dopo la scienza, la missione richiedeva qualità morali e spirituali particolari, a cominciare da un disinteresse totale. Il suo amico e discepolo, il vescovo Jean-Pierre Camus, ha sottolineato questo atteggiamento di distacco che caratterizzerà l’intera vita di Francesco di Sales: «Benché quelli di Ginevra gli trattenessero tutte le entrate della mensa episcopale e il provento del suo capitolo, non l’ho mai udito lamentarsi per tali trattenute”. D’altronde, secondo Francesco di Sales, non bisognava inquietarsi troppo dei beni ecclesiastici, perché, diceva, «la sorte dei beni della Chiesa è come quello della barba: più la si rade e più robusta e folta cresce».
            Il suo obiettivo era solamente pastorale: «Non sospirava altro se non convertire le anime ribelli alla luce della verità, che brilla solo nella vera Chiesa». Quando parlava di Ginevra, «che chiamava la sua povera o la sua cara (termini di compassione e di amore), nonostante la di lei ribellione», diceva a volte sospirando: “Da mihi animas, caetera tolle tibi”. Intesa nel suo senso letterale, che è quello del libro della Genesi (cf Gen 14,21), tale richiesta rivolta ad Abramo dal re di Sodoma dopo la vittoria che gli aveva consentito di recuperare i prigionieri di guerra e i beni sottratti dal nemico, voleva dire semplicemente: «Dammi le persone e tieniti tutto il resto», cioè il bottino. Ma sulle labbra di Francesco di Sales, queste parole diventavano la preghiera che il missionario indirizzava a Dio per chiedergli «anime», rinunciando completamente a compensi materiali e a interessi personali.
            Egli stesso, sprovvisto di risorse (suo padre gli aveva tagliato i viveri durante la missione nel Chiablese per convincerlo a rinunciare), avrebbe voluto guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro. Diceva:

Quando predicavo la fede nel Chiablese, più volte desiderai ardentemente di saper fare qualche cosa, per imitare in ciò san Paolo, che si nutriva col lavoro delle [sue] mani; ma io sono un buono a far nulla, se non a rappezzare in qualche modo i miei vestiti; è però vero che Dio m’ha fatto la grazia di non essere di peso ad alcuno nel Chiablese; quando non avevo di che nutrirmi, la mia buona madre mi inviava in segreto, da Sales, biancheria e denaro.

            La ribellione dei protestanti era stata causata in buona parte dai peccati del clero, motivo per cui la loro conversione esigeva dai missionari soprattutto tre cose: la preghiera, la carità e lo spirito di sacrificio. Così scriveva all’amico Antoine Favre nel novembre del 1594: «La preghiera, l’elemosina e il digiuno sono le tre parti che compongono la fune che il nemico rompe con difficoltà; con la grazia divina, cercheremo di legare con essa quest’avversario».

Il metodo salesiano
            La prima cosa da fare era mettersi sullo stesso terreno intellettuale degli avversari. Il meno che si potesse dire di loro al riguardo è che erano assolutamente refrattari a argomenti filosofici e teologici ereditati dalla scolastica medievale. Punto importante, questo, che è stato così precisato da Pierre Magnin:

Evitava con tutte le sue forze di buttarsi nelle contese e negli alterchi della scolastica, dato che ciò avveniva senza alcun profitto e che, per la gente, colui che fa la voce più grossa appare sempre come se avesse più ragione. Si dedicava, invece, principalmente a proporre con chiarezza e in modo articolato i misteri della nostra santa fede e a difendere la Chiesa cattolica contro la vana credenza che ne hanno i suoi nemici. A tale scopo non si appesantiva con tanti libri, perché durante circa dieci anni si è servito unicamente della Bibbia, della “Summa” di san Tommaso e delle “Controversie” del cardinal Bellarmino.

            In effetti, se san Tommaso gli forniva il punto di riferimento cattolico e «l’esimio teologo» Bellarmino l’arsenale di prove contro i protestanti, l’unica base di possibile discussione era la Bibbia. E in questo era d’accordo con gli eretici:

La fede cristiana è fondata sulla parola di Dio; è essa che la colloca al grado supremo della sicurezza, perché ha come garante tale eterna e infallibile verità. La fede che si appoggia altrove non è cristiana. Dunque, la parola di Dio è la vera regola del ben credere, poiché essere fondamento e regola in questo campo è la stessa cosa.

            Francesco di Sales si dimostrava assai severo verso gli autori e i diffusori di errori, in particolare verso gli «eresiarchi» Calvino e i ministri protestanti, nei confronti dei quali, per lui, nessuna tolleranza era concepibile. La sua pazienza, al contrario, era senza limiti nei riguardi di tutti coloro che riteneva vittime delle loro teorie. Sempre Pierre Magnin assicura che Francesco
ascoltava con pazienza le loro difficoltà senza mai montare in collera e senza proferire parole ingiuriose contro di loro, nonostante il fatto che detti eretici si accaldassero nelle dispute e si servissero solitamente di ingiurie, di canzonature o calunnie; egli, invece, manifestava loro un amore molto cordiale, per convincerli che era animato da nessun altro interesse che non fosse la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
            In una sezione del suo libro intitolato Dell’accomodamento, J.-P. Camus ha rilevato un certo numero di tratti del modello salesiano, che lo differenziavano rispetto ad altri missionari del Chiablese (probabilmente si trattava dei cappuccini) dall’abito lungo e dall’aspetto austero e rude, i quali apostrofavano la gente con le espressioni: «Cuori incirconcisi, ribelli alla luce, testardi, razza di vipere, membri corrotti, tizzoni d’inferno, figli del diavolo e delle tenebre». Per non spaventare la popolazione, Francesco e i suoi collaboratori avevano deciso di «mettersi in viaggio vestiti con mantelli corti e con stivali, convinti di ottenere in questo modo più facile accesso alle case della gente e di non dar negli occhi alle compagnie portando lunghe vesti per loro nuove».
            Sempre secondo Camus, fu denunciato al vescovo perché chiamava gli eretici col nome di «fratelli», benché si trattasse sempre di fratelli «erranti», che invitava alla riconciliazione e alla riunificazione. Agli occhi di Francesco, la fraternità coi protestanti si giustificava in base a tre motivi:

Essi, infatti, sono nostri fratelli in virtù del battesimo, valido nella loro Chiesa; lo sono, inoltre, quanto al sangue e alla carne, perché noi e loro siamo stirpe di Adamo. Ancora, siamo concittadini e quindi soggetti di uno stesso principe; tutto ciò non è in grado di costituire una qualche fraternità? In aggiunta, io li consideravo come figli della Chiesa quanto alla loro disposizione, perché si lasciano istruire, e come miei fratelli quanto alla speranza di una stessa chiamata alla salvezza; ed è appunto [col nome di fratelli] che anticamente si chiamavano i catecumeni prima di venir battezzati.

            Fratelli smarriti, fratelli ribelli, ma pur sempre fratelli. I missionari “d’urto” lo criticavano, poi, perché «guastava tutto pensando di fare del bene, perché assecondava l’orgoglio così naturale per l’eresia, perché addormentava quella gente nel loro errore, accomodandole il cuscino sotto il gomito; quando invece era meglio correggerli usando misericordia e giustizia, senza ungerne la testa con l’olio della lusinga». Da parte sua, Francesco, trattava la gente con rispetto, anzi con compassione, e «se gli altri miravano a farsi temere, egli desiderava farsi amare ed entrare negli spiriti per la porta del compiacimento».
            Anche se Camus sembra forzare i tratti opponendo i due metodi, è certo che il metodo salesiano aveva caratteristiche proprie. La tattica impiegata con un calvinista come Jean-Gaspard Deprez, lo dimostra all’evidenza: in occasione del loro primo incontro – racconterà –, «costui, avvicinandomi, mi domandò come andava il piccolo mondo, ossia il cuore, e se credevo di potermi salvare nella mia religione e come servivo Dio in essa». Nel corso di colloqui segreti avuti a Ginevra con Teodoro di Beza, successore di Calvino, userà lo stesso metodo fondato sul rispetto dell’interlocutore e sul dialogo cortese. Chi si arrabbiò fu solo Beza, che pronunciò “parole indegne di un filosofo”.
            Stando a ciò che riferisce Georges Rolland, che vide sovente Francesco all’opera con i protestanti, «non li spingeva mai […] al punto da farli indignare e da sentirsi ricoperti di vergogna e confusione»; ma «con la sua ordinaria dolcezza rispondeva loro in modo giudizioso, piano, senza acredine e disprezzo, e con questo mezzo ne conquistava i cuori e la loro benevolenza». Aggiunge anche che era «criticato sovente dai cattolici che lo seguivano in dette conferenze, perché trattava con troppa dolcezza gli avversari. Gli si diceva che doveva farli vergognare delle loro risposte impertinenti; al che, egli rispondeva che usare parole ingiuriose e di disprezzo non farebbe altro che scoraggiare e impedire questi poveri sviati, mentre occorreva cercare di salvarli e non di confonderli. E in cattedra, parlando di loro, diceva: “I nostri signori avversari”, e evitava il più possibile di pronunciare il nome di eretici o di ugonotti.
            A lungo andare, questo metodo si dimostrò efficace. L’iniziale ostilità della popolazione del Chiablese, che conosceva bene i termini ingiuriosi di «papista», «mago», «stregone», «idolatra» e «guercio» affibbiatigli, lasciò il posto poco alla volta al rispetto, all’ammirazione e all’amicizia. Confrontando questo metodo con quello degli altri missionari, Camus ha scritto che Francesco “prendeva più mosche con un cucchiaio di miele tanto a lui familiare, che tutti costoro con i loro barili di aceto”. Secondo Claude Marin, i primi che osarono avvicinarlo furono in fanciulli; “dava loro una carezza accompagnata da una dolce parola”. Un neoconvertito tentato di tornare indietro gli dirà: “Voi avete riconquistato la mia anima”.

Alla ricerca di una nuova forma di comunicazione
            All’inizio della sua missione nel Chiablese, Francesco di Sales si era trovato ben presto davanti a un muro. I capi del partito protestante avevano deciso di interdire ai loro correligionari ogni forma di partecipazione alle prediche del prete papista. Cosa fare in tali condizioni? Siccome gli abitanti di Thonon non volevano andare da lui, andrà lui da loro. Come? La nuova forma di comunicazione consisterà nel redigere e distribuire periodicamente dei volantini, facili da leggere a piacimento nelle loro case.
            L’impresa iniziò nel gennaio 1595. Stese i primi articoli, copiati a mano in attesa di poter utilizzare i servizi di una tipografia, e li diffuse poco alla volta. Poi inviava ogni settimana a Chambéry per stamparlo un nuovo volantino, che poi faceva distribuire nelle case di Thonon e nelle campagne. Indirizzandosi ai «signori di Thonon», Francesco di Sales spiegava loro il perché e il come di tale iniziativa:

Avendo dedicato un po’ di tempo a predicare la parola di Dio nella vostra città, senza essere stato ascoltato da voi se non raramente, poco alla volta e di nascosto, per non lasciare niente di intentato da parte mia, ho incominciato a mettere per iscritto alcune ragioni principali, che ho scelto perlopiù nelle mie prediche e trattato precedentemente a viva voce in difesa della fede della Chiesa.

            Distribuiti periodicamente nelle case, i volantini apparivano una specie di settimanale. Quale vantaggio pensava di poter ricavare da questa nuova forma di comunicazione? Nell’indirizzarsi ai «signori di Thonon», Francesco di Sales ha messo in bella luce le quattro «comodità» della comunicazione scritta:

            l. Porta l’informazione a casa. 2. Facilita il confronto pubblico e il dibattito delle opinioni con l’avversario. 3. È vero che “le parole pronunciate con la bocca sono vive, mentre scritte sulla carta sono morte”; tuttavia lo scritto “si lascia maneggiare, offre più tempo alla riflessione rispetto alla voce, e consente di pensarci su più profondamente”. 4. La comunicazione scritta è un mezzo efficace per combattere contro la disinformazione, perché fa conoscere con esattezza il pensiero dell’autore e consente di verificare se il pensiero di un personaggio corrisponde o no alla dottrina che pretende di difendere. Ciò che gli faceva dire: “Io non dico niente a Thonon se non quello che voglio si sappia ad Annecy e a Roma, qualora ce ne sia bisogno”.
            Di fatto, riteneva che suo primo dovere era lottare contro le deformazioni della dottrina della Chiesa, operate dagli autori protestanti. Lo spiega con precisione J.-P. Camus:

Uno dei loro più grandi mali sta nel fatto che i loro ministri contraffanno le nostre credenze, sicché la loro presentazione risulta tutt’altra cosa da quella che è in realtà: ad esempio, che noi non diamo alcuna importanza alla sacra Scrittura; che adoriamo il Papa; che consideriamo i santi come dei; che diamo più importanza alla santa Vergine che a Gesù Cristo; che adoriamo le immagini con un’adorazione latreutica e attribuiamo loro un’aura divina; che le anime del purgatorio sono nello stesso stato e nella medesima disperazione di quelle dell’inferno; che adoriamo il pane dell’Eucaristia; che priviamo il popolo dal partecipare al sangue di Gesù Cristo; che ce ne infischiamo dei meriti di Gesù Cristo, attribuendo la salvezza unicamente ai meriti delle nostre buone azioni; che la confessione auricolare è un tormento dello spirito; e simili invettive, che rendono la nostra religione odiosa e screditata tra queste popolazioni, le quali vengono così informate male e con inganno.

            Due atteggiamenti caratterizzano il personale procedimento di Francesco di Sales «giornalista»: da un lato, il dovere di informare i lettori con esattezza, spiegando loro le ragioni della posizione cattolica, in breve, essere loro utile; dall’altro, un grande desiderio di manifestare loro il proprio affetto. Indirizzandosi ai propri lettori, dichiarava subito: «Non leggerete mai uno scritto diretto a voi da un uomo tanto affezionato al vostro bene spirituale come sono io».
            Accanto alla comunicazione scritta, utilizzerà incidentalmente altre forme di comunicazione, in particolare il teatro. In occasione della grande manifestazione cattolica ad Annemasse nel settembre 1597, che vide il concorso di una folla di parecchie migliaia di persone, venne recitato un dramma biblico intitolato Il sacrificio di Abramo, nel quale il prevosto impersonava Dio Padre. Il testo composto in versi non era opera sua; fu però lui a suggerire il tema al cugino, il canonico di Sales, e al fratello Louis, che era ritenuto “oltremodo versato nelle lettere umane”.

Verità e carità
            L’autore del libro Lo spirito del beato Francesco di Sales ha colto bene, così pare, il cuore del messaggio salesiano nella sua forma definitiva, quando ha intitolato l’inizio della sua opera: Della vera carità, citando questa “preziosa e notevole sentenza” del suo eroe: “La verità che non è caritatevole sgorga da una carità che non è vera”.
            Per Francesco di Sales, spiega il Camus, ogni correzione deve avere per scopo il bene di colui che si intende correggere (il che può provocare una momentanea sofferenza) e dovrà essere fatta con dolcezza e pazienza. Di più, colui che corregge deve essere pronto a soffrire ingiustizie e ingratitudini da parte di colui che riceve la correzione.
            Dell’esperienza vissuta da Francesco di Sales nel Chiablese si ricorderà che l’indispensabile alleanza della verità con la carità non è sempre facile da tradurre in pratica, che esistono parecchie maniere di metterla in opera, ma che è imprescindibile per chi è animato da una vera preoccupazione per la correzione e l’educazione dei “figli ribelli”.




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Inizi di una nuova tappa
            A partire da questo momento tutto correrà veloce. Francesco diventava un nuovo uomo: «Lui, prima perplesso, inquieto, malinconico – così A. Ravier –, ora prende delle decisioni senza indugio, non tira più per le lunghe le sue imprese, vi si butta a capofitto».
            Subito, il 10 maggio, veste l’abito ecclesiastico. Il giorno dopo si presenta al vicario della diocesi. Il 12 maggio prende possesso del suo incarico nella cattedrale d’Annecy e fa visita al vescovo, mons. Claude de Granier. Il 13 maggio presiede per la prima volta la recita dell’ufficio divino in cattedrale. Poi sistema i propri affari temporali: abbandona il titolo di signore di Villaroget e i diritti di primogenito; rinuncia alla magistratura cui il padre l’aveva destinato. Dal 18 maggio al 7 giugno, si ritira col suo amico e confessore, Amé Bouvard, al castello di Sales per prepararsi agli ordini. Per un’ultima volta è assalito da dubbi e tentazioni; ne esce vittorioso, convinto che Dio gli si era manifestato «molto misericordioso» durante tali esercizi spirituali. Prepara quindi l’esame canonico in vista dell’ammissione agli ordini.
            Invitato per la prima volta dal vescovo a predicare il giorno di Pentecoste, che quell’anno cadeva il 6 giugno, preparò molto accuratamente la sua prima predica per una festa nella quale «non soltanto gli anziani ma anche i giovani dovrebbero predicare»; ma l’imprevisto arrivo di un altro predicatore gli impedì di pronunciarla. Il 9 giugno, mons. de Granier gli conferisce i quattro ordini minori e due giorni dopo lo promuove a suddiacono.
            Incomincia quindi per lui un’intensa attività pastorale. Il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista, predicò per la prima volta in pubblico con grande coraggio, ma non senza aver provato prima una certa tremarella, che lo costrinse a stendersi per qualche istante sul suo letto, prima di salire sul pulpito. Da quel momento in poi, le prediche andranno moltiplicandosi.
            Un’iniziativa ardita per un suddiacono fu la fondazione ad Annecy di un’associazione destinata a riunire non solamente degli ecclesiastici, ma soprattutto dei laici, uomini e donne, sotto il titolo di «Confraternita dei penitenti della Santa Croce». Egli stesso ne redasse gli statuti, che il vescovo confermò e approvò. Costituita il 1° settembre 1593, iniziò le sue attività il giorno 14 dello stesso mese. Gli appartenenti furono, fin dall’inizio, numerosi e, tra i primi iscritti, Francesco ebbe la gioia di annoverare suo padre e qualche tempo dopo il fratello Louis. Gli statuti prevedevano non soltanto celebrazioni, preghiere e processioni, ma anche visite ai malati e ai prigionieri. All’inizio non mancò qualche malcontento specialmente tra i religiosi, ma ci si rese ben presto conto che la testimonianza degli associati era convincente.
Francesco venne ordinato diacono il 18 settembre e prete tre mesi più tardi, il 18 dicembre 1593. Al termine di tre giorni di preparazione spirituale, celebrò la sua prima messa il 21 dicembre e predicò a Natale. Qualche tempo dopo ebbe la gioia di battezzare la sorellina Jeanne, ultima nata della signora di Boisy. Il suo insediamento ufficiale nella cattedrale avvenne sul finire del mese di dicembre.
            Ebbe un grande risalto la sua «arringa» in latino, che impressionò il vescovo e gli altri membri del capitolo, tanto più profondamente in quanto il tema affrontato era scottante: ricuperare l’antica sede della diocesi, che era Ginevra. Tutti si trovarono d’accordo: occorreva riconquistare Ginevra, la città di Calvino che aveva messo fuori legge il cattolicesimo. Si! Ma come? Con quali armi? E prima di tutto qual era la causa di tale deplorevole situazione? La risposta del prevosto non dovette piacere a tutti: «Sono gli esempi dei preti perversi, le azioni, le parole, in sostanza, l’iniquità di tutti, ma in particolare degli ecclesiastici». Seguendo l’esempio dei profeti, Francesco di Sales non analizzava le cause politiche, sociali o ideologiche della riforma protestante; non predicava più la guerra contro gli eretici, ma la conversione di tutti. La fine dell’esilio non si otterrà se non con la penitenza e la preghiera, in una parola, con la carità:

È per mezzo della carità che dobbiamo smantellare le mura di Ginevra, per mezzo della carità invaderla, per mezzo della carità recuperarla. […] Non vi propongo né il ferro, né quella polvere, il cui odore e sapore ricordano la fornace infernale […]. È con la fame e con la sete patite da noi e non dai nostri avversari che dobbiamo sconfiggere il nemico.

            Charles-Auguste afferma che, al termine di questo discorso, Francesco «discese dal suo ambone tra gli applausi di tutta l’assemblea», ma si può supporre che certi canonici rimasero irritati dall’arringa di questo giovane prevosto.
            Questi avrebbe potuto contentarsi di «far regnare la disciplina dei canonici e l’esatta osservanza degli statuti», ed invece si lanciò in un lavoro pastorale sempre più intenso: confessioni, predicazioni ad Annecy e nei paesi, visite ai malati e ai prigionieri. In caso di bisogno, impiegava le sue conoscenze giuridiche a beneficio degli altri, appianava contese e discuteva con gli ugonotti. Dal gennaio 1594 fino all’inizio della sua missione nel Chiablese nel mese di settembre, la sua attività di predicatore dovette conoscere un inizio promettente. Come lo dimostrano le numerose citazioni, le sue fonti sono la Bibbia, i Padri e i teologi, ed anche autori pagani quali Aristotele, Plinio e Virgilio, di cui non temeva di citare il celebre Jovis omnia plena. Suo padre non era abituato a uno zelo cosi travolgente e a predicazioni tanto frequenti. Un giorno – racconterà Francesco all’amico Jean-Pierre Camus – mi prese in disparte e mi disse:

Prevosto, tu predichi troppo spesso. Odo persino nei giorni feriali suonare la campana per la predica e mi dicono: È il prevosto! il prevosto! Ai miei tempi non era così, le prediche erano assai più rare; però, che prediche! Dio la sa, erano dotte, ben studiate; erano ricche di racconti meravigliosi, una sola predica conteneva più citazioni in latino e in greco di dieci delle tue: tutti restavano contenti ed edificati, si correva in massa ad ascoltarle; avreste sentito dire che si andava a raccogliere la manna. Ora tu rendi questa pratica così comune, che non gli facciamo più caso e non si ha più tanta stima di te.

            Francesco non era di questo avviso: per lui, «biasimare un lavoratore o un vignaiolo perché coltiva troppo bene la sua terra, voleva dire fargli dei veri elogi».

Gli inizi dell’amicizia con Antoine Favre
            Gli umanisti avevano il gusto dell’amicizia, spazio propizio per lo scambio epistolare nel quale uno poteva manifestare il proprio affetto con espressioni appropriate, attinte all’antichità classica. Francesco di Sales aveva sicuramente letto il De amicitia di Cicerone. L’espressione con cui Orazio chiamava Virgilio «la metà della mia anima» (Et serves animae dimidium meae) gli ritornava alla memoria.
            Forse ricordava anche l’amicizia che univa Montaigne e Étienne de La Boétie: «Noi eravamo in tutto la metà l’uno dell’altro», scriveva l’autore dei Saggi, «essendo un’anima sola in due corpi, secondo la felice definizione di Aristotele»; «se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non lo si può esprimere se non rispondendo: Perché era lui e perché ero io». Un vero amico è un tesoro, afferma il proverbio, e Francesco di Sales ha potuto sperimentare che esso rispondeva a verità nel momento in cui la sua vita prendeva un orientamento definitivo, grazie all’amicizia con Antoine Favre.
            Possediamo la prima lettera che il senatore Favre gli indirizzò il 30 luglio 1593 da Chambéry. Con allusioni al «divino Platone» e in un latino elegante e ricercato, gli manifestava il suo desiderio: quello, scriveva, «non solamente di amarvi e di onorarvi, ma anche di contrarre un legame vincolante per sempre». Favre aveva allora trentacinque anni, era senatore da cinque anni, e Francesco aveva dieci anni di meno. Si conoscevano già per sentito dire, e Francesco aveva anche tentato di entrare in contatto con lui. Ricevuta detta lettera, il giovane prevosto di Sales esultò di gioia:

Ho ricevuto, uomo illustrissimo e Senatore integerrimo, la vostra lettera, pegno preziosissimo della vostra benevolenza verso di me, la quale, anche perché non era attesa, m’ha colmato di tanta gioia e ammirazione, che non riesco a esprimere i miei sentimenti.

            Al di là della palese retorica, favorita dall’uso del latino, ciò costituì l’inizio di un’amicizia che durò fino alla morte. Alla «provocazione» dell’«illustrissimo e integerrimo senatore» che assomigliava a una sfida a duello, Francesco rispose con espressioni adatte al caso: se l’amico è sceso per primo nella pacifica arena dell’amicizia, si vedrà chi vi resterà per ultimo, perché io – diceva Francesco – sono «un combattente che, per indole, è ardentissimo in questo genere di lotte». Questo primo scambio epistolare farà nascere tra i due il desiderio di incontrarsi: in effetti, scrive, «che l’ammirazione susciti il desiderio di conoscere, è una massima che s’apprende fin dalle prime pagine della filosofia». Le lettere si susseguiranno rapidamente.
            Alla fine di ottobre del 1593 Francesco gli risponde per ringraziarlo di avergli procurato un’altra amicizia, quella di François Girard. Ha letto e riletto le lettere di Favre «più di dieci volte». Il 30 novembre seguente, Favre insiste perché accetti la dignità di senatore, ma su questo terreno non sarà seguito. All’inizio di dicembre Francesco gli annuncia che la sua «carissima madre» ha dato alla luce la sua tredicesima creatura. Verso la fine di dicembre lo rende partecipe della sua prossima ordinazione sacerdotale, «insigne onore e bene eccellente», che farà di lui un altro uomo, nonostante i sentimenti di timore che prova dentro di sé. La vigilia di Natale del 1593 ebbe luogo un incontro ad Annecy, dove qualche giorno dopo Favre assistette probabilmente all’insediamento del giovane prevosto. All’inizio del 1594, la febbre ha costretto Francesco a mettersi a letto, e l’amico l’ha confortato a tal punto da fargli dire che la tua febbre è divenuta la «nostra» febbre. Nel marzo del 1594 inizia a chiamarlo «fratello», mentre la sposa di Favre sarà per Francesco la «mia dolcissima sorella».
            Tale amicizia si rivela feconda e fruttuosa, perché il 29 maggio 1594 Favre costituì, a sua volta, la confraternita della Santa Croce a Chambéry; e il martedì di Pentecoste i due amici organizzarono un grande pellegrinaggio comune a Aix. Nel mese di giugno Favre con la sua sposa, chiamata da Francesco «mia dolcissima sorella, vostra sposa illustrissima e amatissima», e con i loro «nobili figli» era atteso con impazienza ad Annecy. Antoine Favre aveva allora cinque figli e una figlia. In agosto scriverà una lettera ai figli di Favre per ringraziarli del loro scritto, per incoraggiarli a seguire gli esempi del loro padre e per pregarli di trasmettere alla loro madre i suoi sentimenti di «pietà filiale». Il 2 settembre 1594, in un biglietto scritto in fretta, Favre gli annunciava una prossima visita «il più presto possibile» e terminava con ripetuti saluti non soltanto all’«amato fratello», ma anche «a quelli di Sales e a tutti i salesiani».
            C’è stato chi non si è trattenuto dal criticare queste lettere piuttosto magniloquenti, piene di complimenti esagerati e di periodi latini troppo ricercati. Come il suo corrispondente, il prevosto di Sales, inanellando il suo latino con riferimenti alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, si impegnava soprattutto a citare autori dell’antichità classica. Il modello ciceroniano e l’arte epistolare non gli sfuggono mai, e, d’altronde l’amico Favre qualifica le lettere di Francesco non soltanto come «ciceroniane», bensì come «ateniesi». Non stupisce che in una delle proprie lettere a Antoine Favre si trovi la celebre citazione di Terenzio: «Nulla di ciò che è umano ci è estraneo», un adagio divenuto una professione di fede presso gli umanisti.
            In conclusione, Francesco ha considerato questa amicizia come un dono del cielo, descrivendola come un’«amicizia fraterna che la divina Bontà, forgiatrice della natura, ha intessuto in maniera così viva e perfetta tra lui e me, nonostante fossimo diversi per nascita e vocazione, e diseguali quanto a doni e a grazie che io possedevo solo in lui». Durante gli anni difficili che stavano per sopraggiungere, Antoine Favre sarà sempre il suo confidente e il suo migliore sostegno.

Una missione pericolosa
            Nel 1594, il duca di Savoia, Carlo Emanuele I (1580-1630), aveva appena recuperato il Chiablese, regione vicina a Ginevra, situata a sud del lago Lemano, da tempo contesa tra i vicini. La storia politico-religiosa del Chiablese era complicata, come dimostra una lettera scritta in un italiano approssimativo nel febbraio del 1596 e destinata al nunzio di Torino:

Fu occupata dai Bernesi una parte di questa diocesi di Geneva, fa sessant’anni, [e] rimase eretica; la quale essendo ridotta in pieno potere di Sua Altezza Serenissima questi anni passati, per la guerra, [e riunita al] suo antico patrimonio, molti degli [abitanti,] mossi piuttosto dal rimbombo degli archibugi che dalle prediche che ivi si facevano per ordine di Monsignor Vescovo, si ridussero alla fede nel seno della santa madre Chiesa. Ma poi, essendo infestate quelle contrade dalle incursioni dei ginevrini e francesi, ritornarono nel fango.

            Il duca, intenzionato a ricondurre al cattolicesimo quella popolazione di circa venticinquemila anime, si rivolse al vescovo perché facesse quanto era necessario fare. Già nel 1589 questi aveva inviato cinquanta parroci a riprendere possesso delle parrocchie, ma furono tosto cacciati indietro dai calvinisti. Questa volta occorreva procedere in maniera diversa e, precisamente, inviare colà due o tre missionari molto colti e in grado di far fronte alla tempesta che non sarebbe mancata dall’abbattersi sui «papisti». Nel corso di un’assemblea del clero, il vescovo espose il progetto e fece appello a dei volontari. Nessuno fiatava. Allorché egli volse gli occhi verso il prevosto di Sales, questi gli disse: «Monsignore, se crede che sia capace e se me lo comanda, sono pronto a obbedire e vi andrò volentieri».
            Sapeva bene ciò che l’attendeva e che sarebbe stato accolto con «ingiurie sulle labbra o pietre in mano». Per Francesco, l’opposizione di suo padre a tale missione (dannosa per la vita e ancor più per l’onore della famiglia) non appariva più un ostacolo, perché riconosceva nell’ordine del vescovo una volontà superiore. Alle obiezioni paterne riguardanti i pericoli assai reali della missione, rispose con fierezza:

Dio, mio Padre, provvederà: è lui che aiuta i forti; occorre solo avere coraggio. […] E che ne sarebbe se ci inviassero in India o in Inghilterra? Non ci si dovrebbe andare? […] È vero, è un’impresa laboriosa, e nessuno oserebbe negarlo; ma perché portiamo queste vesti se rifuggiamo dal portarne il peso?

            Si preparò alla missione al castello di Sales all’inizio del mese di settembre 1594, in un clima pesante: «Suo padre non volle vederlo, perché era totalmente contrario all’impegno apostolico del figlio e l’aveva ostacolato con tutti gli sforzi immaginabili, senza essere stato in grado di scalfirne la generosa decisione. L’ultima sera, disse addio in segreto alla sua virtuosa madre».
            Il 14 settembre 1594 giungeva nel Chiablese in compagnia del cugino Louis de Sales. Quattro giorni dopo suo padre gli inviò un servitore per comunicargli di ritornare, «ma il santo giovane [in risposta] rimandò indietro il suo valletto Georges Rolland e il proprio cavallo, e persuase anche il cugino a rientrare per tranquillizzare la famiglia. Il cugino gli obbedì, anche se successivamente ritornò a trovarlo. E il nostro santo ha raccontato […] che in tutta la sua vita non aveva mai provato una così grande consolazione interiore, né tanto coraggio nel servizio di Dio e delle anime come quel 18 settembre 1594, giorno in cui si trovò senza compagno, senza valletto, senza equipaggio e costretto a girare qua e là, da solo, povero e a piedi, impegnato a predicare il Regno di Dio».
            Per dissuaderlo dal compiere tale rischiosa missione, suo padre gli tagliò i viveri. Secondo Pierre Magnin, «il signor padre di Francesco, come ebbi modo di apprenderlo dalle labbra del santo uomo, non voleva assisterlo con quella abbondanza che sarebbe stata necessaria, desideroso di distoglierlo dal tale impresa iniziata dal figlio contro il suo parere, ben consapevole del palese pericolo cui esponeva la vita. E una volta lo lasciò partire da Sales per ritornare a Thonon con un solo scudo, sicché [Francesco] fu costretto […] a fare la strada a piedi, sovente mal calzato e mal vestito, esposto a un rigido freddo, al vento, alla pioggia e alla neve insopportabile in questo paese».
            Dopo un’aggressione di cui fu vittima con Georges Rolland, il signore di Boisy tentò di nuovo di distoglierlo dall’impresa, ma anche questa volta senza successo. Francesco tentò di far vibrare le corde dell’orgoglio paterno scrivendogli con encomiabile coraggio queste righe:

Se Rolland fosse vostro figlio, mentre non è che un vostro valletto, non avrebbe avuto così poco coraggio da indietreggiare per uno scontro modesto come quello che gli è toccato, e non ne parlerebbe come d’una grande battaglia. Nessuno può dubitare della cattiva volontà dei nostri avversari; ma voi ci fate un torto quando dubitate del nostro coraggio. […] Vi scongiuro quindi, Padre mio, di non attribuire la mia perseveranza alla disobbedienza e di considerarmi sempre come il vostro figlio rispettosissimo.

            Un illuminante rilievo tramandatoci da Albert de Genève aiuta a comprendere meglio ciò che alla fine convinse il padre a cessare di opporsi al figlio. Il nonno di questo testimone al processo di beatificazione, amico del signor di Boisy, aveva detto un giorno al padre di Francesco che doveva sentirsi «assai fortunato di avere un figlio così caro a Dio, e che lo riteneva troppo saggio e timorato di Dio per opporsi alla santa volontà [del figlio], tesa a realizzare un disegno in cui il santo nome di Dio sarebbe stato molto glorificato, la Chiesa esaltata e il casato di Sales ne avrebbe ricevuto una gloria maggiore di tutti gli altri titoli, per quanto illustri fossero».

Il tempo delle responsabilità
            Prevosto della cattedrale nel 1593 all’età di soli venticinque anni, capo della missione nel Chiablese l’anno successivo, Francesco di Sales poteva contare su una formazione eccezionalmente ricca e armoniosa: educazione familiare curata, formazione morale e religiosa di qualità, studi letterari, filosofici, teologici, scientifici e giuridici di alto livello. È vero, aveva beneficiato di possibilità interdette alla maggioranza dei suoi contemporanei, ma in lui erano fuori dall’ordinario lo sforzo personale, la generosa risposta agli appelli avuti e la tenacia di cui diede prova nel perseguire la sua vocazione, senza parlare della spiccata spiritualità che ispirava il suo comportamento.
            Ormai diventerà un uomo pubblico, con incarichi di responsabilità sempre più ampi, che gli consentiranno di mettere a profitto degli altri i propri doni di natura e di grazia. Preconizzato a divenire vescovo coadiutore di Ginevra già nel 1596, nominato vescovo nel 1599, diventerà vescovo di Ginevra alla morte del predecessore nel 1602. Uomo di Chiesa prima di tutto, ma assai immerso nella vita della società, lo vedremo preoccuparsi non solo dell’amministrazione della diocesi, ma anche della formazione del popolo affidato al suo ministero pastorale.




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (1/2)

 

            Dopo dieci anni di studi a Parigi e tre anni all’Università di Padova, Francesco di Sales ritornò in Savoia poco prima dell’inizio della primavera del 1592. Al cugino Louis confidò che era «sempre più deciso di abbracciare lo stato ecclesiastico, nonostante la resistenza dei suoi signori genitori». Tuttavia, accettò di andare a Chambéry per iscriversi al foro del Senato di Savoia.
            In verità, era in gioco l’intero orientamento della sua vita. Da una parte, infatti, c’era l’autorità del padre che gli comandava, essendo Francesco il figlio maggiore, di prendere in considerazione una carriera nel mondo; dall’altra, c’erano le sue inclinazioni e la crescente consapevolezza di dover seguire una vocazione particolare: «essere di Chiesa». Se è vero che «i padri fanno tutto per il bene dei loro figli», è altrettanto vero che le vedute degli uni e degli altri non sempre coincidono. Suo padre, il signor de Boisy sognava per Francesco una magnifica carriera: senatore del ducato e (perché no?) presidente del sovrano Senato di Savoia. Francesco di Sales scriverà un giorno che i padri «non sono mai soddisfatti e non sanno mai smettere di parlare ai loro figli dei mezzi che li possono rendere più grandi».
            Ora, per lui l’ubbidienza era un imperativo fondamentale e ciò che più tardi dirà a Filotea era una regola di vita che certamente seguiva fin dall’infanzia: «Dovete umilmente obbedire ai vostri superiori ecclesiastici, come il papa e il vescovo, il parroco e i loro rappresentanti; dovete poi obbedire ai vostri superiori politici, cioè il vostro principe e i magistrati da lui istituiti nel vostro paese; dovete infine obbedire ai superiori di casa vostra, cioè vostro padre, vostra madre». Il problema nasceva dall’impossibilità di conciliare le differenti obbedienze. Tra la volontà di suo padre e la propria (che percepiva sempre più essere quella di Dio) l’opposizione diventerà inevitabile. Seguiamo le tappe della maturazione vocazionale di un «dolce ribelle».

Sguardo retrospettivo
            Per comprendere il dramma vissuto da Francesco occorre rivisitare il passato, perché tale dramma segnò l’intera sua giovinezza per giungere a soluzione nel 1593. Dall’età di circa dieci anni, Francesco coltivava in sé un proprio progetto di vita. Ne fanno fede non pochi avvenimenti da lui vissuti o provocati. A undici anni, prima di partire per Parigi, aveva chiesto a suo padre il permesso di ricevere la tonsura. Detta cerimonia, durante la quale il vescovo collocava il candidato sul primo gradino della carriera ecclesiastica, ebbe effettivamente luogo il 20 settembre 1578 Clermont-en-Genevois. Suo padre, che in un primo momento si era opposto, alla fine cedette, perché riteneva si trattasse unicamente di un capriccio infantile. Nel corso dell’esame preliminare, stupito per l’esattezza delle risposte e la modestia del candidato, il vescovo gli avrebbe detto: «Ragazzo mio, coraggio, sarai un buon servitore di Dio». Al momento di sacrificare i suoi biondi capelli, Francesco confessò di aver provato un certo dispiacere. Tuttavia l’impegno preso gli resterà sempre fisso nella memoria. Confiderà, infatti, un giorno a madre Angélique Arnauld: «Da dodici anni in poi, sono stato talmente risoluto di essere di Chiesa, che neppure per un regno avrei cambiato la mia intenzione».
            Quando suo padre, che non era insensibile, decise di inviarlo a Parigi per compiervi gli studi, dovette provare nell’animo sentimenti contradditori, descritti nel Teotimo: «Un padre quando manda il figlio a corte o agli studi – scriveva –, non per questo non piange salutandolo, dimostrando che, benché lo voglia secondo la parte superiore, per il bene del figlio, tuttavia, quella partenza causa dispiacere alla parte inferiore, per cui non vorrebbe lasciarlo partire». Si richiamino alla memoria anche la scelta del collegio dei gesuiti a Parigi, preferito a quello di Navarre, il comportamento di Francesco durante la sua formazione, l’influsso della direzione spirituale del padre Possevino a Padova e tutti gli altri fattori che hanno potuto giocare a favore del consolidarsi della vocazione ecclesiastica.
            Ma davanti a lui si ergeva un roccioso ostacolo: la volontà paterna, cui doveva non soltanto umile sottomissione, secondo il costume dell’epoca, ma anche qualcosa di più e di meglio, perché «l’amore e il rispetto che un figlio porta al padre gli fanno decidere non soltanto di vivere secondo i suoi comandi, ma anche secondo i desideri e le preferenze che esprime». A Parigi, verso la fine del suo soggiorno, fu profondamente impressionato dalla decisione del duca di Joyeuse, antico favorito di Enrico III, che si era fatto cappuccino in seguito alla morte della moglie. Secondo il suo amico Jean Pasquelet, «se non avesse avuto paura di turbare l’animo del signor de Boisy, suo padre, essendone il primogenito, si sarebbe fatto senza fallo cappuccino».
            Studiò per ubbidienza, ma anche per rendersi utile al prossimo. «Ed è ancora vero –ha testimoniato il padre de Quoex – quello che mi ha detto mentre era a Parigi e a Padova, che cioè era interessato non tanto a ciò che stava studiando, ma piuttosto a pensare se un giorno avrebbe potuto servire degnamente Dio e aiutare il prossimo mediante gli studi che stava facendo». Nel 1620 confidò a François de Ronis: «Mentre ero a Padova, studiai il diritto per piacere a mio padre, e per piacere a me stesso studiai teologia». Parimenti, François Bochut dichiarò che «allorché venne inviato a Padova a studiare legge per far cosa grata ai genitori, la sua inclinazione lo portava ad abbracciare lo stato ecclesiastico», e che colà «compì la maggior parte dei suoi studi teologici, dedicandovi la maggior parte del suo tempo». Quest’ultima affermazione pare chiaramente esagerata: Francesco di Sales dovette certamente consacrare la parte più importante del suo tempo e delle sue forze agli studi giuridici che rientravano nel suo «dovere di stato». Quanto a suo padre, Jean-Pierre Camus riferisce questa confidenza significativa: «Avevo – mi diceva – il migliore padre del mondo; ma era un brav’uomo che aveva trascorso gran parte dei suoi anni a corte e in guerra, per cui ne conosceva le massime meglio di quelle della teologia».
            Fu probabilmente il padre Possevino colui che divenne il suo miglior sostegno nell’orientarne la vita. Secondo il suo nipote Charles-Auguste, Possevino gli avrebbe detto: «Continui a pensare alle cose divine e a studiare teologia», aggiungendo delicatamente: «Mi creda, il suo spirito non è adatto agli affanni del foro e i suoi occhi non sono fatti per sopportarne il polverone; la strada del secolo è troppo scivolosa, c’è il pericolo di perdersi. Non c’è forse più gloria nell’annunciare la parola del nostro buon Dio a migliaia di esseri umani, dalle cattedre delle chiese, che a scaldarsi le mani battendo i pugni sui banchi dei procuratori per risolverne le controversie»? Fu indubbiamente l’attrattiva per questo ideale a consentirgli di resistere a certe manovre e a farse di cattivo gusto di alcuni compagni che non erano certo modelli di virtù.

Un discernimento e una scelta molto difficili
            Nel viaggio di ritorno da Padova, Francesco di Sales portava con sé una lettera del suo antico professore Panciroli diretta al padre, in cui lo si consigliava di inviare il figlio al Senato. Il signor de Boisy non desiderava altro, e a tale scopo aveva preparato per Francesco una ricca biblioteca di diritto, gli procurò una terra e un titolo, destinandolo ad essere il signore di Villaroget. Infine, gli chiese di incontrare Françoise Suchet, una adolescente di quattordici anni, «figlia unica e molto bella», precisa Charles-Auguste, per avviare «accordi preliminari di matrimonio». Francesco aveva venticinque anni, un’età da maggiorenne nella mentalità dell’epoca e adatta per convolare a nozze. La sua scelta era ormai fatta da lungo tempo, ma non volle creare rotture, preferendo preparare il padre in attesa del momento favorevole.
            Incontrerà a più riprese la signorina, alla quale faceva però comprendere di avere altre intenzioni. «Per compiacere suo padre – dichiarò François Favre al processo di beatificazione – fece visita alla citata signorina, di cui ammirava le virtù», ma «non poté essere convinto ad accettare tale matrimonio, nonostante tutti gli sforzi compiuti al riguardo da suo padre». Francesco rivelò parimenti a Amé Bouvard, suo confidente: «Per obbedire a mio padre vidi la signorina alla quale intendeva di cuore destinarmi, ne ammirai la virtù», aggiungendo, schietto e convinto: «Credimi, ti dico la verità: l’unico mio volere è sempre stato quello di abbracciare la vita ecclesiastica». Claude de Blonay affermava di aver udito dalle stesse labbra di Francesco «che aveva rifiutato tale bella alleanza, non già per disprezzo del matrimonio, del quale aveva grande rispetto in quanto sacramento, quanto piuttosto per un certo ardore, intimo e spirituale, che lo inclinava a porsi totalmente al servizio della Chiesa e a essere tutto di Dio, con un cuore indiviso».
            Nel frattempo, il 24 novembre 1592, nel corso di una seduta in cui diede lodevole prova delle sue capacità, era stato accolto come avvocato nel foro di Chambéry. Di ritorno da Chambéry, scorse un segno celeste in un incidente riferito da Michel Favre: «Il cavallo si accasciò sotto di lui e la spada uscita dal fodero si venne a trovare per terra con la punta rivolta contro di lui, [sicché] da ciò trasse un’ulteriore prova convincente che Dio lo voleva al suo servizio, assieme alla speranza che gliene avrebbe fornito i mezzi». Secondo Charles-Auguste, la spada «uscita dalla guaina aveva tracciato una specie di croce». Ciò che pare sicuro è che la prospettiva di una professione da avvocato non doveva entusiasmarlo, se si presta fede a quanto scriverà successivamente:

[Secondo alcuni,] quando il camaleonte si gonfia, cambia di colore; ciò avviene per la paura e l’apprensione, dicono altri. Democrito afferma che la lingua strappatagli, lui vivente, ha fatto vincere i processi a chi l’aveva in bocca; ciò si applica bene alla lingua degli avvocati, che sono dei veri camaleonti.

            Alcune settimane più tardi gli venne fatta giungere da Torino la patente di senatore. Era un onore straordinario per la sua età, perché se «gli avvocati discutono nel foro con molte parole sui fatti e sui diritti delle parti», «il Parlamento o Senato risolve con un decreto dall’alto tutte le difficoltà». Francesco non volle accettare tale alto incarico, che poteva sconvolgere nuovamente tutti i dati del problema. Nonostante lo stupore scandalizzato del padre e le pressioni dei migliori amici, mantenne rigorosamente il suo rifiuto. E anche quando gli si dimostrò che il cumulo di incarichi civili ed ecclesiastici era ammesso, rispose che «non bisognava mescolare le cose sacre con quelle profane».
            Venne infine il giorno in cui, per un felice concorso di circostanze, gli fu possibile sbrogliare una situazione complicata, la quale poteva degenerare in una dolorosa rottura con la famiglia. Dopo qualche mese, e precisamente dopo la morte del prevosto della cattedrale nell’ottobre del 1592, alcuni confidenti avevano presentato a Roma, a sua insaputa, una domanda per ottenergli tale incarico, che faceva del suo titolare il primo personaggio della diocesi dopo il vescovo. Il 7 maggio 1593 arrivò la nomina romana. Due giorni dopo ebbe luogo l’incontro che stava per segnare la svolta della sua vita. Con l’appoggio della madre, Francesco rivolse al suo vecchio padre la richiesta che non aveva mai osato formulargli: «Abbiate la cortesia, padre mio, […] di permettermi di essere di Chiesa».
            Durissimo fu il colpo per il signor de Boisy, che vedeva d’un tratto crollare i suoi piani. Rimase «sconvolto» perché non si attendeva tale richiesta. Charles-Auguste aggiunge che «la sua signora non lo fu meno», essendo stata presente alla scena. Per il padre, il desiderio del figlio di essere prete era un «umore» che qualcuno gli aveva messo in testa o che gli aveva «consigliato».

Speravo, gli disse, che saresti stato il bastone della mia vecchiaia, ed invece ti allontani prima del tempo da me. Stai attento a ciò che farai. Forse hai ancora bisogno di maturare la decisione. Hai la testa fatta per una berretta più maestosa. Hai dedicato tanti anni allo studio della legge: la giurisprudenza non ti servirà a niente sotto una sottana da prete. Hai dei fratelli ai quali devi fare da padre quando mancherò loro.

            Per Francesco era un’esigenza interiore, una «vocazione» che impegnava tutta la sua persona e l’intera sua vita. Il padre aveva rispetto per il sacerdozio, ma lo reputava ancora una semplice funzione, un mestiere. Ora la riforma cattolica mirava a conferire al sacerdozio una rinnovata configurazione, più alta e più esigente, a considerarlo cioè una chiamata di Dio sancita dalla Chiesa. Al dovere di rispondere a tale appello divino corrispondeva forse anche un nuovo diritto della persona umana, che Francesco difese di fronte alla decisione «unilaterale» del padre. Questi, dopo aver esposto tutte le sue buone ragioni contrarie a tale progetto, sapendo che il figlio avrebbe occupato un posto molto onorevole, finì per cedere: «Per Dio, fai ciò che credi».
            In un’opera apparsa nel 1669, Nicolas de Hauteville commenterà questo episodio paragonando il dramma del signor de Boisy a quello di Abramo, al quale Dio aveva comandato di sacrificargli il figlio. Ma con questa differenza, che era stato Francesco a imporre al padre il sacrificio. In effetti, scriveva l’antico cronista, «l’intera adolescenza e giovinezza [di Francesco] fu un tempo di gioia, di speranza e di consolazione assai gratificante per il suo buon padre, ma alla fin fine occorre confessare che questo [nuovo] Isacco fu per lui un ragazzo causa di preoccupazioni, di amarezze e di dolore». E aggiungeva che «la lotta che si scatenò dentro di lui, lo fece ammalare gravemente, trovando duro consentire a questo amato figlio di sposare un breviario al posto di una signorina avvenente e ricca ereditiera di un nobilissimo e antichissimo casato della Savoia».

(continua)




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Medicina
            Accanto alle facoltà di diritto e di teologia, a Padova gli studi di medicina e di botanica godevano di un prestigio straordinario, soprattutto dopo che il medico fiammingo Andrea Vesalio, padre dell’anatomia moderna, aveva inferto un colpo mortale alle vecchie teorie d’Ippocrate e di Galieno, grazie alla pratica della dissezione del corpo umano, che scandalizzava le autorità stabilite. Vesalio aveva pubblicato nel 1543 il suo De humani corporis fabrica, che rivoluzionò le conoscenze dell’anatomia umana. Per procurarsi cadaveri, si chiedevano i corpi dei giustiziati o si dissotterravano i morti, il che non avveniva senza provocare delle contese talvolta cruente dei becchini.
            Ciò nonostante è possibile avanzare parecchie costatazioni. Innanzi tutto, si sa che durante la grave malattia che lo prostrerà a Padova sul finire del 1590, aveva deciso di donare il suo corpo alla scienza, qualora fosse morto, e ciò allo scopo di evitare litigi tra gli studenti di medicina, intenti a cercare cadaveri. Approvava pertanto il nuovo metodo della dissezione del corpo umano? Sembrava in ogni caso incoraggiarla con questo gesto di scottante attualità. Inoltre, è rilevabile in lui un costante interesse per i problemi della salute, per i medici e per i chirurgi. Esiste una grande differenza, scriverà per esempio, tra il brigante e il chirurgo: «Il brigante e il chirurgo incidono le membra e fanno sgorgare il sangue, l’uno per uccidere, l’altro per guarire».
            Sempre a Padova all’inizio del secolo XVII, un medico inglese, William Harvey, scoprirà le regole della circolazione del sangue. Il cuore diveniva veramente l’autore della vita, il centro di tutto, il sole, come il principe nel suo Stato. Anche se il medico inglese pubblicherà le sue scoperte solo nel 1628, è possibile supporre che al tempo in cui Francesco era studente, tali ricerche fossero già avviate. Egli stesso scriverà per esempio che «cor habet motum in se proprium et alia movere facit», cioè che «il cuore ha in sé un movimento che gli è proprio e che fa muovere tutto il resto». Citando Aristotele, affermerà che «il cuore è il primo membro che vive in noi e l’ultimo che muore».

Botanica
            Probabilmente durante il suo soggiorno a Padova, Francesco si interessò anche delle scienze naturali. Non poteva ignorare che in città c’era il primo giardino botanico, creato per coltivare, osservare e sperimentare piante indigene ed esotiche. Le piante erano ingredienti che entravano nella maggioranza dei medicinali e il loro uso a scopo terapeutico si basava principalmente su testi di autori antichi, non sempre affidabili. Possediamo di Francesco otto raccolte di Similitudini, redatte probabilmente tra il 1594 e il 1614, ma la cui origine può risalire a Padova. Il titolo di queste piccole raccolte di immagini e di paragoni tratti dalla natura manifesta certamente il loro carattere utilitario; il loro contenuto, invece, testimonia in ogni caso un interesse quasi enciclopedico, non soltanto per il mondo vegetale, ma anche per quello minerale e animale.
            Francesco di Sales ha consultato gli autori antichi, che al suo tempo godevano di un’indiscussa autorità in materia: Plinio il Vecchio, autore di una vasta Storia naturale, vera enciclopedia di quell’epoca, ma anche Aristotele (quello della Storia degli animali e de La generazione degli animali), Plutarco, Teofrasto (autore di una Storia delle piante), e perfino sant’Agostino e sant’Alberto Magno. Conosceva pure gli autori contemporanei, in particolare i Commentari a Dioscoride del naturalista italiano Pietro Andrea Mattioli.
            Ciò che affascinava Francesco di Sales era il rapporto misterioso tra la storia naturale e la vita spirituale dell’uomo. Per lui, scrive A. Ravier, «ogni scoperta è portatrice di un segreto della creazione». Meravigliose sono le virtù particolari di alcune piante: «Plinio e Mattioli descrivono un’erba salutare contro la peste, la colica, i calcoli renali, invitandoci a coltivarla proprio nei nostri giardini». Lungo i numerosi sentieri che ha percorso durante la sua vita, lo scorgiamo attento alla natura, al mondo che lo circonda, al succedersi delle stagioni e al loro significato misterioso. Il libro della natura gli appariva come un’immensa Bibbia che occorreva imparare a interpretare, ragion per cui chiamava i Padri della Chiesa «erboristi spirituali». Quando eserciterà la direzione spirituale di persone assai differenti, rammenterà che «nel giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare».

Programma di vita personale
            Durante il suo soggiorno a Padova, città dove, tra monasteri e conventi, se ne contavano oltre quaranta, Francesco si rivolse di nuovo ai gesuiti per la sua direzione spirituale. Sottolineato come conviene il ruolo di primo piano dei gesuiti nella formazione del giovane Francesco di Sales, va detto però che essi non furono i soli. Una grande ammirazione e amicizia lo legava al padre Filippo Gesualdi, predicatore francescano del celebre convento di sant’Antonio di Padova. Frequentava il convento dei Teatini, dove il padre Lorenzo Scupoli veniva di tanto in tanto a predicare. Là appunto ne scoprì il libro intitolato Combattimento spirituale, che gli insegnerà a dominare le inclinazioni della parte inferiore dell’anima. Francesco di Sales «ha scritto non poche cose – asseriva il Camus –, di cui scopro subito il seme e il germe in qualche passo di detto Combattimento». Sempre nel suo soggiorno padovano, pare inoltre che si sia dedicato a un’attività educativa in un orfanotrofio.
            Si deve senza dubbio al benefico influsso di questi maestri, in particolare del padre Possevino, il fatto che Francesco scrisse vari regolamenti di vita, dei quali sono rimasti dei frammenti significativi. Il primo, intitolato Esercizio della preparazione, era un esercizio mentale da compiere al mattino: «Mi sforzerò, per mezzo suo – scriveva –, a dispormi per trattare e compiere, nella forma più lodevole, il mio dovere». Consisteva nell’immaginare tutto quello che gli poteva capitare durante la giornata: «Penserò dunque seriamente agli imprevisti che mi potranno capitare, alle compagnie dove forse sarò costretto d’intervenire, ai fatti che mi si potranno presentare, ai luoghi dove si cercherà di convincermi d’andare». Ed ecco lo scopo dell’esercizio:

            Studierò con diligenza e cercherò le vie migliori per evitare dei passi falsi. Disporrò così e stabilirò dentro di me quello che mi converrà fare, l’ordine e il comportamento che dovrò tenere in questa o in quella circostanza, ciò che sarà opportuno dire in compagnia, il contegno che dovrò osservare e ciò che bisognerà fuggire e desiderare.

            Nella Condotta particolare per passare bene la giornata, lo studente individuava le principali pratiche di pietà che intendeva compiere: preghiere del mattino, messa quotidiana, tempo di «riposo spirituale», preghiere e invocazioni durante la notte. Nell’Esercizio del sonno o del riposo spirituale, precisava i soggetti su cui doveva concentrare le sue meditazioni. Accanto ai temi classici, quali la vanità di questo mondo, il detestare il peccato, la giustizia divina, vi aveva ritagliato uno spazio per considerazioni, dal sapore umanista, sulla «eccellenza della virtù», che «rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente», sulla bellezza della ragione umana, questa «divina fiaccola» che diffonde un «meraviglioso splendore», come pure sulla «sapienza infinita, l’onnipotenza e l’incomprensibile bontà» di Dio. Un’altra pratica di pietà era consacrata alla Comunione frequente, alla preparazione e al relativo ringraziamento. Vi si nota un progresso nella frequenza della comunione rispetto al periodo parigino.
            Quanto alle Regole per le conversazioni e gli incontri, esse hanno un interesse particolare dal punto di vista dell’educazione sociale. Contengono sei punti che lo studente si proponeva di osservare. Prima di tutto occorreva distinguere bene tra il semplice incontro, dove «la compagnia è momentanea», e la «conversazione», dove entra in gioco l’affettività. Per quanto concerne gli incontri, vi si legge questa regola generale:

            Non disprezzerò mai, né darò l’impressione di fuggire completamente l’incontro di qualsiasi persona; questo potrebbe dar motivo d’apparire superbo, altero, severo, arrogante, censore, ambizioso e controllore. […] Non mi prenderò la libertà di dire o di fare qualcosa che non entri nella misura, per non apparire un insolente, lasciandomi trasportare da una familiarità troppo facile. Soprattutto starò attento a non mordere, o pungere o motteggiare qualcuno […]. Rispetterò ognuno in particolare, osserverò la modestia, parlerò poco e bene, in modo che i compagni desiderino tornare ad un nuovo incontro con piacere e non con noia.

            A proposito delle conversazioni, termine che all’epoca aveva un significato ampio di abituale frequentazione o di compagnia, Francesco si imponeva una maggiore prudenza. Voleva essere «amico di tutti e familiare di pochi», e sempre fedele all’unica regola che non consentiva eccezione: «Niente contro Dio».
            Per il resto, scriveva, «sarò modesto senza insolenza, libero senza austerità, dolce senza affettazione, arrendevole senza contraddizione, a meno che la ragione non suggerisca diversamente, cordiale senza dissimulazione». Si comporterà in maniera differente verso i superiori, gli uguali e gli inferiori. Era sua regola generale quella di «adattarsi alla varietà delle compagnie, senza pregiudicare però in nessun modo la virtù». Lo studente aveva diviso le persone in tre categorie: le persone sfacciate, quelle libere e le chiuse. Resterà imperturbabile davanti agli insolenti, sarà aperto con le persone libere (cioè semplici, accoglienti) e si mostrerà assai prudente con soggetti melanconici, sovente pieni di curiosità e di sospetti. Con i grandi, infine, si imporrà di stare in guardia, di trattare con loro «come con il fuoco» e di non avvicinarsi troppo. Certo, si potrebbe testimoniare loro dell’amore, perché l’amore «genera la libertà», ma ciò che dovrà dominare è il rispetto che «genera la modestia».
            È facile costatare a quale grado di maturità umana e spirituale lo studente di diritto era allora giunto. Prudenza, saggezza, modestia, discernimento e carità sono le qualità che balzano agli occhi nel suo programma di vita, ma vi si trova anche un’«onesta libertà», un atteggiamento benevolo verso tutti, un fervore spirituale fuori del comune. Ciò non impedì che a Padova conoscesse momenti difficili, dei quali si trovano forse delle reminiscenze in un passo della Filotea dove afferma che «un giovanotto o una signorina che non assecondino nel linguaggio, nel gioco, nel ballo, nel bere o nel vestire la sregolatezza di una compagnia debosciata verranno beffeggiati e scherniti dagli altri, e la loro modestia chiamata bigotteria o affettazione».

Ritorno in Savoia
            Il 5 settembre 1591 Francesco di Sales coronò l’insieme dei suoi studi con un brillante dottorato in utroque jure. Prendendo congedo dall’università di Padova, si allontanava, diceva, da «quella collina sulla cui cima abitano, senza dubbio, le Muse come in un altro Parnaso».
            Prima di lasciare l’Italia, era opportuno visitare questo paese così ricco di storia, di cultura e di religione. Con Déage, Gallois e qualche amico savoiardo, partì sul finire di ottobre alla volta di Venezia, poi di là fino ad Ancona e al santuario di Loreto. Loro meta finale era quella di giungere a Roma. Purtroppo la presenza di briganti, inorgogliti dalla morte del papa Gregorio XIV, ed anche la mancanza di denaro non glielo consentirono.
            Di ritorno a Padova, riprese per qualche tempo lo studio del Codice, inserendovi il racconto del viaggio. Ma alla fine dell’anno 1591, si arrese per la fatica. Era tempo di pensare a tornare in patria. Effettivamente, il ritorno in Savoia avvenne verso la fine di febbraio del 1592.




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (1/2)

            Francesco si recò a Padova, città appartenente alla repubblica di Venezia, nell’ottobre del 1588, accompagnato dal fratello cadetto Gallois, un ragazzo di dodici anni che studierà dai gesuiti, e dal loro fedele precettore, don Déage. Alla fine del secolo XVI, la facoltà di diritto dell’università di Padova godeva di una fama straordinaria, che superava perfino quella del celebre Studium di Bologna. Quando pronuncerà il suo Discorso di ringraziamento in seguito alla promozione a dottore, Francesco di Sales ne tesserà gli elogi in forma ditirambica:

            Fino allora, io non avevo consacrato nessun lavoro alla santa e sacra scienza del Diritto: ma allorché, in seguito, decisi di impegnarmi in tale studio, non ebbi assolutamente bisogno di cercare dove rivolgermi o dove recarmi; questo collegio di Padova mi attirò subito per la sua celebrità e, sotto i più favorevoli auspici, infatti, in quel tempo, aveva dottori e lettori quali non ebbe mai e non avrà giammai di più grandi.

            Checché egli ne dica, è certo che la decisione di studiare il diritto non partiva da lui, ma gli venne imposta dal padre. Altre ragioni hanno potuto giocare a favore di Padova, e, precisamente, il bisogno che il Senato di uno Stato bilingue aveva di poter disporre di magistrati provvisti di una duplice cultura, francese e italiana.

Nella patria dell’umanesimo
            Valicando per la prima volta le Alpi, Francesco di Sales metteva piede nella patria dell’umanesimo. A Padova poté non solamente ammirare i palazzi e le chiese, specialmente la basilica di Sant’Antonio, ma anche gli affreschi di Giotto, i bronzi di Donatello, le pitture del Mantegna, o ancora gli affreschi del Tiziano. Il suo soggiorno nella penisola italiana gli consentirà inoltre di conoscere parecchie città d’arte, in particolare, Venezia, Milano e Torino.
            Sul piano letterario, non poteva mancare d’essere in contatto con alcune produzioni tra le più celebri. Ha avuto forse tra mano la Divina Commedia di Dante Alighieri, i poemi del Petrarca, precursore dell’umanesimo e primo poeta del suo tempo, le novelle del Boccaccio, fondatore della prosa italiana, l’Orlando furioso dell’Ariosto, o la Gerusalemme liberata del Tasso? Le sue preferenze andavano alla letteratura spirituale, in particolare alla lettura meditata del Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli. Riconoscerà modestamente: «Non penso di parlare un italiano perfetto».
            A Padova, Francesco ebbe la fortuna di incontrare un insigne gesuita nella persona del padre Antonio Possevino. Questo «umanista errante dalla vita epica», che era stato incaricato dal papa di missioni diplomatiche in Svezia, Danimarca, Russia, Polonia e Francia, aveva preso dimora fissa a Padova poco prima dell’arrivo di Francesco. Divenne suo direttore spirituale e sua guida negli studi e nella conoscenza del mondo.

L’università di Padova
            Fondata nel 1222, quella di Padova era la più antica università d’Italia dopo quella di Bologna, di cui era una derivazione. Vi si insegnava con successo non soltanto il diritto, considerato come la scientia scientiarum, ma anche la teologia, la filosofia e la medicina. I circa millecinquecento studenti provenivano dall’intera Europa e non erano tutti cattolici, il che ingenerava a volte preoccupazioni e disordini.
            Le risse erano frequenti, talvolta sanguinose. Uno dei giochi pericolosi preferiti era la «caccia ai Padovani». Francesco di Sales racconterà un giorno a un amico, Jean-Pierre Camus, «che uno studente, dopo aver sferrato un colpo di spada contro uno sconosciuto, si rifugiò presso una donna che scoprì essere la madre del giovane appena assassinato». Lui stesso, che non circolava senza la spada, un giorno venne coinvolto in una lotta da compagni, che giudicavano la sua dolcezza come una forma di vigliaccheria.
            Professori e studenti sapevano apprezzare la proverbiale patavinam libertatem, che oltre ad essere coltivata nella ricerca intellettuale, incitava anche un buon numero di studenti a «svolazzare» dandosi alla bella vita. Anche i discepoli più vicini a Francesco non erano modelli di virtù. La vedova di uno di loro racconterà più tardi, col suo linguaggio pittoresco, come il suo futuro marito aveva messo in scena una farsa di cattivo gusto con alcuni complici, destinata a gettare Francesco tra le braccia di una «miserabile puttana».

Gli studi di diritto
            Per obbedire al padre, Francesco si dedicò con coraggio allo studio del diritto civile, cui volle aggiungere quello del diritto ecclesiastico, che farà di lui un futuro dottore in utroque jure. Lo studio della legge comportava anche quello della giurisprudenza, che è «la scienza per mezzo della quale si amministra il diritto».
            Lo studio era concentrato sulle fonti del diritto, cioè, l’antico diritto romano, raccolto e interpretato nel secolo VI dai giuristi dell’imperatore Giustiniano. In tutta la sua vita si ricorderà della definizione della giustizia, letta all’inizio del Digesto: «una perpetua, forte e costante volontà di rendere a ciascuno ciò che gli appartiene».
            Esaminando i quaderni di appunti di Francesco, possiamo individuare alcune sue reazioni di fronte a certe leggi. Si manifesta pienamente d’accordo con il titolo del Codice che apre la serie delle leggi: Della Sovrana Trinità e della Fede cattolica, e con la difesa che segue immediatamente: Che nessuno si deve permettere di discuterne in pubblico. «Questo titolo – così annotava – è prezioso, direi sublime, e degno di essere letto sovente contro i riformatori, i saccenti e i politici».
            La formazione giuridica di Francesco di Sales poggiava su basi che all’epoca parevano indiscutibili. Per i cattolici del suo tempo, «tollerare» il protestantesimo non poteva assumere altro significato se non quello di essere complici dell’errore; di qui la necessità di combatterlo e con tutti i mezzi, ivi compresi quelli forniti dal diritto in vigore. In nessun caso ci si voleva rassegnare alla presenza dell’eresia, la quale appariva non soltanto come un errore sul piano della fede, ma anche come una fonte di divisione e di disturbo della cristianità. Nella foga dei suoi vent’anni, Francesco di Sales condivideva questo modo di vedere.
            Ma tale foga aveva libero corso anche nei confronti di quanti favorivano l’ingiustizia e le persecuzioni, dato che, a proposito del titolo XXVI del libro III, scriveva: «È preziosa come l’oro e degna di essere scritta con lettere maiuscole la IX legge, che recita: Siano puniti col fuoco i familiari del principe se perseguitano gli abitanti delle province».
            Più tardi, Francesco farà appello a colui che designava come «nostro Giustiniano» per denunciare la lentezza della giustizia da parte del giudice, il quale «si scusa invocando mille ragioni di costume, di stile, di teoria, di pratica e di cautela». Nelle lezioni di diritto ecclesiastico studierà la raccolta delle leggi che utilizzerà più tardi, in particolare quelle del canonista medievale Graziano, tra l’altro per dimostrare che il vescovo di Roma è «vero successore di san Pietro e capo della Chiesa militante», e che i religiosi e le religiose devono essere posti «sotto l’obbedienza dei vescovi».
            Consultando gli appunti manoscritti presi da Francesco durante il suo soggiorno a Padova, si resta colpiti dalla scrittura estremamente curata. È passato dalla scrittura gotica, ancora utilizzata a Parigi, alla scrittura moderna degli umanisti.
            Ma alla fin fine, gli studi di diritto devono averlo piuttosto annoiato. In un torrido giorno d’estate, di fronte alla freddezza delle leggi e alla loro lontananza nel tempo, scriverà, disilluso, questo commento: «Dato che queste questioni sono vecchie, non pareva proficuo dedicarsi ad esaminarle in questo tempo canicolare, troppo caldo per affrontare con comodo discussioni fredde e agghiaccianti».

Studi teologici e crisi intellettuale
            Mentre era dedito agli studi del diritto, Francesco continuò a interessarsi da vicino della teologia. Secondo suo nipote, giunto di fresco a Padova, «si mise tosto al lavoro con tutta la diligenza possibile, e pose sul leggio della sua stanza la Somma del dottore angelico, san Tommaso, per averla ogni giorno davanti agli occhi e poterla consultare facilmente per comprendere altri libri. Godeva molto nel leggere i libri di san Bonaventura. Acquisterà una buona conoscenza dei Padri latini, in modo particolare dei «due brillanti luminari della Chiesa», «il grande sant’Agostino» e san Girolamo, che furono anche «due grandi capitani dell’antica Chiesa», senza dimenticare il «glorioso sant’Ambrogio» e san Gregorio Magno. Tra i Padri greci ammirava san Giovanni Crisostomo «che, per la sua eccelsa eloquenza, venne lodato e denominato Bocca d’oro». Inoltre, citerà di frequente san Gregorio Nazianzeno, san Basilio, san Gregorio di Nissa, sant’Atanasio, Origene e altri ancora.
            Consultando i frammenti di appunti pervenutici, si viene a sapere che leggeva anche gli autori più importanti del suo tempo, in particolare, il grande esegeta e teologo spagnolo Juan Maldonado, un gesuita che aveva impostato con successo nuovi metodi nello studio dei testi della Scrittura e dei Padri della Chiesa. Oltre allo studio personale, Francesco ha potuto seguire corsi di teologia all’università, dove don Déage preparava il dottorato, e approfittare dell’aiuto e del consiglio del padre Possevino. Si sa anche che si recava spesso dai francescani, presso la basilica di Sant’Antonio.
            La sua riflessione si concentrava di nuovo sul problema della predestinazione e della grazia, al punto da fargli riempire cinque quaderni di appunti. In realtà, Francesco si trovò posto davanti a un dilemma: restare fedele a convinzioni che furono sempre sue, oppure attenersi alle classiche posizioni di sant’Agostino e di san Tommaso, «dottore massimo e senza pari». Ora gli tornava difficile «simpatizzare» per una dottrina tanto scoraggiante di questi due maestri, o perlomeno per l’interpretazione corrente, secondo cui gli uomini non hanno alcun diritto alla salvezza, perché essa dipende totalmente da una libera decisione da parte di Dio.
            A partire dalla sua adolescenza, Francesco si era fatto un’idea più ottimista del disegno di Dio. Le sue convinzioni personali vennero rinforzate dopo la comparsa nel 1588 del libro del gesuita spagnolo Luis Molina, il cui titolo latino Concordia riassumeva bene la tesi: Concordia del libero arbitrio con il dono della grazia. In quest’opera, la predestinazione in senso stretto era sostituita con una predestinazione che teneva conto dei meriti dell’uomo, cioè delle sue buone o cattive azioni. In altri termini, Molina affermava sia l’agire sovrano di Dio sia il ruolo determinante della libertà da lui donata all’uomo.
            Nel 1606, il vescovo di Ginevra avrà l’onore di essere consultato dal papa a proposito della disputa teologica che opponeva, sempre sullo stesso problema, i partigiani del gesuita Molina e quelli del domenicano Domingo Báñez, per il quale la dottrina del Molina concedeva troppa autonomia alla libertà umana, col rischio di mettere a repentaglio la sovranità di Dio.
            Il Teotimo, che apparirà nel 1616, contiene al capitolo 5 del libro III il pensiero di Francesco di Sales, riassunto in «quattordici righe», le quali, secondo Jean-Pierre Camus, gli erano costate «la lettura di mille duecento pagine di un grosso volume». Con un lodevole sforzo per essere conciso ed esatto, Francesco affermava sia la liberalità e generosità divina, sia la libertà e responsabilità umana all’atto di redigere questa soppesata frase: «Dipende da noi essere suoi: infatti, benché sia un dono di Dio appartenere a Dio, tuttavia è un dono che Dio non rifiuta mai ad alcuno, anzi l’offre a tutti, per concederlo a coloro che di buon cuore acconsentiranno a riceverlo».
            Facendo sue le idee dei gesuiti, che agli occhi di molti apparivano come dei «novatori», e che ben presto i giansenisti con Blaise Pascal tacceranno di cattivi teologi, di lassisti, Francesco di Sales innestava la sua teologia nella corrente dell’umanesimo cristiano e optava per il «Dio del cuore umano». La «teologia salesiana», che poggia sulla bontà di Dio, il quale vuole la salvezza di tutti, si presenterà ugualmente con un pressante invito alla persona umana a rispondere con tutto il «cuore» agli appelli della grazia.

(continua)




San Francesco di Sales giovane studente a Parigi

            Nel 1578 François de Sales aveva 11 anni. Suo padre, desideroso di fare del suo primogenito una figura di spicco in Savoia, lo mandò a Parigi per continuare i suoi studi nella capitale intellettuale dell’epoca. Il collegio che voleva fargli frequentare era il collegio dei nobili, ma François preferì il quello dei Gesuiti. Con l’aiuto della madre, vinse la causa e divenne allievo dei gesuiti nel loro collegio di Clermont.
            Ricordando un giorno gli studi compiuti a Parigi, Francesco di Sales non sarà parco di elogi: la Savoia gli aveva garantito «gli inizi nelle belle lettere», scriverà, ma è all’università di Parigi, «molto fiorente e assai frequentata», dove si era «applicato sul serio dapprima alle belle lettere, poi a tutte le aree della filosofia, con una facilità e un profitto, favoriti dal fatto che perfino i tetti, per così dire, e le mura sembrano filosofare».
            In una pagina del Teotimo, Francesco di Sales racconterà un ricordo della Parigi di quell’epoca, nel quale ricostruisce il clima in cui era immersa la gioventù studentesca della capitale, strattonata dai piaceri proibiti, dall’eresia di moda e dalla devozione monastica:

            Quando ero giovane a Parigi, due studenti, di cui uno era eretico, mentre passavano la notte nel sobborgo di Saint-Jacques, gozzovigliando in modo dissoluto, udirono suonare la campana del mattutino nella chiesa dei certosini; avendo l’eretico chiesto al compagno cattolico perché suonasse quella campana, questi gli illustrò con quanta devozione in quel monastero si celebravano i santi uffici; o Dio, disse, quant’è diverso dal nostro l’esercizio di quei religiosi! Essi compiono quello degli angeli e noi quello degli animali bruti. Il giorno seguente, volendo verificare di persona quello che aveva appreso dal racconto del compagno, vide quei padri nei loro stalli, allineati come statue di marmo nelle loro nicchie, immobili, senza compiere alcun gesto eccetto quello di salmodiare, cosa che facevano con un’attenzione ed una devozione veramente angelica, secondo il costume di quel santo ordine. Allora quel giovane, rapito d’ammirazione, fu preso da un’estrema consolazione nel vedere Dio adorato così bene dai cattolici e decise, cosa che poi fece, di entrare in seno alla Chiesa, vera ed unica sposa di colui che l’aveva visitato con la sua ispirazione nel letto disonorevole dell’infamia sul quale giaceva.

            Un altro aneddoto mostra inoltre che Francesco di Sales non ignorava lo spirito ribelle dei parigini, che faceva loro «aborrire le azioni comandate». Si trattava di un uomo «che dopo aver vissuto ottant’anni nella città di Parigi, senza mai uscirne, non appena gli fu ingiunto da parte del re di rimanervi anche il resto dei suoi giorni, uscì subito per vedere la campagna, cosa che non aveva mai desiderato in tutta la vita».

Gli studi umanistici
            I gesuiti erano animati allora dallo slancio delle origini. Francesco di Sales passerà dieci anni nel loro collegio, percorrendo l’intero curricolo di studi previsto, passando dalla grammatica agli studi classici fino alla retorica e alla filosofia. In quanto allievo esterno, abitava non lontano dal collegio col suo precettore, don Déage, e con i suoi tre cugini, Amé, Louis et Gaspard.
            Il metodo dei gesuiti comprendeva la lezione del professore (praelectio), seguita da numerosi esercizi da parte degli studenti come la composizione di versi e discorsi, la ripetizione delle lezioni, le declamazioni, i temi, le conversazioni e le dispute (disputatio) in latino. Per motivare i loro studenti, i professori facevano appello a due «inclinazioni» presenti nell’animo umano: il piacere, alimentato dall’imitazione degli antichi, dal senso del bello e la ricerca dalla perfezione letteraria; e la lotta o l’emulazione, stimolata dal senso dell’onore e dal premio per i vincitori. Quanto alle motivazioni religiose, esse riguardavano prima di tutto la ricerca della maggior gloria di Dio (ad maiorem Dei gloriam).
            Percorrendo gli scritti di Francesco ci si rende conto fino a che punto la sua cultura latina era estesa e profonda, anche se non leggeva sempre gli autori nel testo originale. Cicerone vi ha il suo posto, ma piuttosto come filosofo; è uno spirito grande, se non il più grande «tra i filosofi pagani». Virgilio, principe dei poeti latini, non è dimenticato: a metà di un periodare appare d’un tratto un verso dell’Eneide o delle Egloghe, che abbellisce la frase e stimola la curiosità. Plinio il Vecchio, autore della Storia naturale, fornirà a Francesco di Sales una riserva pressoché inesauribile di paragoni, «similitudini» e dati curiosi sovente fantasmagorici.
            Al termine dei suoi studi letterari, ottenne il diploma di «baccellierato» che gli apriva l’accesso alla filosofia e alle «arti liberali».

Filosofia e «arti liberali»
            Le «arti liberali» comprendevano non solamente la filosofia propriamente detta, ma anche la matematica, la cosmografia, la storia naturale, la musica, la fisica, l’astronomia, la chimica, il tutto «frammisto a considerazioni metafisiche». Va notato altresì l’interesse dei gesuiti per le scienze esatte, più vicino in ciò all’umanesimo italiano che a quello francese.
            Gli scritti di Francesco di Sales mostrano che i suoi studi di filosofia hanno lasciato delle tracce nel suo universo mentale. Aristotele, «il più grande cervello» dell’antichità è ovunque presente in Francesco. Ad Aristotele, scriverà, si deve questo «antico assioma tra i filosofi, che ogni uomo desidera conoscere». Di Aristotele ciò che l’ha colpito di più è l’aver redatto «un mirabile trattato delle virtù». Quanto a Platone, egli lo considera come un «grande spirito», se non «il più grande. Stimerà parecchio Epitteto, «l’uomo migliore di tutto il paganesimo».
            Le conoscenze riguardanti la cosmografia, corrispondente alla nostra geografia, erano favorite dai viaggi e dalle scoperte dell’epoca. Ignorando del tutto la causa del fenomeno del nord magnetico, sapeva bene che «questa stella polare» è quella «verso cui tende costantemente l’ago della bussola; è grazie ad essa che i nocchieri sono guidati sul mare e possono sapere dove li portano le loro rotte». Lo studio dell’astronomia gli aprirà lo spirito alla conoscenza delle nuove teorie copernicane.
            Per quanto riguarda la musica, ci confiderà che senza esserne un conoscitore, tuttavia la gustava «moltissimo». Dotato di un senso innato dell’armonia in ogni cosa, ammetteva tuttavia conosceva l’importanza della discordanza che è alla base della polifonia: «Perché una musica sia bella, si richiede non soltanto che le voci siano nitide, chiare e ben distinte, ma che siano anche legate tra loro in modo tale da costituire una piacevole consonanza e armonia, in forza dell’unione esistente nella distinzione e della distinzione delle voci che, non senza ragione, viene chiamata accordo discordante, o meglio, discordia concorde». Sovente nei suoi scritti si parla del liuto, il che non può meravigliare, sapendo che il secolo XVI fu l’epoca d’oro di detto strumento.

Attività extrascolastiche
            La scuola non assorbiva interamente la vita del nostro giovanotto, che aveva anche bisogno di distensione. A partire dal 1560 i gesuiti avviarono nuovi orientamenti come la riduzione dell’orario giornaliero, l’inserimento di una ricreazione tra le ore di scuola e quelle di studio, la distensione dopo il pasto, la creazione di uno spazioso «cortile» per la ricreazione, il passeggio una volta alla settimana e le escursioni. L’autore della Filotea richiamerà alla memoria i giochi cui dovette partecipare negli anni della sua giovinezza, quando elencherà «il gioco della pallacorda, della palla, della pallamaglio, le corse all’anello, gli scacchi e altri giochi da tavolo». Una volta alla settimana, il giovedì, oppure nel caso in cui ciò non era possibile, la domenica, era previsto un pomeriggio intero riservato al divertimento in campagna.
            Il giovane Francesco ha assistito e anche partecipato a rappresentazioni teatrali al collegio di Clermont? È più che probabile, perché i gesuiti furono i promotori di recitazioni e di commedie morali presentate in pubblico su un palco, o su pedane sistemate su cavalletti, persino nella chiesa del collegio. Il repertorio si ispirava generalmente alla Bibbia, alla vita dei santi, in particolare agli atti dei martiri, o alla storia della Chiesa, senza escludere delle scene allegoriche come la lotta delle virtù contro i vizi, i dialoghi tra la fede e la Chiesa, tra l’eresia e la ragione. Si riteneva in generale che uno spettacolo di questo genere valeva bene una predica ben tornita.

Equitazione, scherma e danza
            Il padre vigilava sulla formazione completa di perfetto gentiluomo di Francesco e la prova sta nel fatto che gli impose di impegnarsi nell’apprendere le «arti della nobiltà» o le arti cavalleresche in cui lui stesso eccelleva. Francesco dovette esercitarsi nella pratica dell’equitazione, della scherma e della danza.
            Per quanto riguarda la pratica della scherma, si sa che essa distingueva il gentiluomo compito, come d’altronde il portare la spada faceva parte dei privilegi della nobiltà. La scherma moderna, nata in Spagna all’inizio del secolo XV, era stata codificata dagli italiani, che la fecero conoscere in Francia.
            Francesco di Sales avrà a volte l’occasione di mostrare il suo valore nel maneggiare la spada durante aggressioni reali o simulate, ma durante tutta la sua vita lotterà contro le sfide a duello che sovente finivano con la morte di un contendente. Il suo nipote ha raccontato che durante la missione a Thonon, non riuscendo a fermare due «miserabili» che «schermavano a spade nude» e «continuavano a incrociare la spada l’uno contro l’altro», «l’uomo di Dio, confidando nella sua maestria, appresa a dovere da lungo tempo, si scagliò contro di loro e li sconfisse talmente da farli pentire della loro azione indegna».
            Quanto alla danza che aveva acquisito titoli nobiliari nelle corti italiane, sembra che essa sia stata introdotta alla corte di Francia da Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II. Francesco di Sales ha partecipato a qualche balletto, danza figurativa, accompagnata dalla musica? Non è impossibile, perché aveva le sue conoscenze presso alcune grandi famiglie.
            In sé stessi, scriverà in seguito nella Filotea, i balli non sono cosa cattiva; tutto dipende dall’uso che se ne fa: «Giocare, danzare è lecito quando si fa per divertimento e non per affetto». Aggiungiamo a tutti questi esercizi l’apprendimento della cortesia e delle buone maniere, specialmente presso i gesuiti che badavano molto alla «civiltà», alla «modestia» e all’«onestà».

La formazione religiosa e morale
            Sul piano religioso, l’insegnamento della dottrina cristiana e del catechismo rivestiva una grande importanza nei collegi dei gesuiti. Il catechismo era insegnato in tutte le classi, imparato a memoria in quelle inferiori seguendo il metodo della disputatio e con premi per i migliori. Talvolta erano organizzati concorsi pubblici con una messa in scena a carattere religioso. Si coltivava il canto sacro, che i luterani e i calvinisti avevano sviluppato molto. Si dava particolare risalto all’anno liturgico e alle feste, utilizzando le «storie» tratte dalla sacra Scrittura.
            Impegnati a restaurare la pratica dei sacramenti, i gesuiti incoraggiavano i loro allievi non solamente alla quotidiana assistenza alla messa, uso per nulla eccezionale nel secolo XVI, ma anche alla frequente comunione eucaristica, alla confessione frequente, alla devozione alla Vergine e ai santi. Francesco rispose con fervore alle esortazioni dei suoi maestri spirituali, impegnandosi a ricevere la comunione «il più sovente possibile», «almeno tutti i mesi».
            Col Rinascimento, la virtus degli antichi, debitamente cristianizzata, tornava in primo piano. I gesuiti ne divennero protagonisti, invogliando i loro allievi allo sforzo, alla disciplina personale e alla riforma di sé stessi. Francesco aderì indubbiamente all’ideale delle virtù cristiane più stimate, quali l’obbedienza, l’umiltà, la pietà, la pratica del dovere del proprio stato, il lavoro, le buone maniere e la castità. Più tardi consacrerà l’intera parte centrale della sua Filotea a «l’esercizio delle virtù».

Studio della Bibbia e della teologia
            La domenica di carnevale del 1584, mentre tutta Parigi andava a divertirsi, il suo precettore vide Francesco con un’aria preoccupata. Non sapendo se era malato oppure melanconico, gli propose di assistere agli spettacoli di carnevale. A tale proposta il giovane rispose con questa preghiera tratta dalla Scrittura: «Distogli i miei occhi dalle cose vane», e aggiunse: «Domine, fac ut videam». Vedere che cosa? «La sacra teologia», fu la sua risposta; «essa mi insegnerà ciò che Dio vuole che la mia anima impari». Don Déage, che preparava il suo dottorato alla Sorbona, ebbe la saggezza di non opporsi al desiderio del cuore del suo assistito. Francesco si entusiasmò delle scienze sacre fino al punto di saltare i pasti. Il suo precettore gli diede i propri appunti dei corsi e gli consentì di assistere alle dispute pubbliche di teologia.
            La sorgente di tale devozione stava per trovarla non tanto nei corsi teologici della Sorbona, quanto piuttosto nelle lezioni di esegesi che si tenevano al Collegio reale. Dopo la sua fondazione nel 1530, questo Collegio assisteva al trionfo di nuove tendenze nello studio della Bibbia. Nel 1584, Gilbert Genebrard, un benedettino di Cluny, commentava il Cantico dei Cantici. Più tardi, quando comporrà il suo Teotimo, il vescovo di Ginevra si ricorderà di questo maestro e lo nominerà «con riverenza e commozione, perché – scriverà – sono stato suo alunno, benché senza frutto quando insegnava al collegio reale a Parigi». Nonostante il suo rigore filologico, Genebrard gli trasmise un’interpretazione allegorica e mistica del Cantico dei Cantici, che lo incantò. Come scrive padre Lajeunie, Francesco trovò in questo libro sacro «l’inspirazione della sua vita, il tema del suo capolavoro e la migliore fonte del suo ottimismo».
            Gli effetti di tale scoperta non si fecero attendere. Il giovane studente conobbe un periodo segnato da un fervore eccezionale. Entrò nella Congregazione di Maria, associazione promossa dai gesuiti, che riuniva l’élite spirituale degli studenti del loro collegio, della quale diventerà ben presto l’assistente e poi il «prefetto». Il suo cuore si infiammò d’amor di Dio. Citando il salmista, si diceva «ebbro dell’abbondanza» della casa di Dio, ricolmo del torrente della «voluttà» divina. Il suo più grande affetto era riservato alla Vergine Maria, «bella come la luna, splendente come il sole».

La devozione in crisi
            Questo fervore sensibile durò per un certo tempo.  Poi sopraggiunse una crisi, uno «strano tormento», accompagnato dalla «paura della morte subitanea e del giudizio di Dio». Secondo la testimonianza della madre di Chantal, «cessò quasi completamente dal mangiare e dal dormire e divenne assai magro e pallido come la cera». Due spiegazioni hanno attirato l’attenzione dei commentatori: le tentazioni contro la castità e la questione della predestinazione. Non è necessario attardarsi sulle tentazioni. Il modo di pensare e di agire del mondo circostante, le abitudini di certi compagni che frequentavano «donne disoneste», gli offrivano esempi e inviti capaci di attirare qualsiasi giovane della sua età e della sua condizione.
            Un altro motivo di crisi era dovuto alla questione della predestinazione, un tema che era all’ordine del giorno tra i teologi. Lutero e Calvino ne avevano fatto un loro cavallo di battaglia nella disputa sulla giustificazione per la sola fede, indipendentemente dai «meriti» che l’uomo può acquistare con le buone opere. Calvino aveva affermato in modo decisivo che Dio «ha determinato ciò che intendeva fare per ogni singolo uomo; perché non li crea tutti nella stessa condizione, ma destina gli uni alla vita eterna, gli altri all’eterna dannazione». Alla stessa Sorbona, dove Francesco seguiva dei corsi, si insegnava, in base all’autorità di sant’Agostino e di san Tommaso, che Dio non aveva decretato la salvezza di tutti gli uomini.
            Francesco credette di essere riprovato da Dio e destinato alla dannazione eterna e all’inferno. Giunto al colmo dell’angoscia, fece un atto eroico di amore disinteressato e di abbandono alla misericordia di Dio. Giungerà perfino alla conclusione, assurda da un punto di vista logico, di accettare di buon animo di andare all’inferno ma a condizione di non maledire il Sommo Bene. La soluzione del suo «strano tormento» la si conosce, in particolare, tramite le confidenze da lui fatte alla madre di Chantal: un giorno del mese di gennaio del 1587, entrò in una chiesa vicina e, dopo aver pregato nella cappella della Vergine, gli parve che il suo male gli fosse caduto ai piedi come «squame di lebbra».
            Al dire il vero, questa crisi ebbe degli effetti realmente positivi nello sviluppo spirituale di Francesco. Da una parte, lo aiutò a passare da una devozione sensibile, forse egoista e perfino narcisista, all’amore puro, spoglio di ogni gratifica interessata e infantile. E dall’altra, gli aprì lo spirito a una nuova comprensione dell’amore di Dio, che vuole la salvezza di tutti gli esseri umani.  Certamente, egli difenderà sempre la dottrina cattolica circa la necessità delle opere per salvarsi, fedele in ciò alle definizioni del concilio di Trento, ma il termine «merito» non godrà delle sue simpatie. La vera ricompensa dell’amore non può essere che l’amore. Siamo qui alla radice dell’ottimismo salesiano.

Bilancio
            È difficile esagerare l’importanza dei dieci anni vissuti dal giovane Francesco di Sales a Parigi. Vi concluse i suoi studi nel 1588 con la licenza e il magistero «nelle arti», che gli aprivano la via agli studi superiori di teologia, di diritto e di medicina. Quali sceglierà, o piuttosto, quali gli saranno imposti dal padre? Conoscendo i progetti ambiziosi che il padre nutriva per il suo primogenito, si comprende che lo studio del diritto godeva delle sue preferenze. Francesco andrà a studiare il diritto nell’università di Padova, nella repubblica di Venezia.
            Da undici anni a ventun anni, ossia durante i dieci anni dell’adolescenza e della giovinezza, Francesco è stato allievo dei gesuiti a Parigi. La formazione intellettuale, morale e religiosa ricevuta dai padri della Compagnia di Gesù lascerà un’impronta che conserverà per tutta la vita. Ma Francesco di Sales manterrà la sua originalità. Non fu tentato di farsi gesuita, ma piuttosto cappuccino. La «salesianità» avrà sempre dei tratti troppo particolari per essere assimilata semplicemente a altri modi di essere e di reagire davanti agli uomini e agli avvenimenti.