L’educazione della coscienza con san Francesco di Sales

            Con ogni probabilità è stato l’avvento della Riforma protestante a porre all’ordine del giorno il problema della coscienza, e, più precisamente, della «libertà di coscienza». In una lettera del 1597 a Clemente VIII, il prevosto di Sales deplorava la «tirannia» che lo «stato di Ginevra» faceva pesare «sulle coscienze dei cattolici». Domandava alla santa Sede di intervenire presso il re di Francia per ottenere che i Ginevrini concedessero «ciò che chiamano libertà di coscienza». Contrario a soluzioni militari della crisi protestante, faceva intravedere nella libertas conscientiae una possibile via d’uscita dal confronto violento, a condizione che la reciprocità fosse rispettata. Rivendicata da Ginevra a favore della Riforma, e da Francesco di Sales a beneficio del cattolicesimo, la libertà di coscienza stava per divenire uno dei pilastri della mentalità moderna.

Dignità della persona umana
            La dignità dell’individuo risiede nella coscienza, e la coscienza è in primo luogo sinonimo di sincerità, onestà, franchezza, convinzione. Il prevosto di Sales riconosceva ad esempio, «per scaricare la sua coscienza», che il progetto delle Controversie gli era stato in qualche modo imposto da altri Quando presentava le sue ragioni a favore della dottrina e della pratica cattolica, si preoccupava di precisare che lo faceva «in coscienza». «Ditemi in coscienza», domandava ai suoi contradditori. La «buona coscienza», infatti, fa sì che uno eviti certi atti che lo mettono in contraddizione con sé stesso.
            Tuttavia, la coscienza soggettiva individuale non può essere presa sempre come garante della verità oggettiva. Non si è sempre obbligati a credere ciò che uno vi dice in coscienza. «Mostratemi chiaramente – dice il prevosto ai signori di Thonon – che non mentite affatto, che proprio non mi ingannate, quando mi dite che in coscienza avete avuto questa o quell’ispirazione». La coscienza può essere vittima dell’illusione, in forma volontaria o anche involontariamente. «Gli avari incalliti, non soltanto non confessano di esserlo, ma non pensano in coscienza di esserlo».
            La formazione della coscienza è un compito essenziale, perché la libertà di coscienza comporta il rischio di «far il bene e il male», ma «scegliere il male non è usare, bensì abusare della nostra libertà». È un compito duro, perché la coscienza talvolta ci appare come un avversario che «combatte sempre contro noi e per noi»: essa «oppone costante resistenza alle nostre cattive inclinazioni», ma lo fa «per la nostra salvezza». Quando uno pecca, «il rimorso interiore si muove contro la sua coscienza con la spada in pugno», ma lo fa per «trafiggerla con un santo timore».
            Un mezzo per esercitare una libertà responsabile è la pratica dell’«esame di coscienza». Fare l’esame di coscienza è come seguire l’esempio delle colombe che si guardano «con occhi limpidi e puri», «si puliscono con cura e si ornano meglio che possono». Filotea è invitata a fare questo esame tutte le sere, prima di andare a coricarsi, chiedendosi «come ci si è comportati nelle varie ore della giornata; per farlo più facilmente si penserà a dove, con chi e a quali occupazioni ci si è dedicati».
            Una volta all’anno dovremo fare un esame approfondito dello «stato della nostra anima» davanti a Dio, al prossimo e a noi stessi, senza dimenticare un «esame degli affetti della nostra anima». L’esame – dice Francesco di Sales alle visitandine – vi condurrà a sondare «a fondo la vostra coscienza».
            Come alleggerire la coscienza quando uno la sente carica di un errore o di uno fallo? Certuni lo fanno in malo modo, giudicando e accusando gli altri «di vizi di cui sono succubi», pensando così di «addolcire i rimorsi della loro coscienza». In tal modo uno moltiplica il rischio di fare giudizi temerari. Al contrario, «coloro che si prendono correttamente cura della loro coscienza non sono affatto soggetti a giudizi temerari». Conviene considerare a parte il caso dei genitori, degli educatori e dei responsabili del bene pubblico, perché «una buona parte della loro coscienza consiste nel vegliare attentamente sulla coscienza degli altri».

Il rispetto di sé stessi
            Dall’affermazione della dignità e della responsabilità di ognuno dovrà nascere il rispetto di sé. Già Socrate e tutta l’antichità pagana e cristiana ne avevano mostrato il cammino:

È un detto dei filosofi, che però è stato ritenuto valido dai dottori cristiani: «Conosci te stesso», ossia, conosci l’eccellenza della tua anima per non avvilirla e disprezzarla.

            Certi nostri atti costituiscono non solo un’offesa di Dio, ma anche un’offesa della dignità della persona umana e della ragione. Le loro conseguenze sono deplorevoli:

La rassomiglianza e immagine di Dio, che portiamo in noi, viene imbrattata e sfigurata, la dignità del nostro spirito disonorata, e noi siamo resi simili agli animali senza ragione […], rendendoci schiavi delle nostre passioni e rovesciando l’ordine della ragione.

            Ci sono estasi e rapimenti che ci innalzano al di sopra della nostra condizione naturale e altri che ci abbassano: «O uomini, fino a quando sarete così insensati – scrive l’autore del Teotimo – dal voler calpestare la vostra dignità naturale, discendendo volontariamente e precipitandovi nella condizione delle bestie?».
            Il rispetto di sé stessi consentirà di evitare due pericoli opposti: l’orgoglio e il disprezzo dei doni che uno ha. In un secolo in cui il senso dell’onore era esaltato al massimo, Francesco di Sales ha dovuto intervenire per denunciare misfatti, in particolare nel problema del duello, che gli faceva «rizzare i capelli in testa», e più ancora l’orgoglio insensato che ne era la causa. «Sono scandalizzato» – scriveva alla sposa di un marito duellante – ; «in verità, non riesco a pensare come si possa avere un coraggio tanto sregolato persino per bagattelle e cose da nulla». Battendosi in duello è come se «diventassero l’uno carnefice dell’altro».
            Altri, al contrario, non osano riconoscere i doni ricevuti e peccano così contro il dovere della riconoscenza. Francesco di Sales denuncia «certa falsa e sciocca umiltà che impedisce di scoprire il buono che c’è in loro». Hanno torto, perché «i beni che Dio ha posto in noi vanno riconosciuti, stimati e onorati sinceramente».
            Il primo prossimo che devo rispettare e amare, sembra voler dire il vescovo di Ginevra, è il proprio io. Il vero amore verso me stesso e il rispetto dovutogli esigono che tenda alla perfezione e che mi corregga, se necessario, ma dolcemente, ragionevolmente e «seguendo la strada della compassione» piuttosto che quella dell’ira e del furore.
            Esiste infatti un amore di sé stessi non soltanto legittimo, ma anche benefico e comandato: «La carità ben ordinata incomincia da sé stessi» – dice il proverbio – e rispecchia bene il pensiero di Francesco di Sales, ma a condizione di non confondere l’amore di sé con l’amor proprio. L’amore di sé è buono, e Filotea è invitata a interrogarsi sul modo con cui ama sé stessa:

Tenete un buon ordine nell’amore di voi stessa? Perché soltanto il disordinato amore di noi stessi può mandarci in rovina. Ora, l’amore ordinato vuole che amiamo l’anima più del corpo, che cerchiamo di procurarci le virtù più di ogni altra cosa.

            Al contrario, l’amor proprio è un amore egoista, «narcisista», gonfio di sé stesso, geloso della propria bellezza e unicamente preoccupato del proprio interesse: «Narciso – dicono i profani – era un giovane cosi sdegnoso da non voler offrire il proprio amore a nessun altro; e infine, contemplandosi in una limpida fontana fu totalmente rapito dalla sua bellezza».

Il «rispetto dovuto alle persone»
            Se si rispetta sé stessi si sarà più preparati e disposti a rispettare gli altri. Il fatto di essere «l’immagine e la somiglianza di Dio» ha come corollario l’asserto secondo cui «tutti gli esseri umani godono della stessa dignità». Francesco di Sales, pur vivendo in una società segnata dall’antico regime, fortemente disuguale, ha promosso un pensiero e una prassi caratterizzate dal «rispetto dovuto alle persone».
            Bisogna iniziare dai bambini. La madre di san Bernardo – dice l’autore della Filotea – amava i suoi figli appena nati «con rispetto come una cosa sacra che Dio le aveva affidato». Un rimprovero molto grave rivolto dal vescovo di Ginevra ai pagani riguardava il loro disprezzo della vita di esseri indifesi. Il rispetto del bimbo che sta per nascere emerge in questo passo di una lettera, redatta secondo la retorica barocca dell’epoca, indirizzata da Francesco di Sales a una donna incinta. La incoraggia spiegandole che il bimbo che si sta formando nelle sue viscere non è soltanto «un’immagine vivente della divina Maestà», ma anche l’immagine di sua madre. Raccomanda a un’altra donna:

Offrite sovente alla gloria eterna del vostro Creatore la creaturina alla cui formazione vi ha voluto assumere come sua cooperatrice.

            Un altro risvolto del rispetto dovuto agli altri riguarda il tema della libertà. La scoperta di nuove terre aveva avuto, come conseguenza nefasta, il riemergere della schiavitù, che richiamava le pratiche degli antichi romani al tempo del paganesimo. La vendita di esseri umani li degradava al rango delle bestie:

Un giorno, Marcantonio comprò da un mercante due giovanetti; allora, come avviene ancora oggi in qualche contrada, si vendevano i bambini; c’erano degli uomini che se li procuravano e poi li trafficavano come si fa per i cavalli nei nostri paesi.

            Il rispetto degli altri è continuamente minacciato in forma più sottile dalla maldicenza e dalla calunnia. Francesco di Sales insiste parecchio sui «peccati di lingua». Un capitolo della Filotea che tratta esplicitamente di tale argomento è intitolato L’onestà nelle parole e rispetto che si deve alle persone. Rovinare la reputazione di qualcuno è commettere un «omicidio spirituale»; è sottrarre «la vita civile» a colui di cui si parla male. Così pure, «biasimando il vizio», ci si sforzerà di risparmiare il più possibile «la persona implicata in esso».
            Certe categorie di persone sono facilmente denigrate o disprezzate. Francesco di Sales difende la dignità della gente del popolo fondandosi sul Vangelo: «San Pietro – commenta – era un uomo rude, grossolano, un vecchio pescatore, un mestierante di bassa condizione; san Giovanni, al contrario, era un gentiluomo, dolce, amabile, saggio; san Pietro, invece, ignorante». Orbene, è stato san Pietro ad essere scelto per guidare gli altri e per essere il «superiore universale».
            Proclama la dignità dei malati, dicendo che «le anime che sono in croce sono dichiarate regine». Denunciando la «crudeltà verso i poveri» ed esaltando la «dignità dei poveri», giustifica e precisa l’atteggiamento che si deve tenere verso di loro, spiegando «come dobbiamo onorarli e quindi visitarli come rappresentanti di Nostro Signore». Nessuno è inutile, nessuno è insignificante: «Non vi è al mondo oggetto che non possa essere utile per qualche cosa; ma bisogna saperne trovare l’uso e il luogo».

L’«uno-diverso» salesiano
            Il problema che da sempre ha tormentato le società umane è quello di conciliare tra loro la dignità e la libertà di ogni individuo con quelle degli altri. Ricevette da Francesco di Sales un chiarimento originale grazie all’invenzione di una nuova parola. Infatti, ammesso che l’universo è formato da «tutte le cose create, visibili e invisibili» e che «la loro diversità viene ricondotta a unità», il vescovo Ginevra propose di chiamarlo «uno-diverso», ossia «unico e diverso, unico con diversità e diverso con unità».
            Per lui, ogni essere è unico. Le persone sono come le perle di cui parla Plinio: «sono talmente uniche, ciascuna nella sua qualità, che non se ne trovano mai due perfettamente uguali». È significativo che le sue due opere principali, l’Introduzione alla vita devota e il Trattato dell’amore di Dio siano indirizzate a una persona singola, Filotea e Teotimo. Quale varietà e diversità tra gli esseri! «Senza dubbio, come vediamo che non si trovano mai due uomini perfettamente uguali quanto ai doni della natura, così non se ne trovano mai di perfettamente uguali quanto ai doni soprannaturali». La varietà lo incantava anche da un punto di vista puramente estetico, ma temeva una curiosità indiscreta sulle sue cause:

Se qualcuno si ponesse la domanda perché Dio abbia fatto i cocomeri più grossi delle fragole, o i gigli più grandi delle violette; perché il rosmarino non sia una rosa o perché il garofano non sia una calendola; perché il pavone sia più bello di un pipistrello, o perché il fico sia dolce e il limone aspro, si riderebbe delle sue domande e gli si direbbe: pover’uomo, siccome la bellezza del mondo richiede varietà, è necessario che nelle cose ci siano perfezioni diverse e differenziate e che l’una non sia l’altra; ecco perché le une sono piccole, le altre grandi, le une aspre, le altre dolci, le une più belle, le altre meno. […] Tutte hanno il loro pregio, la loro grazia, il loro splendore, e tutte, viste nell’insieme delle loro varietà, costituiscono un meraviglioso spettacolo di bellezza.

            La diversità non ostacola l’unità, tutt’altro la rende ancor più ricca e bella. Ogni fiore ha le sue caratteristiche, che lo distinguono da tutti gli altri: «Non è proprio delle rose essere bianche, mi sembra, perché quelle vermiglie sono più belle e hanno un profumo migliore, il quale però è proprio del giglio». Certo, Francesco di Sales non sopporta la confusione e il disordine, ma è ugualmente nemico dell’uniformità. La diversità degli esseri può condurre alla dispersione e alla rottura della comunione, ma se c’è l’amore, «vincolo della perfezione», niente è perduto, al contrario, la diversità è esaltata dall’unione.
            In Francesco di Sales c’è sicuramente una reale cultura dell’individuo, ma questa non è mai una chiusura al gruppo, alla comunità o alla società. Egli vede spontaneamente l’individuo inserito in un contesto o «stato» di vita, che segna marcatamente l’identità e l’appartenenza di ciascuno. Non sarà possibile fissare un programma o un progetto uguale per tutti, per il semplice fatto che sarà applicato e attuato in maniera diversa «per il gentiluomo, per l’artigiano, per il valletto, per il principe, per la vedova, per la giovane, per la sposata»; bisogna inoltre adattarlo «alle forze e ai doveri di ognuno in particolare. Il vescovo di Ginevra vede la società ripartita in spazi vitali caratterizzati dall’appartenenza sociale e solidarietà di gruppo, come quando tratta «della compagnia di soldati, della bottega degli artigiani, della corte dei principi, della famiglia di gente sposata».
            L’amore personalizza e, quindi, individualizza. L’affetto che lega una persona a un’altra è unico, come dimostra Francesco di Sales nel suo rapporto con la signora di Chantal: «Ogni affetto ha una sua peculiarità che lo differenzia dagli altri; quello che provo per voi possiede una certa particolarità che mi consola infinitamente, e, per dire tutto, per me è oltremodo fruttuoso». Il sole illumina tutti e ciascuno: «rischiarando un angolo della terra, non lo rischiara meno di quel che farebbe se non risplendesse altrove, ma solamente in quell’angolo».

L’essere umano è in divenire
            Umanista cristiano, Francesco di Sales crede infine alla possibilità che la persona umana ha di perfezionarsi. Erasmo aveva forgiato la formula: Homines non nascuntur sed finguntur. Mentre l’animale è un essere predeterminato, guidato dall’istinto, l’uomo, al contrario, è in perpetua evoluzione. Non solo cambia, ma può cambiare sé stesso, tanto in meglio che in peggio.
            Ciò che preoccupava interamente l’autore del Teotimo era perfezionare sé stesso e aiutare gli altri a perfezionarsi, e non soltanto in ambito religioso, bensì in ogni cosa. Dalla nascita alla tomba, l’uomo è in una situazione di apprendista. Imitiamo il coccodrillo che «non cessa mai di crescere fin tanto che vive». Infatti, «rimanere in uno stesso stato a lungo non è possibile: chi non avanza, indietreggia in questo traffico; chi non sale, scende in questa scala; chi non vince è vinto in questo combattimento». Egli cita san Bernardo che diceva: «È scritto in modo particolare per l’uomo, che non si troverà mai nello stesso stato: bisogna che avanzi o indietreggi». Andiamo avanti:

Non sai che sei in cammino e che il camino non è fatto per sedersi, ma per andare avanti? Ed è talmente fatto per avanzare, che muoversi in avanti si chiama camminare.

            Ciò significa anche che la persona umana è educabile, capace di apprendere, di correggersi e di migliorarsi. E ciò è vero a tutti i livelli. L’età a volte non c’entra per nulla. Guardate questi fanciulli cantori della cattedrale, che superano di gran lunga le capacità del loro vescovo in questo loro ambito: «Ammiro questi bambini – diceva – che a mala pena sanno parlare e che cantano già la loro parte; comprendono tutti i segni e le regole musicali, mentre io non saprei proprio come cavarmela, io che sono un uomo fatto e che si vorrebbe far passare per un grande personaggio». Nessuno in questo mondo è perfetto:

Ci sono persone di loro natura leggere, altre sgarbate, altre ancora ben restie ad ascoltare le opinioni altrui, e altre infine portate all’indignazione, altre alla collera e altre all’amore; per farla breve, troviamo ben poche persone in cui non sia possibile scoprire l’una o l’altra di simili imperfezioni.

            Si deve allora disperare di poter migliorare il proprio temperamento, correggendo qualcuna delle nostre naturali inclinazioni? Niente affatto.

Per quanto, infatti, siano in ciascuno di noi come proprie e naturali, se con l’applicazione a un attaccamento contrario si possono correggere e regolare, e perfino uno può liberarsene e purificarsi, allora, vi dico Filotea, che bisogna farlo. Si è pur trovato il modo di far diventare dolci i mandorli amari: basta forarli al piede e farne uscire il succo; perché mai non potremmo allora far uscire le nostre inclinazioni perverse, per diventare così migliori?

            Di qui la conclusione ottimista ma esigente: «Non c’è natura buona che non si possa far diventare malvagia, tramite abitudini viziose; non c’è natura tanto perversa che non si possa, anzitutto con la grazia di Dio e poi con l’impegno industrioso e la diligenza, domare e vincere». Se l’uomo è educabile, bisogna non disperare di nessuno e guardarsi bene dai pregiudizi nei confronti delle persone:

Non dite: quel tale è un ubriacone, anche se l’avete visto ubriaco; è un adultero, per averlo visto peccare; è un incestuoso, per averlo colto in quella disgrazia; perché un solo atto non basta per dare il nome alla cosa. […] E anche quando un uomo fosse stato a lungo vizioso, si correrebbe lo stesso il rischio di mentire chiamandolo vizioso.

            La persona umana non ha mai terminato di coltivare il suo giardino. È la lezione che il fondatore delle visitandine inculcava loro, quando le chiamava «a coltivare la terra e il giardino» dei loro cuori e dei loro spiriti, perché non esiste «uomo tanto perfetto da non aver bisogno di impegnarsi sia per crescere nella perfezione e sia per conservarla».




L’educazione al femminile con san Francesco di Sales

Il pensiero educativo di san Francesco di Sales rivela una visione profonda e innovativa del ruolo femminile nella Chiesa e nella società del suo tempo. Convinto che la formazione delle donne fosse fondamentale per la crescita morale e spirituale dell’intera comunità, il santo vescovo di Ginevra promosse un’educazione equilibrata, rispettosa della dignità femminile ma anche attenta alle fragilità. Con uno sguardo paterno e realista, seppe cogliere e valorizzare le qualità delle donne, incoraggiandole a coltivare virtù, cultura e devozione. Fondatore della Visitazione con Giovanna di Chantal, difese con vigore la vocazione femminile anche contro critiche e pregiudizi. Il suo insegnamento continua a offrire spunti attuali sull’educazione, l’amore e la libertà nella scelta della propria vita.

            In occasione del suo viaggio a Parigi nel 1619, Francesco di Sales incontrò Adrien Bourdoise, un prete riformatore del clero, che gli rimproverò di occuparsi troppo delle donne. Il vescovo gli avrebbe risposto con calma che le donne erano la metà del genere umano e che, formando buone cristiane, si avrebbero avuti giovani buoni, e con giovani buoni, buoni preti. D’altronde, san Girolamo non ha consacrato loro parecchio tempo e vari scritti? La lettura delle sue lettere è raccomandata da Francesco di Sales alla signora di Chantal, la quale vi troverà, tra l’altro, numerose indicazioni «per educare le sue figlie». Se ne dedurrà che il ruolo delle donne in ambito educativo giustificava, ai suoi occhi, il tempo e la sollecitudine ad esse dedicati.

Francesco di Sales e le donne del suo tempo
            “Bisogna aiutare il sesso femminile, disprezzato”, aveva detto un giorno il vescovo di Ginevra a Jean-François de Blonay. Per comprendere le preoccupazioni e il pensiero di Francesco di Sales conviene situarlo nella sua epoca. Occorre dire che un certo numero di sue affermazioni sembrano ancora molto legate alla mentalità corrente. Nella donna del suo tempo deplorava «questa femminile tenerezza con sé stesse», la facilità «nel compatirsi e nel desiderare di essere compatite», una maggiore propensione rispetto agli uomini «a dar credito ai sogni, ad aver paura degli spiriti e ad essere credulone e superstiziose», e soprattutto, gli «attorcigliamenti dei loro vanitosi pensieri». Tra i consigli dati alla signora di Chantal attinenti all’educazione delle figlie, scriveva senza esitazione: “Togliete loro la vanità dall’anima: nasce quasi assieme al sesso”.
            Tuttavia, le donne sono dotate di grandi qualità. Scriveva a proposito della signora di La Fléchère che aveva appena perso il marito: “Se avessi soltanto questa perfetta pecorella nel mio ovile, non mi sarei angustiato d’essere pastore di questa afflitta diocesi. Dopo la signora di Chantal, non so se ho mai incontrato un’anima più forte in un corpo femminile, uno spirito più ragionevole e un’umiltà più sincera”. Le donne non sono affatto le ultime nella pratica delle virtù: “Non abbiamo forse visto molti grandi teologi che hanno detto cose meravigliose sulle virtù, non però per praticarle, mentre, al contrario, ci sono tante sante donne che non sanno parlare di virtù, ma che tuttavia conoscono molto bene come praticarle?”.
            Sono le donne sposate quelle più degne di ammirazione: «Oh mio Dio! Come sono gradite a Dio le virtù di una donna sposata; infatti devono essere forti ed eccellenti per poter durare in tale vocazione!». Nella lotta per conservare la castità, riteneva che «le donne sovente hanno combattuto in maniera più coraggiosa rispetto agli uomini».
            Fondatore di una congregazione di donne assieme a Giovanna di Chantal, fu in costante relazione con le prime religiose. Accanto a lodi, incominciarono a piovere le critiche. Spinto in queste trincee, il fondatore dovette difendersi e difenderle, non soltanto in quanto religiose, ma anche in quanto donne. In un documento che doveva servire come prefazione delle Costituzioni delle visitandine, troviamo la vena polemica di cui sapeva dar prova, dirigendosi non più contro «eresiarchi», ma contro «censori» malevoli e ignoranti:

La presunzione e inopportuna arroganza di parecchi figli di questo secolo, che biasimano ostentatamente tutto ciò che non è secondo il loro spirito […], mi offre l’occasione, meglio mi costringe a stendere questa Prefazione, mie carissime Suore, per armare e difendere la vostra santa vocazione contro le punte dello loro lingue pestifere; affinché le anime buone e pie, che senza dubbio sono legate al vostro  amabile e onorato Istituto, trovino qui come respingere le frecce scagliate dalla temerità di questi bizzarri e insolenti censori.

            Prevedendo forse che un tale preambolo rischiava di danneggiare la causa, il fondatore della Visitazione scrisse una seconda edizione addolcita, allo scopo di mettere in luce la fondamentale uguaglianza dei sessi. Dopo aver citato la Genesi, questa volta ne faceva il seguente commento: “La donna, dunque, non meno dell’uomo, ha la grazia di essere stata fatta a immagine di Dio; pari onore nell’uno e nell’altro sesso; le loro virtù sono uguali”.

L’educazione delle figlie
            Il nemico del vero amore è la “vanità”. Questo era il difetto che Francesco di Sales, come peraltro i moralisti e i pedagoghi del suo tempo, temeva di più nell’educazione delle giovani. Ne rileva parecchie manifestazioni. Guardate «queste signorine di mondo, che essendosi ben sistemate, vanno in giro gonfie d’orgoglio e di vanità, con la testa alta, gli occhi aperti, ansiose d’essere notate dai mondani».
            Il vescovo di Ginevra si diverte un poco nel prendere in giro queste «ragazze di società», che «portano cappelli sparsi e incipriati», con la testa «ferrata come si ferrano gli zoccoli dei cavalli», tutte «impennacchiate e infiorate quanto non è possibile dire» e «cariche di fronzoli». Ci sono di quelle che «indossano vesti che stringono e danno loro molto fastidio, e questo per far vedere che sono snelle»; ecco una vera “pazzia che per lo più le rende incapaci di fare alcunché”.
            Che pensare allora di certune bellezze artificiali trasformate in «boutiques di vanità?». Francesco di Sales preferisce una «faccia limpida e pulita», desidera «che non ci sia nulla di affettato, perché tutto ciò che è imbellettato dispiace». Occorre allora condannare ogni «artificio»? Ammette volentieri che «nel caso di qualche difetto di natura, bisogna correggerlo in modo da vederne la correzione, ma spoglia d’ogni artificio».
            E il profumo? si chiedeva il predicatore parlando della Maddalena. «È una cosa eccellente – risponde –; anche colui che è profumato ne percepisce qualcosa di eccellente»; aggiungendo, da buon conoscitore, che «il muschio della Spagna gode di grande stima nel mondo». Nel capitolo sulla «decenza degli abiti», permette che le giovani abbiano vestiti con ornamenti vari, «perché possono liberamente desiderare di essere gradevoli a molti, ma con l’unico scopo di guadagnarsi un giovane in vista di un santo matrimonio». Chiudeva con questa indulgente osservazione: «Che volete? È pur conveniente che le signorine siano un po’ carine».
            È opportuno aggiungere che la lettura della Bibbia l’aveva preparato a non fare il muso duro davanti alla bellezza femminile. Nell’amante del Cantico dei cantici, ammirava «la notevole bellezza del suo viso simile a un bouquet di fiori». Descrive Giacobbe che, incontrando Rachele presso il pozzo, «versava lacrime di gioia scorgendo una vergine che gli piaceva e l’incantava per la grazia del volto». Amava anche raccontare la storia di santa Brigida, nata in Scozia, un paese dove si ammirano «le più belle creature che uno possa vedere»; era «una giovane oltremodo avvenente», ma la sua bellezza era «naturale», precisa il nostro autore.
            L’ideale della bellezza salesiana si chiama «buona grazia», che designa non soltanto «la perfetta armonia delle parti che fa essere bello», ma anche la «grazia dei movimenti, dei gesti e delle azioni, che è come l’anima della vita e della bellezza», ossia la bontà di cuore. La grazia esige «semplicità e modestia». Ora, la grazia è una perfezione che deriva dall’intimo della persona. È la bellezza unita alla grazia che fa di Rebecca l’ideale femminile della Bibbia: ella era «così bella e graziosa presso il pozzo dove attingeva l’acqua per abbeverare il gregge», e la sua «familiare bontà» le ispirava, inoltre, di dar da bere non soltanto ai servi di Abramo, ma anche ai suoi cammelli.

Istruzione e preparazione alla vita
            Ai tempi di san Francesco di Sales, le donne avevano poche possibilità di accedere a studi superiori. Le ragazze imparavano ciò che udivano da parte dei loro fratelli e, quando la famiglia ne aveva la possibilità, frequentavano un monastero. La lettura era certamente più frequente della scrittura. I collegi erano riservati ai ragazzi, di conseguenza, imparare il latino, lingua della cultura, era praticamente interdetto alle ragazze.
            Bisogna credere che Francesco di Sales non era contrario al fatto che le donne potessero diventare persone colte, ma a condizione che non cadessero nella pedanteria e nella vanità. Ammirava santa Caterina che era «molto erudita, ma umile in tanta scienza». Tra le interlocutrici del vescovo di Ginevra, la signora di La Fléchère aveva studiato latino, italiano, spagnolo e le belle arti, ma era un’eccezione.
            Per trovare loro un posto nella vita, sia in ambito sociale che in quello religioso, a un certo momento le giovani avevano spesso bisogno di un aiuto particolare. Georges Rolland riferisce che il vescovo si occupò personalmente di parecchi casi difficili. Una donna di Ginevra, con tre figlie, fu assistita generosamente dal vescovo, «con denaro e crediti»; «collocò una di dette figlie come apprendista presso un’onesta signora della città, pagandole la pensione per sei anni, in grano e in denaro». Donò pure 500 fiorini per il matrimonio della figlia di uno stampatore di Ginevra.
            L’intolleranza religiosa del tempo talvolta provocava dei drammi, ai quali Francesco di Sales cercava di porre rimedio. Marie-Judith Gilbert, educata a Parigi dai genitori negli «errori di Calvino», scoprì a diciannove anni il libro della Filotea, che osava leggere soltanto in segreto. Ne prese in simpatia l’autore, di cui aveva sentito parlare. Sorvegliata strettamente dal padre e dalla madre, riuscì a farsi prelevare in carrozza, si fece istruire nella religione cattolica ed entrò tra le suore della Visitazione.
            Il ruolo sociale delle donne rimaneva ancora piuttosto limitato. Francesco di Sales non del tutto contrario all’intervento delle donne nella vita pubblica. Scriveva in questi termini, ad esempio, a una donna portata a intervenire in ambito pubblico, a proposito e a sproposito:

Il vostro sesso e la vostra vocazione vi consentono di reprimere il male esterno a voi, ma solo se ciò è ispirato dal bene e compiuto con rimostranze semplici, umili e caritatevoli nei confronti dei trasgressori e avvertendone i superiori nei limiti del possibile.

            D’altra parte, è significativo che una contemporanea di Francesco di Sales, la signorina di Gournay, una prima femminista ante litteram, una intellettuale e autrice di testi polemici come il suo trattato L’uguaglianza degli uomini e delle donne e La lagnanza delle donne, gli abbia manifestato grande ammirazione. Costei si accanì durante tutta la sua vita a dimostrare questa uguaglianza, raccogliendo tutte le testimonianze possibili in merito, senza dimenticare quella del «buono e santo vescovo di Ginevra».

Educazione all’amore
            Francesco di Sales ha parlato molto dell’amore di Dio, ma è stato anche assai attento alle manifestazioni dell’amore umano. Per lui, infatti, l’amore è uno, anche se il suo «oggetto» è diverso e disuguale. Per spiegare l’amore di Dio non ha saputo fare meglio se non partendo dall’amore umano.
            L’amore nasce dalla contemplazione del bello, e il bello si lascia percepire dai sensi, soprattutto dagli occhi. Si stabilisce un fenomeno interattivo tra lo sguardo e la bellezza: «Il contemplare la bellezza ce la fa amare, e l’amore ce la fa contemplare». L’odorato reagisce allo stesso modo; infatti, «i profumi esercitano l’unico loro potere di attrazione con la loro soavità».
            Dopo l’intervento dei sensi esterni subentra quello dei sensi interni, la fantasia, l’immaginazione, che esaltano e trasfigurano il reale: «In forza di questo reciproco movimento dell’amore verso la vista e della vista verso l’amore, allo stesso modo che l’amore rende più splendente la bellezza della cosa amata, così la vista della cosa amata rende l’amore più innamorato e piacevole”. Si comprende allora perché «coloro che hanno dipinto Cupido ne hanno bendato gli occhi, affermando che l’amore è ceco». A questo punto sopraggiunge l’amore-passione: esso fa «ricercare il dialogo, e il dialogo spesso nutre ed accresce l’amore»; inoltre «desidera il segreto, e quando gli innamorati non hanno nessun segreto da dirsi, si compiacciono talvolta a dirselo segretamente»; e infine induce a «proferire delle parole che, certo, sarebbero ridicole se non sgorgassero da un cuore appassionato».
            Ora, questo amore-passione che forse si riduce soltanto ad «amorucci», a «galanterie», è esposto a varie peripezie, a tal punto da indurre l’autore della Filotea a intervenire con una serie di considerazioni e di avvertimenti a proposito di «amicizie frivole che si allacciano fra persone di diverso sesso e senza intenzione di matrimonio». Spesso non sono altro che «aborti o, meglio, parvenze di amicizia».
            Francesco di Sales si è espresso anche in tema di baci, chiedendosi per esempio con gli antichi commentatori, come mai Rachele aveva permesso a Giacobbe di abbracciarla. Egli spiega che ci sono due specie di bacio: cattivo l’uno, buono l’altro. I baci che si scambiano facilmente fra loro i giovani e che all’inizio non sono cattivi, lo possono diventare in seguito a causa della fragilità umana. Ma il bacio però può essere anche buono. In determinati luoghi è voluto dal costume. «Il nostro Giacobbe abbraccia molto innocentemente la sua Rachele; Rachele accetta questo bacio di cortesia da parte di quest’uomo dal carattere buono e dal viso pulito». «Oh! – concludeva Francesco di Sales – datemi persone che abbiano l’innocenza di Giacobbe e di Rachele e permetterò loro di baciarsi».
            Nella questione della danza e del ballo, anch’essa all’ordine del giorno, il vescovo di Ginevra evitava i comandi assoluti, come facevano i rigoristi del tempo, tanto cattolici che protestanti, mostrandosi comunque molto prudente. Gli si è perfino rinfacciato aspramente di aver scritto che «le danze e i balli di per sé sono cose indifferenti». Come per certi giochi, anch’essi diventano pericolosi quando vi ci si affeziona talmente da non potersene più distaccare: il ballo «bisogna farlo per ricreazione e non per passione; per poco tempo e non fino a stancarsi e a stordirsi». Ciò che è più pericoloso sta nel fatto che questi passatempi diventano spesso occasioni che provocano «dispute, invidie, beffe, amorazzi».

La scelta della forma di vita
            Quando la figlioletta è diventata grande, arriva «il giorno in cui bisognerà parlarle, intendo riferirmi a una parola decisiva, quella in cui si dice alle giovani di volerle maritare». Uomo del suo tempo, Francesco di Sales condivideva in larga misura l’idea che attribuiva ai genitori un rilevante compito nel determinare la vocazione dei figli, sia al matrimonio che alla vita religiosa. «D’ordinario non si sceglie il proprio principe o il proprio vescovo, il proprio padre o la propria madre, e neppure spesse volte il proprio marito», costatava l’autore della Filotea. Tuttavia, afferma chiaramente che «le figlie non possono essere date in sposa, fintantoché esse dicono di no».
            La prassi corrente è spiegata bene in questo passo della Filotea: «Perché un matrimonio si faccia veramente, tre cose sono necessarie nei riguardi della giovane che si vuole dare in sposa: anzitutto che le si faccia la proposta; poi, che lei la gradisca; in terzo luogo che acconsenta». Siccome le ragazze si sposavano molto sovente assai giovani, non ci si può meravigliare della loro immaturità affettiva.  «Le ragazze sposate molto giovani amano realmente i loro sposi, se ne hanno, ma non cessano di amare anche gli anelli, i monili, le amiche con le quali si divertono un mondo a giocare, a ballare e a fare pazzie».
            Il problema della libertà di scegliere si poneva ugualmente per i fanciulli che si voleva destinare alla vita religiosa. La Franceschetta, figlia della baronessa di Chantal, doveva essere collocata in un monastero dalla madre desiderosa di vederla religiosa, ma il vescovo intervenne: «Se Franceschetta vuole di buon grado essere religiosa, bene; in caso contrario, non approvo che se ne anticipi il volere con decisioni non sue». Non converrebbe d’altronde che la lettura delle lettere di san Girolamo orienti troppo la madre nella via della severità e della costrizione. Perciò le consiglia di «usare moderazione» e di procedere con «inspirazioni soavi».
            Certe giovani esitano di fronte alla vita religiosa e al matrimonio, senza mai giungere a decidersi. Francesco di Sales incoraggiò la futura signora de Longecombe a fare il passo del matrimonio, che volle celebrare egli stesso. Fece quest’opera buona, dirà in seguito il marito, alla domanda della moglie «che desiderava sposarsi per le mani del vescovo, e senza tale presenza, non avrebbe mai potuto fare questo passo, a causa della grande avversione che nutriva nei confronti del matrimonio».

Le donne e la «devozione»
            Estraneo a ogni femminismo ante litteram, Francesco di Sales era consapevole dell’eccezionale apporto della femminilità sul piano spirituale. Si è fatto notare che favorendo la devozione nelle donne, l’autore della Filotea ne ha favorito, congiuntamente, la possibilità di una maggiore autonomia, una «vita privata al femminile».
            Non meraviglia che le donne abbiano disposizioni particolari per la «devozione». Dopo aver enumerato un certo numero di dottori ed esperti, poteva scrivere nella prefazione del Teotimo: «Ma affinché si sapesse che questo tipo di scritti si redigono meglio con la devozione degli innamorati che con la dottrina dei sapienti, lo Spirito santo ha fatto sì che numerose donne compissero meraviglie al riguardo. Chi ha mai manifestato meglio le celestiali passioni dell’amore divino di santa Caterina da Genova, di sant’Angela da Foligno, di santa Caterina da Siena, di santa Matilde?». È noto l’influsso della madre di Chantal nella redazione del Teotimo, e in particolare del libro nono, «il vostro libro nono dell’Amore di Dio», secondo l’espressione dell’autore.
            Le donne potevano immischiarsi in problemi concernenti la religione? «Ecco dunque questa donna che fa la teologhessa», dice Francesco di Sales parlando della Samaritana del Vangelo. Si deve necessariamente scorgervi una disapprovazione nei confronti delle teologhe? Non è certo. Tanto più che afferma con forza: «Vi dico che una donna semplice e povera può amare Dio quanto un dottore in teologia». La superiorità non abita sempre là dove uno pensa.
            Ci sono donne superiori agli uomini, incominciando dalla Santa Vergine. Francesco di Sales rispetta sempre il principio dell’ordine stabilito dalle leggi religiose e civili del suo tempo, verso le quali predica l’obbedienza, ma la sua prassi testimonia una grande libertà di spirito. Così, per il governo dei monasteri femminili, riteneva che era meglio per loro essere sotto la giurisdizione del vescovo piuttosto dipendere dai loro fratelli religiosi, i quali rischiavano di pesare su di loro in maniera eccessiva.
            Le visitandine, da parte loro, non dipenderanno da alcun ordine maschile e non avranno nessun governo centrale, essendo ogni monastero sotto la giurisdizione del vescovo del luogo. Egli osò qualificare col titolo inatteso di «apostole» le suore della Visitazione in partenza per una nuova fondazione.
            Se interpretiamo correttamente il pensiero del vescovo di Ginevra, la missione ecclesiale delle donne consiste nell’annunciare non la parola di Dio, ma «la gloria di Dio» con la bellezza della loro testimonianza. I cieli, prega il salmista, narrano la gloria di Dio soltanto con il loro splendore. «La bellezza del cielo e del firmamento invita gli uomini ad ammirare la grandezza del Creatore e ad annunciare le sue meraviglie»; e «non è forse una meraviglia più grande vedere un’anima ornata di molte virtù, rispetto a un cielo trapuntato di stelle?».




Giuseppe Augusto Arribat: un Giusto tra le Nazioni

1. Profilo biografico
            Il venerabile Giuseppe Augusto Arribat nacque il 17 dicembre 1879 a Trédou (Rouergue – Francia). La povertà della famiglia costrinse il giovane Augusto ad iniziare la scuola media presso l’oratorio salesiano di Marsiglia solamente all’età di 18 anni. Per la situazione politica di inizio secolo, egli cominciò la vita salesiana in Italia e ricevette la veste talare dalle mani del beato Michele Rua. Tornato in Francia cominciò, come tutti i suoi confratelli, la vita salesiana in una condizione di semi clandestinità, prima a Marsiglia e poi a La Navarre, fondata da Don Bosco nel 1878.
            Ordinato sacerdote nel 1912, venne chiamato alle armi durante la Prima guerra mondiale e fece l’infermiere barelliere. Terminata la guerra don Arribat continuò a lavorare intensamente a La Navarre fino al 1926, dopo di che andò a Nizza dove stette fino al 1931. Ritornò a La Navarre come direttore e contemporaneamente incaricato della parrocchia Sant`Isidoro nella valle di Sauvebonne. I suoi parrocchiani lo chiameranno “Il santo della valle”.
            Al termine del terzo anno fu mandato a Morges, nel cantone di Vaud, in Svizzera. Ricevette poi tre mandati successivi di sei anni ciascuno, prima a Millau, poi a Villemur e infine a Thonon nella diocesi di Annecy. Il periodo più carico di pericoli e di grazie fu probabilmente quello del suo incarico a Villemur durante la Seconda guerra mondiale. Tornato a La Navarre nel 1953, don Arribat vi resterà sino alla sua morte avvenuta il 19 marzo 1963.

2. Profondamente uomo di Dio
            Uomo del dovere quotidiano, nulla per lui era secondario, e tutti sapevano che si alzava per primo molto presto per pulire i bagni degli allievi e il cortile. Fatto direttore della casa salesiana, e volendo fare il suo dovere fino alla fine e alla perfezione, per rispetto e amore agli altri, spesso finiva le sue giornate molto tardi, abbreviando le sue ore di riposo. D’altra parte, era sempre disponibile, accogliente verso tutti, sapendo adattarsi a tutti, sia ai benefattori e grandi proprietari terrieri, sia ai servitori di casa, mantenendo una preoccupazione permanente per i novizi e i confratelli, e soprattutto per i giovani a lui affidati.
            Questo dono totale di sé si manifestò fino all’eroismo. Durante la Seconda guerra mondiale egli non esitò a ospitare famiglie e giovani ebrei, esponendosi al grave rischio di un’indiscrezione o di una denuncia. Trentatré anni dopo la sua morte, coloro che erano stati testimoni diretti del suo eroismo, fecero riconoscere il valore del suo coraggio e del sacrificio della sua vita. Il suo nome è iscritto a Gerusalemme, dove è stato ufficialmente riconosciuto come un «Giusto tra le Nazioni».
            Fu riconosciuto da tutti come un vero uomo di Dio, che faceva «tutto per amore, e nulla per forza», come diceva san Francesco di Sales. Ecco il segreto di un’irradiazione, di cui forse lui stesso non intuiva tutta la portata.
            Tutti i testimoni hanno rilevato la fede viva di questo servo di Dio, uomo di preghiera, senza ostentazione. La sua fede era la fede irradiante di un uomo sempre unito a Dio, un vero uomo di Dio, e in particolare un uomo dell’Eucaristia.
            Nel celebrare la Messa o quando pregava, emanava dalla sua persona una sorta di fervore che non poteva passare inosservato. Un confratello ha dichiarato che: «vedendolo tracciare su di sé il suo gran segno della croce, ognuno sentiva un opportuno richiamo alla presenza di Dio. Il suo raccoglimento all’altare era impressionante». Un altro salesiano ricorda che «s’imponeva di fare alla perfezione le sue genuflessioni con un coraggio, un’espressione di adorazione che mi portavano alla devozione». Lo stesso aggiunge: «Egli ha rafforzato la mia fede».
            La sua visione di fede traspariva in confessionale e nelle conversazioni spirituali. Egli comunicava la sua fede. Uomo della speranza, contava in ogni momento su Dio e la sua Provvidenza, mantenendo la calma nella tempesta e diffondendo ovunque un senso di pace.
            Questa profonda fede si è ulteriormente perfezionata in lui durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Non aveva più alcuna responsabilità e non poteva più leggere facilmente. Viveva soltanto dell’essenziale e lo testimoniava con semplicità accogliendo tutti quelli che sapevano bene che la sua semicecità non gli impediva di vedere chiaro nei loro cuori. In fondo alla cappella, il suo confessionale era un luogo assediato dai giovani e dai vicini della valle.

3. «Non sono venuto per essere servito…»
            L’immagine che i testimoni hanno conservato di don Augusto è quella del servitore del Vangelo, ma nel senso più umile. Spazzare il cortile, pulire i bagni degli allievi, lavare i piatti, curare e vegliare i malati, vangare il giardino, rastrellare il parco, decorare la cappella, allacciare le scarpe dei piccoli, pettinare i loro capelli, niente gli ripugnava ed era impossibile distoglierlo da questi umili esercizi di carità. Il “buon padre” Arribat, è stato più generoso con le azioni concrete che con le parole: dava volentieri la sua stanza al visitatore occasionale, che rischiava di essere alloggiato meno comodamente di lui. La sua disponibilità era permanente, di ogni momento. La sua preoccupazione per la pulizia e la dignitosa povertà non lo lasciavano in pace, perché la casa doveva essere accogliente. Come uomo dal contatto facile, approfittava delle sue lunghe marce per salutare tutti e avviare un dialogo, anche con i “mangia preti”.
            Don Arribat è vissuto oltre trent’anni alla Navarre, nella casa che Don Bosco stesso volle mettere sotto la protezione di san Giuseppe, capo e servitore della Sacra Famiglia, modello di fede nel nascondimento e nella discrezione. Nella sua sollecitudine per i bisogni materiali della casa e attraverso la sua vicinanza a tutte le persone dedite ai lavori manuali, contadini, giardinieri, operai, impiegati, uomini tuttofare, persone di cucina o di lavanderia, questo sacerdote faceva pensare a san Giuseppe, di cui portava anche il nome. E poi non è forse morto il 19 marzo, festa di san Giuseppe?

4. Un autentico educatore salesiano
            «La Provvidenza mi ha assegnato in modo speciale la cura dell’infanzia», ha detto per riassumere la sua specifica vocazione di salesiano, discepolo di Don Bosco, al servizio dei giovani, specialmente dei più bisognosi.
            Don Arribat non aveva esteriormente nessuna delle qualità particolari che s’impongono facilmente alla gioventù. Non era un grande sportivo, né un brillante intellettuale, né un parlatore che trascina le folle, né un musicista, né un uomo di teatro o di cinema, niente di tutto questo! Come spiegare l’influenza che esercitò sui giovani? Il suo segreto non è altro che quello che aveva imparato da Don Bosco, che conquistò il suo piccolo mondo con tre cose ritenute fondamentali nell’educazione della gioventù: la ragione, la religione e l’amorevolezza. Come il “padre e maestro della gioventù” egli ha saputo parlare con i giovani il linguaggio della ragione, per motivare, spiegare, persuadere, convincere i suoi allievi, evitando i moti della passione e dell’ira. Ha messo al centro della sua vita e della sua azione la religione, non nel senso dell’imposizione forzata, ma della testimonianza luminosa del suo rapporto con Dio, con Gesù e con Maria. Quanto all’amorevolezza, con la quale si guadagna il cuore dei giovani, vale la pena richiamare alla memoria a proposito del servo di Dio ciò che diceva san Francesco di Sales: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto».
            Particolarmente autorevole la testimonianza di don Pietro Ricaldone, futuro successore di Don Bosco, che scriveva dopo la sua visita canonica del 1923-1924: «Don Arribat Augusto è catechista, confessore e legge i voti di condotta! Si tratta di un santo confratello. Solo la sua bontà può rendere meno incompatibili tra di loro le sue diverse mansioni». Poi ripete l’elogio: «È un ottimo confratello, non troppa salute. Per le sue belle maniere gode della confidenza dei giovani più grandi che vanno quasi tutti da lui».
            Una cosa che colpiva era il rispetto quasi cerimonioso che manifestava verso tutti, ma soprattutto per i fanciulli. A un ometto di otto anni dava del “voi” chiamandolo “Monsieur”. Una signora ha testimoniato: «Lui rispettava talmente l’altro che l’altro era quasi costretto a innalzarsi alla dignità che gli era testimoniata in quanto figlio di Dio, e tutto ciò senza nemmeno parlare di religione».
            Viso aperto e sorridente, questo figlio di san Francesco di Sales e di Don Bosco non dava fastidio a nessuno. Se la magrezza della persona e l’ascetismo richiamavano il santo curato d’Ars e don Rua, il suo sorriso e la sua dolcezza erano di marca tipicamente salesiana. Come dichiara un testimone: «Era l’uomo più naturale del mondo, pieno di umorismo, spontaneo nelle sue reazioni, giovane di cuore».
            Le sue parole, che non erano quelle di un grande oratore, risultavano efficaci perché promanavano dalla semplicità e dal fervore della sua anima.
            Uno dei suoi exallievi testimoniò: «Nelle nostre teste di bambini, nelle nostre conversazioni infantili, dopo aver sentito le storie della vita di Giovanni Maria Vianney, ci rappresentavamo don Arribat come se fosse il Santo curato d’Ars per noi. Le ore di catechismo, presentato in linguaggio semplice ma vero, erano seguite con grande attenzione. Durante la Messa, le panche sul retro della cappella erano sempre piene. Avevamo l’impressione di incontrare Dio nella sua bontà e ciò ha segnato la nostra gioventù».

5. Don Arribat ecologista?
            Ecco un tratto originale per completare il quadro di questa figura che sembra del tutto ordinaria. È stato ritenuto quasi come un ecologista prima che questo termine fosse molto diffuso. Piccolo contadino, aveva imparato ad amare e rispettare profondamente la natura. Le sue composizioni giovanili sono piene di freschezza e di osservazioni molto fini, con un tocco di poesia. Ha condiviso spontaneamente il lavorare di questo mondo rurale, dove ha vissuto gran parte della sua lunga esistenza.
            A proposito del suo amore per gli animali, quante volte venne visto «il buon padre, con una scatola sotto il braccio, piena di briciole di pane, facendo faticosamente a piccoli passi molto dolorosi il percorso dal refettorio fino alle sue colombe». Fatto incredibile per chi non ha visto, narra la persona che ha assistito alla scena, le colombe appena lo vedevano si sono fatte avanti verso la grata come per accoglierlo. Lui ha aperto la gabbia e subito sono venute da lui, alcune si sono poste sulle sue spalle. «Egli parlava loro con espressioni che non posso ricordare, era come se le conoscesse tutte». Quando un ragazzino gli portava un passerotto che aveva preso dal nido, gli diceva: «Tu devi rendergli la libertà». Si racconta anche la storia di un cane lupo abbastanza feroce, che solo lui fu in grado di ammansire, e che venne a coricarsi accanto alla sua bara dopo la sua morte.
            Il rapido profilo spirituale di don Augusto Arribat ci ha riproposto alcuni lineamenti spirituali del volto di santi cui si sentiva vicino: l’amorevolezza di Don Bosco, l’ascesi di don Rua, la dolcezza di san Francesco di Sales, la pietà sacerdotale del santo curato d’Ars, l’amore della natura di san Francesco d’Assisi e il lavoro costante e fedele di san Giuseppe.




Educare il cuore umano con san Francesco di Sales

San Francesco di Sales, pone al centro della formazione umana il cuore, sede di volontà, amore e libertà. Partendo dalla tradizione biblica e dialogando con la filosofia e la scienza del suo tempo, il vescovo di Ginevra individua nella volontà la “facoltà maestra” capace di governare passioni e sensi, mentre gli affetti – soprattutto l’amore – ne alimentano il dinamismo interiore. L’educazione salesiana mira dunque a trasformare desideri, scelte e risoluzioni in un cammino di padronanza di sé, dove dolcezza e fermezza convergono per orientare l’intera persona verso il bene.

            Al centro e al vertice della persona umana, san Francesco di Sales pone il cuore, al punto che dirà: «Chi conquista il cuore dell’uomo conquista tutto l’uomo». Nell’antropologia salesiana non si può non costatare l’uso sovrabbondante del termine e del concetto di cuore. Ciò stupisce ancor più perché negli umanisti del tempo, impregnati di linguaggi e pensieri tratti dall’antichità, non pare possibile scoprire una particolare insistenza su questo simbolo.
            Da un lato, questo fenomeno è spiegabile con l’uso comune, universale, del sostantivo cuore per designare l’interiorità della persona, specialmente in riferimento alla sua sensibilità. D’altro lato, Francesco di Sales deve molto alla tradizione biblica, che considera il cuore come la sede delle facoltà più elevate dell’uomo, quali l’amore, la volontà e l’intelligenza.
            A queste considerazioni si potrebbero forse aggiungere le ricerche contemporanee di anatomia attinenti il cuore e la circolazione del sangue. Ciò che è importante per noi è chiarire il significato che Francesco di Sales attribuiva al cuore, partendo dalla sua visione della persona umana al cui centro e apice stanno la volontà, l’amore e la libertà.

La volontà, facoltà maestra
            Con le facoltà dello spirito, come l’intelletto e la memoria, si rimane nell’ambito del conoscere. Si tratta ora di addentrarsi in quello dell’agire. Come avevano già fatto sant’Agostino e certuni filosofi come Duns Scoto, Francesco di Sales assegna il primo posto alla volontà, probabilmente sotto l’influsso dei suoi maestri gesuiti. È la volontà che deve governare tutte le «potenze» dell’anima.
            È significativo che il Teotimo inizi col capitolo intitolato: «Come per la bellezza della natura umana, Dio abbia dato alla volontà il governo di tutte le facoltà dell’anima». Citando san Tommaso, Francesco di Sales afferma che l’uomo ha «pieno potere su ogni genere di accidenti e avvenimenti» e che «l’uomo saggio, cioè l’uomo che segue la ragione, si renderà maestro assoluto degli astri». Con l’intelletto e la memoria, la volontà è «il terzo soldato del nostro spirito e il più forte di tutti, perché nulla può sovrastare il libero volere dell’uomo; Dio stesso che l’ha creato non vuole in alcun modo forzarlo o violentarlo».
            La volontà esercita, però, la sua autorità in maniere molto diverse, e l’obbedienza ad essa dovuta è notevolmente variabile. Così alcune nostre membra, non impedite dal muoversi, obbediscono alla volontà senza problema. Apriamo e chiudiamo la bocca, muoviamo la lingua, le mani, i piedi, gli occhi a nostro piacimento e quanto vogliamo. La volontà esercita un potere sul funzionamento dei cinque sensi, ma si tratta di un potere indiretto: per non vedere con gli occhi, devo distoglierli o chiuderli; per praticare l’astinenza devo comandare alle mani di non fornire il cibo alla bocca.
            La volontà può e deve dominare l’appetito sensibile con le sue dodici passioni. Benché esso tenda a comportarsi come «un soggetto ribelle, sedizioso, irrequieto», la volontà talvolta può e deve dominarlo, anche a prezzo di una lunga lotta. La volontà ha potere anche sulle facoltà superiori dello spirito, la memoria, l’intelletto e l’immaginazione, perché è essa che decide di applicare lo spirito a tale oggetto e a distoglierlo da questo o da quel pensiero; ma non può regolarli e farli obbedire senza difficoltà, in quanto l’immaginazione ha la caratteristica di essere estremamente «mutevole e volubile».
            Ma come funziona la volontà? La risposta è relativamente facile se ci si riferisce al modello salesiano della meditazione o orazione mentale, con le tre parti che la compongono: le «considerazioni», gli «affetti» e le «risoluzioni». Le prime consistono nel riflettere e meditare su un bene, una verità, un valore. Tale riflessione produce normalmente degli affetti, cioè grandi desideri di acquistare e possedere tale bene o valore, e questi affetti sono in grado di «muovere la volontà». Infine la volontà, una volta «mossa», produce le «risoluzioni».

Gli «affetti» che muovono la volontà
            La volontà, essendo considerata da Francesco di Sales come un «appetito», è una «facoltà affettiva». Ma è un appetito razionale e non sensibile o sensuale. L’appetito produce dei moti, e mentre quelli dell’appetito sensibile sono ordinariamente chiamati «passioni», quelli della volontà sono detti «affetti», in quanto «premono» o «muovono» la volontà. L’autore del Teotimo chiama pure i primi «passioni del corpo» e i secondi «affetti del cuore». Salendo dall’ambito sensibile a quello razionale, le dodici passioni dell’anima si trasformano in affetti ragionevoli.
            Nei diversi modelli di meditazione proposti nell’Introduzione alla vita devota, l’autore invita Filotea, mediante una serie di espressioni vivaci e significative, a coltivare tutte le forme di affetti volontari: l’amore del bene («volgere il proprio cuore verso», «affezionarsi», «abbracciare», «attaccarsi», «congiungersi», «unirsi»); l’odio del male («detestarlo», «rompere ogni legame», «calpestare»); il desiderio («aspirare», «implorare», «invocare», «supplicare»); la fuga («disprezzare», «separarsi», «allontanarsi», «rimuovere», «abiurare»); la speranza («orsù dunque! Oh cuore mio!»); la disperazione («oh! la mia indegnità è grande!»); la gioia («gioire», «compiacersi»); la tristezza («affliggersi», «confondersi», «abbassarsi», «umiliarsi»); l’ira («rinfacciare», «pussare via», «sradicare»); la paura («tremare», «spaventare l’anima»); il coraggio («incoraggiare», «irrobustire»); e infine il trionfo («esaltare», «glorificare»).
            Gli stoici, negatori delle passioni – ma a torto – ammettevano però l’esistenza di questi affetti ragionevoli, che chiamavano «eupatie» o buone passioni. Affermavano «che il saggio non concupiva, ma voleva; che non provava allegria, ma gioia; che non andava soggetto a timore, ma era previdente ed accorto; per cui era spinto soltanto dalla ragione e secondo la ragione».
            Riconoscere il ruolo degli affetti nel processo decisionale pare indispensabile. È significativo che la meditazione destinata a sfociare nelle risoluzioni riservi loro un ruolo centrale. In certi casi, spiega l’autore della Filotea, si possono quasi tralasciare le considerazioni o abbreviarle, ma gli affetti non dovranno mai mancare perché sono quelli che motivano le risoluzioni. Allorché sopravviene un affetto buono, scriveva, «bisognerà lasciargli briglia sciolta e non pretendere di seguire il metodo che vi ho indicato”, perché le considerazioni si fanno soltanto per eccitare l’affetto.

L’amore, primo e principale «affetto»
            Per san Francesco di Sales, l’amore compare sempre al primo posto sia nella lista delle passioni che in quella degli affetti. Cos’è l’amore? demandava Jean-Pierre Camus all’amico, il vescovo di Ginevra, che gli rispose: «L’amore è la prima passione del nostro appetito sensitivo e il primo affetto di quello razionale, che è la volontà; dato che la nostra volontà non è altro se non l’amore del bene, e l’amore è volere il bene».
            L’amore governa gli altri affetti ed entra per primo nel cuore: «La tristezza, il timore, la speranza, l’odio e gli altri affetti dell’anima non entrano nel cuore se l’amore non li trascina dietro di sé». Sulla scia di sant’Agostino, per il quale «vivere è amare», l’autore del Teotimo spiega che gli altri undici affetti che popolano il cuore umano dipendono dall’amore: «L’amore è la vita del nostro cuore […]. Tutti i nostri affetti seguono il nostro amore, e secondo quello desideriamo, ci dilettiamo, speriamo e disperiamo, temiamo, ci facciamo coraggio, odiamo, fuggiamo, ci rattristiamo, ci adiriamo, ci sentiamo trionfanti».
            Curiosamente, la volontà ha prima di tutto una dimensione passiva, mentre l’amore è la potenza attiva che muove e commuove. La volontà non giunge a decidere se non è mossa da uno stimolo predominante: l’amore. Prendendo l’esempio del ferro attirato dalla calamita, si dovrà dire che la volontà è il ferro e l’amore la calamita.
            Per illustrare il dinamismo dell’amore, l’autore del Teotimo utilizza anche l’immagine dell’albero. Con una precisione da botanico, analizza le «cinque parti principali» dell’amore, il quale è «come un bell’albero, la cui radice è la convenienza della volontà col bene, il ceppo ne è il compiacimento, il tronco è la tensione, i rami sono le ricerche, i tentativi e gli altri sforzi, ma soltanto il frutto ne è l’unione e il godimento».
            L’amore si impone alla stessa volontà. Tale è la forza dell’amore che, per colui che ama niente è difficile, «per l’amore niente è impossibile». L’amore è forte come la morte, ripete Francesco di Sales col Cantico dei cantici; o piuttosto, l’amore è più forte della morte. A ben considerare, l’uomo vale soltanto per l’amore, e tutte le potenze e facoltà umane, specialmente la volontà, tendono ad esso: «Dio vuole l’uomo solamente per l’anima, e l’anima solamente per la volontà e la volontà solamente per l’amore».
            Per spiegare il suo pensiero, l’autore del Teotimo ricorre all’immagine dei rapporti tra uomo e donna, così com’erano codificati e vissuti al suo tempo. La giovane donna sugli innamorati che la corteggiano può scegliere quello che più le piace. Ma dopo il matrimonio, perde la libertà e da padrona diventa sottomessa alla potestà del marito, rimanendo presa da colui che essa stessa ha scelto. Così la volontà, che ha la scelta dell’amore, dopo averne abbracciato uno, gli rimane sottomessa.

Il combattimento della volontà per la libertà interiore
            Volere è scegliere. Fin tanto che uno è bambino, è ancora interamente dipendente e incapace di scegliere, ma crescendo ben presto le cose cambiano e le scelte si impongono. I bambini non sono né buoni né cattivi, perché non sono in grado di scegliere tra il bene e il male. Durante l’infanzia camminano come quelli che escono da una città e per un po’ vanno diritto; ma dopo un po’ scoprono che la via prende due direzioni; spetta loro scegliere quella di destra o di sinistra a piacimento, per andare dove vogliono.
            D’ordinario le scelte sono difficili perché richiedono che uno rinunci a un bene per un altro. Di solito la scelta dovrà farsi tra ciò che uno sente e ciò che vuole, perché c’è una grande differenza tra sentire e consentire. Il giovane tentato da una «donna scostumata», di cui parla san Girolamo, aveva l’immaginazione «oltremodo occupata da tale presenza voluttuosa», ma superò la prova con un puro atto della volontà superiore. La volontà, assediata da ogni parte e spinta a dare il suo consenso, ha resistito alla passione sensuale.
            La scelta si impone anche di fronte ad altre passioni e affetti: «Calpestate coi piedi le vostre sensazioni, diffidenze, paure, avversioni» –  consiglia Francesco di Sales a una persona da lui diretta –, chiedendole di schierarsi dalla «parte dell’ispirazione e della ragione contro la parte dell’istinto e dell’avversione». L’amore si serve della forza di volontà per governare tutte le facoltà e tutte le passioni. Sarà un «amore armato» e tale amore armato sottometterà le nostre passioni. Questa volontà libera «risiede nella parte suprema e più spirituale dell’anima» e «non dipende da altro se non da Dio e da se stessi; e quando tutte le altre facoltà dell’anima sono perdute e sottomesse al nemico, solo essa rimane padrona di sé per non acconsentire in alcun modo».
            La scelta, però, non è soltanto nell’obiettivo da raggiungere, ma anche nell’intenzione che presiede l’azione. È un aspetto al quale Francesco di Sales è particolarmente sensibile, perché tocca la qualità dell’agire. Infatti, il fine perseguito imprime un senso all’azione. Ci si può decidere di compiere un atto in base a molti motivi. A differenza degli animali, «l’uomo è talmente padrone delle sue azioni umane e ragionevoli da compierle tutte per un fine»; può perfino cambiare il fine naturale di un’azione, aggiungendovi un fine secondario, «come quando, oltre l’intenzione di soccorrere il povero cui tende l’elemosina, aggiunge l’intenzione di obbligare l’indigente a fare altrettanto». Presso i pagani, le intenzioni erano raramente disinteressate, e in noi le intenzioni possono essere inquinate «dall’orgoglio, dalla vanità, dall’interesse temporale o da qualche altro motivo cattivo». Talvolta «fingiamo di voler essere gli ultimi e ci sediamo in fondo al tavolo, ma per passare con più onore a capotavola».
            «Purifichiamo quindi, Teotimo, finche possiamo, tutte le nostre intenzioni», chiede l’autore del Trattato dell’amore di Dio. La buona intenzione «anima» le più piccole azioni e i semplici gesti quotidiani. In effetti, «raggiungiamo la perfezione non facendo molte cose, bensì facendole con un’intenzione pura e perfetta». Non ci si deve perdere di coraggio, perché «si può sempre correggere la propria intenzione, bonificarla e migliorarla».

Il frutto della volontà sono le «risoluzioni»
            Dopo aver messo in luce il carattere passivo della volontà, la cui prima proprietà consiste nel lasciarsi attirare dal bene prospettatole dalla ragione, conviene mostrarne l’aspetto attivo. San Francesco di Sales annette una grande importanza alla distinzione fra volontà affettiva e volontà effettiva, come pure fra amore affettivo e amore effettivo. L’amore affettivo assomiglia all’amore di un padre per il figlio minore, «un piccino grazioso ancora bimbetto, molto gentile», mentre l’amore che dimostra al figlio maggiore, «uomo ormai fatto, bravo e nobile soldato», è di un’altra specie: «Quest’ultimo è amato con un amore effettivo, mentre il piccino è amato con un amore affettivo».
            Parimenti, parlando della «costanza della volontà», il vescovo di Ginevra afferma che non ci si può contentare di una «costanza sensibile»; è necessaria una costanza «situata nella parte superiore dello spirito e che sia effettiva». Giunge il momento in cui non si deve più «speculare col ragionamento», ma «irrigidire la volontà». «La nostra anima sia triste o allegra, sommersa dalla dolcezza o dall’amarezza, in pace o turbata, luminosa o tenebrosa, tentata o tranquilla, colma di piacere o di disgusto, immersa nell’aridità o nella tenerezza, bruciata dal sole o rinfrescata dalla rugiada», non importa, una volontà forte non si lascia facilmente distogliere dai suoi propositi. «Restiamo saldi nei nostri propositi, inflessibili nelle nostre risoluzioni», chiede l’autore della Filotea. È la facoltà maestra da cui dipende il valore alla persona: «Il mondo intero vale meno di un’anima e un’anima vale nulla senza i nostri buoni propositi».
            Il sostantivo «risoluzione» indica una decisione che giunge al termine di un processo, il quale ha messo in gioco il ragionamento con la sua capacità di discernere e il cuore, inteso nel senso di una affettività che si lascia muovere da un bene attraente. Nella «dichiarazione autentica» che l’autore dell’Introduzione alla vita devota invita Filotea a pronunciare, si legge: «Questa è la mia volontà, la mia intenzione e la mia decisione, inviolabile e irrevocabile, volontà che confesso e confermo senza riserve o eccezioni». Una meditazione che non sfoci in atti concreti non servirebbe a niente.
            Nelle dieci Meditazioni proposte a titolo di modello nella prima parte della Filotea, troviamo espressioni frequenti come queste: «voglio», «non voglio più», «sì, seguirò le ispirazioni e i consigli», «farò tutto il possibile», «voglio fare questo o quello», «farò questo o quello sforzo», «farò questa o quella cosa», «scelgo», «voglio prendere parte», o ancora «voglio prendere la cura richiesta».
            La volontà di Francesco di Sales sovente assume un aspetto passivo, qui invece rivela tutto il suo dinamismo estremamente attivo. Non è quindi senza ragione che si è potuto parlare di volontarismo salesiano.

Francesco di Sales, educatore del cuore umano
            Francesco di Sales è stato considerato come un «ammirevole educatore della volontà». Dire che fu un ammirevole educatore del cuore umano significa, su per giù, la stessa cosa, ma con l’aggiunta di una sfumatura affettiva, caratteristica della concezione salesiana del cuore. Come si è visto, egli non ha trascurato nessun componente dell’essere umano: il corpo con i suoi sensi, l’anima con le sue passioni, lo spirito con le sue facoltà, in particolare intellettuali. Ma ciò che a lui importa di più è il cuore umano, a proposito del quale scriveva a una sua corrispondente: «È necessario, quindi, coltivare con grande cura questo cuore benamato e non risparmiare nulla di quanto può essere utile alla sua felicità».
            Ora, il cuore dell’uomo è «inquieto», secondo il detto di sant’Agostino, perché è pieno di desideri inappagati. Sembra che non abbia mai né «riposo né tranquillità». Francesco di Sales propone allora un’educazione anche dei desideri. A. Ravier ha pure parlato di un «discernimento o di una politica del desiderio». In effetti, il principale nemico della volontà «è la quantità di desideri che abbiamo di questa o di quella cosa. In breve, la nostra volontà è così piena di pretese e di progetti, che molto spesso non fa altro che perdere tempo a considerarli uno dopo l’altro o anche tutti insieme, invece di darsi da fare per realizzarne uno più utile».
            Un buon pedagogo sa che per condurre il proprio allievo verso l’obiettivo propostogli, sia esso il sapere o la virtù, è imprescindibile presentargli un progetto che ne mobiliti le energie. Francesco di Sales si rivela un maestro nell’arte di motivare, quanto insegna alla sua «figlia», Giovanna di Chantal, una delle sue massime preferite: «Occorre fare tutto per amore e niente per forza». Nel Teotimo afferma che «la gioia apre il cuore come la tristezza lo chiude». L’amore infatti è la vita del cuore.
            Tuttavia la forza non deve mancare. Al giovane che era in procinto di «prendere il largo nel vasto mare del mondo», il vescovo di Ginevra consigliava «un cuore vigoroso» e «un cuore nobile», capace di governare i desideri. Francesco di Sales vuole un cuore dolce e pacifico, puro, indifferente, un «cuore spoglio di affetti» incompatibili con la vocazione, un cuore «retto», «disteso e senza alcuna costrizione». Non ama la «tenerezza di cuore» che si riduce a ricerca di sé, e richiede invece la «fermezza di cuore» nell’agire. «A un cuore gagliardo nulla è impossibile» – scrive a una signora –, per incoraggiarla a non abbandonare «il corso delle sante risoluzioni». Vuole un «cuore virile» e allo stesso tempo un cuore «docile, malleabile e sottomesso, arrendevole a ogni cosa consentita e pronto ad assumere ogni impegno per obbedienza e carità»; un «cuore dolce verso il prossimo e umile davanti a Dio», «nobilmente fiero» e «perennemente umile», «dolce e pacifico».
            In fin dei conti, l’educazione della volontà mira alla piena padronanza di sé, che Francesco di Sales esprime mediante un’immagine: prendere il cuore in mano, possedere il cuore o l’anima. «La grande gioia dell’uomo, Filotea, è possedere la propria anima; e quanto più la pazienza diventa perfetta, tanto più perfettamente possediamo la nostra anima». Ciò significa non già insensibilità, assenza di passioni o di affetti, bensì una tensione verso la padronanza se stessi. Si tratta d’un cammino diretto all’autonomia di sé, garantita dalla supremazia della volontà, libera e ragionevole, ma di una autonomia governata dall’amore sovrano.

Foto: Ritratto di San Francesco di Sales nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù a Roma. Opera su tela realizzata dal pittore romano Attilio Palombi e offerta in dono dal cardinale Lucido Maria Parocchi.




Educare le facoltà del nostro spirito con san Francesco di Sales

San Francesco di Sales presenta lo spirito come la parte più elevata dell’anima, retta da intelletto, memoria e volontà. Cuore della sua pedagogia è l’autorità della ragione, “divina fiaccola” che rende l’uomo realmente umano e deve guidare, illuminare e disciplinare passioni, immaginazione e sensi. Educare lo spirito significa quindi coltivare l’intelletto con studio, meditazione e contemplazione, esercitare la memoria come deposito delle grazie ricevute, e irrobustire la volontà perché scelga costantemente il bene. Da tale armonia sgorgano le virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – che formano persone libere, equilibrate e capaci di autentica carità.

            Lo spirito è considerato da Francesco di Sales come la parte superiore dell’anima. Le sue facoltà sono l’intelletto, la memoria e la volontà. L’immaginazione potrebbe farne parte nella misura in cui la ragione e la volontà intervengono nel suo funzionamento. La volontà, da parte sua, è la facoltà maestra cui conviene riservare un trattamento particolare. Lo spirito fa sì che l’uomo divenga, secondo la definizione classica, un «animale razionale». «Siamo uomini soltanto mediante la ragione», scrive Francesco di Sales. Dopo «le grazie corporali», ci sono «i doni dello spirito», che dovrebbero essere oggetto delle nostre riflessioni e della nostra riconoscenza.  Fra essi l’autore della Filotea distingue i doni ricevuti dalla natura e quelli acquistati con l’educazione:

Considerate i doni dello spirito: quanta gente c’è al mondo ebete, pazza furiosa, mentecatta. Perché non vi trovate fra loro? Dio vi ha favorita. Quanti sono stati educati rozzamente e nella più estrema ignoranza: ma voi, la Provvidenza divina vi ha fatto allevare in un modo civile e onorato.

La ragione, “divina fiaccola”
           
In un Esercizio del sonno o riposo spirituale, composto a Padova quando aveva ventitré anni, Francesco si proponeva di meditare un argomento che stupisce:

Mi fermerò ad ammirare la bellezza della ragione che Dio ha donato all’uomo, affinché illuminato e istruito dal suo meraviglioso splendore, odiasse il vizio e amasse la virtù. Oh! Seguiamo la splendente luce di questa divina fiaccola, perché ci è donata in uso per vedere dove dobbiamo mettere i piedi! Ah! Se ci lasciamo condurre dai suoi dettami, raramente inciamperemo, difficilmente ci faremo male.

            «La ragione naturale è un buon albero che Dio ha piantato in noi, i frutti che ne provengono possono essere soltanto buoni», afferma l’autore del Teotimo; è vero che è «gravemente ferita e quasi morta a causa del peccato», ma il suo esercizio non è fondamentalmente impedito.
            Nel regno interiore dell’uomo, «la ragione deve essere la regina, alla quale tutte le facoltà del nostro spirito, tutti i nostri sensi e lo stesso corpo devono rimanere assolutamente sottomessi». È la ragione che distingue l’uomo dall’animale, per cui bisogna guardarsi bene dall’imitare «le bertucce e le scimmie che sono sempre immusonite, tristi e lamentose quando manca la luna; poi, al contrario, alla luna nuova, saltano, danzano, e fanno tutte le smorfie possibili». È necessario far regnare «l’autorità della ragione», ribadisce Francesco di Sales.
            Fra la parte superiore dello spirito, che deve regnare, e la parte inferiore del nostro essere, designata a volte da Francesco di Sales col termine biblico di «carne», la lotta talvolta diventa aspra. Ogni fronte ha i suoi alleati. Lo spirito, «fortezza dell’anima», è accompagnato «da tre soldati: l’intelletto, la memoria e la volontà». Attenti dunque alla «carne» che complotta e cerca alleati sul posto:

La carne usa ora l’intelletto, ora la volontà, ora l’immaginazione, le quali associandosi contro la ragione, le lasciano libero il campo, creando divisione e facendo un cattivo servizio alla ragione. […] La carne alletta la volontà a volte coi piaceri, a volte con le ricchezze; ora sollecita l’immaginazione a campare pretese, ora suscita nell’intelletto una grande curiosità, il tutto col pretesto del bene.

            In questa lotta, anche quando tutte le passioni dell’anima sembrano sconvolte, niente è perduto fin tanto che lo spirito resiste: «Se questi soldati fossero fedeli, lo spirito non avrebbe alcun timore e non darebbe alcun peso ai propri nemici: come soldati che, disponendo di sufficienti munizioni, resistono nel bastione di una fortezza imprendibile, nonostante che i nemici si trovino nei sobborghi o addirittura abbiano già preso anche la città; è capitato alla cittadella di Nizza, davanti alla quale la forza di tre grandi principi non l’ha spuntata contro la resistenza dei difensori». La causa di tutte queste interiori lacerazioni è l’amore proprio. In effetti, «i nostri ragionamenti ordinariamente sono pieni di motivazioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, e ciò causa grandi conflitti nell’anima».
            In ambito educativo, è importante far sentire la superiorità dello spirito. «Qui sta il principio di un’educazione umana – dice il padre Lajeunie –: mostrare al fanciullo, appena la sua ragione si sveglia, ciò che è bello e buono, e distoglierlo da ciò che è cattivo; creare in questo modo nel suo cuore l’abitudine di controllare i suoi riflessi istintivi, invece di seguirli servilmente; è così, infatti, che si forma questo processo di sensualizzazione che lo rende schiavo dei suoi desideri spontanei. Al momento di scelte decisive, tale abitudine di cedere sempre, senza controllarsi, alle pulsioni istintive può rivelarsi catastrofica».

L’intelletto, “occhio dell’anima”
            L’intelletto, facoltà tipicamente umana e razionale, la quale consente di conoscere e comprendere, sovente è paragonato alla vista. Si afferma per esempio: «Io vedo», per dire: «Io comprendo». Per Francesco di Sales, l’intelletto è “l’occhio dell’anima”; di qui la sua espressione «l’occhio del vostro intelletto». L’incredibile attività di cui è capace, lo rende simile a «un operaio, il quale, con le centinaia di migliaia di occhi e di mani, come un altro Argo, compie più opere di tutti i lavoratori del mondo, perché non c’è niente nel mondo che non sia in grado di rappresentare».
            Come funziona l’intelletto umano? Francesco di Sales ne ha analizzato con precisione le quattro operazioni di cui è capace: il semplice pensiero, lo studio, la meditazione e la contemplazione. Il semplice pensiero si esercita su una grande diversità di cose, senza alcun fine, «come fanno le mosche che si posano sui fiori senza volerne estrarre alcun succo, ma soltanto perché li incontrano». Quando l’intelletto passa da un pensiero all’altro, i pensieri che così lo stipano sono d’ordinario «inutili e dannosi». Lo studio, al contrario, mira a considerare le cose «per conoscerle, per comprenderle e per parlarne bene, con lo scopo di «riempirne la memoria», come fanno li maggiolini che «si posano sulle rose per nessun altro fine se non per saziarsene e riempirsene il ventre».
            Francesco di Sales poteva fermarsi qui, ma conosceva e raccomandava altre due forme più elevate. Mentre lo studio mira a aumentare le conoscenze, la meditazione ha come scopo quello di «muovere gli affetti e, in particolare, l’amore»: «Fissiamo il nostro intelletto sul mistero dal quale speriamo di poter attingere buoni affetti», come la colomba che “tuba trattenendo il respiro e, mediante il brontolio che produce in gola senza lasciarne uscire il respiro, produce il suo tipico canto”.
            L’attività suprema dell’intelletto è la contemplazione, la quale consiste nel gioire del bene conosciuto tramite la meditazione e amato mediante tale conoscenza; questa volta assomigliamo agli uccellini che si trastullano nella gabbia soltanto per “far piacere al maestro». Con la contemplazione lo spirito umano giunge al suo vertice; l’autore del Teotimo afferma che la ragione «vivifica infine l’intelletto con la contemplazione”.
            Ritorniamo allo studio, l’attività intellettuale che ci interessa più da vicino. “C’è un vecchio assioma dei filosofi, secondo cui ogni uomo desidera conoscere”. Riprendendo da parte sua questa affermazione di Aristotele, come pure l’esempio di Platone, Francesco di Sales intende dimostrare che ciò costituisce un grande privilegio. Ciò che l’uomo vuol conoscere è la verità. La verità è più bella di quella «famosa Elena, per la cui bellezza morirono tanti Greci e Troiani». Lo spirito è fatto per la ricerca della verità: «La verità è l’oggetto del nostro intelletto, il quale, di conseguenza, scoprendo e conoscendo la verità delle cose, si sente pienamente appagato e contento». Quando lo spirito trova qualcosa di nuovo, ne prova una gioia intensa, e quando si incomincia a trovare qualche cosa di bello, si è spinti a continuare la ricerca, «come coloro che hanno trovato una miniera d’oro e si spingono sempre più avanti per trovarne ancora di più, di questo prezioso metallo». Lo stupore che produce la scoperta è un potente stimolo; «l’ammirazione, infatti, ha dato l’origine alla filosofia e all’attenta ricerca delle cose naturali». Essendo Dio la verità suprema, la conoscenza di Dio è la scienza suprema che riempie il nostro spirito. È lui che ci «ha donato l’intelletto per conoscerlo»; fuori di lui ci sono soltanto «pensieri vani e riflessioni inutili!»

Coltivare la propria intelligenza
            Ciò che caratterizza l’uomo è il grande desiderio di conoscere. È stato questo desiderio «a indurre il grande Platone a uscire da Atene e correre tanto», e «a indurre questi antichi filosofi a rinunciare alle loro comodità corporali». Certuni giungono perfino a digiunare diligentemente «per poter studiare meglio». Lo studio, infatti, produce un piacere intellettuale, superiore ai piaceri sensuali e difficile da fermare: «L’amore intellettuale, trovando nell’unione con il suo oggetto una contentezza insperata, ne perfeziona la conoscenza, continuando così ad unirvisi, e unendosi sempre più, non smette dal continuare a farlo».
            Si tratta di «illuminare bene l’intelletto», sforzandosi di «purgarlo» dalle tenebre dell’«ignoranza». Egli denuncia «l’ottusità e l’indolenza di spirito, che non vuole sapere ciò che è necessario» e insiste sul valore dello studio e dell’apprendimento: «Studiate sempre di più, con diligenza e umiltà», scriveva a uno studente. Ma non basta «purgare» l’intelletto dall’ignoranza, occorre inoltre «abbellirlo e ornarlo», «tappezzarlo di considerazioni». Per conoscere perfettamente una cosa, è necessario imparare bene, dedicare del tempo ad «assoggettare» l’intelletto, cioè a fissarlo su una cosa, prima di passare ad un’altra.
            Il giovane Francesco di Sales applicava la sua intelligenza non soltanto agli studi e a conoscenze intellettuali, ma anche a certi soggetti essenziali per la vita dell’uomo sulla terra, e, in particolare, alla «considerazione della vanità della grandezza, delle ricchezze, degli onori, delle comodità e dei piaceri voluttuosi di questo mondo»; alla «considerazione della nefandezza, abiezione e deplorabile miseria, presenti nel vizio e nel peccato», e alla «conoscenza dell’eccellenza della virtù».
            Lo spirito umano è sovente distratto, dimentica, si accontenta d’una conoscenza vaga o vana. Mediante la meditazione, non soltanto delle verità eterne, ma anche dei fenomeni e degli avvenimenti del mondo, è in grado di raggiungere una visione più realista e più profonda della realtà. Per questo motivo, nelle Meditazioni proposte dall’autore a Filotea, vi è dedicata una prima parte intitolata Considerazioni.
            Considerare significa applicare lo spirito a un oggetto preciso, esaminarne con attenzione i suoi diversi aspetti. Francesco di Sales invita Filotea a «pensare», a «vedere», a esaminare i differenti «punti», alcuni dei quali meritano di essere considerati «a parte». Esorta a vedere le cose in generale e a discendere poi ai casi particolari. Vuole che si esaminino i principi, le cause e le conseguenze di una determinata verità, di una data situazione, come pure le circostanze che l’accompagnano. Occorre anche saper «pesare» certe parole o sentenze, la cui importanza rischia di sfuggirci, considerarle una ad una, confrontarle l’una con l’altra.
            Come in ogni cosa, così nel desiderio di conoscere ci possono essere eccessi e deformazioni. Attenti alla vanità di falsi sapienti: certuni, infatti, «per il poco di scienza che hanno, vogliono essere onorati e rispettati da tutti, come se ognuno dovesse andare alla loro scuola e averli per maestri: perciò li si chiama pedanti». Ora, «la scienza ci disonora quando ci gonfia e degenera in pedanteria». Che ridicolaggine voler istruire Minerva, Minervam docere, la dea della saggezza! «La peste della scienza è la presunzione, che gonfia gli spiriti e li rende idropici, come sono d’ordinario i sapienti del mondo».
            Quando si tratta di problemi che ci superano e che rientrano nell’ambito dei misteri della fede, è necessario «purificarli da ogni curiosità», bisogna «tenerli ben chiusi e coperti di fronte a tali vane e sciocche questioni e curiosità». È la «purità intellettuale», la «seconda modestia» o l’«interiore modestia». Infine si deve sapere che l’intelletto può sbagliarsi e che esiste il «peccato dell’intelletto», come quello che Francesco di Sales rimprovera alla signora di Chantal, la quale aveva commesso un errore riponendo un’esagerata stima nel suo direttore.

La memoria e i suoi «magazzini»
            Come l’intelletto, così la memoria è una facoltà dello spirito che suscita ammirazione. Francesco di Sales la paragona a un magazzino «che vale più di quelli di Anversa o di Venezia». Non si dice forse «immagazzinare» nella memoria? La memoria è un soldato la cui fedeltà ci è assai utile. È un dono di Dio, dichiara l’autore dell’Introduzione alla vita devota: Dio ve l’ha donata «perché vi ricordiate di lui», dice a Filotea, invitandola a fuggire «i ricordi detestabili e frivoli».
            Questa facoltà dello spirito umano ha bisogno di essere allenata. Quando era studente a Padova, il giovane Francesco esercitava la sua memoria non soltanto negli studi, ma anche nella vita spirituale, nella quale la memoria dei benefici ricevuti è un elemento fondamentale:

Prima di ogni cosa, mi dedicherò a rinfrescare la mia memoria con tutti i buoni moti, desideri, affetti, propositi, progetti, sentimenti e dolcezze che in passato la divina Maestà m’ha ispirato e fatto sperimentare, considerando i suoi santi misteri, la bellezza della virtù, la nobiltà del suo servizio e un’infinità di benefici che mi ha liberamente elargito; metterò pure ordine nei miei ricordi circa gli obblighi che ho verso di lei per il fatto che, per la sua santa  grazia, a volte ha debilitato i miei sensi inviandomi certe malattie e infermità, dalle quali ho tratto grande profitto.

            Nelle difficoltà e nelle paure è indispensabile servirsene «per ricordarsi delle promesse» e per «restare saldi confidando che tutto perirà piuttosto che le promesse vengano meno». Tuttavia, la memoria del passato non è sempre buona, perché può ingenerare tristezza, come capitò a un discepolo di san Bernardo, che fu assalito da una brutta tentazione quando incominciò «a ricordare gli amici del mondo, i parenti, i beni che aveva lasciato». In certe circostanze eccezionali della vita spirituale «è necessario purificarla dal ricordo di cose caduche e da affari mondani e dimenticare per un certo tempo le cose materiali e temporali, benché buone e utili». In campo morale, per esercitare la virtù, la persona che si è sentita offesa prenderà una misura radicale: «Mi ricordo troppo delle frecciate e ingiurie, d’ora in poi perderò la memoria».

«Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole»
            Le capacità dello spirito umano, in particolare dell’intelletto e della memoria, non sono destinate soltanto a gloriose imprese intellettuali, ma anche e soprattutto alla condotta della vita. Cercare di conoscere l’uomo, di comprendere la vita e definire le norme riguardanti i comportamenti conformi alla ragione, questi dovrebbero essere i compiti fondamentali dello spirito umano e della sua educazione. La parte centrale della Filotea, che tratta dell’«esercizio delle virtù», contiene, verso la fine, un capitolo che riassume in certo modo l’insegnamento di Francesco di Sales sulle virtù: «Dobbiamo avere uno spirito giusto e ragionevole».
            Con finezza e un pizzico di umore, l’autore denuncia numerose condotte bizzarre, folli o semplicemente ingiuste: «Accusiamo il prossimo per poco, e scusiamo noi stessi per molto di più»; «vogliamo vendere con un prezzo alto e comperare a buon mercato»; «ciò che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, e ciò che fanno gli altri per noi è niente»; «abbiamo un cuore dolce, grazioso e cortese verso di noi, e un cuore duro, severo e rigoroso verso il prossimo»; «abbiamo due pesi: l’uno per pesare le nostre comodità con il maggior vantaggio possibile per noi, l’altro per pesare quelle del prossimo con il maggior svantaggio che si può». Per giudicare bene, consiglia a Filotea, è necessario sempre mettersi nei panni del prossimo: «Fatevi venditrice nel comperare e compratrice nel vendere». Non si perde nulla a vivere da persone «generose, nobili, cortesi, con un cuore regale, costante e ragionevole».
            La ragione sta alla base dell’edificio dell’educazione. Certi genitori non hanno un atteggiamento mentale giusto; infatti, «ci sono ragazzi virtuosi che padri e madri non riescono quasi a sopportare perché hanno questo o quel difetto nel corpo; ce ne sono invece di viziosi continuamente coccolati, perché hanno questa o quella bella dote fisica». Ci sono educatori e responsabili che si lasciano andare a preferenze. «Tenete la bilancia ben diritta fra le vostre figlie», raccomandava a una superiora delle visitandine, affinché «i doni naturali non vi facciano distribuire ingiustamente gli affetti e i favori». E aggiungeva: «La bellezza, la buona grazia e la parola garbata conferiscono spesso una grande forza d’attrattiva alle persone che vivono secondo le loro inclinazioni naturali; la carità ha come oggetto la vera virtù e la bellezza del cuore, e si estende a tutti senza particolarismi».
            Ma è soprattutto la gioventù quella che corre i rischi maggiori, perché se «l’amor proprio ci allontana solitamente dalla ragione», ciò avviene forse ancor di più nei giovani tentati dalla vanità e dall’ambizione. La ragione di un giovane rischia di perdersi soprattutto quando si lascia «prendere da innamoramenti». Attenzione dunque, scrive il vescovo a un giovane, «a non permettere ai vostri affetti di prevenire il giudizio e la ragione nella scelta dei soggetti da amare; poiché, una volta che si è messo in corsa, l’affetto trascina il giudizio, come si trascinerebbe uno schiavo, a scelte molto deplorevoli, di cui potrebbe pentirsi assai presto». Spiegava pure alle visitandine che «i nostri pensieri sono solitamente pieni di ragioni, opinioni e considerazioni suggerite dall’amor proprio, che causa grandi conflitti nell’anima».

La ragione, fonte delle quattro virtù cardinali
            La ragione assomiglia al fiume del paradiso, «che Dio fa scorrere per irrigare tutto l’uomo in tutte le sue facoltà e attività»; esso si divide in quattro bracci corrispondenti alle quattro virtù che la tradizione filosofica chiama virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
            La prudenza «inclina il nostro intelletto a discernere veramente il male da evitare e il bene da compiere». Essa consiste nel «discernere quali sono i mezzi più appropriati per raggiungere il bene e la virtù». Attenzione alle passioni che rischiano di deformare il nostro giudizio e di provocare la rovina della prudenza! La prudenza non si oppone alla semplicità: saremo, congiuntamente, «prudenti come serpenti per non essere ingannati; semplici come colombe per non ingannare nessuno».
            La giustizia consiste nel «rendere a Dio, al prossimo e a sé stessi ciò che si deve». Francesco di Sales inizia con la giustizia verso Dio, connessa con la virtù della religione, «mediante la quale rendiamo a Dio il rispetto, l’onore, l’omaggio e la sottomissione a lui dovuti come nostro sovrano Signore e primo principio». La giustizia verso i genitori comporta il dovere della pietà, la quale «si estende a tutti gli uffici che si possono legittimamente rendere loro, sia in onore, sia in servizio».
            La virtù della fortezza aiuta a «superare le difficoltà che si incontrano nel compiere il bene e nel respingere il male». È ben necessaria, perché l’appetito sensitivo è «davvero un soggetto ribelle, sedizioso, turbolento». Quando la ragione domina le passioni, l’ira lascia il posto alla dolcezza, grande alleata della ragione. La fortezza è accompagnata spesso dalla magnanimità, «una virtù che ci spinge e inclina a compiere azioni di grande rilievo».
            Infine la temperanza è indispensabile «per reprimere le inclinazioni disordinate della sensualità», per «governare l’appetito dell’avidità» e «frenare le passioni connesse». In effetti, se l’anima si appassiona troppo ad un piacere e a una gioia sensibile, si degrada rendendosi incapace di gioie più elevate.
            In conclusione, le quattro virtù cardinali sono come le manifestazioni di questa luce naturale che ci fornisce la ragione. Praticando queste virtù, la ragione esercita «la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali».




Educare le nostre emozioni con san Francesco di Sales

La psicologia moderna ha dimostrato l’importanza e l’influsso delle emozioni nella vita della psiche umana e ognuno sa che le emozioni sono particolarmente forti durante la giovinezza. Ma non si parla quasi più delle «passioni dell’anima», che l’antropologia classica ha analizzato accuratamente, come testimonia l’opera di Francesco di Sales, e, in particolare, quando scrive che «l’anima, in quanto tale, è la sorgente delle passioni». Nel suo vocabolario il termine «emozione» non appare ancora con le connotazioni che gli attribuiamo. Dirà, invece, che le nostre «passioni» in certe circostanze sono «mosse». In ambito educativo, la questione che si pone riguarda l’atteggiamento che conviene avere di fronte a queste manifestazioni involontarie della nostra sensibilità, che hanno sempre una componente fisiologica.

«Io sono un povero uomo e nulla più»
            Tutti coloro che hanno conosciuto Francesco di Sales hanno notato la sua grande sensibilità e emotività. Gli saliva il sangue alla testa e il volto diventava tutto rosso. Conosciamo i suoi scatti d’ira contro gli «eretici» e la cortigiana di Padova. Come ogni buon Savoiardo, era «abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili scatti d’ira; un vulcano sotto la neve». La sua sensibilità era assai viva. In occasione della morte della sorellina Jeanne, scriveva a Giovanna di Chantal, anch’essa costernata:

Ahimè, Figlia mia: io sono un povero uomo e nulla più. Il mio cuore s’è intenerito più di quanto non avrei mai immaginato; ma la verità è che vi ha contribuito assai il dispiacere vostro e di mia madre: ho avuto paura per il cuore vostro e per quello di mia madre.

            Alla morte della madre, non nascose che quella separazione gli aveva fatto versare lacrime; ebbe certo il coraggio di chiuderle gli occhi e la bocca e di darle un ultimo bacio, ma dopo ciò, confidava a Giovanna di Chantal, «il cuore mi si gonfiò grandemente, e piansi per questa buona madre più di quanto non avessi mai fatto dal giorno in cui abbracciai il sacerdozio». Egli, infatti, non frenava sistematicamente le manifestazioni esteriori dei suoi sentimenti, il suo umanesimo le accettava tranquillamente. Una preziosa testimonianza di Giovanna di Chantal ci informa che «il nostro santo non era esente da sentimenti e da moti delle passioni, e non voleva esserne liberato».
            Si sa bene che le passioni dell’anima influiscono sul corpo, provocando reazioni esteriori ai loro movimenti interiori: «Noi esterniamo e manifestiamo le nostre passioni e i movimenti che le nostre anime hanno in comune con gli animali per mezzo degli occhi, con movimenti delle sopracciglia, della fronte e di tutto il volto». Così, non è in nostro potere non provare paura in determinate circostanze: «È come se uno dicesse ad una persona che si vede venire contro un leone od un orso: Non aver paura». Ora, «quando si prova timore si diventa pallidi, e quando veniamo richiamati per una cosa che ci contraria, ci sale il sangue al volto e diventiamo rossi, oppure la contrarietà può anche far sgorgare lacrime dai nostri occhi». I bambini, «se vedono un cane che abbaia, immediatamente si mettono a gridare e non smettono finché non sono vicini alla mamma».
            Quando la signora di Chantal incontrerà l’assassino del marito, come reagirà il suo «cuore»? «So che, senza dubbio, cotesto vostro cuore sobbalzerà e si sentirà sconvolto, e il vostro sangue bollirà», prevede il suo direttore spirituale, aggiungendo questa lezione di saggezza: «Dio ci fa toccare con mano, in queste emozioni, quanto sia vero che siamo fatti di carne, di ossa e di spirito».

Le dodici passioni dell’anima
            Nell’antichità, Virgilio, Cicerone e Boezio riducevano a quattro le passioni dell’anima, mentre sant’Agostino conosceva una sola passione dominante, l’amore, articolato a sua volta in quattro passioni secondarie: «L’amore che tende a possedere ciò che ama, si chiama cupidigia o desiderio; quando lo consegue e lo possiede, si chiama gioia; quando fugge ciò che gli è contrario, si chiama timore; se gli capita di perderlo e ne sente il peso, si chiama tristezza».
            Nella Filotea, Francesco di Sales ne segnala sette, paragonandole alle corde che il liutaio deve di volta in volta accordare: l’amore, l’odio, il desiderio, il timore, la speranza, la tristezza e la gioia.
            Nel Teotimo, invece, ne enumera fino a dodici. Stupisce che «questa moltitudine di passioni […] sia lasciata nelle nostre anime!». Le prime cinque hanno per oggetto il bene, ossia tutto ciò che la nostra sensibilità ci fa spontaneamente cercare e apprezzare come buono per noi (pensiamo ai beni fondamentali della vita, della salute e della gioia):

Se il bene viene considerato in sé stesso, secondo la sua bontà naturale, genera l’amore, prima e principale passione; se il bene viene considerato in quanto mancante, provoca il desiderio; se, desiderandolo, si pensa di poterlo conseguire, si ha la speranza; se si teme di non poterlo ottenere, si entra nella disperazione; e quando, di fatto, lo si possiede, si ha la gioia.

            Le altre sette passioni sono quelle che ci fanno spontaneamente reagire negativamente di fronte a tutto ciò che ci appare come male da evitare e da combattere (pensiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte):

Appena conosciamo il male, lo odiamo; se è assente, lo fuggiamo; se pensiamo di non poterlo evitare, lo temiamo; se riteniamo di poterlo evitare, ci facciamo animo e coraggio; ma se lo sentiamo presente, ci rattristiamo, e allora l’ira e il cruccio intervengono repentinamente per respingerlo e allontanarlo o almeno vendicarsene; e, se ciò non è fattibile, rimaniamo nella tristezza; ma, se riusciamo a respingerlo o a farne vendetta, proviamo soddisfazione e un senso di pace, che è piacere del trionfo, perché come il possesso del bene rallegra il cuore, la vittoria sul male soddisfa il coraggio.

            Come si vede, alle undici passioni dell’anima proposte da san Tommaso, Francesco di Sales aggiunge la vittoria sul male, che «soddisfa il coraggio» e provoca la gioia del trionfo.

L’amore, prima e principale passione
            Come era facile prevedere, l’amore è presentato come la «prima e principale passione»: «L’amore viene al primo posto, fra le passioni dell’anima: è il re di tutti i moti del cuore, trasforma in sé tutto il resto e ci fa essere ciò che esso ama». «L’amore è la prima passione dell’anima», ripete.
            Esso si manifesta in mille maniere e il suo linguaggio è assai diversificato; infatti, «non si esprime soltanto a parole, ma anche con gli occhi, con i gesti e con le azioni. Per quello che riguarda gli occhi, le lacrime che ne sgorgano sono prove d’amore». Ci sono pure i «sospiri d’amore». Ma tali manifestazioni dell’amore sono differenti. La più abituale e superficiale è l’emozione o passione, la quale mette in moto quasi involontariamente la sensibilità.
            E l’odio? Odiamo spontaneamente ciò che ci appare come un male. Occorre sapere che, tra le persone, ci sono forme di odio e avversioni istintive, irrazionali, inconsapevoli, come quelle esistenti tra il mulo e il cavallo, tra la vigna e i cavoli. Non ne siamo per nulla responsabili, perché non dipendono dalla nostra volontà.

Il desiderio e la fuga
            Il desiderio è un’altra realtà fondamentale della nostra psiche. La vita quotidiana provoca molteplici desideri, perché il desiderio consiste nella «speranza di un bene futuro». I più comuni desideri naturali sono quelli che «riguardano i beni, i piaceri e gli onori».
            All’opposto, noi fuggiamo spontaneamente i mali della vita. La volontà umana di Cristo lo spingeva a fuggire i dolori e le sofferenze della passione; di qui il tremore, l’angoscia e il sudare sangue.

La speranza e la disperazione
            La speranza concerne un bene che si pensa di poter ottenere. Filotea è invitata a esaminare come si è comportata in riferimento alla «speranza, forse troppo spesso riposta nel mondo e nella creatura, e troppo poco in Dio e nelle cose eterne».
            Quanto alla disperazione, guardate per esempio quella dei «giovani aspiranti alla perfezione»: «Appena incontrano una difficoltà sul loro cammino, eccoti subito una sensazione di disappunto, che li spinge a fare un mucchio di lamentele, tale da dare l’impressione di essere travagliati da grandi tormenti. L’orgoglio e la vanità non possono tollerare il minimo difetto, senza sentirsi subito fortemente turbati sino a giungere alla disperazione».

La gioia e la tristezza
            La gioia è «la soddisfazione per il bene ottenuto». Così, «quando incontriamo quelli che amiamo, non è possibile non sentirsi commossi per la gioia e la contentezza». Il possesso di un bene produce infallibilmente una compiacenza o allegrezza, come la legge di gravità muove la pietra: «È il peso che scuote le cose, le muove e le ferma: è il peso che muove la pietra e la trascina nella discesa non appena vengono tolti gli ostacoli; è lo stesso peso che le fa continuare il movimento verso il basso; infine, è sempre lo stesso peso che la fa arrestare ed assestarsi quando è giunta al suo posto».
            La gioia giunge talvolta al riso. «Il riso è una passione che erompe senza che lo vogliamo e non è in nostro potere trattenerlo, tanto più che ridiamo e siamo mossi a ridere da circostanze impreviste». Nostro Signore ha riso? Il vescovo di Ginevra pensa che Gesù sorrideva quando voleva: «Nostro Signore non poteva ridere, perché per lui nulla era imprevisto, dato che conosceva tutto prima che avvenisse; poteva, certo, sorridere, ma lo faceva volutamente».
            Le giovani visitandine, prese a volte da un incontenibile riso quando una compagna si batteva il petto o una lettrice commetteva un errore durante la lettura a tavola, avevano bisogno di una lezioncina su questo punto: «I pazzi ridono di ogni situazione, perché tutto li sorprende, non riuscendo a prevedere nulla; ma i saggi non ridono con tanta leggerezza, perché impiegano maggiormente la riflessione, la quale fa sì che prevedano le cose che devono accadere». Detto ciò, non è un difetto ridere di qualche imperfezione, «purché non si vada troppo oltre».
            La tristezza è «il dolore per un male presente». Essa «turba l’anima, provoca timori smodati, fa provare disgusto per la preghiera, fiacca e addormenta il cervello, priva l’anima di saggezza, di risoluzione, di giudizio e coraggio e annienta le forze»; è «come un duro inverno che rovina tutta la bellezza della terra e rende indolenti tutti gli animali; perché toglie ogni soavità dall’anima e la rende come pigra e impotente in tutte le sue facoltà».
            Può sfociare in certi casi nel pianto: un padre, all’atto di inviare il figlio a corte o agli studi, non può trattenersi «dal piangere congedandosi da lui»; e «una figlia, benché si sia sposata secondo i desideri del padre e della madre, li commuove fino alle lacrime al momento di riceverne la benedizione». Alessandro Magno pianse quando venne a sapere che c’erano altre terre che non avrebbe mai potuto conquistare: «Come un bambino che frigna per una mela che gli si nega, quell’Alessandro, che gli storici chiamano il Grande, più folle di un bambino, si mette a piangere a calde lacrime, perché gli sembra impossibile conquistare gli altri mondi».

Il coraggio e la paura
            Il timore si riferisce a un «male futuro». Certuni, volendo fare i coraggiosi, si aggirano da qualche parte durante la notte, ma «appena sentono cadere un sasso o il fruscio di un sorcio che scappa, si mettono ad urlare: Dio mio! – Che cosa c’è, si chiede loro, che cosa avete trovato? – Ho sentito un rumore.  – Ma che cosa? – Non lo so». È necessario essere guardinghi, perché «la paura è un male più grande del male stesso».
            Quanto al coraggio, prima di essere una virtù, è un sentimento che ci sostiene davanti a difficoltà che normalmente dovrebbero abbatterci. Francesco di Sales lo provò all’atto di intraprendere una lunga e rischiosa visita della sua diocesi di montagna:

Sono sul punto di montare a cavallo per la visita pastorale, che durerà circa cinque mesi. […] Parto pieno di coraggio, e, fin da questa mattina, ho provato una grande gioia di poter cominciare, sebbene, prima, per vari giorni, avessi provato vani timori e tristezze.

La collera e il sentimento del trionfo
            Quanto all’ira o collera, non possiamo impedire dall’esserne presi in certe circostanze: «Se mi vengono a dire che qualcuno ha parlato male di me, o che mi venga causata altra contrarietà, immediatamente scoppia la collera e non mi rimane nemmeno una vena che non si contorca, perché il sangue ribolle». Perfino nei monasteri della Visitazione le occasioni di irritarsi e arrabbiarsi non mancavano, e si sentivano prepotenti gli attacchi dell’«appetito irascibile». Niente di strano in ciò: «Impedire che il risentimento della collera si svegli in noi e che il sangue ci salga alla testa, non sarà mai possibile; saremo fortunati se potremo avere questa perfezione un quarto d’ora prima di morire». Può anche succedere «che l’ira sconvolga e metta sottosopra il mio povero cuore, che la testa mi fumi da tutte le parti, che il sangue ribolla come una pentola sul fuoco».
            L’appagamento dell’ira, per aver superato il male, provoca l’esaltante emozione del trionfo. Colui che trionfa «non può contenere il trasporto della sua gioia».

Alla ricerca dell’equilibrio
            Le passioni e i moti dell’anima sono il più delle volte indipendenti dal nostro volere: «Non si pretende da voi che non abbiate passioni; non è in vostro potere», diceva alle figlie della Visitazione, aggiungendo: «Che cosa può fare una persona per avere tale o tal altro temperamento, soggetto a questa o quella passione? Tutto sta dunque nelle azioni che ne facciamo derivare per mezzo di quel movimento, che dipende dalla nostra volontà».
            Una cosa è sicura, i moti d’animo e le passioni fanno dell’uomo un essere estremamente soggetto a variazioni della «temperatura» psicologica, ad immagine delle variazioni climatiche. «La sua vita scorre su questa terra come le acque, fluttuando e ondeggiando in una perpetua varietà di movimenti». «Oggi si sarà felici all’eccesso, e, subito dopo, esageratamente tristi. In tempo di carnevale si vedranno manifestazioni di gioia e di allegria, con azioni sciocche e pazzoidi, poi, subito dopo, vedrete segni di tristezza e di tedio così esagerati da far pensare che si tratti di cose terribili e, all’apparenza, irrimediabili. Un altro, al presente, sarà troppo fiducioso e nulla lo spaventerà, e, subito dopo, verrà preso da un’angoscia che lo sprofonderà fin sotto terra».
            Il direttore spirituale di Giovanna di Chantal ha individuato bene le diverse «stagioni dell’anima» attraversate da costei agli inizi della sua fervorosa vita:

Vedo che si trovano nella vostra anima tutte le stagioni dell’anno. Ora sentite l’inverno attraverso le molte sterilità, distrazioni, pesantezze e noie; ora le rugiade del mese di maggio col profumo dei santi fiorellini, e ora il calore dei desideri di piacere al nostro buon Dio. Non resta che l’autunno del quale, come dite, non vedete molti frutti. Orbene, spesso avviene che, trebbiando il grano o pigiando l’uva, si trova un frutto più abbondante di quanto promettessero le messi e la vendemmia. Voi vorreste che fosse sempre primavera o estate; ma no, Figlia mia: bisogna che avvenga l’avvicendamento delle stagioni nel nostro interiore come nel nostro esteriore. Solo in cielo tutto sarà primavera quanto alla bellezza, tutto sarà autunno quanto al godimento e tutto sarà estate quanto all’amore. Lassù, non vi sarà più inverno, ma qui esso è necessario per l’esercizio dell’abnegazione e di mille piccole e belle virtù, che si esercitano nel tempo delle aridità.

            La salute dell’anima come quella del corpo non può consistere nell’eliminare questi quattro umori, ma nel raggiungere una «invariabilità d’umore». Quando una passione predomina sulle altre, causa le malattie dell’anima; e siccome è oltremodo difficile regolarla, ne deriva che gli uomini sono bizzarri e variabili, per cui non si scorge altro tra loro se non fantasie, incostanze e stupidità.
            Le passioni hanno di buono il fatto di consentirci «d’esercitare la volontà nell’acquisto della virtù e nella vigilanza spirituale». Nonostante certe manifestazioni, nelle quali si deve «soffocare e reprimere le passioni», per Francesco di Sales non si tratta di eliminarle, cosa impossibile, ma di controllarle come più si può, cioè moderarle e orientarle a un fine che sia buono.
            Non si tratta, quindi, di fingere di ignorare le nostre manifestazioni psichiche, come se non esistessero (ciò che ancora una volta è impossibile), ma di «vegliare in continuazione sul proprio cuore e sul proprio spirito per mantenere le passioni nella norma e sotto il controllo della ragione; altrimenti si avranno soltanto originalità e comportamenti disuguali». Filotea non sarà felice, se non quando avrà «sedato e pacificato tante passioni che [le] provocavano inquietudine».
            Avere uno spirito costante è uno dei migliori ornamenti della vita cristiana e uno dei più amabili mezzi per acquistare e conservare la grazia di Dio, e anche per edificare il prossimo. «La perfezione, quindi, non consiste nell’assenza delle passioni, bensì nel loro corretta regolazione; le passioni stanno al cuore come le corde a un’arpa: bisogna che siano accordate perché possiamo dire: Ti loderemo con l’arpa».
            Quando le passioni ci fanno perdere l’equilibrio interiore e esteriore, due metodi sono possibili: «opponendovi passioni contrarie, oppure opponendovi maggiori passioni della stessa specie». Se sono turbato dal «desiderio delle ricchezze o del piacere voluttuoso», combatterò tale passione con il disprezzo e la fuga, oppure aspirerò a ricchezze e piaceri superiori. Posso lottare contro la paura fisica con il contrario che è il coraggio, oppure sviluppando un timore salutare riguardante l’anima.
            L’amore di Dio, da parte sua, imprime alle passioni una vera e propria conversione, cambiandone l’orientamento naturale e prospettando loro un fine spirituale. Per esempio, «l’appetito per i cibi viene reso molto spirituale se, prima di appagarlo, gli si dà il motivo dell’amore: e no, Signore, non è per accontentare questo povero ventre, né per appagare questo appetito che vado a tavola, ma, secondo la tua Provvidenza, per mantenere questo corpo che tu hai fatto soggetto a tale miseria; sì, Signore, perché così è piaciuto a te».
            La trasformazione così operata somiglierà a un «artificio» utilizzato nell’alchimia che cambia il ferro in oro. «O santa e sacra alchimia! – scrive il vescovo di Ginevra –, o polvere divina della fusione, con la quale tutti i metalli delle nostre passioni, affetti e azioni vengono mutati nell’oro purissimo della celeste dilezione!».
            Moti dell’animo, passioni e immaginazioni sono profondamente radicati nell’anima umana: rappresentano una risorsa eccezionale per la vita dell’anima. Sarà compito delle facoltà superiori, la ragione e soprattutto la volontà, moderarle e governarle. Impresa difficile; Francesco di Sales l’ha compiuta con successo, perché, secondo quanto afferma la madre di Chantal, «possedeva un tale assoluto dominio delle sue passioni da renderle obbedienti come schiave; e alla fine non comparivano quasi più».




Educare il corpo e i suoi 5 sensi con san Francesco di Sales

            Un buon numero di antichi asceti cristiani hanno sovente considerato il corpo come un nemico, la cui corruzione doveva essere combattuta, anzi, come un oggetto di disprezzo e da tener in nessun conto. Numerosi uomini spirituali del Medioevo non si preoccupavano del corpo se non per infliggergli penitenze. Nella maggioranza delle scuole del tempo, niente era previsto per far riposare “fratello asino”.
            Per Calvino, la natura umana totalmente corrotta dal peccato originale, non poteva essere altro se non un “immondezzaio”. Sul fronte opposto, numerosi scrittori e artisti rinascimentali esaltavano il corpo fino al punto di tributargli un culto, nel quale la sensualità aveva un grande rilievo. Rabelais, da parte sua, magnificava il corpo dei suoi giganti e si compiaceva nel metterne in mostra le funzioni organiche anche meno nobili.

Il realismo salesiano
           
Tra la divinizzazione del corpo e il suo disprezzo, Francesco di Sales offre una visione realista della natura umana. Alla fine della prima meditazione sul tema della creazione dell’uomo, “il primo essere del mondo visibile”, l’autore dell’Introduzione alla vita devota mette sulle labbra di Filotea questo proposito che sembra riassumere il suo pensiero: “Voglio sentirmi onorata per l’essere che egli mi ha dato”. Certo, il corpo è votato alla morte. Con crudo realismo l’autore descrive l’addio dell’anima al corpo, che abbandonerà “pallido, livido, disfatto, orrendo e puzzolente”, ma ciò non costituisce una ragione per trascurarlo e denigrarlo ingiustamente mentre è vivo. San Bernardo ha avuto torto quando annunciava a coloro che volevano porsi al suo seguito “che dovevano abbandonare il loro corpo e andare da lui solamente in spirito”. I mali fisici non devono spingere a odiare il corpo: il male morale è assai peggiore.
            Non troviamo affatto in Francesco di Sales l’oblio o la messa in ombra dei fenomeni corporali, come quando parla di diverse forme di malattie o quando evoca le manifestazioni dell’amore umano. In un capitolo del Trattato dell’amor di Dio dal titolo: “L’amore tende all’unione”, egli scrive per esempio che “si applica una bocca sull’altra quando ci si bacia, per testimoniare che si vorrebbe versare un’anima nell’altra, per unirle con un’unione perfetta”. Questo atteggiamento di Francesco di Sales nei confronti del corpo ha suscitato, già al suo tempo, reazioni scandalizzate. Quando apparve la Filotea, un religioso avignonese criticò pubblicamente questo “libretto”, lo fece a pezzi tacciando il suo autore di “dottore corrotto e corruttore”. Nemico del pudore esagerato, Francesco di Sales non conosceva ancora il riserbo e le paure che emergeranno in tempi successivi. Sopravvivono in lui usanze medievali o più semplicemente è una manifestazione del suo gusto “biblico”? Ad ogni modo, in lui non si trova niente di paragonabile alle trivialità dell’“infame” Rabelais.
            I doni naturali più stimati sono la bellezza, la forza e la salute. In riferimento alla bellezza, Francesco di Sales così si esprimeva parlando di santa Brigida: “Nacque in Scozia; era una ragazza molto bella, dato che gli scozzesi sono belli di natura, e in quel Paese si incontrano le più belle creature esistenti”. Pensiamo d’altronde al repertorio di immagini riguardanti le perfezioni fisiche dello sposo e della sposa, prese dal Cantico dei cantici. Benché le rappresentazioni siano sublimate e trasferite su un registro spirituale, rimangono tuttavia significative di un’atmosfera dove si esalta la bellezza naturale dell’uomo e della donna. Si è tentato di fargli sopprimere il capitolo del Teotimo sul bacio, nel quale dimostra che “l’amore tende all’unione”, ma si è sempre rifiutato di farlo. In ogni caso, la bellezza esteriore non è quella più importante: la bellezza della figlia di Sion è interiore.

Stretto legame tra il corpo e l’anima
            Innanzi tutto Francesco di Sales afferma che il corpo è “una parte della nostra persona”. L’anima personificata potrà anche dire con un accento di tenerezza: “Questa carne è la mia cara metà, è mia sorella, è mia compagna, nata con me, nutrita con me”.
            Il vescovo è stato assai attento al legame esistente tra il corpo e l’anima, tra la sanità del corpo e quella dell’anima. Così scrive di una persona da lui diretta, cagionevole di salute, che la salute del suo corpo “dipende molto da quella dell’anima, e quella dell’anima dipende dalle consolazioni spirituali”. “Non è illanguidito il vostro cuore – scriveva a una malata –, bensì il vostro corpo, e, dati i legami strettissimi che li uniscono, il vostro cuore ha l’impressione di provare il male del vostro corpo”. Ognuno può costatare che le infermità corporali “finiscono per creare disagio anche allo spirito, a causa degli stretti vincoli fra l’uno e l’altro”. Inversamente, lo spirito agisce sul corpo fino al punto che “il corpo percepisce gli affetti che si agitano nel cuore”, come avvenne in Gesù, che si sedette al pozzo di Giacobbe, stanco del suo gravoso impegno al servizio del regno di Dio.
            Tuttavia, siccome “il corpo e lo spirito procedono spesso in direzione contraria, e, a misura che l’uno s’indebolisce, l’altro si irrobustisce”, e siccome “lo spirito deve regnare”, “dobbiamo sostenerlo e consolidarlo talmente, che resti sempre il più forte”. Se poi mi prendo cura del corpo è “perché sia al servizio dello spirito”.
            Intanto siamo giusti nei confronti del corpo. In caso di malessere o di sbagli, capita spesso che l’anima accusi il corpo e lo maltratti, come fece Balaam colla sua asina: “O povera anima! se la tua carne potesse parlare, ti direbbe, come l’asina di Balaam: perché batti me, miserabile? È contro di te, anima mia, che Dio arma la sua vendetta, sei tu la criminale”. Quando una persona riforma il suo intimo, la conversione si manifesterà anche esternamente: in tutti gli atteggiamenti, nella bocca, nelle mani e “finanche nei capelli”. La pratica della virtù rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente. Inversamente, un cambiamento esteriore, un comportamento del corpo può favorire un cambio interiore. Un atto di devozione esteriore durante la meditazione può risvegliare la devozione interiore. Ciò che qui è detto della vita spirituale può essere facilmente applicato all’educazione in generale.

Amore e dominio del corpo
            Parlando dell’atteggiamento da avere nei confronti del corpo e delle realtà corporali, non stupisce vedere Francesco di Sales raccomandare a Filotea, come prima cosa, la gratitudine per le grazie corporali che Dio le ha dato.

Dobbiamo amare il nostro corpo per diversi motivi: perché ci è necessario per compiere le buone opere, perché è una parte della nostra persona, e perché è destinato a partecipare alla felicità eterna. Il cristiano deve amare il proprio corpo come un’immagine vivente di quello del Salvatore incarnato, come da lui proveniente per parentela e consanguineità. Soprattutto dopo che abbiamo rinnovato l’alleanza, ricevendo realmente il corpo del Redentore nell’adorabile sacramento dell’eucaristia, e, col battesimo, la confermazione e gli altri sacramenti, ci siamo dedicati e consacrati alla somma bontà.

            L’amore del proprio corpo fa parte dell’amore dovuto a sé stessi. In verità, la ragione più convincente per onorare e usare saggiamente del corpo sta in una visione di fede, che il vescovo di Ginevra così spiegava alla madre di Chantal uscita da una malattia: “Abbiate ancora cura di questo corpo, perché è di Dio, mia carissima Madre”. La Vergine Maria viene presentata a questo punto come modello: “Con quale devozione doveva amare il suo corpo verginale! Non soltanto perché era un corpo dolce, umile, puro, obbediente al santo amore e totalmente impregnato di mille sacri profumi, ma anche perché era la viva sorgente di quello del Salvatore e gli apparteneva molto strettamente, con un legame che non ha confronti”.
            L’amore del corpo è, sì, raccomandato, ma il corpo deve rimanere sottomesso allo spirito, come il servitore al suo maestro. Per controllare l’appetito dovrò “comandare alle mani di non fornire alla bocca cibi e bevande, se non nella giusta misura”. Per governare la sessualità “bisogna togliere o dare alla facoltà della riproduzione i soggetti, gli oggetti e gli alimenti che l’eccitano, secondo i dettami della ragione”. Al giovane che si accinge a “prendere il largo nel vasto mare” il vescovo raccomanda: “Vi auguro anche un cuore vigoroso che vi impedisca di vezzeggiare il vostro corpo con soverchie ricercatezze nel mangiare, nel dormire o in altre cose. Si sa, infatti, che un cuore generoso sente sempre un po’ di disprezzo per le delicatezze e le delizie corporali”.
            Affinché il corpo rimanga sottomesso alla legge dello spirito, conviene evitare gli eccessi: né maltrattarlo né vezzeggiarlo. In ogni cosa occorre misura. Il motivo della carità deve avere il primato in tutte le cose; ciò gli fa scrivere: “Se il lavoro che fate vi è necessario oppure è molto utile alla gloria di Dio, preferirei che sopportiate le pene del lavoro piuttosto che quelle del digiuno”. Di qui la conclusione: “In generale è meglio avere in corpo più forze di quante servano, piuttosto che rovinarle al di là del necessario; perché rovinarle si può sempre, appena si vuole, ma per recuperarle non sempre basta volerlo”.
            Ciò che è necessario evitare è questa “tenerezza che si prova per sé stessi”. Se la prende, con fine ironia ma in modo spietato, con un’imperfezione che non è soltanto “propria dei bambini, e, se posso osare di dirlo, delle donne”, ma anche di uomini poco coraggiosi, di cui ci dà questo interessante quadro caratteristico: “Altri sono quelli teneri verso sé stessi, e che non fanno altro che lamentarsi, coccolarsi, vezzeggiarsi e guardarsi”.
            Ad ogni modo, il vescovo di Ginevra si prendeva cura del suo corpo com’era suo dovere, obbediva al proprio medico e alle “infermiere”. Si occupava anche della salute altrui, consigliando misure appropriate. Scriverà, per esempio, alla madre di un giovane allievo del collegio d’Annecy: “È necessario far visitare Charles dai medici, affinché il suo gonfiore di ventre non si aggravi”.
            Al servizio della salute c’è l’igiene. Francesco di Sales desiderava che sia il cuore e sia il corpo fossero puliti. Raccomandava il decoro, molto differente da affermazioni come questa di sant’Ilario secondo il quale “non bisognava cercare la pulizia nei nostri corpi che non sono altro se non carogne pestilenziali e cariche soltanto di infezione”. Era piuttosto del parere di sant’Agostino e degli antichi che facevano il bagno “per tener puliti i loro corpi sia dalla sporcizia prodotta dalla calura e dal sudore, e sia per la salute, che è certamente oltremodo aiutata dalla pulizia”.
            Per poter lavorare e adempiere i doveri del proprio incarico, ognuno dovrebbe prendersi cura del proprio corpo per quanto riguarda l’alimentazione e il riposo: “Mangiare poco, lavorare molto e con molta agitazione e negare al corpo il riposo necessario, è come esigere molto da un cavallo che è sfiancato senza dargli il tempo per masticare un po’ di biada”. Il corpo ha bisogno di riposare, è cosa del tutto evidente. Le lunghe veglie serali sono “dannose alla testa e allo stomaco”, mentre, invece, alzarsi presto al mattino è “utile sia alla salute che alla santità”.

Educare i nostri sensi, specialmente gli occhi e le orecchie
            I nostri sensi sono doni meravigliosi del Creatore. Ci mettono in contatto con il mondo e ci aprono a tutte le realtà sensibili, alla natura, al cosmo. I sensi sono la porta dello spirito, al quale forniscono, per così dire, la materia prima; infatti, come dice la tradizione scolastica, “niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi”.
            Quando Francesco di Sales parla dei sensi, il suo interesse lo porta specialmente sul piano educativo e morale, e il suo insegnamento al riguardo si ricollega a quanto ha esposto sul corpo in generale: ammirazione e vigilanza. Da una parte dice che Dio ci dona “gli occhi per vedere le meraviglie delle sue opere, la lingua per lodarlo, e così per tutte le altre facoltà”, senza mai omettere, dall’altra, la raccomandazione a “porre delle sentinelle agli occhi, alla bocca, alle orecchie, alle mani e all’odorato”.
            È necessario incominciare dalla vista, perché “fra tutte le parti esterne del corpo umano non ce n’è una, per fattura come per attività, più nobile dell’occhio”. L’occhio è fatto per la luce: lo dimostra il fatto che più le cose sono belle, piacevoli alla vista e debitamente illuminate, più l’occhio le guarda con avidità e vivacità. “Dagli occhi e dalle parole si conosce qual è l’anima e lo spirito dell’uomo, poiché gli occhi servono all’anima come il quadrante all’orologio”. È risaputo che tra gli amanti, gli occhi parlano di più della lingua.
            Bisogna vigilare sugli occhi, perché attraverso di loro possono entrare la tentazione e il peccato, come avvenne ad Eva, che rimase incantata nel vedere la bellezza del frutto proibito, o a Davide, che fissò il suo sguardo sulla moglie di Uria. In certi casi bisogna procedere come si fa con l’uccello da preda: per farlo ritornare è necessario mostrargli il logoro; per quietarlo occorre coprirlo con un cappuccio; allo stesso modo, per evitare gli sguardi cattivi, “bisogna distogliere gli occhi, coprirli con il cappuccio naturale e chiuderli”.
            Ammesso che le immagini visive siano largamente dominanti nelle opere di Francesco di Sales, occorre riconoscere che le immagini uditive sono assai degne di nota. Ciò evidenzia l’importanza che attribuiva all’udito per ragioni tanto estetiche quanto morali. “Una sublime melodia ascoltata con molto raccoglimento” produce un tale magico effetto da “incantare le orecchie”. Ma attenzione a non superare le capacità uditive: una musica, per bella che sia, se è forte e troppo vicina, ci dà fastidio e offende l’orecchio.
            D’altra parte, occorre sapere che “il cuore e le orecchie discorrono fra loro”, perché è attraverso l’orecchio che il cuore “ascolta i pensieri degli altri”. È ancora attraverso l’orecchio che entrano nel più profondo dell’anima parole sospette, ingiuriose, menzognere o malevole, dalle quali è necessario guardarsi bene; perché le anime si avvelenano attraverso l’orecchio, come il corpo attraverso la bocca. La donna onesta si tapperà le orecchie per non udire la voce dell’incantatore che vuole conquistarla subdolamente. Restando nell’ambito simbolico, Francesco di Sales dichiara che l’orecchio destro è l’organo attraverso il quale ascoltiamo i messaggi spirituali, le buone ispirazioni e mozioni, mentre quello sinistro serve per udire discorsi mondani e vani. Per custodire il cuore, proteggiamo quindi con grande cura le orecchie.
            Il miglior servizio che possiamo chiedere alle orecchie è quello di poter udire la parola di Dio, oggetto della predicazione, la quale esige uditori attenti e tesi a farla penetrare nei loro cuori affinché porti frutto. Filotea è invitata a “farla stillare” a sua volta nell’orecchio ora dell’uno e ora dell’altro, e a pregare Dio nell’intimo della anima sua, perché gli piaccia far penetrare quella santa rugiada nel cuore di chi l’ascolta.

Gli altri sensi
            Anche in tema di odorato, si è rilevato l’abbondanza delle immagini olfattive. I profumi sono tanto diversi quanto lo sono le sostanze odorose, come il latte, il vino, il balsamo, l’olio, la mirra, l’incenso, il legno aromatico, il nardo, l’unguento, la rosa, la cipolla, il giglio, la violetta, la viola del pensiero, la mandragola, il cinnamomo… Stupisce ancor più costatare i risultati prodotti con la fabbricazione dell’acqua odorosa:

Il basilico, il rosmarino, la maggiorana, l’issopo, i chiodi di garofano, la cannella, la noce moscata, i limoni e il muschio, mescolati insieme e tritati, danno effettivamente un profumo molto gradevole per la miscela dei loro odori; ma non è nemmeno paragonabile a quello dell’acqua che ne viene distillata, nella quale gli aromi di tutti questi ingredienti, isolati dai loro corpi, si fondono più perfettamente, dando origine ad uno squisito profumo che penetra molto di più l’olfatto di quanto non avverrebbe se, assieme all’acqua, ci fossero le parti materiali.

            Numerose sono le immagini olfattive ricavate dal Cantico dei cantici, poema orientale dove i profumi occupano un posto rilevante e dove uno dei versetti biblici più commentati da Francesco di Sales è il grido accorato della sposa: “Attirami a te, noi cammineremo e correremo insieme nella scia dei tuoi profumi”. E quanto è raffinata questa annotazione: “Il soave profumo della rosa è reso più sottile dalla vicinanza dell’aglio piantato nei pressi dei roseti!”.
            Non confondiamo, però, il sacro balsamo con i profumi di questo mondo. Esiste infatti un olfatto spirituale, che dovrebbe essere nel nostro interesse coltivare. Esso ci consente di percepire la presenza spirituale del soggetto amato, e inoltre fa sì che non ci lasciamo distrarre dai cattivi odori del prossimo. Il modello è il padre che raccoglie a braccia aperte il figliol prodigo che ritorna da lui “seminudo, sporco, lurido e puzzolente di immondizie per la lunga consuetudine coi porci”. Un’altra immagine realista compare in riferimento a certe critiche mondane: non meravigliamoci, raccomanda Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, è necessario “che il poco unguento di cui disponiamo sembri puzzolente alle narici del mondo”.
            A proposito del gusto, certe osservazioni del vescovo di Ginevra potrebbero farci pensare che era un goloso nato, anzi un educatore del gusto: “Chi non sa che la dolcezza del miele si unisce sempre più al nostro senso del gusto con un progresso continuo di sapore, allorché, tenendolo lungamente in bocca, anziché inghiottirlo subito, il suo sapore penetra più a fondo il senso del nostro gusto?”. Ammessa la dolcezza del miele, occorre però apprezzare maggiormente il sale, per il fatto che è di uso più comune. In nome della sobrietà e della temperanza, Francesco di Sales raccomandava di saper rinunciare al gusto personale, mangiando ciò che ci “è messo davanti”.
            Infine, trattandosi del tatto, Francesco di Sales ne parla soprattutto in un senso spirituale e mistico. Così raccomanda di toccare Nostro Signore crocifisso: il capo, le sante mani, il prezioso corpo, il cuore. Al giovane che sta per prendere il largo nel vasto mare del mondo richiede di governarsi energicamente e di disprezzare le mollezze, le delizie corporali e le leziosaggini: “Vorrei che a volte voi trattaste duramente il vostro corpo per fargli provare qualche asprezza e durezza, disprezzando delicatezze e cose gradevoli ai sensi; perché è necessario che talvolta la ragione eserciti la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali”.

Il corpo e la vita spirituale
            Anche il corpo è chiamato a partecipare alla vita spirituale che si esprime in primo luogo nella preghiera: “È vero, l’essenza della preghiera è nell’anima, ma la voce, i gesti e gli altri segni esteriori, mediante i quali si rivela l’intimo dei cuori, sono nobili appannaggi e utilissime proprietà della preghiera; ne sono effetti e operazioni. L’anima non si accontenta di pregare se l’uomo nella sua interezza non prega; essa prega assieme agli occhi, alle mani, alle ginocchia”.
            Egli aggiunge che “l’anima prosternata davanti a Dio fa piegare facilmente su di sé l’intero corpo; alza gli occhi dove eleva il cuore, innalza le mani là, da dove aspetta un aiuto”. Francesco di Sales spiega anche che “pregare in spirito e verità è pregare volentieri e affettuosamente, senza finzione né ipocrisia, e impegnando del resto l’uomo intero, anima e corpo, affinché ciò che Dio ha unito non sia separato”. “Bisogna che tutto l’uomo preghi”, ripete alle visitandine. Ma la miglior preghiera è quella di Filotea, quando decide di consacrare a Dio non solamente l’anima, il suo spirito e il suo cuore, ma anche il suo “corpo con tutti i suoi sensi”; è così che l’amerà e servirà veramente con tutto il suo essere.




L’educazione secondo san Francesco di Sales

L’educazione secondo san Francesco di Sales è un percorso d’amore e cura verso i giovani, basato su regole imprescindibili: dolcezza, comprensione e correzione equilibrata. Dalla famiglia alla società, san Francesco chiede ai responsabili di mostrare un affetto sincero, consapevoli che i giovani hanno bisogno di essere guidati con pazienza e ispirazione. L’educazione è un dono che aiuta a formare anime libere, capaci di pensare e agire con armonia. Come un maestro di montagna, il vescovo savoiardo ci ricorda che correggere vuol dire accompagnare, salvaguardando la spontaneità dei cuori in crescita, e puntando sempre alla trasformazione interiore. Nasce così un’educazione integrale.

Un dovere da compiere con amore
           
L’educazione è un fenomeno universale, basato sulle leggi della natura e della ragione. È il miglior regalo che i genitori possano fare ai loro figli, nei quali alimenterà la gratitudine e la pietà filiale. Parlando di coloro che sono responsabili degli altri, sia in famiglia che nella società, Francesco di Sales raccomanda loro di mostrarsi affettuosi: “Facciano dunque il loro dovere con amore”.
            I giovani hanno bisogno di una guida. Se è vero che “chi governa sé stesso è governato da un grande sciocco”, questo dovrebbe essere ancora più vero per coloro che ancora non hanno esperienza. Allo stesso modo, Celse-Bénigne, il figlio maggiore di Madame de Chantal, che era fonte di preoccupazione per la madre, aveva bisogno di una guida che lo aiutasse a “gustare la bontà della vera saggezza attraverso ammonizioni e raccomandazioni”.
            A un giovane che stava per “prendere il largo nel mondo”, suggerì di trovare “qualche spirito cortese” che potesse andare a trovare di tanto in tanto per “ricrearsi e riprendere fiato spirituale”. Dobbiamo fare come il giovane Tobia nella Bibbia: inviato dal padre in una terra lontana dove non conosceva la strada, ricevette questo consiglio: “Va’ dunque e cerca un uomo che ti guidi”.
            Specialista della montagna, il vescovo savoiardo amava ricordare che chi cammina su sentieri impervi e scivolosi ha bisogno di essere legato, legato l’uno all’altro per avanzare più sicuro. Ogni volta che poteva, offriva aiuto e consigli ai giovani in pericolo. A un giovane scolaro preso dal gioco d’azzardo e dal libertinaggio, scrisse “una lettera piena di buoni, gentili e amichevoli avvertimenti”, invitandolo a fare un uso migliore del suo tempo.
            Una buona guida deve sapersi adattare alle esigenze e alle possibilità di ogni individuo. Francesco di Sales ammirava le madri che sapevano dare a ciascuno dei loro figli ciò di cui avevano bisogno e adattarsi a ciascuno “secondo la portata del suo spirito”. È così che Dio accompagna le persone. Il suo insegnamento assomiglia a quello di un padre attento alle capacità di ciascuno: “Come un buon padre che tiene per mano il suo bambino”, scriveva a Jeanne de Chantal, “egli adatterà i suoi passi ai tuoi e si accontenterà di non andare più veloce di te”.

Elementi di psicologia giovanile
            Per avere qualche possibilità di successo, l’educatore deve sapere qualcosa sui giovani in generale e su ciascun giovane in particolare. Cosa significa essere giovani? Commentando la famosa visione della scala di Giacobbe, l’autore dell’Introduzione alla vita devota osserva che gli angeli che salivano e scendevano la scala avevano tutte le attrattive della giovinezza: erano pieni di vigore e di agilità; avevano le ali per volare e i piedi per camminare con i loro compagni; i loro volti erano belli e allegri; “le loro gambe, le loro braccia e le loro teste erano tutte scoperte” e “il resto del loro corpo era coperto, ma con una veste bella e leggera”.
            Ma non idealizziamo troppo questa età della vita. Per Francesco di Sales, la gioventù è per natura spericolata e audace; i giovani divorano tutte le difficoltà da lontano e fuggono le difficoltà da vicino. “Giovane e ardente” sono due aggettivi che vanno spesso a braccetto, soprattutto quando vengono usati per descrivere una mente “brulicante di concezioni e fortemente incline agli estremi”. E tra i rischi di questa età c’è “l’ardore di un sangue giovane che comincia a ribollire e di un coraggio che non ha ancora come guida la prudenza”.
            I giovani sono versatili, si muovono e cambiano facilmente. Come i giovani cani che amano i cambiamenti, i giovani sono volubili e incostanti, agitati da vari “desideri di novità e cambiamenti”, e sono suscettibili di provocare “grandi e sfortunati scandali”. È un’età in cui le passioni sono feroci e difficili da controllare. Come le farfalle, svolazzano intorno al fuoco con il rischio di bruciarsi le ali.
            Spesso mancano di saggezza ed esperienza, perché l’amor proprio acceca la ragione. Dobbiamo temere questi due atteggiamenti opposti in loro: la vanità, che è in realtà una mancanza di coraggio, e l’ambizione, che è un eccesso di coraggio che li porta a cercare gloria e onore in modo irragionevole.
            Che meraviglia, invece, quando gioventù e virtù si incontrano! Francesco di Sales ammira una giovane donna che aveva tutto per piacere nella primavera della sua vita e che amava e stimava “le sante virtù”. Egli elogia tutti coloro che, durante la loro giovinezza, hanno mantenuto la loro anima “sempre pura in mezzo a tante infezioni”.
            Soprattutto i giovani sono sensibili all’affetto che ricevono. “Non è possibile esprimere quanto siamo amici”, scriveva a un padre a proposito del suo rapporto con il figlio indisciplinato, persino insopportabile, a scuola. Come si vede, Francesco di Sales era felice di proclamarsi amico dei giovani. Scriveva parimenti alla madre di una bambina di cui era padrino: “La cara piccola figlioccia, come penso, ha un segreto sentore che le voglio bene, tanto forte è l’affetto che mi dimostra”.
            Infine, “questa è l’età giusta per ricevere impressioni”, il che è un’ottima cosa perché significa che i giovani possono essere educati e sono capaci di grandi cose. Il futuro è dei giovani, come abbiamo visto nell’abbazia di Montmartre, dove sono stati proprio le giovani, con la loro badessa ancora più giovane, a realizzare la “riforma”.

Il senso delle finalità nell’educazione
            Se da un lato il realismo impone agli educatori di conoscere le persone a cui si rivolgono, dall’altro non devono mai perdere di vista il senso dello scopo della loro azione. Non c’è niente di meglio di una chiara consapevolezza degli obiettivi che ci prefiggiamo, perché “ogni agente agisce per il fine e secondo il fine”.
            Che cos’è dunque l’educazione e qual è il suo scopo? L’educazione, dice Francesco di Sales, è “una moltitudine di sollecitazioni, di aiuti, di prestazioni e di altri servizi necessari al bambino, esercitati e continuati nei suoi confronti fino all’età in cui non ne ha più bisogno”. Due cose colpiscono in questa definizione: da un lato, l’insistenza sulla moltitudine di attenzioni che l’educazione richiede, dall’altro, la sua fine, che coincide con il momento in cui il soggetto ha raggiunto l’autonomia. I bambini vengono educati per raggiungere la libertà e il pieno controllo della propria vita.
            In concreto, l’ideale educativo di Francesco di Sales sembra ruotare attorno alla nozione di armonia, ovvero all’integrazione armonica di tutte le varie componenti che esistono nell’essere umano: “azioni, movimenti, sentimenti, inclinazioni, abitudini, passioni, facoltà e poteri”. L’armonia implica unità, ma anche distinzione. L’unione richiede un unico comandamento, ma l’unico comandamento deve non solo rispettare le differenze, ma promuovere le distinzioni nella ricerca dell’armonia. Nella persona umana, il governo appartiene alla volontà, alla quale fanno riferimento tutte le altre componenti, ciascuna al suo posto e in interdipendenza tra loro.
            Francesco di Sales utilizza due paragoni per illustrare il suo ideale. Non sono privi di analogia con le due pulsioni umane fondamentali messe in luce dalla psicoanalisi: l’aggressività e il piacere. Un esercito è bello, spiega, quando è composto da parti distinte disposte in modo tale da formare insieme un unico esercito. La musica è bella quando le voci sono unite nella distinzione e quando sono distinte pur unendosi.

Partire dal cuore
            “Chi ha conquistato il cuore dell’uomo ha conquistato tutto l’uomo”, scrive l’autore dell’Introduzione alla vita devota. Questa regola generale dovrebbe essere applicabile al campo dell’educazione. L’espressione “conquistare il cuore” può essere interpretata in due modi. Può significare che l’educatore deve puntare al cuore, cioè al centro interiore della persona, prima di preoccuparsi del suo comportamento esteriore. D’altra parte, significa conquistare una persona attraverso l’affetto.
            L’uomo si costruisce dall’interno: questa sembra essere una delle grandi lezioni di Francesco di Sales, formatore e riformatore di persone e comunità. Egli era ben consapevole che il suo metodo non era condiviso da tutti, poiché scriveva: “Non ho mai potuto approvare il metodo di coloro che, per riformare l’uomo, cominciano dall’esterno, dal portamento, dai vestiti, dai capelli”. Bisogna quindi partire dall’interno, cioè dal cuore, sede della volontà e fonte di tutte le nostre azioni.
            Il secondo punto è cercare di conquistare l’affetto degli altri, in modo da stabilire con loro un buon rapporto educativo. In una lettera a una badessa per consigliarle la riforma del suo monastero, composto in gran parte da giovani, troviamo indicazioni preziose su come il vescovo savoiardo concepiva il suo metodo di educazione, di formazione e, più precisamente in questo caso, di “riforma”. Soprattutto, non dobbiamo allarmarli dando loro l’impressione di volerli riformare. L’obiettivo è che si riformino da soli. Dopo questi preliminari, bisogna usare tre o quattro “trucchi”. Non c’è da stupirsi, visto che l’educazione è anche un’arte, anzi l’arte delle arti. Il primo è chiedere loro di fare spesso le cose, ma con molta facilità e senza dare l’impressione di farle. In secondo luogo, bisogna parlare spesso e in termini generali di ciò che deve essere cambiato, come se si stesse pensando a qualcun altro. In terzo luogo, bisogna cercare di rendere l’obbedienza amabile, senza dimenticare ancora una volta di mostrarne i benefici e i vantaggi. Secondo Francesco di Sales, la dolcezza dovrebbe essere preferita perché è generalmente più efficace. Infine, i responsabili devono dimostrare di non agire per capriccio, ma in virtù della loro responsabilità e in vista del bene di tutti.

Comandare, consigliare, ispirare
            Sembra che gli interventi proposti da Francesco di Sales in campo educativo siano modellati sui tre modi che Dio usa con gli uomini per indicare loro la sua volontà: comandamenti, consigli e ispirazioni.
            È ovvio che i genitori e gli insegnanti hanno il diritto e il dovere di comandare i loro figli o alunni per il loro bene, e che essi devono obbedire. Lui stesso, nella sua responsabilità di vescovo, non esitava a farlo quando era necessario. Tuttavia, secondo Camus, aborriva gli spiriti assoluti che volevano essere obbediti a piacimento e che tutto doveva cedere al loro dominio. Diceva che “coloro che amano essere temuti, temono di essere amati”. In alcuni casi, l’obbedienza può essere costretta. Riferendosi al figlio di uno dei suoi amici, scrisse al padre: “Se persevererà, saremo soddisfatti; se non lo farà, dovremo usare uno di questi due rimedi: o ritirarlo in una scuola un po’ più chiusa di questa, o dargli un maestro privato che sia un uomo e al quale renda obbedienza”. Si può escludere del tutto l’uso della forza?
            Di solito, però, Francesco di Sales ricorreva a consigli, avvisi e raccomandazioni. L’autore dell’Introduzione alla vita devota si presenta come un consigliere, un assistente, qualcuno che dà “consigli”. Anche se spesso usa l’imperativo, è un consiglio che sta dando, soprattutto perché spesso è accompagnato da un condizionale: “Se puoi farlo, fallo”. A volte la raccomandazione è mascherata da una dichiarazione di valore: è bene farlo, è meglio fare così, ecc.
            Ma quando può e la sua autorità non è in discussione, preferisce agire per ispirazione, suggerimento o insinuazione. Questo è il metodo salesiano per eccellenza, che rispetta la libertà umana. Gli sembrava particolarmente adatto per scegliere uno stato di vita. È questo il metodo che consigliava a Madame de Chantal per la vocazione che voleva per i suoi figli, “ispirando loro con garbo pensieri in sintonia con questa”.
            Ma l’ispirazione non si comunica solo con le parole. I cieli non parlano, dice la Bibbia, ma proclamano la gloria di Dio con la loro testimonianza silenziosa. Allo stesso modo, “il buon esempio è una predicazione silenziosa”, come quella di san Francesco il quale, senza dire una sola parola, attirava un gran numero di giovani con il suo esempio. Infatti, l’esempio porta all’imitazione. I piccoli usignoli imparano a cantare con i grandi, ricordava, e “l’esempio di coloro che amiamo ha un’influenza e un’autorità dolce e impercettibile su di noi”, al punto che siamo obbligati a lasciarli o a imitarli.

Come correggere?
            Lo spirito di correzione consiste nel “resistere al male e reprimere i vizi di coloro che ci sono affidati, costantemente e valorosamente, ma con dolcezza e tranquillità”. Tuttavia, i difetti devono essere corretti senza indugio, finché sono piccoli, “perché se aspetti che crescano, non potrai curarli facilmente”.
            La severità è talvolta necessaria. I due giovani religiosi che stavano dando scandalo dovevano essere rimessi sulla retta via se si voleva evitare un gran numero di conseguenze deplorevoli. Sebbene la loro giovane età possa essere stata una scusa, “la continuazione del loro comportamento li rende ormai imperdonabili”. Ci sono persino casi in cui è necessario “tenere i malvagi in qualche timore per la resistenza che vedranno opporre”. Il Vescovo di Ginevra cita una lettera di san Bernardo ai frati di Roma che avevano bisogno di correzione, in cui “parla loro come si deve e con un sapone abbastanza caldo”. Facciamo come il chirurgo, perché “è un’amicizia debole o cattiva vedere il proprio amico perire e non aiutarlo, vederlo morire di apostasia e non osare dargli il filo del rasoio della correzione per salvarlo”.
            Tuttavia, la correzione deve essere amministrata senza passione, perché “un giudice castiga i malvagi molto meglio quando emette le sue sentenze con ragione e in uno spirito di tranquillità, che quando le emette con impeto e passione, soprattutto perché, giudicando con passione, non castiga le colpe secondo quello che sono, ma secondo quello che è lui stesso”. Allo stesso modo, “le ammonizioni dolci e cordiali di un padre hanno molto più potere di correggere un figlio che la sua collera e la sua ira”. Ecco perché è importante guardarsi dalla rabbia. La prima volta che provi rabbia, disse a Filotea, “devi raccogliere rapidamente le tue forze, non all’improvviso o con impeto, ma con dolcezza e serietà”. In una lettera a una suora che si era lamentata di “una ragazzina scontrosa e dispersiva” affidata alle sue cure, il vescovo dava questo consiglio: “Non correggerla, se puoi, con rabbia”. Non facciamo come il re Erode o come quegli uomini che dicono di regnare quando sono temuti, quando invece regnare vuol dire “essere amati”.
            Ci sono molti modi per correggere. Uno dei migliori non è tanto quello di riprendere ciò che è negativo, ma di incoraggiare tutto ciò che è positivo in una persona. Questo si chiama “correggere per ispirazione”, perché “è meraviglioso come la dolcezza e l’amabilità di qualcosa di buono sia un modo potente di attirare i cuori”.
            Il suo discepolo, Jean-Pierre Camus, raccontò la storia di una madre che maledisse il figlio che l’aveva insultata. Si pensava che il vescovo dovesse fare lo stesso, ma lui rispose: “Cosa vuoi che faccia? Temevo di versare in un quarto d’ora il piccolo liquore di gentilezza che ho cercato di raccogliere per ventidue anni”. È stato ancora Camus che riferisce questo detto “indimenticabile” del suo maestro: “Ricordatevi che si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto”.
            La gentilezza è preferibile con gli altri, ma anche con noi stessi. Ognuno dovrebbe essere pronto a riconoscere i propri errori con calma e a correggersi senza arrabbiarsi. Ecco un buon consiglio per una “povera ragazza” che è arrabbiata con sé stessa: “Dille che, per quanto possa lamentarsi, non sarà mai sorpresa o arrabbiata con sé stessa”.

Educazione progressiva
            San Francesco di Sales, che aveva il senso del reale e del possibile, oltre alla moderazione e al tatto necessari, era convinto che i grandi progetti si ottengono solo con la pazienza e il tempo. La perfezione non è mai il punto di partenza e probabilmente non sarà mai raggiunta, ma è sempre possibile progredire. La crescita ha le sue leggi che devono essere rispettate: le api erano prima larve, poi ninfe e infine api “formate, fatte e perfette”.
            Fare le cose in modo ordinato, una dopo l’altra, senza clamore, anche con una certa lentezza, ma senza mai fermarsi, questo sembra essere l’ideale del Vescovo di Ginevra. Andiamo avanti, diceva, e “per quanto lentamente avanziamo, faremo molta strada”. Allo stesso modo, raccomandava a una badessa che aveva il gravoso compito di riformare il suo monastero: “Devi avere un cuore grande e duraturo”. La legge della progressione è universale e si applica in ogni campo.
            Per illustrare il suo pensiero, il santo della dolcezza usava innumerevoli paragoni e immagini per inculcare il senso del tempo e la necessità di perseverare. Alcune persone sono portate a volare prima di avere le ali, o a voler essere angeli all’improvviso, quando non sono solo bravi uomini e donne. Quando i bambini sono piccoli, diamo loro il latte, e quando crescono e iniziano ad avere i denti, diamo loro pane e burro.
            Un punto importante è non avere paura di ripetere sempre la stessa cosa. Bisogna imitare i pittori e gli scultori che creano le loro opere ripetendo i colpi di pennello e di scalpello. L’educazione è un lungo viaggio. Lungo il percorso bisogna depurarsi da molti “umori” negativi, e questa depurazione è lenta. Ma non dobbiamo perderci d’animo. La lentezza non significa rassegnazione o attesa disinvolta. Al contrario, dobbiamo imparare a sfruttare al meglio ogni cosa, non perdendo tempo e sapendo utilizzare “i nostri anni, i nostri mesi, le nostre settimane, i nostri giorni, le nostre ore, persino i nostri momenti”.
            La pazienza, spesso insegnata dal Vescovo di Ginevra, è una pazienza attiva che ci permette di andare avanti, anche se a piccoli passi. “A poco a poco e piede a piede, dobbiamo acquisire questo dominio”, scriveva a un’impaziente Filotea. Impariamo “prima a camminare a piccoli passi, poi ad affrettarci, poi a camminare a metà strada, infine a correre”. La crescita verso l’età adulta inizia lentamente e si accelera sempre di più, così come la formazione e l’educazione. Infine, la pazienza è alimentata dalla speranza: “Non c’è terreno così ingrato che l’amore dell’operaio non lo fecondi”.

Educazione integrale
            Da quanto detto finora, è già abbastanza chiaro che per Francesco di Sales l’educazione non poteva essere confusa con una sola dimensione della persona, come l’istruzione, o le buone maniere, o addirittura un’educazione religiosa priva di fondamenti umani. Naturalmente, non si può negare l’importanza di ciascuno di questi ambiti particolari. Per quanto riguarda l’educazione e la formazione della mente, basta ricordare il tempo e gli sforzi che lui stesso dedicò durante la sua giovinezza all’acquisizione di un’alta cultura intellettuale e “professionale”, così come la cura che dedicò all’educazione nella sua diocesi.
            Tuttavia, la sua preoccupazione principale era la formazione integrale della persona umana, intesa in tutte le sue dimensioni e dinamiche. Per dimostrarlo, ci concentreremo su ciascuna delle dimensioni costitutive della persona umana nella sua totalità simbolica: il corpo con tutti i suoi sensi, l’anima con tutte le sue passioni, la mente con tutte le sue facoltà e il cuore, sede della volontà, dell’amore e della libertà.




San Francesco di Sales fondatore di una nuova scuola di perfezione

            Per Francesco di Sales la vita religiosa è «una scuola di perfezione», nella quale uno «si consacra in modo più semplice e più totale a Nostro Signore». «La vita religiosa – aggiunge il fondatore della Visitazione – è una scuola dove ognuno deve imparare la lezione: il maestro non richiede che l’allievo sappia ogni giorno la lezione senza sbagliare, è sufficiente che si impegni a fare quanto può per impararla». Parlando della congregazione della Visitazione da lui fondata, usava lo stesso linguaggio: «La congregazione è una scuola»; vi si entra «per incamminarsi verso la perfezione dell’amore divino».
            Spettava al fondatore formare le sue figlie spirituali, ricoprendo il ruolo di «istitutore» e maestro delle novizie. Lo ha svolto in modo eccellente. Secondo T. Mandrini, «san Francesco di Sales occupa nella storia della vita religiosa un posto di primo ordine, come sant’Ignazio di Loyola; possiamo anzi affermare che nella storia della vita religiosa femminile san Francesco di Sales occupa quel posto che sant’Ignazio tiene nella storia della vita maschile».

Giovanna di Chantal alle origini della Visitazione
            Nel 1604, Francesco di Sales incontrò a Digione, dove stava predicando il quaresimale, la donna che stava per divenire la «pietra fondamentale» di un nuovo istituto. In tale data, Jeanne-Françoise Frémyot era una giovane vedova di trentadue anni. Nata nel 1572 a Digione, aveva sposato a vent’anni Christophe Rabutin, barone di Chantal. Ebbero un figlio e tre figlie. Quindici giorni dopo la nascita dell’ultima figlia, il marito venne colpito mortalmente nel corso di una partita di caccia. Rimasta vedova, Giovanna continuò coraggiosamente a occuparsi dell’educazione dei figli e dell’aiuto ai poveri.
            L’incontro della Chantal con il vescovo di Ginevra segnò l’inizio di una vera amicizia spirituale che sfocerà in una nuova forma di vita religiosa. All’inizio Francesco di Sales inculcò a Giovanna di amare l’umiltà richiesta dal suo stato di vedova, senza pensare a un nuovo matrimonio o alla vita religiosa; la volontà di Dio si sarebbe manifestata a suo tempo. La incoraggiò nelle prove e tentazioni contro la fede e contro la Chiesa.
            Nel 1605 la baronessa giunse a Sales per rivedere il suo direttore e approfondire con lui gli argomenti che la preoccupavano. Francesco rispose evasivamente al desiderio di Giovanna di farsi religiosa ma aggiungendo queste forti parole: «Il giorno in cui abbandonerete ogni cosa, verrete da me e farò in modo che vi troviate in un totale spogliamento e nudità, per essere tutta di Dio». Per disporla a questo obiettivo finale le suggeriva: “la dolcezza di cuore, la povertà di spirito e la semplicità di vita, insieme con questi tre esercizi modesti: visitare gl’infermi, servire i poveri, consolare gli afflitti e altri simili”.
            All’inizio del 1606, siccome il padre della baronessa la spingeva a risposarsi, il problema della vita religiosa divenne urgente. Che fare, si domandava il vescovo di Ginevra? Una cosa era chiara, ma l’altra in bilico:

Ho appreso fino a questo momento, Figlia mia, che, un giorno, dovrete lasciar tutto; o meglio, perché non intendiate la cosa diversamente da come l’ho intesa io, che, un giorno, vi dovrò consigliare di lasciar tutto. Dico lasciar tutto. Ma che lo dobbiate fare per entrare nella vita religiosa, è poco probabile, perché non mi è ancora accaduto di essere di questo parere: ne sono ancora in dubbio, e non vedo, dinanzi a me, nulla che mi inviti a desiderarlo. Comprendetemi bene, per l’amor di Dio. Non dico di no, ma dico solo che il mio spirito non ha ancora trovato una ragione per dire di sì.

            La prudenza e la lentezza di Francesco di Sales è facilmente spiegabile. La baronessa, infatti, sognava forse di farsi carmelitana, e anch’egli, d’altra parte, non aveva ancora maturato il progetto della nuova fondazione. Ma l’ostacolo principale era costituito dai figli della signora Chantal, tutti ancora piccoli di età.

La fondazione
            Nel corso di un nuovo incontro avvenuto ad Annecy nel 1607, Francesco le dichiarò questa volta: «Ebbene! figlia mia, mi sono deciso circa ciò che voglio fare di voi»; e le svelò il progetto di fondare con lei un nuovo istituto. Rimanevano due ostacoli maggiori alla realizzazione: i doveri familiari della signora di Chantal e la sua stabile venuta ad Annecy, perché, diceva, «occorre gettare il seme della nostra congregazione nella piccola Annecy». E mentre la signora di Chantal sognava probabilmente una vita interamente contemplativa, Francesco le citava l’esempio di santa Marta, ma una Marta «corretta» dall’esempio di Maria, che divideva le ore delle sue giornate in due, «dedicandone una buona parte alle opere esteriori di carità, e la parte migliore al proprio intimo con la contemplazione».
            Durante i tre anni successivi, i principali ostacoli caddero uno dopo l’altro: il padre della Chantal le consentì di seguire la propria strada, accettando anche di curare l’educazione del primogenito; la figlia maggiore convolava a nozze con Bernard de Sales, fratello di Francesco, e lo raggiungeva in Savoia; la seconda figlia accompagnerà la madre ad Annecy; quanto all’ultima, essa moriva alla fine di gennaio del 1610 all’età di nove anni.
            Il 6 giugno 1610, Giovanna di Chantal si stabilì in una casa privata con Charlotte, un’amica di Borgogna, e Jacqueline, figlia del presidente Antoine Favre. Loro scopo era di «consacrare tutti i momenti della loro vita ad amare e servire Dio», senza disattendere «il servizio dei poveri e dei malati». La Visitazione sarà una «piccola congregazione», che unisce la vita interiore con una forma di vita attiva. Le tre prime visitandine fecero la loro professione esattamente un anno dopo, il 6 giugno 1611. Il 1° gennaio 1612 cominceranno le visite ai poveri e ai malati, previste nel primitivo progetto di Costituzioni. Il 30 ottobre dello stesso anno la comunità abbandonò la casa, divenuta troppo piccola, e si trasferì in una nuova casa, in attesa di erigere il primo monastero della Visitazione.
            Durante i primi anni non si sognò nessun’altra fondazione, finché nel 1615 giunse una domanda insistente di alcune persone di Lione. L’arcivescovo di detta città non voleva che le suore uscissero dal monastero per le visite ai malati; secondo lui, occorreva trasformare la congregazione in un vero e proprio ordine religioso, con voti solenni e clausura, seguendo le prescrizioni del concilio di Trento. Francesco di Sales dovette accettare la maggior parte delle condizioni: la visita ai malati venne soppressa e la Visitazione divenne un ordine quasi monastico, sotto la regola di sant’Agostino, pur conservando la possibilità di accogliere persone esterne per un po’ di riposo o per esercizi spirituali. Il suo sviluppo fu rapido: conterà tredici monasteri alla morte del fondatore nel 1622 e ottantasette alla morte della madre di Chantal nel 1641.

La formazione sotto forma di trattenimenti
            Georges Rolland ha descritto bene il ruolo della formazione delle «figlie» della Visitazione, che Francesco di Sales ha assunto fin dall’inizio del nuovo istituto:

Le assisteva nei loro inizi faticando parecchio e dedicando molto tempo nell’educarle e nell’avviarle sul sentiero della perfezione, prima tutte insieme e poi ciascuna in particolare. Perciò andava da loro, sovente due o tre volte al giorno, dando loro indicazioni su questioni che di volta in volta venivano loro in mente, sia di ordine spirituale che di natura materiale. […] Era loro confessore, cappellano, padre spirituale e direttore.

            Il tono dei suoi «trattenimenti» era assai semplice e familiare. Un trattenimento, infatti, è un’amabile conversazione, un dialogo o colloquio familiare, non già una «predica», quanto piuttosto una «semplice conferenza nella quale ciascuno dice la sua opinione». Normalmente, le domande erano poste dalle suore, come appare chiaramente nel terzo dei suoi Trattenimenti dove parla Della confidenza e dell’abbandono. La prima domanda era quella di sapere «se un’anima cosciente della sua miseria può rivolgersi a Dio con piena confidenza». Un po’ oltre il fondatore pare che prenda al balzo una nuova domanda: «Ma voi dite che non provate affatto questa confidenza». Più oltre ancora afferma: «Ora passiamo all’altra domanda che è l’abbandonare se stessi». E ancora più avanti si trova una catena di domande come queste: «Ora voi mi domandate di che cosa si occupa quest’anima che si abbandona totalmente nelle mani di Dio»; «voi mi dite a quest’ora»; «ora voi mi chiedete»; «per rispondere a ciò che voi domandate»; «voi volete ancora sapere». È possibile, anzi probabile, che le segretarie abbiano soppresso le domande delle interlocutrici per porle in bocca al vescovo. Le domande potevano essere anche formulate per iscritto, perché all’inizio dell’undicesimo Trattenimento si legge: «Incomincio la nostra conversazione rispondendo a una domanda che mi è stata scritta su questo biglietto».

Istruzioni e esortazioni
            L’altro metodo usato nella formazione delle visitandine escludeva le domande e le risposte: erano sermoni che il fondatore faceva nella cappella del monastero. Il tono familiare che li caratterizza non consente di annoverarli tra le grandi prediche per il popolo secondo lo stile dell’epoca. R. Balboni preferisce chiamarli esortazioni. «Il discorso che sto per farvi», diceva il fondatore iniziando a parlare. Gli capitava di accennare al suo «discorsetto», qualifica che non s’applicava certamente alla durata, la quale ordinariamente era di un’ora. Una volta dirà: «Avendo del tempo, tratterò di…». Il vescovo si indirizzava a un pubblico particolare, le visitandine, alle quali potevano aggiungersi parenti e amici. Quando parlava nella cappella, il fondatore doveva tener conto di questo pubblico, che poteva essere differente rispetto a quello dei Trattenimenti riservati alle religiose. La diversità dei suoi interventi è descritta bene dal confronto tra il barbiere e il chirurgo:

Mie care figlie, quando parlo davanti ai secolari, io faccio come il barbiere, mi accontento di radere il superfluo, mi servo cioè del sapone per addolcire un poco la pelle del cuore, come fa il barbiere per addolcire quella del mento prima di raderlo; ma invece quando sono in parlatorio, io mi comporto come l’esperto chirurgo, fascio cioè le piaghe delle mie care figlie, benché esse gridino un poco: Ahi!, e non smetto di premere la mano sulla piaga per far in modo che la fasciatura aiuti a guarirla bene.

            Ma anche in cappella il tono continuava ad essere familiare, simile a una conversazione. «Occorre andare oltre – diceva –, perché mi manca il tempo per fermarmi di più su questo argomento»; o ancora: «Prima di finire, diciamo ancora una parola». E un’altra volta: «Ma vado oltre questo primo punto senza aggiungere niente di più, perché non è su questo tema che intendo fermarmi». Quando parla del mistero della Visitazione, ha bisogno di un tempo supplementare: «Concluderò con due esempi, benché il tempo sia già passato; ad ogni modo un breve quarto d’ora basterà». Talvolta esprime i suoi sentimenti, dicendo che ha provato «piacere» a trattare dell’amore vicendevole. Né temeva di fare qualche digressione: «A questo proposito – dirà un’altra volta – vi racconterò due storielle che non narrerei se dovessi parlare da un’altra cattedra; ma qui non c’è pericolo». Per mantenere attento l’uditorio, lo interpella con un «ditemi voi», oppure con l’espressione: «Notate dunque, vi prego». Si ricollegava sovente con un argomento che aveva sviluppato precedentemente, dicendo: «Desidero aggiungere ancora una parola al discorso che vi ho fatto l’altro giorno».  «Ma vedo che l’ora se ne va veloce – esclama –, il che mi farà finire col completare, nel poco tempo che mi resta, la storia di questo vangelo». È giunto il momento di concludere dice: «Ho finito».
            Occorre tener presente che il predicatore era desiderato, ascoltato con attenzione e anche autorizzato talvolta a raccontare di nuovo la stessa storia: «Benché l’abbia già narrata, non tralascerò di ripeterla, dato che non sono davanti a persone talmente disgustate da non essere disposte ad ascoltare due volte la stessa storia; coloro infatti che hanno un buon appetito mangiano volentieri due volte lo stesso cibo».
            I Sermoni si presentano come un’istruzione più strutturata rispetto ai Trattenimenti, dove gli argomenti si susseguono a volte rapidamente incalzati dalle domande. Qui la connessione è più logica, le diverse articolazioni del discorso sono indicate meglio. Il predicatore spiega la Scrittura, la commenta con i Padri e i teologi, ma è una spiegazione piuttosto meditata e in grado di alimentare la preghiera mentale delle religiose. Come ogni meditazione, comprende considerazioni, affetti e risoluzioni. Tutto il suo discorso, infatti, verteva su una domanda essenziale: «Volete diventare una brava figlia della Visitazione?».

L’accompagnamento personale
            Da ultimo c’era il contatto personale con ciascuna suora. Francesco aveva una lunga esperienza di confessore e di direttore spirituale di singole persone. Occorreva tener conto, è del tutto evidente, della «varietà degli spiriti», dei temperamenti, delle situazioni particolari e dei progressi nella perfezione.
            Nei ricordi di Marie-Adrienne Fichet si legge un episodio che mostra il modo di fare del vescovo di Ginevra: «Monsignore, vostra Eccellenza avrebbe la bontà di assegnare a ciascuna di noi una virtù per impegnarci singolarmente a praticarla?». Forse si trattava di un pio stratagemma inventato dalla superiora. Il fondatore rispose: «Madre mia, volentieri, occorre cominciare da voi». Le suore si ritirarono e il vescovo le chiamò una dopo l’altra e, passeggiando, lanciava a ciascuna una «sfida» in segreto. Nel corso della successiva ricreazione, tutte vennero evidentemente a conoscenza della sfida che aveva confidato a ciascuna in particolare. Alla madre di Chantal aveva raccomandato «l’indifferenza e l’amare la volontà di Dio»; a Jacqueline Favre, «la presenza di Dio»; a Charlotte di Bréchard, «la rassegnazione al volere di Dio». Le sfide destinate alle altre religiose riguardavano, una dopo l’altra, la modestia e la tranquillità, l’amore alla propria condizione, la mortificazione dei sensi, l’affabilità, l’umiltà interiore, l’umiltà esteriore, il distacco dai genitori e dal mondo, la mortificazione delle passioni.
            A suore della Visitazione tentate di considerare la perfezione come un vestito da infilare, ricordava con una punta d’umorismo la loro responsabilità personale:

Voi vorreste che vi insegnassi una via di perfezione già bella pronta e fatta, per cui non ci sarebbe da fare altro che infilarvela, come fareste di un abito, e così vi trovereste perfette senza fatica, ossia vorreste che io vi presentassi una perfezione già confezionata […]. Certo, se ciò fosse in mio potere, sarei l’uomo più perfetto del mondo; infatti, se potessi dare la perfezione agli altri senza fare nulla, vi assicuro che prima la prenderei per me.

            Come conciliare in una comunità la necessaria unità, anzi uniformità, con la diversità delle persone e dei temperamenti che la compongono? Il fondatore scriveva a questo proposito alla superiora della Visitazione di Lione: «Se si riscontra qualche anima o addirittura qualche novizia che prova troppa ripugnanza ad assoggettarsi a quegli esercizi che sono segnalati, e se questa ripugnanza non nasce da un capriccio, da presunzione, da alterigia o tendenze melanconiche, toccherà alla maestra delle novizie condurre per un’altra via, sebbene questa sia utile per l’ordinario, come lo dimostra l’esperienza». Come sempre obbedienza e libertà non vanno opposte l’una all’altra.
            Forza e dolcezza devono inoltre caratterizzare la maniera con cui le superiore della Visitazione dovevano «modellare» le anime. Infatti, dice loro, è «con le vostre mani» che Dio «modella le anime, usando o il martello, o lo scalpello, o il pennello, al fine di configurarle tutte a suo piacimento». Le superiori dovranno avere «cuori di padri solidi, saldi e costanti, senza trascurare le tenerezze di madri che fanno desiderare i dolci ai bimbi, seguendo l’ordine divino che tutto governa con una forza molto soave e una soavità molto forte».
            Le maestre delle novizie meritavano di avere attenzioni particolari da parte del fondatore, perché «dalla buona formazione e direzione delle novizie dipende la vita e la buona salute della congregazione». Come formare le future visitandine, quando si è lontane dai fondatori? si chiedeva la maestra delle novizie di Lione. Francesco le risponde: «Dite ciò che avete visto, insegnate ciò che avete udito ad Annecy. Ecco! Questa pianticella è piccola piccola e ha radici profonde; ma il ramoscello che se ne separerà, senza dubbio perirà, si seccherà e non sarà buono ad altro se non ad essere tagliato e gettato nel fuoco».

Un manuale della perfezione
            Nel 1616 san Francesco di Sales pubblicò il Trattato dell’amor di Dio, un libro «fatto per aiutare l’anima già devota affinché possa progredire nel suo progetto». Come è facile rilevare, il Teotimo propone una dottrina sublime sull’amore di Dio, la quale ha procurato al suo autore il titolo di «dottore della carità», ma lo fa con uno spiccato senso pedagogico. L’autore vuole accompagnare lungo il cammino dell’amore più alto una persona chiamata Teotimo, nome simbolico che designa «lo spirito umano che desidera progredire nella santa dilezione», cioè nell’amore di Dio.
            Il Teotimo si rivela come il «manuale» della «scuola di perfezione» che Francesco di Sales ha inteso creare. Vi si scopre in modo implicito l’idea della necessità di una formazione permanente, da lui illustrata mediante quest’immagine tratta dal mondo vegetale:
            Non vediamo, per esperienza, che le piante e i frutti non hanno una giusta crescita e maturazione se non quando portano i loro grani e i loro semi che servono per la riproduzione delle piante e degli alberi della stessa specie? Le virtù non hanno mai la giusta dimensione e sufficienza se non producono in noi desideri di fare progressi. Insomma occorre imitare questo curioso animale che è il coccodrillo: «Piccolissimo alla nascita, non cessa mai di crescere fin tanto che è in vita».
            Di fronte alla decadenza e talvolta alla condotta scandalosa di numerosi monasteri e abbazie, Francesco di Sales tracciava un cammino esigente ma amabile. In riferimento agli ordini riformati, dove regnavano una severità e un’austerità tali da allontanare un buon numero di persone dalla vita religiosa, il fondatore delle visitandine ebbe la profonda intuizione di concentrare l’essenza della vita religiosa semplicemente nella ricerca della perfezione della carità. Con i necessari adattamenti, tale «pedagogia giunta al suo apice», nata a contatto con la Visitazione, valicherà largamente i muri del suo primo monastero e affascinerà altri «apprendisti» della perfezione.




San Francesco di Sales, accompagnatore personale

            «Il mio spirito accompagna sempre il vostro», scriveva un giorno Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, in un periodo in cui questa si sentiva assalita da tenebre e tentazioni. E aggiungeva: «Camminate dunque, cara Figlia, e avanzate nel cattivo tempo e durante la notte. Siate coraggiosa, mia cara Figlia; con l’aiuto di Dio, faremo molto». Accompagnamento, direzione spirituale, guida delle anime, direzione di coscienza, assistenza spirituale: sono altrettante formule pressappoco sinonime, in quanto designano questa forma particolare di educazione e formazione esercitata nell’ambito spirituale della coscienza individuale.

Formazione di un futuro accompagnatore
            La formazione ricevuta da giovane aveva preparato Francesco di Sales a diventare, a sua volta, direttore spirituale. Come studente presso i gesuiti di Parigi molto probabilmente ebbe un padre spirituale di cui ignoriamo il nome. A Padova era stato suo direttore Antonio Possevino; con questo famoso gesuita Francesco si feliciterà in seguito di esserne stato uno dei «figli spirituali». In occasione del suo tormentato cammino verso lo stato clericale, fu suo confidente e sostegno Amé Bouvard, un prete amico di famiglia, il quale lo preparò poi alle ordinazioni.
            All’inizio del suo episcopato affidò la cura della sua vita spirituale al padre Fourier, rettore dei gesuiti di Chambéry, «grande, erudito e devoto religioso», col quale stabilì «una particolarissima amicizia» e che gli fu molto vicino «col suo consiglio e avvertimenti». Durante parecchi anni si confessò regolarmente dal penitenziere della cattedrale, che chiamava «signor confratello carissimo e perfetto amico».
            Il soggiorno a Parigi del 1602 influì profondamente sullo sviluppo dei suoi doni di direttore d’anime. Inviato dal vescovo a trattare a corte alcuni affari della diocesi, ebbe poco successo sul piano diplomatico, ma questa prolungata visita nella capitale francese gli consentì di allacciare contatti con l’élite spirituale che si riuniva presso la dama Acarie, una donna eccezionale, mistica e padrona di casa allo stesso tempo. Divenuto suo confessore, ne osservava le estasi e l’ascoltava senza farle domande. «Oh! che sbaglio ho fatto – dirà più tardi –, per non aver approfittato abbastanza della sua santissima compagnia! Ella infatti mi aprì liberamente il suo animo; ma l’estremo rispetto che avevo per lei faceva sì che non osassi informarmi di una minima cosa».

Un’attività assillante «che rasserena e rincuora»
            Aiutare ogni singolo individuo, accompagnarlo personalmente, consigliarlo, correggerne eventualmente gli errori, incoraggiarlo, tutto ciò esige tempo, pazienza e un costante sforzo di discernimento. L’autore della Filotea parla per esperienza quando afferma nella prefazione:

È una fatica, lo confesso, guidare anime singole, ma una fatica che fa sentir leggeri, come quella dei mietitori e dei vendemmiatori, i quali non sono mai tanto contenti come quando hanno molto lavoro e molto da portare. È un lavoro che rasserena e rincuora, per la soavità che arreca a chi lo intraprende.

            Conosciamo questo settore importante della sua azione formativa specialmente dalla sua corrispondenza, ma va precisato che si fa direzione spirituale non soltanto per iscritto. Incontri personali e confessioni individuali ne fanno parte, anche se occorre distinguerli adeguatamente. Nel 1603, incontrò il duca di Bellegarde, grande personaggio del regno e grande peccatore, il quale, alcuni anni più tardi gli chiederà di guidarlo sul cammino della conversione. Il quaresimale che predicò a Digione l’anno seguente costituì una svolta nella sua «carriera» di direttore spirituale, perché incontrò Jeanne Frémyot, vedova del barone di Chantal.
            A partire dal 1605, la visita sistematica della sua vasta diocesi lo metterà in contatto con un numero infinito di persone di tutte le condizioni, soprattutto contadini e montanari, perlopiù analfabeti, i quali non ci hanno lasciato della corrispondenza. Predicando il quaresimale ad Annecy nel 1607, trovò nelle sue «sacre reti» una signora di ventun anni, «ma tutta d’oro», di nome Louise Du Chastel, la quale aveva sposato il cugino del vescovo, Henri de Charmoisy. Le lettere di direzione spirituale che Francesco invierà alla signora di Charmoisy serviranno come materiale di base per la redazione della sua futura opera, la Filotea.
            La predicazione di Grenoble del 1616, 1617 e 1618 gli procurò un considerevole numero di figlie e figli spirituali che, avendolo ascoltato sulla cattedra, cercheranno di contattarlo da vicino. Nuove Filotee lo seguiranno durante il suo ultimo viaggio a Parigi nel 1618-1619, dove faceva parte della delegazione di Savoia che stava negoziando il matrimonio del principe del Piemonte Vittorio Amedeo, con Cristina di Francia, sorella di Luigi XIII. Concluso il principesco matrimonio, Cristina lo sceglierà come suo confessore e «grande cappellano».

Il direttore è padre, fratello, amico
            Quando si rivolge alle persone da lui dirette, Francesco di Sales fa un uso abbondante, per non dire eccessivo, secondo il costume dell’epoca, di titoli e di appellativi tratti dalla vita familiare e sociale, come padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia, zio, zia, nipote, padrino, madrina, o servitore. Il titolo di padre significava autorità e allo stesso tempo amore e confidenza. Il padre «assiste» mediante consigli il figlio e la figlia usando saggezza, prudenza e carità. In quanto padre spirituale, il direttore è colui che in certi casi dice: Lo voglio! Francesco di Sales sapeva usare tale linguaggio, ma solo in circostanze del tutto speciali, come quando ordina alla baronessa di non evitare l’incontro con l’assassino del marito:

Mi avete chiesto come volevo che vi comportaste nell’incontro con colui che uccise il vostro signor marito. Rispondo per ordine. Non è necessario che ne cerchiate voi stessa la data e l’occasione. Però, se questa si presenta, voglio che l’accogliate con un cuore dolce, gentile e compassionevole.

            Una volta scrisse a una donna angosciata: «Ve lo ordino a nome di Dio», ma era per toglierle gli scrupoli. La sua autorità resta sempre umile, buona, anche tenera; il suo ruolo nei confronti delle persone da lui dirette, precisava nella prefazione della Filotea, consisteva in una particolare «assistenza», termine che appare due volte in tale contesto. L’intimità che si stabilirà tra lui e il duca di Bellegarde sarà tale da consentire a Francesco di Sales di rispondere alla richiesta del duca, usando non senza esitazione gli appellativi di «figlio mio» o di «monsignore figlio mio», ben sapendo che il duca era più vecchio di lui. Il risvolto pedagogico della direzione spirituale è sottolineato da un’altra immagine significativa. Dopo aver ricordato la veloce corsa della tigre per salvare il suo piccolo, mossa dalla forza dell’amore naturale, continua dicendo:

E quanto più volentieri un cuore paterno s’occuperà di un’anima che avrà trovato piena di desiderio della santa perfezione, portandola sul suo seno, come una madre il suo bambino, senza sentire il peso del caro fardello.

            Nei riguardi delle persone da lui dirette, donne e uomini, Francesco di Sales si comporta anche come un fratello, ed è in tale veste che sovente si presenta alle persone che ricorrono a lui. Antoine Favre è chiamato costantemente «mio fratello». In un primo momento si rivolge alla baronessa di Chantal usando l’appellativo «signora» (madame), successivamente passa a quello di «sorella», «questo nome, che è quello con cui gli apostoli e i primi cristiani usavano esprimere il loro amore vicendevole». Un fratello non comanda, dà consigli e pratica la correzione fraterna.
            Ma ciò che caratterizza meglio lo stile salesiano, è il clima amichevole e reciproco che unisce il direttore e la persona diretta. Come dice bene André Ravier, «non c’è, per lui, vera direzione spirituale se non c’è amicizia, cioè scambio, comunicazione, influsso reciproco». Non stupisce che Francesco di Sales ami i suoi referenti di un amore che testimonia loro in mille modi; meraviglia invece che desideri di essere da loro parimenti amato. Con Giovanna di Chantal, la reciprocità divenne tanto intensa da trasformare talvolta il «mio» e il «tuo» in un «nostro»: «Non mi è possibile distinguere il mio e il tuo in quello che ci riguarda, è nostro».

Obbedienza al direttore, ma in un clima di confidenza e di libertà
            L’obbedienza al direttore spirituale è una garanzia contro gli eccessi, le illusioni e i passi falsi compiuti il più delle volte per amor proprio; essa mantiene in un atteggiamento prudente e saggio. L’autore della Filotea la considera necessaria e benefica, senza ricalcarla; «l’umile obbedienza, tanto raccomandata e tanto praticata da tutti gli antichi devoti», fa parte di una tradizione. Francesco di Sales la raccomanda alla baronessa di Chantal nei confronti del suo primo direttore, ma indicandone il modo di viverla:

Lodo moltissimo il rispetto religioso che sentite per il vostro direttore, e vi esorto a conservarlo con molta cura; ma bisogna pure che vi dica ancora una parola. Questo rispetto vi deve indurre senza dubbio a perseverare nella santa condotta alla quale vi siete adattata così felicemente, ma non deve assolutamente impedire o soffocare la giusta libertà che lo Spirito di Dio dà a chiunque egli possiede.

            Ad ogni modo, è necessario che il direttore possegga tre qualità indispensabili: «Occorre che sia pieno di carità, di scienza e di prudenza: se una di queste tre gli manca, c’è del pericolo» (I I 4). Non pare proprio questo il caso del primo direttore della signora di Chantal. A detta del suo biografo, la madre de Chaugy, costui «la vincolò alla sua direzione» intimandole di non pensare mai a cambiarlo; erano «legami inopportuni che ne tenevano l’anima in trappola, coartata e senza libertà». Quando, dopo aver incontrato Francesco di Sales, volle cambiare di direttore, piombò in un mare di scrupoli. Questi, per rasserenarla le indicò un’altra via:

Eccovi qui la regola generale della nostra obbedienza, scritta in lettere molto grosse: OCCORRE FAR TUTTO PER AMORE, E NULLA PER FORZA; OCCORRE AMARE L’OBBEDIENZA PIÙ DI QUANTO SI TEME LA DISOBBEDIENZA. Vi lascio lo spirito di libertà: non quello che esclude l’obbedienza, ché, allora, si dovrebbe parlare della libertà della carne, ma quello che esclude la costrizione, lo scrupolo e la fretta.

            La modalità salesiana è fondata sul rispetto e sull’obbedienza dovuta al direttore, senza alcun dubbio, ma soprattutto sulla confidenza: «Abbiate in lui la massima confidenza, unita a una sacra riverenza, in modo che la riverenza non diminuisca la confidenza e la confidenza non impedisca la riverenza; fidatevi di lui con il rispetto di una figlia verso il proprio padre, rispettatelo con la confidenza di una figlia con la propria madre». La confidenza ispira semplicità e libertà, le quali favoriscono la comunicazione fra due persone, specialmente quando quella diretta è una giovane novizia timorosa:

Vi dirò, in primo luogo, che non dovete usare, nei miei riguardi, parole di cerimonia o di scusa, poiché, per volontà di Dio, sento per voi tutto l’affetto che potreste desiderare, e non saprei proibirmi di sentirlo. Amo il vostro spirito profondamente, perché penso che Dio lo vuole, e lo amo teneramente, perché vi vedo ancora debole e troppo giovane. Scrivetemi, dunque, con tutta confidenza e libertà, e chiedete tutto quello che vi parrà utile per il vostro bene. E questo sia detto una volta per sempre.

            Come si deve scrivere al vescovo di Ginevra? «Scrivetemi liberamente, sinceramente, semplicemente – diceva a una delle anime da lui dirette –. Su questo punto, non ho altro da dire, se non che non dovete mettere sulla lettera Monsignore né solo né accompagnato da altre parole: basta che mettiate Signore, e sapete perché. Io sono un uomo senza cerimonie, e vi amo e vi onoro con tutto il cuore». Questo ritornello ritorna di frequente all’inizio di una nuova relazione epistolare. L’affetto, quando è sincero e soprattutto quando ha la fortuna di essere corrisposto, autorizza la libertà e la massima franchezza. «Scrivetemi ogni volta che ne avete voglia – diceva a un’altra donna –, con piena confidenza e senza cerimonie; perché così occorre comportarsi in questa specie di amicizia». A un suo corrispondente chiedeva: «Non chiedetemi di scusarvi per il fatto che scrivete bene o male, perché non mi dovete altra cerimonia se non quella di amarmi». Questo vuol dire parlare «cuore a cuore». L’amore di Dio come l’amore del prossimo ci fa andare avanti «alla buona, senza tante moine» perché, così si esprimeva, «il vero amore non ha bisogno di un metodo». La chiave di tutto ciò è l’amore, per il fatto che «l’amore rende uguali gli amanti», l’amore cioè opera una trasformazione nelle persone che si amano, rendendole uguali, simili e allo stesso livello.

«Ogni fiore richiede una cura particolare»
            Mentre il fine della direzione spirituale è uguale per tutti, e cioè la perfezione della vita cristiana, le persone invece non sono tutte uguali, e appartiene all’arte del direttore saper indicare il cammino appropriato a ciascuno per raggiungere il comune scopo. Uomo del suo tempo, consapevole che le stratificazioni sociali erano una realtà, Francesco di Sales conosceva bene la differenza che c’era tra il gentiluomo, l’artigiano, il valletto, il principe, la vedova, la ragazza e la donna sposata. Ciascuno, infatti, dovrà produrre frutti «secondo la sua qualifica e professione». Ma il senso di appartenenza a un determinato gruppo sociale si coniugava bene, in lui, con la considerazione delle peculiarità del singolo individuo: occorre «adattare la pratica della devozione alle forze, attività e doveri di ognuno in particolare». Riteneva d’altronde che «i mezzi per raggiungere la perfezione sono diversi secondo la diversità delle vocazioni».
            La diversità dei temperamenti è un dato di fatto, di cui occorre tener conto. È rilevabile in Francesco di Sales un «fiuto psicologico» anteriore alle scoperte moderne. La percezione delle caratteristiche uniche di ogni persona è assai accentuata in lui ed è il motivo per cui ogni soggetto merita un’attenzione particolare da parte del padre spirituale: «In un giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare». Come un padre o una madre con i propri figli, egli si adatta all’individualità, al temperamento, alle situazioni particolari di ogni individuo. A questa persona, impaziente con sé stessa, delusa perché non progredisce come vorrebbe, raccomanda di amare sé stessa; a quest’altra, attirata dalla vita religiosa ma dotata di una forte individualità, consiglia uno stile di vita che tiene conto di queste due tendenze; a una terza che oscilla tra l’esaltazione e la depressione, suggerisce la pace del cuore tramite la lotta contro immaginazioni angoscianti. A una donna disperata a causa del carattere «spendaccione e frivolo» del marito, il direttore dovrà consigliare «il giusto mezzo e la moderazione» e i mezzi per superare la propria insofferenza. Un’altra, donna con la testa sul collo, con un carattere tutto d’un pezzo, piena di affanni e di processi, avrà bisogno di «santa dolcezza e tranquillità». Un’altra ancora è angustiata dal pensiero della morte e sovente depressa: il suo direttore le ispira coraggio. Ci sono anime che hanno mille desideri di perfezione; occorre calmarne l’impazienza, frutto del loro amor proprio. La famosa Angélique Arnauld, badessa di Port-Royal, vuol riformare il proprio monastero con la rigidità: occorre raccomandarle flessibilità e umiltà.
            Quanto al duca de Bellegarde, che si era immischiato in tutti gli intrighi politici e amorosi della corte, il vescovo lo incoraggia ad acquisire «una devozione maschia, coraggiosa, valorosa, invariabile per servire da specchio a molti, esaltando la verità dell’amore celeste, degna riparazione delle colpe passate». Nel 1613 stenderà per lui un Promemoria per far bene la confessione, contenente otto «avvisi» generali, una descrizione dettagliata «dei peccati contro i dieci comandamenti», un «esame riguardante i peccati capitali», i «peccati che si commettono contro i precetti della Chiesa», un «mezzo per discernere il peccato mortale da quello veniale», e infine «i mezzi per distogliere i grandi dal peccato della carne».

Metodo «regressivo»
            L’arte della direzione di coscienza richiede assai sovente al direttore di fare un passo indietro e di lasciare l’iniziativa al destinatario, o a Dio, soprattutto quando si tratta di fare delle scelte che esigono una decisione impegnativa. «Non prendete le mie parole troppo alla lettera – scrisse alla baronessa di Chantal –; non voglio che esse siano per voi un’imposizione, ma che conserviate la libertà di fare quello che stimate meglio». Scriverà ad esempio a una donna molto attaccata alle «vanità»:

Quando partiste, mi venne in mente di dirvi che dovevate rinunziare al muschio e ai profumi, ma mi contenni, per seguire il mio sistema, che è soave e cerca di attendere quei movimenti che, a poco a poco, gli esercizi di pietà sogliono suscitare nelle anime che si consacrano interamente alla divina Bontà. Il mio spirito, infatti, è estremamente amico della semplicità; e la roncola con la quale si usa tagliare i polloni inutili, la lascio abitualmente in mano a Dio.

            Il direttore non è un despota, ma uno che «guida le nostre azioni con i suoi avvisi e consigli», come dice all’inizio della Filotea. Si astiene dal comandare quando scrive alla signora di Chantal: «Sono consigli buoni e indicati per voi, ma non comandi». Costei d’altronde dirà, al processo di canonizzazione, che si rammaricava a volte perché non era guidata abbastanza con comandi. In effetti, il ruolo del direttore è definito dalla seguente risposta di Socrate a un discepolo: «Io avrò dunque cura di restituirti a te stesso migliore rispetto a ciò che sei». Come dichiarava sempre alla signora di Chantal, Francesco si era «votato», messo al «servizio» della «santissima libertà cristiana». Egli combatte per la libertà:

Vedrete che dico la verità e che combatto per una buona causa quando difendo la santa e amabile libertà dello spirito che, come sapete, onoro in modo tutto particolare, a condizione che sia vera e libera dalla dissipazione e dal libertinaggio, che non sono altro che una maschera di libertà.

            Nel 1616, durante un ritiro spirituale, Francesco di Sales fece fare alla stessa madre di Chantal un esercizio di «spogliazione», per ridurla «all’amabile e santa purezza e nudità dei bimbi». Era giunto il momento di farle fare il passo verso l’«autonomia» della persona diretta. Egli la invita, tra l’altro, a non «prendere nessuna nutrice» e a non continuare a dirgli – precisava – «che sarò sempre io a farle da nutrice», e, insomma, a essere disposta a rinunciare alla direzione spirituale di Francesco. Dio solo basta: «Non abbiate altre braccia che vi portano se non quelle di Dio, né altri seni su cui riposare se non il suo e la Provvidenza. […] Non pensate più all’amicizia né all’unità che Dio ha stabilito fra noi». Per la signora di Chantal la lezione è dura: «Dio mio! mio vero Padre, che avete inciso profondamente col vostro rasoio! potrò io rimanere a lungo in questo stato d’animo»? Ella si vede ormai «spogliata e nuda di tutto ciò che le era più prezioso». Francesco confessa pure lui: «E sì, anch’io mi trovo nudo, grazie a Colui che è morto nudo per insegnarci a vivere nudi». La direzione spirituale raggiunge qui il suo apice. Dopo una tale esperienza, le lettere spirituali diventeranno più rare e l’affetto sarà più contenuto a vantaggio di un’unità tutta spirituale.