Don Elia Comini: sacerdote martire a Monte Sole

Il 18 dicembre 2024 papa Francesco ha riconosciuto ufficialmente il martirio di don Elia Comini (1910-1944), Salesiano di Don Bosco, che sarà dunque beatificato. Il suo nome si aggiunge a quello di altri sacerdoti—come don Giovanni Fornasini, già Beato dal 2021—rimasti vittime delle efferate violenze naziste nell’area di Monte Sole, sui colli bolognesi, durante la Seconda Guerra Mondiale. La beatificazione di don Elia Comini non è solo un avvenimento di straordinario rilievo per la Chiesa bolognese e la Famiglia Salesiana, ma costituisce anche un invito universale a riscoprire il valore della testimonianza cristiana: una testimonianza in cui la carità, la giustizia e la compassione prevalgono su ogni forma di violenza e di odio.

Dall’Appennino ai cortili salesiani
            Don Elia Comini nasce il 7 maggio 1910 in località “Madonna del Bosco” di Calvenzano di Vergato, in provincia di Bologna. La sua casa natale è contigua a un piccolo santuario mariano, dedicato alla “Madonna del Bosco”, e questa forte impronta nel segno di Maria lo accompagnerà tutta la vita.
            È il secondogenito di Claudio ed Emma Limoni che si erano sposati, presso la chiesa parrocchiale di Salvaro, l’11 febbraio 1907. L’anno dopo era nato il primogenito Amleto. Due anni più tardi veniva al mondo Elia. Battezzato il giorno dopo la nascita – 8 maggio – presso la parrocchia Sant’Apollinare di Calvenzano, Elia riceve quel giorno anche i nomi di “Michele” e “Giuseppe”.
            Quando ha sette anni la famiglia si trasferisce in località “Casetta” di Pioppe di Salvaro nel comune di Grizzana. Nel 1916 Elia inizia la scuola: frequenta le prime tre classi elementari a Calvenzano. In quel periodo riceve anche la Prima Comunione. Ancora piccolo, si mostra molto coinvolto nel catechismo e nelle celebrazioni liturgiche. Riceve la Cresima il 29 luglio 1917. Tra il 1919 e il 1922 Elia apprende i primi elementi di pastorale alla «scuola di fuoco» di Mons. Fidenzio Mellini che da giovane aveva conosciuto don Bosco, il quale gli aveva profetizzato il sacerdozio. Nel 1923, don Mellini orienta quindi ai Salesiani di Finale Emilia sia Elia sia il fratello Amleto ed entrambi faranno tesoro del carisma pedagogico del santo dei giovani: Amleto come docente e “imprenditore” nell’ambito della scuola; Elia come Salesiano di Don Bosco.
            Novizio dal 1° ottobre 1925 a San Lazzaro di Savena, Elia Comini resta orfano di padre il 14 settembre 1926, a pochi giorni (3 ottobre 1926) dalla sua Prima Professione religiosa che rinnoverà fino alla Perpetua, l’8 maggio 1931 nell’anniversario del battesimo, presso l’Istituto “San Bernardino” di Chiari. A Chiari sarà inoltre “tirocinante” presso l’Istituto Salesiano “Rota”. Riceve il 23 dicembre 1933 gli ordini minori dell’ostiariato e del lettorato; dell’esorcistato e dell’accolitato il 22 febbraio 1934. È suddiacono il 22 settembre 1934. Ordinato diacono nella cattedrale di Brescia il 22 dicembre 1934, don Elia è consacrato sacerdote per l’imposizione delle mani del Vescovo di Brescia Mons. Giacinto Tredici il 16 marzo del 1935, a soli 24 anni: il giorno successivo celebra la Prima Messa presso l’Istituto salesiano “San Bernardino” di Chiari. Il 28 luglio 1935 festeggerà con una Messa a Salvaro.
            Iscritto alla facoltà di Lettere Classiche e Filosofia dell’allora Regia Università di Milano, si fa sempre assai benvolere dagli allievi, sia come docente, sia come padre e guida nello Spirito: il suo carattere, serio senza rigidità, gli vale stima e fiducia. Don Elia è anche un fine musico e umanista, che apprezza e sa far apprezzare le “cose belle”. Nei componimenti scritti molti studenti, oltre a svolgere la traccia, trovano naturale aprire a don Elia il proprio cuore, fornendogli così occasione per accompagnarli e indirizzarli. Di don Elia “Salesiano” si dirà che era come la chioccia con attorno i pulcini («Si leggeva sul loro volto tutta la felicità di ascoltarlo: sembravano una covata di pulcini attorno alla chioccia»): tutti vicini a lui! Questa immagine richiama quella di Mt 23,37 ed esprime la sua attitudine a radunare le persone per rallegrarle e custodirle.
            Don Elia si laurea il 17 novembre 1939 in Lettere Classiche con una tesi sul De resurrectione carnis di Tertulliano, relatore il professore Luigi Castiglioni (latinista di fama nonché co-autore di un celebre dizionario di Latino, il “Castiglioni-Mariotti”): soffermandosi sulle parole «resurget igitur caro», Elia commenta che si tratta del canto di vittoria dopo una battaglia lunga ed estenuante.

Un viaggio senza ritorno
            Quando il fratello Amleto si trasferisce in Svizzera, la mamma – signora Emma Limoni – resta sola in Appennino: perciò don Elia, in piena intesa con i Superiori, le dedicherà ogni anno le proprie vacanze. Quando tornava a casa aiutava la mamma ma – sacerdote – si rendeva anzitutto disponibile nella pastorale locale, affiancando Mons. Mellini.
            D’accordo con i Superiori e in particolare l’Ispettore, don Francesco Rastello, don Elia torna a Salvaro anche nell’estate 1944: quell’anno spera di poter far sfollare la mamma da una zona dove, a breve distanza, forze Alleate, Partigiani ed effettivi nazi-fascisti definivano una situazione di particolare rischio. Don Elia è consapevole del pericolo che corre lasciando la sua Treviglio per recarsi a Salvaro e un confratello, don Giuseppe Bertolli sdb, ricorda: «salutandolo gli dissi che un viaggio come il suo avrebbe anche potuto essere senza ritorno; gli chiesi anche, naturalmente scherzando, che cosa mi avrebbe lasciato se non fosse tornato; egli mi rispose col mio stesso tono, che mi avrebbe lasciato i suoi libri…; poi non l’ho più visto». Don Elia era già consapevole di dirigersi verso “l’occhio del ciclone” e non ricercò nella casa Salesiana (dove agevolmente sarebbe potuto restare) una forma di tutela: «L’ultimo ricordo che ho di lui risale all’estate del 1944, quando, in occasione della guerra, la Comunità cominciò a sciogliersi; sento ancora le mie parole che bonariamente si rivolgevano a lui, con aria quasi di scherzo, ricordandogli che egli, in quei periodi oscuri che stavamo per affrontare, avrebbe dovuto sentirsi come privilegiato, in quanto sul tetto dell’Istituto era stata tracciata una croce bianca e nessuno avrebbe avuto il coraggio di bombardarlo. Egli però, come un profeta, mi rispose di stare bene attento perché durante le vacanze avrei potuto leggere sui giornali che Don Elia Comini era morto eroicamente nell’adempimento del suo dovere». «L’impressione del pericolo al quale egli si esponeva era viva in tutti», ha commentato un confratello.
            Lungo il viaggio verso Salvaro don Comini sosta a Modena, dove rimedia una brutta ferita a una gamba: stando a una ricostruzione, per essersi interposto tra un veicolo e un passante, scongiurando così un più grave incidente; stando a un’altra, per aver aiutato un signore a spingere un carretto. Ad ogni modo, per aver soccorso il prossimo. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
            L’episodio di Modena esprime, in tal senso, un atteggiamento di don Elia che a Salvaro, nei mesi successivi, sarebbe emerso ancora di più: interporsi, mediare, accorrere in prima persona, esporre la propria vita per i fratelli, sempre cosciente del rischio che ciò comporta e serenamente disposto a pagarne le conseguenze.

Un pastore sul fronte di guerra
            Claudicante, arriva a Salvaro al tramonto del 24 giugno 1944, appoggiandosi come può a un bastone: insolito strumento, per un giovane di 34 anni! Trova la canonica trasformata: Mons. Mellini vi ospita decine di persone, appartenenti a nuclei familiari di sfollati; inoltre, le 5 suore Ancelle del Sacro Cuore, responsabili dell’asilo, tra cui suor Alberta Taccini. Anziano, stanco e scosso dagli eventi bellici, in quell’estate Mons. Fidenzio Mellini fa fatica a decidere, è diventato più fragile e incerto. Don Elia, che lo conosce sin da bambino, comincia ad aiutarlo in tutto e prende un po’ in mano la situazione. La ferita alla gamba gli impedisce inoltre di far sfollare la mamma: don Elia rimane a Salvaro e, quando può di nuovo camminare bene, le mutate circostanze e i crescenti bisogni pastorali faranno sì che vi resti.
            Don Elia rianima la pastorale, segue il catechismo, si occupa degli orfani abbandonati a se stessi. Accoglie inoltre gli sfollati, incoraggia i timorosi, modera gli imprudenti. Quella di don Elia diventa una presenza aggregante, un segno buono in quei drammatici frangenti dove i rapporti umani sono dilaniati da sospetti e contrapposizioni. Mette al servizio di tanta gente le capacità organizzative e l’intelligenza pratica allenate in anni di vita salesiana. Scrive al fratello Amleto: «Certo sono momenti drammatici, e peggiori se ne presagiscono. Speriamo tutto nella grazia di Dio e nella protezione della Madonna, che dovete invocare voi per noi. Spero di potervi fare avere ancora nostre notizie».
            I tedeschi della Wehrmacht presidiano la zona e, sulle alture, c’è la brigata partigiana “Stella Rossa”. Don Elia Comini resta una figura estranea a rivendicazioni o partigianerie di sorta: è un sacerdote e fa valere istanze di prudenza e pacificazione. Ai partigiani diceva: «Ragazzi, guardate quel che fate, perché rovinate la popolazione…», esponendola a ritorsioni. Loro lo rispettano e, nel luglio e nel settembre 1944, chiederanno Messe nella parrocchiale di Salvaro. Don Elia accetta, facendo scendere i partigiani e celebrando senza nascondersi, evitando invece di salire lui in zona partigiana e preferendo – come sempre farà quell’estate – restare a Salvaro o in zone limitrofe, senza nascondersi né scivolare in atteggiamenti “ambigui” agli occhi dei nazi-fascisti.
            Il 27 luglio don Elia Comini scrive le ultime righe del suo Diario spirituale: «27 luglio: mi trovo proprio nel mezzo della guerra. Ho nostalgia dei miei confratelli e della mia casa di Treviglio; se potessi, tornerei domani».
            Dal 20 luglio, condivideva una fraternità sacerdotale con padre Martino Capelli, Dehoniano, nato il 20 settembre 1912 a Nembro nella bergamasca e già docente di Sacra Scrittura a Bologna, anch’egli ospite di Mons. Mellini e in aiuto alla pastorale.
            Elia e Martino sono due studiosi di lingue antiche che devono ora provvedere alle cose più pratiche e materiali. La canonica di Mons. Mellini diventa ciò che Mons. Luciano Gherardi ha poi chiamato «la comunità dell’arca», un posto che accoglie per salvare. Padre Martino era un religioso che si era infervorato quando aveva sentito parlare dei martiri messicani e avrebbe desiderato essere missionario in Cina. Elia, sin da giovane, è inseguito da una strana consapevolezza di “dover morire” e già a 17 anni aveva scritto: «Persiste sempre in me il pensiero che debba morire! – Chissà?! Facciamo come il servo fedele: sempre preparato all’appello, a “reddere rationem” della gestione».
            Il 24 luglio don Elia inizia il catechismo per i bambini in preparazione alle prime Comunioni, in calendario per il 30 luglio. Il 25, nasce una bambina nel battistero (tutti gli spazi, dalla sacrestia al pollaio, erano stracolmi) e si appende un fiocco rosa.
            Per l’intero mese di agosto 1944, soldati della Wehrmacht stazionano presso la canonica di Mons. Mellini e nello spazio antistante. Tra tedeschi, sfollati, consacrati… la tensione sarebbe potuta scoppiare ogni momento: don Elia media e previene anche in piccole cose, per esempio facendo da “ammortizzatore” tra il volume troppo alto della radio dei tedeschi e la pazienza ormai troppo corta di Mons. Mellini. Ci fu anche qualche po’ di Rosario tutti assieme. Don Angelo Carboni conferma: «Nell’intento sempre di confortare Monsignore, D. Elia si adoprò molto contro la resistenza d’una compagnia di Tedeschi che, impostatisi a Salvaro il 1° agosto, voleva occupare diversi ambienti della Canonica togliendo ogni libertà e comodità ai famigliari e sfollati ivi ospitati. Accomodati i Tedeschi nell’archivio di Monsignore, eccoli di nuovo a disturbare, occupando coi loro carri buona parte del piazzale della Chiesa; con modi ancor più gentili e persuasive parole, D. Elia ottenne anche quest’altra liberazione a conforto di Monsignore, che l’oppressione della lotta aveva costretto al riposo». In quelle settimane, il sacerdote salesiano è fermo nel tutelare il diritto di Mons. Mellini a muoversi con un certo agio in casa propria – nonché quello degli sfollati a non essere allontanati dalla canonica –: tuttavia riconosce alcune esigenze degli uomini della Wehrmacht e ciò ne attira la benevolenza verso Mons. Mellini che i soldati tedeschi impareranno a chiamare il pastore buono. Dai tedeschi, don Elia ottiene cibo per gli sfollati. Inoltre, canticchia per calmare i bambini e racconta episodi della vita di don Bosco. In un’estate segnata da uccisioni e ritorsioni, con don Elia alcuni civili riescono persino ad andare a sentire un poco di musica, evidentemente diffusa dall’apparecchio dei tedeschi, e a comunicare con i soldati attraverso brevi cenni. Don Rino Germani sdb, Vicepostulatore della Causa, afferma: «Tra le due forze in lotta si inserisce l’opera instancabile e mediatrice del Servo di Dio. Quando occorre si presenta al Comando tedesco e con educazione e preparazione riesce a conquistare la stima di qualche ufficiale. Così molte volte ottiene di evitare ritorsioni, saccheggi e lutti».
            Liberata la canonica dalla presenza fissa della Wehrmacht il 1° settembre 1944 – «Il 1° settembre i tedeschi lasciarono libera la zona di Salvaro, solo qualcuno rimase per pochi giorni ancora nella casa Fabbri» – la vita a Salvaro può trarre un respiro di sollievo. Don Elia Comini persevera intanto nelle iniziative di apostolato, coadiuvato dagli altri sacerdoti e dalle suore.
            Mentre tuttavia padre Martino accetta alcuni inviti a predicare altrove e sale in quota, dove i suoi capelli chiari gli fanno correre un grosso guaio con i partigiani che lo sospettano tedesco, don Elia resta sostanzialmente stanziale. L’8 settembre scrive al direttore salesiano della Casa di Treviglio: «Ti lascio immaginare il nostro stato d’animo in questi momenti. Abbiamo attraversato giornate nerissime e drammatiche. […] Il mio pensiero è sempre con te e coi cari confratelli di costì. Sento vivissima la nostalgia […]».
            Dall’11 predica gli Esercizi alle Suore sul tema dei Novissimi, dei voti religiosi e della vita del Signore Gesù.
            Tutta la popolazione – ha dichiarato una consacrata – amava Don Elia, anche perché egli non esitava a spendersi per tutti, in ogni momento; non chiedeva soltanto alle persone di pregare, ma offriva loro un valido esempio con la sua pietà e quel poco di apostolato che, data la circostanza, era possibile esercitare.
            L’esperienza degli Esercizi imprime un diverso dinamismo all’intera settimana, e coinvolge trasversalmente consacrati e laici. Alla sera, infatti, don Elia raduna 80-90 persone: si cercava di stemperare la tensione con un po’ di allegria, buoni esempi, carità. In quei mesi sia lui sia padre Martino, come altri sacerdoti: primo tra tutti don Giovanni Fornasini, erano in prima linea in tante opere di bene.

L’eccidio di Montesole
            La strage più efferata e più grande compiuta dalle SS naziste in Europa, nel corso della guerra del 1939-45, è stata quella consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, anche se è comunemente nota come la “strage di Marzabotto”.
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di tedeschi e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno e alcune porzioni dei territori limitrofi. Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei tedeschi consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, Salesiano, e a padre Martino Capelli, Dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato; è stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati tedeschi trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.

Dalla Wehrmacht alle SS
            Il 25 settembre la Wehrmacht lascia la zona e cede il comando alle SS del 16 Battaglione della Sedicesima Divisione Corazzata “Reichsfürer” – SS”, una Divisione che include elementi SS “Totenkopf – Testa di morto” ed era preceduta da una scia di sangue, essendo stata presente a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) il 12 agosto 1944; a San Terenzo Monti (Massa-Carrara, in Lunigiana) il 17 di quel mese; a Vinca e dintorni (Massa-Carrara, in Lunigiana alle pendici delle Alpi Apuane) dal 24 al 27 agosto.
            Il 25 settembre le SS stabiliscono l’’“Alto comando” a Sibano. Il 26 settembre si portano a Salvaro, dove è anche don Elia: zona fuori dall’area di immeditata influenza partigiana. La durezza dei comandanti nel perseguire il più totale disprezzo della vita umana, l’abitudine a mentire circa il destino dei civili e l’assetto paramilitare – che ricorreva volentieri a tecniche da “terra bruciata”, in dispregio a qualsivoglia codice di guerra o legittimità di ordini impartiti dall’alto – ne faceva uno squadrone della morte che nulla lasciava di intatto al proprio passaggio. Alcuni avevano ricevuto una formazione di stampo esplicitamente concentrazionista ed eliminazionista, deputata a: soppressione della vita, con finalità ideologica; odio verso chi professava la fede ebraico-cristiana; disprezzo per i piccoli, i poveri, gli anziani e i deboli; persecuzione di chi si opponesse alle aberrazioni del nazionalsocialismo. C’era un vero e proprio catechismo – anticristiano e anticattolico – dei quali le giovani SS erano impregnate.
            «Quando si pensa che la gioventù nazista era formata nel disprezzo della personalità umana degli ebrei e delle altre razze “non elette”, nel fanatico culto di una pretesa superiorità nazionale assoluta, nel mito della violenza creatrice e delle “armi nuove” apportatrici di giustizia nel mondo, si comprende dove fossero le radici delle aberrazioni, rese più facili dall’atmosfera di guerra e dal timore di una deludente sconfitta».
            Don Elia Comini – con padre Capelli – accorre per confortare, rassicurare, esortare. Decide si accolgano in canonica soprattutto i superstiti delle famiglie in cui i tedeschi avevano ucciso per ritorsione. Così facendo, sottrae i sopravvissuti al pericolo di trovare la morte poco dopo, ma soprattutto li strappa – almeno nella misura del possibile – a quella spirale di solitudine, disperazione e perdita di volontà di vivere che si sarebbe potuta tradurre addirittura in desiderio di morte. Riesce inoltre a parlare ai tedeschi e, in almeno un’occasione, a far desistere le SS dal loro proposito, facendole sfilare oltre e potendo quindi avvertire successivamente i rifugiati di fuoriuscire dal nascondiglio.
            Il Vicepostulatore don Rino Germani sdb scriveva: «Arriva don Elia. Li rassicura. Dice loro di venir fuori, perché i tedeschi sono andati via. Parla con i tedeschi e li fa andare oltre».
            Viene ucciso anche Paolo Calanchi, un uomo cui la coscienza nulla rimprovera e che commette l’errore di non scappare. Sarà ancora don Elia ad accorrere, prima che le fiamme ne aggrediscano il corpo, tentando almeno di onorarne le spoglie non essendo arrivato in tempo per salvargli la vita: «Il corpo di Paolino viene salvato dalle fiamme proprio da don Elia che, a rischio della vita, lo raccoglie e trasporta con un carretto alla Chiesa di Salvaro».
            La figlia di Paolo Calanchi ha testimoniato: «Mio padre era un uomo buono ed onesto [«in tempi di tessera annonaria e di carestia dava pane a chi non ne aveva»] e aveva rifiutato di scappare sentendosi tranquillo verso tutti. Fu ucciso dai tedeschi, fucilato, per rappresaglia; più tardi fu incendiata anche la casa, ma il corpo di mio padre era stato salvato dalle fiamme proprio da Don Comini, che, a rischio della propria vita, lo aveva raccolto e trasportato con un carretto alla Chiesa di Salvaro, dove, in una cassa da lui costruita con assi di ripiego, fu inumato nel cimitero. Così, grazie al coraggio di Don Comini e, molto probabilmente, anche di Padre Martino, terminata la guerra, io e mia madre potemmo ritrovare e far trasportare la bara del nostro caro nel cimitero di Vergato, insieme a quella di mio fratello Gianluigi, morto 40 giorni dopo nell’attraversare il fronte».
            Una volta don Elia aveva detto della Wehrmacht: «Dobbiamo amare anche questi Tedeschi che ci vengono a disturbare». «Amava tutti senza preferenza». Il ministero di don Elia fu molto prezioso per Salvaro e tanti sfollati, in quei giorni. Testimoni hanno dichiarato: «Don Elia è stato la nostra fortuna perché avevamo il Parroco troppo anziano e debole. Tutta la popolazione sapeva che Don Elia aveva questo interesse nei nostri riguardi; Don Elia ha aiutato tutti. Si può dire che tutti i giorni lo vedevamo. Diceva la Messa, ma poi era spesso sul sagrato della chiesa a guardare: i tedeschi erano giù, verso il Reno; i partigiani venivano dal monte, verso la Creda. Una volta, per esempio, (qualche giorno prima del 26) vennero i partigiani. Noi si usciva dalla chiesa di Salvaro e c’erano i partigiani lì, tutti armati; e Don Elia si raccomandava tanto che se ne andassero, per evitare dei guai. Lo ascoltarono e se ne andarono. Probabilmente, se non ci fosse stato lui, quello che è successo dopo, sarebbe avvenuto molto prima»; «Da quanto mi risulta Don Elia era l’anima della situazione, in quanto con la sua personalità sapeva tenere in pugno tante cose che in quei momenti drammatici erano di importanza vitale».
            Anche se era un sacerdote giovane, don Elia Comini era affidabile. Questa sua affidabilità, unita a una profonda rettitudine, lo accompagnava un po’ da sempre, addirittura da chierico come risulta da una testimonianza: «L’ho avuto quattro anni al Rota, dal 1931 al 1935, e, sebbene ancora chierico, mi ha dato un aiuto che ben difficilmente avrei trovato in altro confratello anche anziano».

Il triduo di passione
            La situazione comunque precipita dopo pochi giorni, il 29 settembre mattina quando le SS compiono una terribile strage in località “Creda”. Il segnale per l’inizio della strage sono un razzo bianco e uno rosso in aria: cominciano a sparare, le mitragliatrici colpiscono le vittime, asserragliate contro un portico e pressoché senza via di scampo. Vengono quindi lanciate bombe a mano, alcune incendiarie e la stalla – dove alcuni erano riusciti a trovare scampo – prende fuoco. Pochi uomini, cogliendo un istante di distrazione delle SS in quell’inferno, si precipitano giù verso il bosco. Attilio Comastri, ferito, si salva perché il corpo esanime della moglie Ines Gandolfi gli ha fatto scudo: vagherà per giorni, in stato di shock, finché riuscirà a passare il fronte e ad aver salva la vita; aveva perso, oltre alla moglie, la sorella Marcellina e la figlia Bianca, di due anni appena. Anche Carlo Cardi riesce a salvarsi, ma la sua famiglia è sterminata: Walter Cardi aveva solo 14 giorni, fu la più piccola vittima dell’eccidio di Monte Sole. Mario Lippi, uno degli scampati, attesta: «Non so io stesso come mi fossi miracolosamente salvato, dato che di 82 persone raccolte sotto al portico, ne rimasero uccise 70 [69, stando alla ricostruzione ufficiale]. Ricordo che oltre al fuoco delle mitragliatrici, i tedeschi scagliarono su di noi anche delle bombe a mano e credo che fossero alcune schegge di queste a ferirmi leggermente nel fianco destro, nella schiena e nel braccio destro. Io, insieme con altre sette persone, profittando che in [un] lato del portico vi era una porticina che portava nella strada, scappai verso il bosco. I tedeschi, vistici fuggire, ci spararono dietro, uccidendo uno di noi [di] nome Gandolfi Emilio. Preciso che tra le 82 persone raccolte sotto il sunnominato portico vi erano anche una ventina di bambini, di cui due in fasce, sulle braccia delle rispettive madri, e una ventina di donne».
            Alla Creda sono 21 i bimbi sotto gli 11 anni, alcuni molto piccoli; 24 le donne (di cui una adolescente); quasi 20 gli “anziani”. Tra le famiglie più colpite i Cardi (7 persone), i Gandolfi (9 persone), i Lolli (5 persone), i Macchelli (6 persone).
            Dalla canonica di Mons. Mellini, guardando in alto, a un certo punto si vede il fumo: ma è mattina presto, la Creda resta nascosta allo sguardo e il bosco attutisce i rumori. In parrocchia quel giorno – 29 settembre festa dei Santi Arcangeli – si celebrano tre Messe, di mattina presto, in immediata successione: quella di Mons. Mellini; quella di padre Capelli che si reca poi a portare una Estrema unzione in località “Casellina”; quella di don Comini. Ed è allora che il dramma bussa alla porta: «Ferdinando Castori, sfuggito anche lui alla strage, giunse alla chiesa di Salvaro imbrattato di sangue come un macellaio, e andò a nascondersi dentro la cuspide del Campanile». Verso le 8 giunge in canonica un uomo sconvolto: sembrava «un mostro per l’aspetto terrorizzante», dice suor Alberta Taccini. Chiede aiuto per i feriti. Una settantina di persone è morta o sta morendo tra terribili supplizi. Don Elia, in pochi istanti, ha la lucidità di nascondere 60/70 uomini in sagrestia, spingendo contro la porta un vecchio armadio che lasciava la soglia visibile da sotto, ma era nondimeno l’unica speranza di salvezza: «Fu allora che Don Elia, proprio lui, ebbe l’idea di nascondere gli uomini a fianco della sacrestia, mettendo poi un armadio davanti alla porta (lo aiutarono una o due persone che erano in casa di Monsignore). L’idea fu di Don Elia; ma tutti erano contrari al fatto che fosse Don Elia a compiere quel lavoro… L’ha voluto lui. Gli altri dicevano: “E se poi ci scoprono?”». Un’altra ricostruzione: «Don Elia riuscì a nascondere in un locale attiguo alla sacrestia una sessantina di uomini e contro l’uscio spinse un vecchio armadio. Intanto il crepitare delle mitraglie e gli urli disperati della gente giungevano dalle case vicine. Don Elia ebbe la forza di iniziare il S. Sacrificio della Messa, l’ultima della sua vita. Non aveva ancora terminato, che giunse atterrito e trafelato un giovane della località “Creda” a chiedere soccorso perché le SS avevano circondato una casa e arrestato sessantanove persone, uomini, donne, bambini».
            «Ancora in paramenti sacri, prostrato all’altare, immerso in preghiera, invoca per tutti l’aiuto del Sacro Cuore, l’intercessione di Maria Ausiliatrice, di san Giovanni Bosco e di san Michele Arcangelo. Poi, con un breve esame di coscienza, recitato tre volte l’atto di dolore, fa loro una preparazione alla morte. Raccomanda all’assistenza delle suore tutte quelle persone e alla Superiora di guidare forte la preghiera perché i fedeli possano trovare in essa il conforto del quale hanno bisogno».
            A proposito di don Elia e di padre Martino, rientrato poco dopo, «si constatano alcune dimensioni di una vita sacerdotale spesa consapevolmente per gli altri fino all’ultimo istante: la loro morte è stata un prolungare nel dono della vita la Messa celebrata fino all’ultimo giorno». La loro scelta aveva «radici lontane, nella decisione di fare del bene anche se si fosse all’ultima ora, disposti anche al martirio»: «molte persone vennero a cercare aiuto in parrocchia e, all’insaputa del parroco, Don Elia e Padre Martino cercarono di nascondere quante più persone possibili; poi assicuratisi che fossero in qualche modo assistite, corsero sul luogo dei massacri per poter portare aiuto anche ai più sfortunati; lo stesso Mons. Mellini non si rese conto di ciò e continuava a cercare i due preti per farsi aiutare a ricevere tutta quella gente» («Abbiamo la certezza che nessuno di essi era partigiano o era stato coi partigiani»).
            In quei momenti, don Elia attesta grande lucidità che si traduce sia in spirito organizzativo, sia nella consapevolezza di mettere a repentaglio la propria vita: «Alla luce di tutto ciò, e Don Elia lo sapeva bene, non possiamo quindi ricercare quella carità che induce al tentativo di aiutare gli altri, ma piuttosto quel tipo di carità (che poi è stata la stessa di Cristo) che induce a partecipare fino in fondo alla sofferenza altrui, non temendo neppure la morte come sua ultima manifestazione. Il fatto che la sua sia stata una scelta lucida e ben ragionata, viene anche dimostrato dallo spirito organizzativo che ha manifestato fino a pochi minuti prima della morte, nel tentare con prontezza ed intelligenza di nascondere quante più persone possibile nei locali nascosti della canonica; poi la notizia della Creda e, dopo la carità fraterna, la carità eroica».
            Una cosa è certa: se don Elia si fosse nascosto con tutti gli altri uomini o anche solo fosse rimasto accanto a Mons. Mellini, non avrebbe avuto nulla da temere. Invece, don Elia e padre Martino prendono la stola, gli oli santi e una teca con alcune Particole consacrate «partirono quindi per la montagna, armati della stola e dell’olio degli infermi»: «Quando Don Elia tornò dall’essere andato da Monsignore, prese la Pisside con le Ostie e l’Olio Santo e si voltò verso di noi: ancora quel volto! era talmente pallido, che sembrava uno già morto. E disse: “Pregate, Pregate per me, perché ho una missione da compiere”». «Pregate per me, non lasciatemi solo!». «Noi siamo sacerdoti e dobbiamo andare e dobbiamo fare il nostro dovere». «Andiamo a portare il Signore ai nostri fratelli».
            Su alla Creda c’è tanta gente che sta morendo tra supplizi: devono accorrere, benedire e – se possibile – provare a interporsi rispetto alle SS.
            La signora Massimina [Zappoli], poi teste anche all’indagine militare di Bologna, ricorda: «Nonostante le preghiere di tutti noi, essi celebrarono in fretta l’Eucaristia e, spinti solo dalla speranza di poter fare qualcosa per le vittime di tanta ferocia almeno con un conforto spirituale, presero il SS. Sacramento e corsero verso la Creda. Ricordo che mentre Don Elia, già lanciato nella sua corsa, mi passò accanto in cucina, io mi aggrappai a lui in un ultimo tentativo di dissuaderlo, dicendo che noi saremmo rimasti in balia di noi stessi; egli fece capire che, per quanto fosse grave la nostra situazione, c’era chi stava peggio di noi ed era da questi che loro dovevano andare».
            Egli è irremovibile e si rifiuta, come poi Mons. Mellini suggerì, di ritardare la salita alla Creda quando i tedeschi se ne fossero andati: «È stata [perciò] una passione, prima che cruenta, […] del cuore, la passione dello spirito. In quei tempi si era terrorizzati da tutto e da tutti: non si aveva più fiducia di nessuno: chiunque poteva essere un nemico determinante per la propria vita. Quando i due Sacerdoti si son resi conto che qualcuno aveva veramente bisogno di loro non hanno avuto tanto tentennamento a decidere cosa fare […] e soprattutto non sono ricorsi a quella che era la decisione immediata per tutti, cioè, trovare un nascondiglio, cercare di coprirsi e di essere fuori dalla mischia. I due Sacerdoti, invece, ci sono andati dentro, consapevolmente, sapendo che la loro vita era al 99% a rischio; e ci sono andati per essere veramente sacerdoti: cioè, per assistere e per confortare; per dare anche il servizio dei Sacramenti, quindi della preghiera, del conforto che la fede e la religione offrono».
            Una persona ha detto: «Don Elia, per noi, era già santo. Se fosse stato una persona normale […] non si sarebbe messo; si sarebbe nascosto anche lui, dietro l’armadio, come tutti gli altri».
            Con gli uomini nascosti, sono le donne a provare a trattenere i sacerdoti, in un estremo tentativo di salvar loro la vita. La scena è al contempo concitata ed assai eloquente: «Lidia Macchi […] e altre donne provarono a impedir loro di partire, tentarono di trattenerli per la tonaca, li rincorsero, li richiamarono a gran voce perché ritornassero indietro: spinti da una forza interiore che è ardore di carità e sollecitudine missionaria, essi stavano ormai decisamente camminando verso la Creda portando i conforti religiosi».
            Una di loro ricorda: «Li abbracciai, li tenevo fermi per le braccia, dicendo e supplicando: – Non andate! – Non andate!».
            E Lidia Marchi aggiunge: «Io tiravo Padre Martino per la veste e lo trattenevo […] ma tutti e due i sacerdoti ripetevano: – Dobbiamo andare; il Signore ci chiama».
            «Dobbiamo compiere il nostro dovere. E [don Elia e padre Martino,] come Gesù, andarono incontro a una sorte segnata».
            «La decisione di recarsi alla Creda fu scelta dai due sacerdoti per puro spirito pastorale; nonostante tutti cercassero di dissuaderli, essi vollero andare spinti dalla speranza di poter salvare qualcuno di coloro che erano in balia della rabbia dei soldati».
            Alla Creda, quasi senz’altro, non arrivarono mai. Catturati, stando a una testimone, presso un “pilastrello”, appena fuori dal campo visivo della parrocchia, don Elia e padre Martino furono visti più tardi carichi di munizioni, alla testa di rastrellati, o ancora soli, legati, con catene, vicino a un albero mentre non c’era alcuna battaglia in corso e le SS mangiavano. Don Elia intimò a una donna di scappare, di non fermarsi per evitare di essere uccisa: «Anna, per carità, scappa, scappa».
            «Erano carichi e curvi sotto il peso di tante cassettine pesanti che dalle spalle avvolgevano il corpo davanti e dietro. Con la schiena facevano una curva che li portava quasi con il naso a terra».
            «Seduti per terra […] molto sudati e stanchi, con le munizioni sulla schiena».
            «Arrestati vengono costretti a portare munizioni su e giù per il monte, testimoni di inaudite violenze».
            «[Le SS li fanno] più volte scendere e salire per il monte, sotto la loro scorta, e compiendo inoltre, sotto gli occhi delle due vittime, le più raccapriccianti violenze».
            Dove sono, ora, la stola, gli oli santi e soprattutto il Santissimo Sacramento? Non ce n’è più alcuna traccia. Lontani da occhi indiscreti, le SS ne hanno spogliato a forza i sacerdoti, liberandosi di quel Tesoro di cui nulla si sarebbe più trovato.
Verso la sera del 29 settembre 1944, furono tradotti con molti altri uomini (rastrellati e non per rappresaglia o non perché filo-partigiani, come le fonti dimostrano), presso la casa “dei Birocciai” a Pioppe di Salvaro. Più tardi essi, suddivisi, avranno sorti diversissime: pochi saranno liberati, dopo una serie di interrogatori. La maggior parte, valutati abili al lavoro, verranno deferiti ai campi di lavoro coatto e potranno – in seguito – tornare alle proprie famiglie. I valutati inabili, per mero criterio anagrafico (cf. campi di concentramento) o di salute (giovane, ma ferito o che si simula malato sperando di salvarsi) verranno uccisi la sera del 1° ottobre alla “Botte” della Canapiera di Pioppe di Salvaro, ormai un rudere perché bombardata dagli Alleati giorni prima.
            Don Elia e padre Martino – che furono interrogati – poterono muoversi fino all’ultimo nella casa e ricevere visite. Don Elia intercedette per tutti e un giovane, molto provato, si addormentò sulle sue ginocchia: in una di esse, don Elia ricevette il Breviario, a lui tanto caro e che volle tenere con sé sino agli ultimi istanti. Oggi, l’attenta ricerca storica attraverso le fonti documentali, supportata dalla più recente storiografia di parte laica, ha dimostrato come non fosse mai andato a buon fine un tentativo di liberare don Elia, messo in atto dal Cavalier Emilio Veggetti, e come don Elia e padre Martino non siano mai realmente stati considerati o perlomeno trattati come “spie”.

L’olocausto
            Infine, vennero inseriti, benché giovani (34 e 32 anni), nel gruppo degli inabili e con essi giustiziati. Vissero quegli ultimi istanti pregando, facendo pregare, essendosi assolti a vicenda e donato ogni possibile conforto di fede. Don Elia riuscì a trasformare la macabra processione dei condannati fino a una passerella antistante l’invaso della canapiera, dove verranno uccisi, in un atto corale di affidamento, tenendo finché poté il Breviario aperto in mano (poi, si legge, un tedesco colpì con violenza le sue mani e il Breviario cadde nell’invaso) e soprattutto intonando le Litanie. Quando fu aperto il fuoco, don Elia Comini salvò un uomo perché gli faceva scudo col proprio corpo e gridò «Pietà». Padre Martino invocò invece “Perdono”, ergendosi a fatica nell’invaso, tra i compagni morti o morenti, e tracciando il segno di Croce pochi istanti prima di morire egli stesso, a causa di una enorme ferita. Le SS vollero assicurarsi che nessuno sopravvivesse lanciando alcune bombe a mano. Nei giorni successivi, stante l’impossibilità a recuperare le salme immerse in acqua e fango a causa di abbondanti piogge (vi provarono le donne, ma nemmeno don Fornasini poté riuscirvi), un uomo aprì le griglie e l’impetuosa corrente del fiume Reno portò via tutto. Nulla venne mai più trovato di loro: consummatum est!
            Si era delineato il loro essere disposti «anche al martirio, anche se agli occhi degli uomini appare stolto rifiutare la propria salvezza per dare un misero sollievo a chi era già destinato alla morte». Mons. Benito Cocchi nel settembre 1977 a Salvaro disse: «Ebbene qui davanti al Signore diciamo che la nostra preferenza va a questi gesti, a queste persone, a coloro che pagano di persona: a chi in un momento in cui valevano solo le armi, la forza e la violenza, quando una casa, la vita di un bimbo, un’intera famiglia erano valutati niente, seppe compiere gesti che non hanno voce nei bilanci di guerra, ma che sono veri tesori di umanità, resistenza e alternativa alla violenza; a chi in questo modo poneva radici per una società e una convivenza più umana».
            In tal senso, «Il martirio dei sacerdoti costituisce il frutto della loro scelta consapevole di condividere la sorte del gregge fino all’estremo sacrificio, quando gli sforzi di mediazione tra popolazione e gli occupanti, a lungo perseguiti, vengono a perdere ogni possibilità di successo».
            Don Elia Comini era stato lucido sulla propria sorte, dicendo – già nelle prime fasi di detenzione –: «Per far del bene ci troviamo in tante pene»; «Era Don Elia che additando il cielo salutava con gli occhi imperlati». «Elia si è affacciato e mi ha detto: “Vada a Bologna, dal Cardinale, e gli dica dove ci troviamo”. Gli ho risposto: “Come faccio ad andare a Bologna?”. […] Intanto i soldati mi spingevano con la canna del fucile. D. Elia mi ha salutato dicendo: “Ci vedremo in paradiso!”. Ho gridato: “No, no, non dica questo”. Ha risposto, mesto e rassegnato: “Ci vedremo in Paradiso”».
            Con don Bosco…: «[Vi] aspetto tutti in Paradiso»!
            Era la sera del 1° ottobre, inizio del mese dedicato al Rosario e alle Missioni.
            Negli anni della sua prima giovinezza, Elia Comini aveva detto a Dio: «Signore, preparami ad essere il meno indegno per essere vittima accetta» (“Diario” 1929); «Signore, […] ricevimi pure come vittima espiatoria» (1929); «vorrei essere una vittima d’olocausto» (1931). «[A Gesù] ho domandato la morte piuttosto che venir meno alla vocazione sacerdotale e all’amore eroico per le anime» (1935).




Vera Grita pellegrina di speranza

            Vera Grita, figlia di Amleto e di Maria Anna Zacco della Pirrera, nata a Roma il 28 gennaio 1923, era la secondogenita di quattro sorelle. Visse e studiò a Savona dove conseguì l’abilitazione magistrale. A 21 anni, durante una improvvisa incursione aerea sulla città (1944), venne travolta e calpestata dalla folla in fuga, riportando conseguenze gravi per il suo fisico che da allora rimase segnato per sempre dalla sofferenza. Passò inosservata nella sua breve vita terrena, insegnando nelle scuole dell’entroterra ligure (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), dove si guadagnò la stima e l’affetto di tutti per il suo carattere buono e mite.
            A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipava alla Messa ed era assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 fu suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizzò la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si donava a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopose tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodì nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagnarono lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.
            Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita rispose al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore fu resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore diede testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene.
            Morì il 22 dicembre 1969, a 46 anni, in una cameretta dell’ospedale a Pietra Ligure dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scrisse don Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”.

Una vita privata delle umane speranze
            Umanamente, la vita di Vera è segnata sin dall’infanzia dalla perdita di un orizzonte di speranza. La perdita dell’autonomia economica nel suo nucleo familiare, quindi il distacco dai genitori per recarsi Modica in Sicilia dalle zie e soprattutto la morte del padre nel 1943, mettono Vera davanti alle conseguenze di eventi umani particolarmente sofferti.
            Dopo il 4 luglio 1944, giorno del bombardamento su Savona e che segnerà tutta la vita di Vera, anche le sue condizioni di salute saranno compromesse per sempre. Perciò la Serva di Dio si ritrovò giovane ragazza senza alcuna prospettiva di futuro e dovette a più riprese rivedere i propri progetti e rinunciare a tanti desideri: dagli studi universitari all’insegnamento e, soprattutto, a una propria famiglia con il giovane che stava frequentando.
            Nonostante la fine repentina di tutte le sue umane speranze tra i 20 e i 21 anni, in Vera la speranza è molto presente: sia quale virtù umana che crede in un cambiamento possibile e si impegna a realizzarlo (pur molto malata, preparò e vinse il concorso per insegnare), sia soprattutto come virtù teologale – ancorata alla fede – che le infonde energia e diventa strumento di consolazione per gli altri.
            Quasi tutti i testimoni che la conobbero rilevano tale apparente contraddizione tra condizioni di salute compromesse e la capacità di non lamentarsi mai, attestando invece gioia, speranza e coraggio anche in circostanze umanamente disperate. Vera divenne “apportatrice di gioia”.
            Una nipote afferma: «Era sempre malata e sofferente, ma mai l’ho vista scoraggiata o arrabbiata per la sua condizione, aveva sempre una luce di speranza sostenuta dalla grande fede. […] Mia zia era spesso ricoverata in ospedale, sofferente e delicata, ma sempre serena e piena di speranza per il grande Amore che aveva per Gesù».
            Anche la sorella Liliana trasse dalle telefonate pomeridiane con lei incoraggiamento, serenità e speranza, benché la Serva di Dio fosse allora gravata da numerosi problemi di salute e da vincoli professionali: «mi infondeva – dice – fiducia e speranza facendomi riflettere che Dio è sempre vicino a noi e ci conduce. Le sue parole mi riportavano nelle braccia del Signore e ritrovavo la pace».
            Agnese Zannino Tibirosa, la cui testimonianza riveste particolare valore poiché frequentò Vera all’ospedale “Santa Corona” nel suo ultimo anno di vita, attesta: «nonostante le gravi sofferenze che la malattia le procurava, non l’ho mai sentita lamentarsi del suo stato. Dava sollievo e speranza a tutti quelli che avvicinava e quando parlava del suo futuro, lo faceva con entusiasmo e coraggio».
            Fino all’ultimo Vera Grita si mantenne così: anche nell’ultima parte del suo cammino terreno custodì uno sguardo al futuro, sperò che con le cure il tubercoloma potesse venire riassorbito, sperava di poter occupare la cattedra ai Piani di Invrea nell’anno scolastico 1969-1970 come pure di potersi dedicare, una volta uscita dall’ospedale, alla propria missione spirituale.

Educata alla speranza dal confessore e nel cammino spirituale
            In tal senso, la speranza attestata da Vera è radicata in Dio e in quella lettura sapienziale degli eventi che il suo padre spirituale don Gabriello Zucconi e, prima di lui, il confessore don Giovanni Bocchi le insegnarono. Proprio il ministero di don Bocchi – uomo di letizia e speranza – esercitò un ascendente positivo su Vera, che egli accolse nella sua condizione di malata e cui insegnò a dare valore alle sofferenze – non ricercate – da cui era gravata. Don Bocchi per primo fu maestro di speranza, di lui è stato detto: «con parole sempre cordiali e piene di speranza, ha spalancato i cuori alla magnanimità, al perdono, alla trasparenza nei rapporti interpersonali; ha vissuto le beatitudini con naturalità e fedeltà quotidiana». «Sperando ed avendo la certezza che come è avvenuto a Cristo avvenga anche a noi: la Risurrezione gloriosa», don Bocchi attuava attraverso il suo ministero un annuncio della speranza cristiana, fondata sull’onnipotenza di Dio e la risurrezione di Cristo. Più tardi, dall’Africa dove era partito missionario, dirà: «ero lì perché volevo portare e donare loro Gesù Vivo e presente nella Santissima Eucaristia con tutti i doni del Suo Cuore: la Pace, la Misericordia, la Gioia, l’Amore, la Luce, l’Unione, la Speranza, la Verità, la Vita eterna».
            Vera divenne apportatrice di speranza e di gioia anche in ambienti segnati dalla sofferenza fisica e morale, da limitazioni cognitive (come tra i suoi piccoli alunni ipodotati) o condizioni familiari e sociali non ottimali (come nel «clima arroventato» di Erli).
            L’amica Maria Mattalia ricorda: «Rivedo il dolce sorriso di Vera, talvolta stanco per tanto lottare e soffrire; rammentando la sua forza di volontà cerco di seguire il suo esempio di bontà, di grande fede, speranza e amore […]».
            Antonietta Fazio – già bidella alla scuola di Casanova – testimoniò di lei: «era molto benvoluta dai suoi alunni che amava tanto ed in particolare da coloro in difficoltà intellettiva […]. Molto religiosa, trasmetteva ad ognuno fede e speranza pur essendo lei medesima molto sofferente nel fisico ma non nel morale».
            In quei contesti, Vera lavorava per far rinascere le ragioni della speranza. Per esempio, in ospedale (dove il vitto è poco appagante) si privò di un grappolo speciale d’uva per farne trovare una parte sul comodino di tutte le malate della camerata, come pure ebbe sempre cura della propria persona sì da presentarsi bene, in ordine, con compostezza e raffinatezza, concorrendo anche in tal modo a contrastare l’ambiente di sofferenza di una clinica, e talvolta di perdita della speranza in tanti malati che rischiano di “lasciarsi andare”.
            Attraverso i Messaggi dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, il Signore la educò a una postura di attesa, pazienza e fiducia in lui. Innumerevoli sono infatti le esortazioni sull’attendere lo Sposo o lo Sposo che attende la sua sposa:

“Spera nel tuo Gesù sempre, sempre.

Venga Egli nelle nostre anime, venga nelle nostre case; venga con noi per condividere gioie e dolori, fatiche e speranze.

Lascia fare al mio Amore e aumenta la tua fede, la tua speranza.

Seguimi nel buio, nelle ombre perché conosci la «via».

Spera in Me, spera in Gesù!

Dopo il cammino della speranza e dell’attesa ci sarà la vittoria.

Per chiamarvi alle cose del Cielo”.

Apportatrice di speranza nel morire e nell’intercedere
            Anche nella malattia e in morte, Vera Grita testimoniò la speranza cristiana.
Sapeva che, quando la sua missione fosse compiuta, anche la vita in terra sarebbe terminata. «Questo è il tuo compito e quando sarà terminato tu saluterai la terra per i Cieli»: perciò non si sentiva “proprietaria” del tempo, ma cercava l’obbedienza alla volontà di Dio.
            Negli ultimi mesi, pur in una condizione ingravescente ed esposta a un peggioramento del quadro clinico, la Serva di Dio attestò serenità, pace, interiore percezione di un “compimento” della propria vita.
            Negli ultimi giorni, benché fosse naturalmente attaccata alla vita, don Giuseppe Formento la descrisse «già in pace con il Signore». In tal spirito poté ricevere la Comunione fino a pochi giorni prima di morire, e ricevere l’Estrema unzione il 18 dicembre.
            Quando la sorella Pina andò a trovarla poco prima della morte – Vera era stata circa tre giorni in coma – contravvenendo al proprio abituale riserbo le disse di avere visto in quei giorni molte cose, cose bellissime che purtroppo non le restava il tempo di raccontare. Aveva saputo delle preghiere di Padre Pio e del Papa Buono per lei, inoltre aggiunse – con riferimento alla Vita eterna – «Voi tutti verrete in paradiso con me, siatene certe».
            Liliana Grita testimoniò inoltre come, nell’ultimo periodo, Vera «sapesse più di Cielo che di terra». Della sua vita venne tratto il seguente bilancio: «lei così sofferente consolava gli altri, infondendo loro speranza e non esitava ad aiutarli».
            Molte grazie attribuite alla mediazione intercedente di Vera riguardano, infine, la speranza cristiana. Vera – anche durante la Pandemia da Covid 19 – ha aiutato tanti a ritrovare le ragioni della speranza ed è stata per essi tutela, sorella nello spirito, aiuto nel sacerdozio. Ha aiutato interiormente un sacerdote che in seguito ad Ictus si era dimenticato le preghiere, non riuscendo più a scandirle con proprio estremo dolore e disorientamento. Ha fatto sì che tanti tornassero a pregare, chiedendo la guarigione di un giovane papà colpito da emorragia.
            Anche suor Maria Ilaria Bossi, Maestra delle Novizie delle Benedettine del Santissimo Sacramento di Ghiffa, rileva come Vera – sorella nello spirito – sia un’anima che indirizza al Cielo e accompagna verso il Cielo: «La sento sorella nel cammino verso il cielo… Tanti […] che in lei si riconoscono, e a lei si riferiscono, nel cammino evangelico, nella corsa verso il cielo».
            In sintesi, si comprende come tutta la storia di Vera Grita sia stata sorretta non da speranze umane, dal mero guardare al “domani” auspicando fosse migliore del presente, bensì da una vera Speranza teologale: «era serena perché la fede e la speranza l’hanno sempre sostenuta. Cristo era al centro della sua vita, da Lui traeva la forza. […] era una persona serena perché aveva nel cuore la Speranza teologale, non la speranza spicciola […], ma quella che deriva solo da Dio, che è dono e ci prepara all’incontro con Lui».

            In una preghiera a Maria dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, si legge: «Sollevaci [Maria] dalla terra affinché da qui noi viviamo e siamo per il Cielo, per il Regno del figlio tuo».
            È bello anche ricordare che anche don Gabriello dovette pellegrinare nella speranza tra tante prove e difficoltà come scrive in una lettera a Vera del 4 marzo 1968 da Firenze: «Tuttavia dobbiamo sempre sperare. La presenza delle difficoltà non toglie che alla fine il bene, il buono, il bello trionferanno. Ritornerà la pace, l’ordine, la gioia. L’uomo figlio di Dio riavrà tutta la gloria che ebbe fin da principio. L’uomo sarà salvo in Gesù e ritroverà in Dio ogni bene. Ecco allora che ritornano in mente tutte le cose belle promesse da Gesù e l’anima in Lui ritrova la sua pace. Coraggio: ora siamo come in combattimento. Verrà il giorno della vittoria. Essa è certezza in Dio».
            Nella chiesa del Santa Corona a Pietra Ligure Vera Grita partecipava alla Messa e si recava a pregare durante i lunghi ricoveri. La sua testimonianza di fede nella presenza viva di Gesù Eucaristia e della Vergine Maria nella sua breve vita terrena è un segno di speranza e di conforto, per quanti in questo luogo di cura chiederanno il suo aiuto e la sua intercessione presso il Signore per essere sollevati e liberati dalla sofferenza.
            Il cammino di Vera Grita nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i ‘poveri’, i ‘fragili’, i ‘malati’ che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza.
            Scrive san Paolo, «che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi». Con «impazienza» noi aspettiamo di contemplare il volto di Dio poiché «nella speranza noi siamo stati salvati» (Rom 8, 18.24). Pertanto, è assolutamente necessario sperare contro ogni speranza, «Spes contra spem». Perché, come ha scritto Charles Péguy, la Speranza è una bambina «irriducibile». Rispetto alla Fede che «è una sposa fedele» e alla Carità che «è una Madre», la Speranza sembra, in prima battuta, che non valga nulla. E invece è esattamente il contrario: sarà proprio la Speranza, scrive Péguy, «che è venuta al mondo il giorno di Natale» e che «portando le altre, traverserà i mondi».
            «Scrivi, Vera di Gesù, io ti darò luce. L’albero fiorito in primavera ha dato i suoi frutti. Molti alberi dovranno rifiorire nella stagione opportuna perché i frutti siano copiosi… Ti chiedo di accettare con fede ogni prova, ogni dolore per Me. Vedrai i frutti, i primi frutti della nuova fioritura». (Santa Corona – 26 ottobre 1969 – Festa di Cristo Re – Penultimo messaggio).




Profili di famiglie ferite nella storia della santità salesiana

1. Storie di famiglie ferite
            Siamo abituati ad immaginare la famiglia come una realtà armoniosa, contraddistinta dalla compresenza di più generazioni e dal ruolo-guida di genitori che danno la norma e di figli i quali – nell’apprenderla – vengono da loro guidati nell’esperienza della realtà. Tuttavia spesso le famiglie si trovano attraversate da drammi e incomprensioni, o segnate da ferite che ne aggrediscono la configurazione ottimale e ne restituiscono un’immagine distorta, falsata e falsante.
            Anche la storia della santità salesiana è attraversata da storie di famiglie ferite: famiglie dove vien meno almeno una delle figure genitoriali, oppure la presenza della mamma e del papà diventa, per ragioni diverse (fisiche, psichiche, morali e spirituali), penalizzante per i loro figli, oggi incamminati verso gli onori degli altari. Lo stesso Don Bosco, che aveva sperimentato la morte prematura del padre e l’allontanamento dalla famiglia per la prudente volontà di Mamma Margherita, vuole – non è un caso – l’opera salesiana particolarmente dedicata alla «gioventù povera e abbandonata» e non esita a raggiungere i giovani che si sono formati nel suo oratorio con una intensa pastorale vocazionale (dimostrando che nessuna ferita del passato è ostacolo a una vita umana e cristiana piena). È pertanto naturale che la stessa santità salesiana, che attinge alle esistenze di molti giovani di Don Bosco poi consacrati per suo tramite alla causa del Vangelo, porti in sé – quale logica conseguenza – traccia di famiglie ferite.
Di questi ragazzi e ragazze cresciuti a contatto con le opere salesiane se ne vogliono presentare tre, di cui “innestare” la vicenda nel solco biografico di Don Bosco. I protagonisti sono:
            – la beata Laura Vicuña, nata nel Cile del 1891, orfana di padre e la cui mamma inizia in Argentina una convivenza con il ricco possidente Manuel Mora; Laura dunque, ferita dalla situazione di irregolarità morale della mamma, è pronta ad offrire la vita per lei;
            – il servo di Dio Carlo Braga, valtellinese classe 1889, abbandonato piccolissimo dal padre e la cui mamma viene allontanata perché ritenuta, per un misto di ignoranza e maldicenza, psichicamente labile; Carlo dunque che incontra grandi umiliazioni e vedrà messa più volte in difficoltà la propria vocazione salesiana da quanti temono in lui un compromettente ripresentarsi del disagio psichico falsamente attribuito alla mamma;
            – infine la serva di Dio Anna Maria Lozano, che nasce nel 1883 in Colombia, segue con la propria famiglia il papà nel lazzaretto, ove è costretto a trasferirsi in seguito alla comparsa della terribile lebbra, sarà ostacolata nella propria vocazione religiosa, ma potrà infine realizzarla grazie all’incontro provvidenziale con il salesiano Luigi Variara, beato.

2. Don Bosco e la ricerca del padre
            Come Laura, Carlo e Anna Maria – segnati dall’assenza o dalle “ferite” di una o più figure genitoriali – prima di loro, e in certo senso “per loro”, anche Don Bosco sperimenta il venir meno di un nucleo familiare forte.
            Le Memorie dell’Oratorio devono ben presto soffermarsi sulla precoce perdita del padre: Francesco muore a 34 anni e Don Bosco – non senza ricorrere a un’espressione per certi aspetti sconcertante – riconosce che «Dio misericordioso li colpì tutti con grave sciagura». Così, tra i primissimi ricordi del futuro santo dei giovani si fa strada un’esperienza lacerante: quella della salma del padre, da cui la mamma tenta di allontanarlo incontrando però la sua resistenza: «Io ci voleva assolutamente rimanere», spiega Don Bosco, che allora aveva aggiunto: «Se non viene papà non ci voglio andare [via]». Margherita gli risponde allora: «Povero figlio, vieni meco, tu non hai più padre». Ella piange e Giovannino, che manca d’una comprensione razionale della situazione, ma ne intuisce tutto il dramma con un’intuizione affettiva ed immedesimante, fa propria la tristezza della mamma: «Io piangeva perché ella piangeva, giacché in quell’età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre».

            Di fronte al papà morto, Giovannino dimostra di considerarlo ancora il centro della propria vita. Dice infatti: «non ci voglio andare [con te, mamma]» e non, come ci aspetterebbe: «non ci voglio venire». Il suo punto di riferimento è il padre – punto di partenza ed auspicabile punto di ritorno –, rispetto al quale ogni allontanamento appare destabilizzante. Nella drammaticità di quei momenti, inoltre, Giovannino non ha ancora capito che cosa significhi la morte del genitore. Spera infatti («se papà non viene…») che il padre possa ancora restargli vicino: eppure ne intuisce già l’immobilismo, il mutismo, l’incapacità di proteggerlo e di difenderlo, l’impossibilità d’essere da lui preso per mano per diventare a propria volta un uomo. Le vicende immediatamente successive, poi, confermano Giovanni nella certezza che il padre amorevolmente protegga, indirizzi e guidi e che, quando gli manca, anche la migliore delle madri, come Margherita è, possa provvedere solo in parte. Sulla sua strada di ragazzo esuberante, il futuro Don Bosco incontra però altri “padri”: i quasi-coetanei Luigi Comollo, che risveglia in lui l’emulazione delle virtù, e san Giuseppe Cafasso, che lo chiama «mio caro amico», gli fa «grazioso cenno di avvicinarsi» e, così facendo, lo conferma nella persuasione che paternità sia vicinanza, confidenza e interessamento concreto. Ma c’è soprattutto don Calosso, il sacerdote che “intercetta” il ricciuto Giovannino in occasione d’una “missione popolare” e diventa determinante per la sua crescita umana e spirituale. I gesti di don Calosso operano nel preadolescente Giovanni una vera e propria rivoluzione. Don Calosso innanzitutto gli parla. Quindi gli dà parola. Poi lo incoraggia. Ancora: si interessa alla storia della famiglia Bosco, dimostrando di saper contestualizzare l’“ora” di quel ragazzo nel “tutto” della sua vicenda. Inoltre gli svela il mondo, anzi in qualche modo lo rimette al mondo, facendogli conoscere cose nuove, regalandogli nuove parole e dimostrandogli che ha le capacità per fare molto e bene. Infine lo custodisce con il gesto e con lo sguardo, e provvede a lui nei suoi bisogni più urgenti e reali: «Mentre io parlavo, non mi tolse mai di dosso lo sguardo.
“Sta di buon animo amico, io penserò a te e al tuo studio”».

            In don Calosso, Giovanni Bosco fa dunque esperienza che la vera paternità merita un affidamento totale e totalizzante; conduce alla consapevolezza di sé; dischiude un “mondo ordinato” dove la regola dà sicurezza ed educa alla libertà:

            «Io mi sono tosto messo nelle mani di don Calosso. Conobbi allora che cosa voglia dire avere una guida stabile […], un fedele amico dell’anima… Egli mi incoraggiò; tutto il tempo che io poteva lo passava presso di lui…. Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia la vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione».

            Il padre terreno però è pure colui che vorrebbe sempre essere presso il figlio, ma ad un certo punto non riesce più a farlo. Anche don Calosso muore; anche il padre migliore a un certo punto si fa da parte, per donare al figlio la forza del distacco e dell’autonomia tipiche dell’età adulta.
            Qual è allora, per Don Bosco, la differenza tra famiglie riuscite o fallite? Si sarebbe tentati di dire che sta tutta qui: “riuscita” è la famiglia contraddistinta da genitori che educano i figli alla libertà e, se li lasciano, è solo per una sopraggiunta impossibilità o per il loro bene. “Ferita” invece è la famiglia dove il genitore non genera più alla vita, ma porta in sé problemi di varia natura che ostacolano la crescita del figlio: un genitore che si disinteressa a lui e, davanti alle difficoltà, persino lo abbandona, con un atteggiamento così diverso da quello del Buon Pastore.
            Le vicende biografiche di Laura, Carlo e Anna Maria lo confermano.

3. Laura: una figlia che “genera” la propria madre
            Nata a Santiago del Cile il 5 aprile 1891, e battezzata il 24 maggio successivo, Laura è la figlia maggiore di José D. Vicuña, un nobile decaduto che aveva sposato Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori. Tre anni dopo arriva una sorellina, Julia Amanda, ma ben presto il papà muore, dopo avere subíto una sconfitta politica che ne ha minato la salute e compromesso, con il sostentamento economico della famiglia, anche l’onore. Priva di qualsiasi «protezione e prospettiva di futuro», la mamma approda in Argentina, dove ricorre alla tutela del proprietario terriero Manuel Mora: un uomo «di carattere superbo e altero», che «non dissimula odio e disprezzo per chiunque avversasse i suoi disegni». Un uomo insomma che solo in apparenza garantisce protezione, ma è in realtà abituato a prendere, se necessario con la forza, quello che vuole, strumentalizzando le persone. Intanto paga gli studi presso il collegio delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Laura e alla sorella e la loro madre – che subisce l’influsso psicologico di Mora – convive con lui senza trovare la forza di rompere il legame. Quando però Mora inizia a mostrare segni di disonesto interesse verso la stessa Laura, e soprattutto quando quest’ultima intraprende il percorso di preparazione alla Prima Comunione, lei d’un tratto comprende tutta la gravità della situazione. A differenza della mamma – che giustifica un male (la convivenza) in vista di un bene (l’educazione delle figlie in collegio) – Laura capisce che si tratta di una argomentazione moralmente illegittima, che mette in grave pericolo l’anima della madre. In questo periodo, poi, Laura vorrebbe diventare ella stessa suora di Maria Ausiliatrice: ma la sua domanda è respinta, perché figlia di una «pubblica concubina». Ed è a questo punto che proprio in Laura – accolta in collegio quando in lei dominavano ancora «impulsività, facilità di risentimento, irritabilità, impazienza e propensione ad apparire» – si manifesta un cambiamento che solo la Grazia, unita all’impegno della persona, può operare: chiede a Dio la conversione della madre, offrendo se stessa per lei. In quel momento, Laura non può muoversi né “in avanti” (entrando tra le Figlie di Maria Ausiliatrice) né “indietro” (tornando dalla madre e dal Mora). Con un gesto allora carico della creatività tipica dei santi, Laura intraprende l’unica strada che le è ancora accessibile: quella dell’altezza e della profondità. Nei propositi della Prima Comunione aveva annotato:

            Propongo di fare quanto so e posso per […] riparare le offese che voi, Signore, ricevete ogni giorno dagli uomini, specie dalle persone della mia famiglia; mio Dio, datemi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio.

            Ora finalizza il proposito in “Atto di offerta”, che include il sacrificio della vita stessa. Il confessore, riconoscendo che l’ispirazione è da Dio ma ignorandone le conseguenze, acconsente, e conferma che Laura è «consapevole dell’offerta che ha appena compiuto». Lei vive gli ultimi due anni con silenzio, allegria e sorriso e una indole ricca di calore umano. Eppure lo sguardo che posa sul mondo – come conferma un ritratto fotografico, molto diverso dalla stilizzazione agiografica nota – dice anche tutta la sofferta consapevolezza e il dolore che la abitano. In una situazione dove le manca sia la “libertà da” (condizionamenti, ostacoli, fatiche), sia la “libertà di” fare tante cose, questa preadolescente testimonia la “libertà per”: quella del dono totale di sé.
            Laura non disprezza, ma ama la vita: la propria e quella della mamma. Per questo si offre. Il 13 aprile 1902, Domenica del Buon Pastore, si chiede: «Se Lui dà la vita… cosa lo impedisce a me per la mamma?». Morente, aggiunge: «Mamma, io muoio, io stessa l’ho chiesto a Gesù… sono quasi due anni che gli offersi la vita per te…, per ottenere la grazia del tuo ritorno!».

            Sono parole prive di rimpianto e di rimprovero, ma cariche di una grande forza, una grande speranza e una grande fede. Laura ha imparato ad accogliere la mamma per quello che è. Offre anzi sé stessa per donarle ciò che lei sola non riesce a conseguire. Quando Laura muore, la mamma si converte. Laurita de los Andes, la figlia, ha così contribuito a generare la madre nella vita di fede e di grazia.

4. Carlo Braga e l’ombra della madre
            Anche Carlo Braga, che nasce due anni prima di Laura, nel 1889, è segnato dalla fragilità della mamma: quando infatti il marito abbandona lei e i figli, Matilde «non mangiava quasi più e declinava a vista d’occhio». Condotta quindi a Como, vi muore quattro anni più tardi di tubercolosi, anche se tutti sono convinti che la depressione si fosse trasformata per lei in una vera e propria pazzia. Carlo inizia allora ad essere «compatito come il figlio di un incosciente [il padre] e d’una madre infelice». Lo soccorrono però tre provvidenziali avvenimenti.
            Del primo, occorso quando era piccolissimo, egli riscopre più tardi il senso: era caduto nel focolare e la mamma Matilde, nel trarlo in salvo, l’aveva in quell’istante consacrato alla Madonna. Così, il pensiero della mamma assente diventa per Carlo bambino «un ricordo doloroso e consolante insieme»: dolore per la sua assenza; ma anche certezza che ella lo abbia affidato alla Madre di tutte le madri, Maria Santissima. Scrive don Braga, anni dopo, a un confratello salesiano colpito dalla perdita della propria mamma:

            Ora la mamma ti appartiene assai più di quando era viva. Lascia che io ti parli della mia personale esperienza. Mia madre mi lasciò quando avevo sei anni […]. Ma ti devo confessare che essa mi seguì passo passo e, quando piangevo desolato al mormorio dell’Adda, mentre, pastorello, mi sentivo chiamato ad una vocazione più alta, mi sembrava che la Mamma mi sorridesse e mi asciugasse le lacrime.

            Carlo incontra poi suor Giuditta Torelli, una Figlia di Maria Ausiliatrice che «salvò il piccolo Carlo dalla disgregazione della sua personalità quando a nove anni si accorse di essere tollerato e sentì talvolta la gente dire a suo riguardo: “Povero figliolo, perché poi è al mondo?”». C’è infatti chi sosteneva che suo padre avrebbe meritato d’esser fucilato per il tradimento dell’abbandono e, quanto alla mamma, molti compagni di scuola gli replicano: «Tu sta’ zitto, tanto tua madre era una matta». Ma suor Giuditta lo ama o lo aiuta in modo speciale; posa su di lui uno sguardo “nuovo”; inoltre crede nella sua vocazione e la incoraggia.
            Entrato quindi nel collegio salesiano di Sondrio, Carlo vive la terza e decisiva esperienza: conosce don Rua, di cui ha l’onore di essere il piccolo segretario per un giorno. Don Rua sorride a Carlo e, ripetendo il gesto che Don Bosco aveva compiuto un tempo con lui («Michelino, io e te faremo sempre tutto a metà»), «mette la sua mano dentro la propria e gli dice: “noi saremo sempre amici”»: se suor Giuditta aveva creduto nella vocazione di Carlo, don Rua gli permette ora di realizzarla, «facendolo passare sopra a tutti gli ostacoli». Certo a Carlo Braga le difficoltà non mancheranno ad ogni tappa di vita – da novizio, chierico, addirittura ispettore –, concretizzandosi in rinvii prudenziali e assumendo talvolta la forma della maldicenza: ma egli avrà ormai imparato ad affrontarle. Diventa intanto un uomo capace di irradiare una straordinaria gioia, umile, attivo e di delicata ironia: tutte caratteristiche che dicono l’equilibrio della persona e il suo senso di realtà. Sotto l’azione dello Spirito Santo, don Braga sviluppa egli stesso un’irradiante paternità, cui si unisce una grande tenerezza per i giovani a lui affidati. Don Braga riscopre l’amore per il proprio papà, lo perdona e intraprende un viaggio per riconciliarsi con lui. Si sottopone a fatiche senza numero pur di essere sempre tra i suoi Salesiani e ragazzi. Si definisce come colui che è «stato messo nella vigna a far da palo», cioè in ombra ma per il bene degli altri. Un padre, nell’affidargli il proprio figlio come aspirante salesiano, dice: «Con un uomo simile ti lascio andare anche al Polo Nord!». Don Carlo non si scandalizza dei bisogni dei figli, anzi li educa a manifestarli, ad accrescere il desiderio: «Hai bisogno di qualche libro? Non avere paura, scrivi una lista più lunga». Soprattutto, don Carlo ha imparato a posare sugli altri quello sguardo d’amore dal quale lui stesso si era sentito raggiunto un tempo grazie a suor Giuditta e don Rua. Testimonia don Giuseppe Zen, oggi cardinale, in un passo lungo che merita però di essere letto integralmente e che inizia con le parole della propria mamma a don Braga:

            «Guardi, Padre, questo ragazzo non è più tanto bravo. Forse non è adatto per essere accettato in questo istituto. Io non vorrei che lei fosse ingannato. Ah, sapesse come mi ha fatto disperare in questo ultimo anno! Non sapevo proprio più come fare. E se farà disperare anche qui, me lo dica pure, che lo vengo a riprendere subito». Don Braga, invece di rispondere, mi guardava negli occhi; io pure lo guardavo, ma a testa bassa. Mi sentivo come un imputato accusato dal Pubblico Ministero, anziché difeso dal proprio avvocato. Ma il giudice era dalla mia parte. Con lo sguardo mi ha profondamente capito, subito e meglio di tutte le spiegazioni di mia madre. Egli stesso, scrivendomi molti anni più tardi, si applicava le parole del Vangelo: «Intuitus dilexit eum (“guardatolo lo amò”)». E da quel giorno non ebbi più dubbi sulla mia vocazione.

5. Anna Maria Lozano Díaz e la feconda malattia del padre
            I genitori di Laura e di Carlo si erano – a vario titolo – rivelati dei “lontani” e degli “assenti”. Un’ultima figura, quella di Anna Maria, attesta invece il dinamismo opposto: quello d’un padre troppo presente, che con la sua presenza dischiude però alla figlia un nuovo cammino di santificazione. Anna nasce il 24 settembre 1883 a Oicatà, in Colombia, in una famiglia numerosa, contraddistinta dall’esemplare vita cristiana dei genitori. Quando Anna è giovanissima il papà – un giorno, nel lavarsi – scopre una macchia sospetta sulla gamba. È la terribile lebbra, che egli riesce per qualche tempo a nascondere, ma è costretto infine a riconoscere, accettando dapprima di separarsi dalla famiglia, quindi di ricongiungersi con essa presso il lazzaretto di Agua de Dios. La moglie gli aveva detto eroicamente: «La tua sorte è la nostra». Così, i sani accettano i condizionamenti che vengono loro dall’assumere il ritmo dei malati. In questo frangente, la malattia del padre condiziona la libertà di scelta di Anna Maria, costretta a progettare la propria vita nel lazzaretto. Lei inoltre – come era già successo a Laura – si trova impossibilitata nel realizzare la propria vocazione religiosa a causa della malattia paterna: sperimenta allora, interiormente, quella lacerazione che la lebbra opera sui malati. Anna Maria però non è sola. Come Don Bosco grazie al Calosso, Laura nel confessore e Carlo in don Rua, trova un amico dell’anima. È il beato don Luigi Variara, salesiano, che la assicura: «Se avete vocazione religiosa, si realizzerà», e la coinvolge nella fondazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, nel 1905. È il primo Istituto ad accogliere al proprio interno lebbrose o figlie di lebbrosi. Quando la Lozano muore, il 5 marzo 1982 a quasi 99 anni, Madre generale per più di mezzo secolo, l’intuizione del salesiano don Variara si è ormai concretizzata in un’esperienza che ha confermato e rafforzato la dimensione vittimale-riparatrice del carisma salesiano.

6. I santi insegnano
            Nella loro ineliminabile differenza, le vicende di Laura Vicuña (beata), Carlo Braga e Anna Maria Lozano (servi di Dio) sono accomunate da alcuni aspetti degni di nota:

            a) Laura, Anna e Carlo, come già Don Bosco, soffrono situazioni di di-sagio e di difficoltà, a vario titolo ricollegate ai loro genitori. Non ci si può dimenticare di Mamma Margherita, che si vede costretta ad allontanare Giovannino da casa quando l’assenza dell’autorità paterna facilita la contrapposizione con il fratello Antonio; né scordare che Laura si vide insidiata dal Mora e respinta dalle Figlie di Maria Ausiliatrice come loro aspirante; che Carlo Braga subì incomprensioni e calunnie; o che la lebbra del padre sembra ad un certo punto sottrarre ad Anna Maria ogni speranza di futuro.
Una famiglia a vario titolo ferita arreca perciò un danno oggettivo a chi ne fa parte: misconoscere o tentare di ridurre la portata di questo danno sarebbe una impresa altrettanto illusoria quanto ingiusta. Ad ogni sofferenza si associa infatti un elemento di perdita che i “santi”, con il loro realismo, intercettano e imparano a chiamare per nome.

            b) Giovannino, Laura, Anna Maria e Carlo compiono a questo punto un secondo passaggio, più arduo del primo: invece di subire passivamente la situazione, o di gemere su di essa, muovono con accresciuta consapevolezza incontro al problema. Oltre a un vivo realismo, attestano la capacità, tipica dei santi, di reagire con prontezza, evitando il ripiegarsi autoreferenziale. Si dilatano nel dono, e innestano questo dono nelle condizioni concrete di vita. Così facendo, saldano il «da mihi animas» al «caetera tolle».

            c) I limiti e le ferite, così, non sono mai rimossi: ma sempre riconosciuti e chiamati per nome; addirittura, sono “abitati”. Anche la beata Alexandrina Maria da Costa e il servo di Dio Nino Baglieri, il venerabile Andrea Beltrami e il beato Augusto Czartoryski, “raggiunti” dal Signore nelle condizioni invalidanti della loro malattia, il beato Tito Zeman, il venerabile José Vandor e il servo di Dio Ignazio Stuchlý – parte di vicende storiche più grandi di loro e che paiono sopraffarli – insegnano la difficile arte di sostare nelle difficoltà e permettere al Signore di fare fiorire la persona in esse. La libertà di scelta assume qui la forma altissima di una libertà di adesione, nel «fiat!».

Nota Bibliografica:
            Per preservare il carattere di “testimonianza” e non di “relazione” di questo scritto, si è evitato un apparato critico di note. Si segnala però che le citazioni presenti nel testo sono tratte dalle Memorie dell’Oratorio del Sac. Giovanni Bosco; da Maria Dosio, Laura Vicuña. Un cammino di santità giovanile salesiana, LAS, Roma 2004; da Don Carlo Braga racconta la sua esperienza missionaria e pedagogica (testimonianza autobiografica del servo di Dio) e dalla Vita di Don Carlo Braga, “Il Don Bosco della Cina”, scritta dal salesiano don Mario Rassiga e oggi disponibile in ciclostilato. A queste fonti si aggiungono poi i materiali dei Processi di beatificazione e canonizzazione, accessibili per Don Bosco e Laura, ancora riservati per i servi di Dio.




Il Servo di Dio Andrej Majcen: un salesiano tutto per i giovani

Quest’anno si ricordano i 25 anni dal passaggio all’eternità del Servo di Dio don Andrej Majcen. Da maestro a Radna è arrivato tra le file dei salesiani per amore dei giovani. Una vita tutta donata.

            La prima cosa è che don Andrej amava tantissimo i giovani: per loro ha consacrato la propria vita a Dio come Salesiano, sacerdote, missionario. Essere Salesiani non significa solo donare la propria vita a Dio: significa donargli la vita per i giovani. Quindi senza i giovani don Andrej Majcen non sarebbe stato Salesiano, sacerdote, missionario: per i giovani ha fatto scelte impegnative, accettando condizioni di povertà, stenti, preoccupazioni purché i “suoi ragazzi” trovassero un tetto sopra la testa, un piatto per riempire lo stomaco e una luce per orientarsi nell’esistenza.
Il primo messaggio, quindi, è che don Majcen vuole bene ai giovani e intercede per loro!

            La seconda cosa è che Andrej è stato un giovane capace di ascoltare. Nato nel 1904, ancora piccolo durante la Prima Guerra Mondiale, malato e povero, segnato dalla morte di un fratellino, Andrej custodiva nel cuore grandi desideri e soprattutto tante domande: si apriva alla vita e voleva capire perché meritasse di essere vissuta. Non ha mai fatto sconti sulle domande e si è sempre impegnato a cercare le risposte, anche in ambienti diversi dal proprio, senza chiusure o pregiudizi. Al tempo stesso, Andrej è stato docile: ha prestato attenzione a quello che gli dicevano e gli chiedevano la mamma, il papà, gli educatori… Andrej ha avuto fiducia che altri potessero avere alcune risposte alle sue domande e che nei loro suggerimenti ci fosse non il volersi sostituire a lui, ma l’indicargli una direzione che avrebbe poi percorso con la propria libertà e sulle proprie gambe.
Il papà, per esempio, gli raccomanda di essere sempre buono con tutti e che non se ne sarebbe mai pentito. Egli lavorava per il tribunale, si occupava delle cause di successione, di tante cose difficili dove spesso la gente litiga e anche i legami più sacri vengono offesi. Dal papà, Andrej ha imparato a essere buono, a portare pace, a ricomporre le tensioni, a non giudicare, a stare nel mondo (con le sue tensioni e contraddizioni) da persona giusta. Andrej ha ascoltato e si è fidato del papà.
La mamma era una grande donna di preghiera (Andrej la considerava una religiosa nel mondo e confiderà di non avere raggiunto la sua devozione nemmeno da religioso). Negli anni dell’adolescenza, quando avrebbe potuto smarrirsi a contatto con idee e ideologie, lei gli chiese di entrare ogni giorno per qualche istante in chiesa. Nulla di particolare, o di troppo lungo: «Quando vai alle magistrali, non ti scordare di entrare per un momento nella chiesa francescana. Puoi entrare da una porta e uscire dall’altra; ti fai il segno della croce con l’acqua santa, fai una breve preghiera e ti affidi a Maria». Andrej obbedì alla mamma e tutti i giorni passava a salutare Maria Santissima in chiesa anche se – “là fuori” – lo aspettavano tanti compagni e vivaci dibattiti. Andrej ha ascoltato e si è fidato della mamma, e scoprirà che lì c’erano le radici di tante cose, c’era un legame con Maria che lo avrebbe accompagnato per sempre. Sono queste piccole gocce che scavano in noi grandi profondità, quasi senza che ce ne accorgiamo!
Un professore lo invitò ad andare alla biblioteca e lì gli venne dato un libro con gli Aforismi di Th.G. Masaryk: politico, uomo di governo, oggi diremmo un “laico”. Andrej lesse quel libro che diventò determinante per la sua crescita. Lì scoprì cosa significasse un certo lavoro su di sé, la formazione del carattere, l’impegno. Andrej ascoltò il consiglio e ascoltò Masaryk, senza lasciarsi troppo influenzare dal suo “Curriculum” ma vedendo il bene anche in qualcuno lontano dal modo di pensare cattolico della propria famiglia. Scoprì che ci sono valori umani universali e che c’è una dimensione di impegno e serietà che sono “terreno comune” per tutti.
            Maestro presso i Salesiani, a Radna, un giovane Majcen ascoltò infine chi – in modi diversi – gli fece balenare l’idea di una possibile consacrazione. C’erano molte ragioni per cui Andrej avrebbe potuto tirarsi indietro: l’investimento della famiglia nella sua formazione; il posto di lavoro trovato da pochi mesi; il dovere lasciare tutto esponendosi alla più totale incertezza se poi avesse fallito… Lui in quel momento era un giovane ragazzo proteso al futuro, che non aveva messo in conto quella proposta. Al tempo stesso, cercava qualcosa in più e di diverso e, come uomo e come maestro, si rendeva conto che i Salesiani non solo insegnavano, ma orientavano a Gesù, Maestro di Vita. La pedagogia di Don Bosco fu per lui quel “tassello” che gli mancava. Andrej ascoltò la proposta vocazionale, affrontò una dura lotta durante la preghiera, in ginocchio, e si decise per presentare domanda di ammissione in noviziato: non fece passare tanto tempo, ma rifletté in modo serio, pregò e disse sì. Non perse l’occasione, non fece trascorrere il momento opportuno…: ascoltò, si fidò, decise acconsentendo e conoscendo così poco di ciò cui sarebbe andato incontro.
            Spesso tutti noi crediamo di vederci giusto nella nostra vita, di avere in mano le sue chiavi, il suo segreto: talvolta però sono proprio gli altri che ci invitano a raddrizzare lo sguardo, le orecchie e il cuore, indicandoci vie verso le quali da soli mai ci saremmo indirizzati. Se queste persone sono valide e vogliono il nostro bene, obbedire è importante: lì è nascosto il segreto della felicità. Don Majcen si è fidato, non ha sciupato anni, non ha sciupato vita… Ha detto di sì. Decidersi per tempo era anche il grande segreto raccomandato da don Bosco.

            La terza cosa è che Andrej Majcen si è lasciato sorprendere. Ha sempre accolto le sorprese, le proposte e i cambiamenti: l’incontro con i Salesiani, per esempio; poi l’incontro con un missionario che lo fece ardere dal desiderio di potersi spendere per gli altri in una terra lontana. Accolse anche sorprese non tanto belle: va in Cina e c’è il Comunismo; lo cacciano, entra nel Vietnam del Nord e il Comunismo fa danni anche lì; lo cacciano, procede verso sud, arriva poi nel Vietnam del Sud; ma il Comunismo raggiunge anche quella zona e lo cacciano di nuovo (sembra un film d’azione, con dentro un lungo inseguimento a sirene spiegate!). Rientra in patria, nella sua cara Slovenia e – nel frattempo – lì si è instaurato il regime comunista, c’è la persecuzione della Chiesa. Cos’è? Uno scherzo? Andrej non si è lamentato! Ha vissuto per decenni in paesi in guerra o in situazioni a rischio, con persecuzione, emergenze, lutti… Dormì per più di vent’anni mentre fuori dalla finestra, laggiù, sparavano… Altre volte piangeva… Eppure – benché avesse incarichi di responsabilità e tante vite da salvare – era quasi sempre sereno, con un bel sorriso, tanta gioia e amore nel cuore. Come faceva?
            Lui non aveva messo il cuore negli avvenimenti esteriori, nelle cose, in quello che non si può controllare o… nei propri progetti (“deve essere per forza così perché ho deciso così”: quando poi “non è così” si va in crisi). Lui aveva messo il cuore in Dio, nella Congregazione e nei suoi cari giovani. Allora era veramente libero, poteva cadere il mondo ma le radici erano salve. Le radici erano nelle relazioni, in un modo buono di spendersi per gli altri; le fondamenta erano in qualcosa che non passa.
            Tante volte, a noi basta che spostino una piccola cosa e ci arrabbiamo, perché non è secondo i nostri bisogni, desideri, progetti o aspettative. Andrej Majcen mi dice, ci dice: “sii libero!”, “affida il tuo cuore a chi non te lo ruba né te lo danneggia”, “costruisci su qualcosa che resti per sempre!”, “allora sarai felice anche se ti portano via tutto e avrai sempre il TUTTO”.

            La quarta cosa è che don Andrej Majcen faceva bene l’esame di coscienza. Tutti i giorni si esaminava per capire dove aveva fatto bene, meno bene o male. Quando ne ebbe la possibilità (cioè quando non c’erano più le bombe vicino a casa o i Viet Cong a poca distanza, ecc.) prendeva un quaderno, si segnava delle domande, rifletteva sulla Parola di Dio, verificava di averla messa in pratica… Si interrogava.
            Oggi viviamo in una società che dà molta importanza all’esteriorità: anch’essa è un dono (per esempio: avere cura di sé, vestirsi con proprietà, presentarsi bene), ma non è tutto. Bisogna scavare dentro di noi, scendere in profondità – magari con l’aiuto di qualcuno.
            Andrej ha sempre avuto il coraggio di guardarsi in faccia, di scrutare il proprio cuore e la propria coscienza, di chiedere perdono. Così facendo ha incontrato qualche aspetto poco bello di sé, su cui lavorare e da affidare: però ha visto anche tantissimo bene, bellezza, purezza, amore che altrimenti sarebbero rimasti “sottotraccia”.
            Tante volte, serve più coraggio per viaggiare dentro noi stessi che per andare dall’altra parte del mondo! Don Andrej Majcen ha affrontato entrambi questi viaggi: dalla Slovenia ha raggiunto l’Estremo Oriente eppure l’itinerario più impegnativo è rimasto sempre – fino all’ultimo – quello nel proprio cuore.
            Sant’Agostino, un giovane che ha cercato la verità in tante strade prima di incontrarla nella persona di Gesù, dentro di sé, dice: “Noli foras ire, redi in te ipsum, in interiore homini habitat veritas” (“Non voler uscire fuori, rientra in te stesso, la verità abita nell’interiorità dell’uomo”).
            E così concludo con un piccolo esercizio di latino: una lingua molto cara al nostro Andrej e legata al suo discernimento vocazionale. Ma questa sarebbe davvero…, almeno per ora, una… altra storia!




Incontro con Vera Grita di Gesù, Serva di Dio

Vera Grita, insieme ad Alexandrina Maria da Costa (di Balazar), entrambe cooperatrici salesiane, sono due testimoni privilegiate di Gesù presente nell’Eucaristia. Sono un dono della Provvidenza alla Congregazione Salesiana e alla Chiesa, che ci ricorda le ultime parole del Vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

L’invito a un incontro
            Tra le figure di santità della Famiglia Salesiana, è stata inserita negli ultimi anni Vera Grita (1923-1969), laica, consacrata con voti privati, salesiana cooperatrice, mistica. Vera è oggi Serva di Dio (si è conclusa la Fase diocesana ed è attualmente in corso la Fase romana della Causa) e la sua rilevanza per noi deriva essenzialmente da due ragioni: come cooperatrice, essa appartiene carismaticamente alla grande Famiglia di don Bosco e la possiamo sentire “sorella”; come mistica, il Signore Gesù le ha “dettato” l’Opera dei Tabernacoli Viventi (un’Opera eucaristica di respiro ecclesiale ampio) che, per volontà del Cielo, è affidata anzitutto ai salesiani. Gesù chiama con forza i salesiani perché conoscano, vivano, approfondiscano e testimonino questa Sua Opera d’Amore nella Chiesa, per ogni uomo. Conoscere Vera Grita significa quindi, oggi, prendere consapevolezza di un dono grande fatto alla Chiesa per il tramite dei figli di don Bosco e sintonizzarsi con la richiesta di Gesù che siano proprio i salesiani a custodire tale tesoro prezioso e donarlo agli altri, rimettendosi profondamente in gioco.
            Che poi quest’Opera sia anzitutto eucaristica (… “Tabernacoli viventi”) e mariana (Maria Immacolata, Addolorata e Ausiliatrice Madre dell’Opera) non può che riportare al “sogno delle due colonne” di don Bosco, in cui la nave della Chiesa trova sicurezza dall’attacco dei nemici ancorandosi alle due colonne della Vergine Maria e della Santissima Eucaristia.
            C’è quindi una grande, costitutiva salesianità che attraversa la vita di Vera: questo ci aiuta a sentirla vicina, una nuova amica e sorella nello spirito. Lei ci prende per mano e conduce – con la dolcezza e forza sue tipiche – a un incontro rinnovato e di grande bellezza con Gesù Eucaristia, perché sia ricevuto e portato agli altri. È – anche questo – un gesto di preparazione al Natale, perché Maria («tabernacolo d’oro») porta e dona Gesù a noi: il Verbo della vita (cf. 1Gv. 1,1), fatto carne (cf. Gv. 1,14).

Profilo biografico-spirituale di Vera Grita
            Vera Grita nasce a Roma il 28 gennaio 1923, secondogenita delle quattro figlie di Amleto Grita e Maria Anna Zacco della Pirrera. I genitori sono originari della Sicilia: Amleto appartiene a una famiglia di fotografi; donna Maria Anna è figlia di un barone modicano e, sposandosi contro la volontà del padre, aveva perso ogni privilegio e la possibilità stessa di coltivare qualsivoglia legame con la famiglia d’origine, per sempre. Vera nasce da uno strappo affettivo, ma anche da un grande amore cui i genitori sapranno rimanere fedeli attraverso molte prove.
            L’antifascismo di papà Amleto, un furto di strumentazione fotografica e soprattutto la Crisi del 1929-30 hanno gravi ripercussioni sui Grita: in poco tempo, si ritrovano poveri e impossibilitati a provvedere alla crescita delle figlie. Così, mentre Amleto, Maria Anna e la figlia minore Rosa restano uniti e ricominciano da Savona in Liguria, Vera cresce con le sorelle Giuseppina e Liliana a Modica presso zie paterne: donne di fede e di talento, pienamente nel mondo ma “non del mondo” (cf. Gv. 17). A Modica – la città siciliana patrimonio dell’UNESCO per gli splendori del suo Barocco – Vera frequenta le Figlie di Maria Ausiliatrice e riceve Prima Comunione e Cresima. È attratta dalla vita di preghiera e attenta alle necessità del prossimo, tacendo le proprie sofferenze per fare da “mamma” alla sorellina Liliana. Il giorno della prima Comunione non vorrebbe più togliersi l’abito bianco, perché è consapevole del valore di quanto vissuto e di tutto ciò che lo significa.
            Rientrata in famiglia nel 1940, Vera consegue il diploma magistrale. La morte precoce di papà Amleto nel 1943 la obbliga ad aiutare la famiglia col lavoro, rinunciando però al desiderato insegnamento.
            Il 3 luglio 1944 – a 21 anni e mentre cerca riparo da un bombardamento aereo – Vera viene travolta e calpestata dalla folla in fuga: rimane a terra per ore, lacera, contusa, con gravi lesioni, creduta morta. Il suo fisico resta segnato per sempre e, nel tempo, si assommeranno patologie come il Morbo di Addison (che priva dell’ormone deputato alla gestione dello stress) e continui interventi chirurgici, tra cui la rimozione dell’utero in giovane età. I fatti del 3 luglio e il quadro clinico compromesso le impediscono di formarsi una famiglia, come avrebbe desiderato. «Da allora fu tutto un susseguirsi di ricoveri ospedalieri, operazioni, analisi, dolori lancinanti alla testa e a tutto il corpo. Furono diagnosticate malattie terribili, si tentarono svariate cure. Gli organi colpiti non rispondevano alle cure e, in quell’inspiegabile disordine, uno dei suoi medici curanti, meravigliato [,] dichiarò: “Non si capisce come sia possibile che la paziente possa aver trovato un suo equilibrio”».
            Per 25 anni, sino al termine della vita terrena, Vera Grita porta con coraggio una sofferenza che si approfondirà in morale e spirituale ed ella velerà di discrezione e sorriso, senza smettere di dedicarsi agli altri. Il suo diventa un corpo “greve” (anche se grazioso: Vera ebbe sempre tanta femminilità ed era bella), un corpo che ad ogni passo impone vincoli, lentezze, fatiche.
            Trentacinquenne, realizza con gran forza di volontà il sogno di insegnare e dal 1958 al 1969 è maestra in scuole quasi tutte dell’entroterra ligure: difficili da raggiungere, con classi piccole e studenti talvolta disagiati o ipodotati ai quali dona fiducia, comprensione e gioia, arrivando a rinunciare alle medicine per acquistare i ricostituenti necessari alla loro crescita. Anche in famiglia, è con le nipoti più “mamma” della loro mamma, attestando una finissima sensibilità educativa e una capacità generativa unica, umanamente indeducibile dalle sue condizioni così provate (cf. Is. 54). Quando il rapporto con gli altri, le situazioni, i problemi sembrano prendere il sopravvento e Vera sperimenta un umano scoraggiamento o avrebbe la tentazione di ribellarsi, per un percepito senso di ingiustizia, sa poi rileggere la vicenda alla luce del vangelo e ricordarsi del suo “posto” di “piccola vittima”: «Oggi […] – scriverà un giorno al padre spirituale – vedo le cose nel loro valore». «Restiamo calmi nell’obbedienza», le raccomanda questo sacerdote.
            Il 19 settembre 1967, mentre pregava dinanzi al Santissimo Sacramento esposto nella chiesetta di Maria Ausiliatrice in Savona, aveva avvertito interiormente il primo di una lunga serie di Messaggi che il Cielo le comunica nel breve spazio d’un biennio e costituiscono l’«Opera dei Tabernacoli Viventi»: Opera d’Amore con cui Gesù Eucaristia vuol essere conosciuto, amato e portato alle anime, in un mondo che Lo crede e Lo cerca sempre meno. È per lei l’inizio di un rapporto di crescente pienezza con il Signore, che entra nel suo quotidiano con la Sua Presenza, dentro un dialogo concreto come quello di due innamorati, partecipe dell’esistere di Vera in tutto (Gesù detta pensieri propri anche mentre Vera scrive una lettera, così la lettera è scritta a “quattro mani”, con la più grande familiarità). Dal «portare a Gesù» al «portare Gesù»: Lui!
            Vera sottopone ogni cosa al padre spirituale e all’obbedienza alla Chiesa, con un alto concetto della dipendenza da essi, tanta obbedienza, una immensa umiltà: Gesù aveva preso una “maestra” e l’aveva messa alla scuola del Suo Amore, insegnandole tramite i Messaggi e soprattutto richiamandola alla coerenza di fede e vita. È uno Sposo dolcissimo eppure assai esigente nell’allenarla al cammino virtuoso: ricorre alle immagini dello scavare, del lavoro, dello scalpello, del martello con i suoi “colpi” per insegnare a Vera quanto debba togliere da lei, quanto lavoro vada fatto in un’anima perché sia vero Tempio della Presenza di Dio: «Io sto lavorando in te a colpi di scalpello […]. Le aridità, le croci piccole e grandi, sono il mio martello. Quindi, a intervalli arriverà il colpo, il mio colpo. Devo portar via da te molte, molte cose: la resistenza al mio amore, la sfiducia, i timori, l’egoismo, ansie inutili, pensieri non cristiani, abitudini mondane». La docilità di Vera è ascesi di ogni giorno, umiltà di chi tocca il limite ma lo rende disponibile all’onnipotenza e alla misericordia di Dio. Gesù, attraverso di lei, insegna un cammino di santità che – se evidentemente è orientato a poter accogliere la pienezza della Sua Vita – si esprime attraverso un “meno” di ciò che siamo e Gli oppone resistenza: santità… per “sottrazione”, per diventare trasparenza di Lui. La prima caratteristica del Tabernacolo è, infatti, l’essere vuoto e disposto ad accogliere una Presenza. Come ha scritto la Maestra delle novizie di un Monastero di Benedettine del Santissimo Sacramento: «I pensieri che scrive sono di Gesù. Quanta pulizia anche nei testi! A volte, anche nei diari spirituali di anime sante e belle, quanta soggettività emerge […] ed è giusto sia così. […] Vera [invece] scompare, non c’è lei [,] non si racconta» (cf.).
            Vera un giorno scriverà: «I miei alunni sono parte di me, del mio amore per Gesù». È il frutto maturo di una vita eucaristica che fa di lei “pane spezzato” con l’Unica Vittima. Senza Gesù, non poteva più vivere: «Voglio Gesù in qualsiasi modo. Non posso più vivere senza Lui, non posso». Un’affermazione “ontologica” che dice il legame indissolubile tra lei e il suo Sposo eucaristico.
            Vera Grita aveva ricevuto un primo Messaggio, seguito da ben 8 anni di silenzio, ad Alpicella (Savona) il 6 ottobre 1959. Aveva emesso il 2 febbraio 1965 i voti di castità perpetua e “piccola vittima” per i sacerdoti, da lei serviti con particolare delicatezza e dedizione. Diventa Cooperatrice salesiana il 24 ottobre 1967. Ama intensamente Maria, cui si era consacrata, e vive il rapporto filiale a Lei anche nello spirito della “schiavitù d’amore” del Montfort. Più tardi si offrirà per intenzioni diverse, di respiro ecclesiale: in particolare per i sacerdoti che con il “Sessantotto” abbandonavano la vocazione, eppure restavano figli amati, mai lontani dal Cuore di Cristo come Egli stesso assicura.
            Ritenuta degna di fede, molto amata e stimata, con fama di santità, Vera muore all’Ospedale “Santa Corona” di Pietra Ligure (Savona) il 22 dicembre 1969 per shock ipovolemico da emorragia massiva e conseguente insufficienza multiorgano: “sposa di sangue”, come era stata chiamata da Gesù nei Messaggi, ben prima di comprendere cosa ciò significasse.
            Pochi istanti dopo il cappellano – con gesto altrettanto spontaneo quanto inusuale – ne alza le spoglie al Cielo, pregando e tutto offrendo, presentando Vera quale offerta gradita: consummatum est! Era l’ultimo di una serie di gesti che scandiscono la vita della Serva di Dio e che, in altro modo, lei stessa aveva compiuto: il segno di croce grande; la genuflessione ben fatta, lentamente; la Scala Santa in ginocchio con i Libretti in cui trascriveva i Messaggi dell’Opera; l’offerta di sé portata anche in San Pietro. Quando non comprendeva, nella stanchezza e talvolta nel dubbio, Vera Grita faceva: sapeva che più importante non era il suo sentire, ma l’oggettività dell’Opera di Dio in lei e attraverso di lei. Di sé aveva scritto: «io sono “terra” e a nulla servo se non a scrivere sotto dettatura»; «A volta capisco e non capisco»; «Gesù non mi lasci ma si serva di questo straccetto per i Suoi Piani divini». Il direttore spirituale, stupefatto, un giorno commentava – in riferimento alle parole dei Messaggi –: «le trovo splendide, addirittura beatificanti. E lei come fa a rimanere arida?». Vera non aveva mai guardato a sé e, come per ogni mistico, una più forte luce era divenuta per lei notte oscura, tenebra luminosa, prova della fede.
            8 anni dopo, il 22 settembre 1977, Papa Paolo VI (già destinatario di alcuni Messaggi dell’Opera, e che nel 1972 aveva istituito i ministri straordinari dell’Eucaristia), riceve in udienza il padre spirituale di Vera Grita, don Gabriello Zucconi sdb, e benedice l’Opera dei Tabernacoli Viventi.
            Il 18 maggio 2023 il Vescovo di Savona-Noli, Mons. Calogero Marino, ha «approvato gli Statuti dell’Associazione “Opera dei Tabernacoli Viventi” e in data 19 maggio l’ha eretta come Associazione privata di fedeli, riconoscendone anche la personalità giuridica». Il Rettor Maggiore dei Salesiani, Card. Artime, già nel 2017 autorizzava e incaricava la Postulazione SDB ad «accompagnare tutti i passi necessari perché l’Opera […] continui ad essere studiata, promossa nella nostra Congregazione e riconosciuta dalla Chiesa, in spirito di obbedienza e di carità».

Essere e diventare “Tabernacoli Viventi”
            Al centro dei Messaggi a Vera c’è Gesù Eucaristia: tutti abbiamo esperienza dell’Eucaristia, tuttavia occorre notare (cf. il teologo p. François-Marie Léthel, ocd) come la Chiesa abbia approfondito nel tempo la pregnanza del Sacramento dell’Altare, di scoperta in scoperta: per esempio dalla celebrazione alla Riserva eucaristica e dalla Riserva all’Esposizione durante l’Adorazione del Santissimo Sacramento… Gesù chiede, tramite Vera, un passaggio ulteriore: dall’Adorazione in chiesa, dove occorre recarsi per incontrarLo, a quel “Portami con te!” (cf. infra) tramite il quale Egli stesso, avendo fatto dimora nel suo Tabernacolo Vivente (noi), vuole uscire dalle chiese per raggiungere chi – nella chiese – spontaneamente non entrerebbe; chi non Lo crede; non Lo cerca; non Lo ama o addirittura Lo esclude lucidamente dal proprio esistere. La grazia carismatica legata all’Opera è infatti quella della permanenza eucaristica di Gesù nell’anima, di modo che chiunque riceve Gesù-Eucaristia nella Santa Messa e vive sensibile ai Suoi richiami e alla Sua Presenza, Lo irradi nel mondo, ad ogni fratello e specialmente ai più bisognosi. Vera Grita diventa, così, l’esempio e il modello (nel senso letterale del termine: chi ha già vissuto quello che a ciascuno è richiesto) di una vita trascorsa in un profondo corpo-a-Corpo col Signore Eucaristico, finché sarà Egli stesso a guardare, parlare, agire, per mezzo dell’“anima” che Lo porta e dona. Dice Gesù: «Io mi servirò del vostro modo di parlare, di esprimervi, per parlare, per arrivare alle altre anime. Datemi le vostre facoltà, perché io possa incontrarmi con tutti e in ogni luogo. Sull’inizio sarà per l’anima un lavoro di attenzione, di vigilanza, per scartare da sé tutto ciò che pone ostacolo alla mia Permanenza in lei. Le mie grazie nelle anime chiamate a quest’Opera, saranno graduali. Oggi tu porti di Me in famiglia, il mio bacio; un’altra volta, qualcosa di più e sempre più ancora, finché quasi all’insaputa dell’anima stessa, io farò, agirò, parlerò, amerò, attraverso lei quanti si avvicineranno a quest’anima, e cioè a Me. C’è chi agisce, parla, guarda, opera sentendosi guidato solo dal mio Spirito ma io sono già Tabernacolo Vivente in quest’anima, ed essa non lo sa. Deve però saperlo, perché io voglio la sua adesione alla mia PERMANENZA EUCARISTICA nella sua anima; voglio che quest’anima mi dia anche la sua voce per parlare agli altri uomini, i suoi occhi perché i miei incontrino lo sguardo dei fratelli, le sue braccia perché io possa abbracciare altri, le sue mani, per carezzare i piccoli, i bambini, i sofferenti. Quest’Opera ha però per base l’amore e l’umiltà. L’anima deve avere sempre innanzi a sé le proprie miserie, le proprie nullità, e mai dimenticare di quale pasta è stata impastata» (Savona, 26 dicembre 1967).
            Si comprende allora anche un ulteriore aspetto della pertinenza “salesiana” del carisma: l’essere per gli altri; inviati in particolare ai piccoli, ai poveri, agli ultimi, ai lontani; il vivere un’«interiorità apostolica» che significa essere tutti in Dio e tutti per il fratello; la grande dolcezza di chi non porta se stesso, ma irradia la mitezza, la mansuetudine e la gioia del Signore crocifisso e risorto; l’attenzione privilegiata ai giovani, chiamati anch’essi a partecipare di questa vocazione.
            Vera – che in vita ebbe per confessore un salesiano (don Giovanni Bocchi) e salesiani anche il padre spirituale (don Gabriello Zucconi) e un “referente” dell’esperienza mistica (don Giuseppe Borra) – torna oggi a bussare alla porta dei figli di don Bosco. L’Opera stessa nasce a Torino, nella culla del carisma salesiano.

Riferimenti bibliografici:
Centro Studi “Opera dei Tabernacoli Viventi” (a cura di), Portami con Te! L’Opera dei Tabernacoli Viventi nei manoscritti originali di Vera Grita, ElleDiCi, Torino 2017.
Centro Studi “Opera dei Tabernacoli Viventi” (a cura di), Vera Grita una mistica dell’Eucaristia. Epistolario di Vera Grita e dei Sacerdoti Salesiani don G. Bocchi, don G. Borra e don G. Zucconi, ElleDiCi, Torino 2018.
Entrambi i testi includono Studi di contestualizzazione storico-biografica, teologico-spirituale, salesiana ed ecclesiale dell’Opera.

Madre di Gesù, Madre del bell’Amore, dà amore al mio povero cuore, dà purezza e santità alla mia anima, dà volontà al mio carattere, dà lumi santi alla mia mente, dammi Gesù, dammi il tuo Gesù per sempre”. (Preghiera a Maria che Gesù insegna a Vera Grita)




Laura Vicuña: una figlia che “genera” la propria madre

Storie di famiglie ferite
            Siamo abituati ad immaginare la famiglia come una realtà armoniosa, contraddistinta dalla compresenza di più generazioni e dal ruolo-guida di genitori che danno la norma e di figli i quali – nell’apprenderla – vengono da loro guidati nell’esperienza della realtà. Tuttavia spesso le famiglie si trovano attraversate da drammi e incomprensioni, o segnate da ferite che ne aggrediscono la configurazione ottimale e ne restituiscono un’immagine distorta, falsata e falsante.
            Anche la storia della santità salesiana è attraversata da storie di famiglie ferite: famiglie dove vien meno almeno una delle figure genitoriali, oppure la presenza della mamma e del papà diventa, per ragioni diverse (fisiche, psichiche, morali e spirituali), penalizzante per i loro figli, oggi incamminati verso gli onori degli altari. Lo stesso Don Bosco, che aveva sperimentato la morte prematura del padre e l’allontanamento dalla famiglia per la prudente volontà di Mamma Margherita, vuole – non è un caso – l’opera salesiana particolarmente dedicata alla «gioventù povera e abbandonata» e non esita a raggiungere i giovani che si sono formati nel suo oratorio con una intensa pastorale vocazionale (dimostrando che nessuna ferita del passato è ostacolo a una vita umana e cristiana piena). È pertanto naturale che la stessa santità salesiana, che attinge alle esistenze di molti giovani di Don Bosco poi consacrati per suo tramite alla causa del Vangelo, porti in sé – quale logica conseguenza – traccia di famiglie ferite.
            Di questi ragazzi e ragazze cresciuti a contatto con le opere salesiane presentiamo la beata Laura Vicuña, nata nel Cile del 1891, orfana di padre e la cui mamma inizia in Argentina una convivenza con il ricco possidente Manuel Mora; Laura, dunque, ferita dalla situazione di irregolarità morale della mamma, è pronta ad offrire la vita per lei.

Una vita breve ma intensa
            Nata a Santiago del Cile il 5 aprile 1891, e battezzata il 24 maggio successivo, Laura è la figlia maggiore di José D. Vicuña, un nobile decaduto che aveva sposato Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori. Tre anni dopo arriva una sorellina, Julia Amanda, ma ben presto il papà muore, dopo avere subíto una sconfitta politica che ne ha minato la salute e compromesso, con il sostentamento economico della famiglia, anche l’onore. Priva di qualsiasi «protezione e prospettiva di futuro», la mamma approda in Argentina, dove ricorre alla tutela del proprietario terriero Manuel Mora: un uomo «di carattere superbo e altero», che «non dissimula odio e disprezzo per chiunque avversasse i suoi disegni». Un uomo, insomma, che solo in apparenza garantisce protezione, ma è in realtà abituato a prendere, se necessario con la forza, quello che vuole, strumentalizzando le persone. Intanto paga gli studi presso il collegio delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Laura e alla sorella e la loro madre – che subisce l’influsso psicologico di Mora – convive con lui senza trovare la forza di rompere il legame. Quando però Mora inizia a mostrare segni di disonesto interesse verso la stessa Laura, e soprattutto quando quest’ultima intraprende il percorso di preparazione alla Prima Comunione, lei d’un tratto comprende tutta la gravità della situazione. A differenza della mamma – che giustifica un male (la convivenza) in vista di un bene (l’educazione delle figlie in collegio) – Laura capisce che si tratta di una argomentazione moralmente illegittima, che mette in grave pericolo l’anima della madre. In questo periodo, poi, Laura vorrebbe diventare ella stessa suora di Maria Ausiliatrice: ma la sua domanda è respinta, perché figlia di una «pubblica concubina». Ed è a questo punto che proprio in Laura – accolta in collegio quando in lei dominavano ancora «impulsività, facilità di risentimento, irritabilità, impazienza e propensione ad apparire» – si manifesta un cambiamento che solo la Grazia, unita all’impegno della persona, può operare: chiede a Dio la conversione della madre, offrendo se stessa per lei. In quel momento, Laura non può muoversi né “in avanti” (entrando tra le Figlie di Maria Ausiliatrice) né “indietro” (tornando dalla madre e dal Mora). Con un gesto allora carico della creatività tipica dei santi, Laura intraprende l’unica strada che le è ancora accessibile: quella dell’altezza e della profondità. Nei propositi della Prima Comunione aveva annotato:

Propongo di fare quanto so e posso per […] riparare le offese che voi, Signore, ricevete ogni giorno dagli uomini, specie dalle persone della mia famiglia; mio Dio, datemi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio.

            Ora finalizza il proposito in “Atto di offerta”, che include il sacrificio della vita stessa. Il confessore, riconoscendo che l’ispirazione è da Dio ma ignorandone le conseguenze, acconsente, e conferma che Laura è «consapevole dell’offerta che ha appena compiuto». Lei vive gli ultimi due anni con silenzio, allegria e sorriso e una indole ricca di calore umano. Eppure, lo sguardo che posa sul mondo – come conferma un ritratto fotografico, molto diverso dalla stilizzazione agiografica nota – dice anche tutta la sofferta consapevolezza e il dolore che la abitano. In una situazione dove le manca sia la “libertà da” (condizionamenti, ostacoli, fatiche), sia la “libertà di” fare tante cose, questa preadolescente testimonia la “libertà per”: quella del dono totale di sé.
Laura non disprezza, ma ama la vita: la propria e quella della mamma. Per questo si offre. Il 13 aprile 1902, Domenica del Buon Pastore, si chiede: «Se Lui dà la vita… cosa lo impedisce a me per la mamma?». Morente, aggiunge: «Mamma, io muoio, io stessa l’ho chiesto a Gesù… sono quasi due anni che gli offersi la vita per te…, per ottenere la grazia del tuo ritorno!».
            Sono parole prive di rimpianto e di rimprovero, ma cariche di una grande forza, una grande speranza e una grande fede. Laura ha imparato ad accogliere la mamma per quello che è. Offre anzi se stessa per donarle ciò che lei sola non riesce a conseguire. Quando Laura muore, la mamma si converte. Laurita de los Andes, la figlia, ha così contribuito a generare la madre nella vita di fede e di grazia.




Venerabile Costantino Vendrame: apostolo di Cristo

La causa di canonizzazione del servo di Dio Costantino Vendrame, sta avanzando. Nel 19 settembre 2023 è stato consegnato il volume della “Positio super Vita, Virtutibus et Fama Sanctitatis” presso la Congregazione delle Cause dei Santi in Vaticano. Presentiamo brevemente questo sacerdote professo della Società di San Francesco di Sales.

Dalle colline venete alle colline del Nord-Est India
Il Servo di Dio don Costantino Vendrame nasce a San Martino di Colle Umberto (Treviso) il 27 agosto 1893. San Martino, frazione del più ampio abitato di Colle Umberto, è un ridente paese italiano del Veneto in provincia di Treviso: dalle sue colline, San Martino è orientato sia alla pianura lì solcata dal Piave, sia alle Prealpi del Bellunese, mantenendo di tale duplice natura – è paese collinare che guarda alle montagne e alla pianura – quelle caratteristiche, di vicinanza ai più grandi centri abitati e di ideale proiezione al mondo sobrio e schivo della montagna, che il futuro missionario don Costantino avrebbe ritrovato nel Nord-Est India, stretto tra i primi contrafforti della catena himalayana e la valle del Brahmaputra.

A quel mondo di gente semplice appartiene anche la sua famiglia: il papà Pietro, di professione fabbro, e la mamma Elena Fiori originaria del Cadore si conoscono molto probabilmente sui monti. Forti i legami di don Vendrame con i fratelli: Giovanni per il quale conserverà la fedeltà del ricordo; Antonia, madre di una famiglia numerosa; l’amatissima Angela cui lo unisce un affetto profondo, in sintonia di opere e intenti. Angela resterà – con una creatività esuberante – a servizio della parrocchia e offrirà sofferenze e meriti per l’impresa apostolico-missionaria del fratello. Viva era in famiglia anche la memoria del fratello maggiore Canciano, volato in Cielo a soli 13 anni.
Battezzato il giorno dopo la nascita (28 agosto) e cresimato nel novembre 1898, presto orfano di padre, per Costantino Vendrame – prima comunione il 21 luglio 1904 e un’infanzia trascorsa negli impegni quotidiani – la vocazione sacerdotale si delinea da bambino. Essa affonda forse le radici nell’affidamento del piccolo Costantino alla Madonna – per iniziativa della mamma –: affidamento maturato quindi in una più completa donazione.

La realtà del Seminario – che il Servo di Dio frequenta a Ceneda (Vittorio Veneto) con piena riuscita – manca però di quel respiro missionario che egli avverte proprio. Si orienta così ai Salesiani ed è nella casa salesiana di Mogliano Veneto che: “nella piccola portineria nel 1912 col buon Don Dones si decise la mia vocazione salesiana e missionaria”.
Compie dunque le tappe di formazione alla consacrazione religiosa tra i figli di don Bosco, in particolare come aspirante (dall’ottobre 1912 a Verona), novizio (dal 24 agosto 1913 a Ivrea), professo temporaneo (nel 1914) e perpetuo (dal 1° gennaio 1920 a Chioggia). Verrà ordinato sacerdote a Milano il 15 marzo 1924. Sin dall’ammissione al noviziato, è certificato «fermissimo anche nella pratica, e ben istruito». I suoi voti al Seminario erano stati sempre eccellenti ed egli fa buona riuscita nella Società di San Francesco di Sales.
L’iter preparatorio è segnato dalla ferma obbligatoria sotto le armi. Erano gli anni della Grande Guerra: 1914-1918 (per l’Italia: 1915-1918). In quei momenti il chierico Vendrame non retrocede; si apre ai superiori; tiene fede agli impegni presi. Gli anni del Primo Conflitto Mondiale forgiano ulteriormente in lui quel coraggio che tanto utile gli sarà in missione.

Missionario di fuoco

Don Costantino Vendrame riceve il crocifisso missionario nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino il 5 ottobre 1924. Alcune settimane più tardi si imbarca da Venezia alla volta dell’India: destinazione Assam, nel Nord-Est. Vi arriva in tempo per Natale. Su un’immaginetta scrisse: «Sacro Cuor di Gesù, tutto ho confidato in voi, tutto ho sperato da voi e non sono rimasto confuso». Con i confratelli, medita durante il viaggio Incontro al Re d’Amore: «Tutto è qui: tutto il Vangelo, tutta la Legge. Vi ho amato […]», «V’ho amato più della mia vita, perché la vita mia l’ho data per voi – e quando s’è data la propria vita, s’è dato tutto». È questo il programma del suo impegno missionario.

Rispetto ai Salesiani più giovani – che avrebbero compiuto in India la maggior parte del cammino alla consacrazione – egli vi giunge uomo fatto, nel pieno vigore: ha 31 anni e può avvantaggiarsi, oltre che della dura esperienza in guerra, del tirocinio negli oratori italiani. Lo attende una terra bella e difficile, dove il paganesimo di stampo “animista” domina e alcune sette protestanti nutrono verso la Chiesa Cattolica un atteggiamento di pregiudiziale diffidenza o aperta opposizione. Egli sceglie il contatto con la gente, decide di fare il primo passo: comincia dai bambini, cui insegna a pregare e permette di giocare. Saranno questi “piccoli amici” (pochi cattolici, alcuni protestanti, quasi tutti pagani) a parlare di Gesù e del missionario cattolico in famiglia, ad aiutare don Vendrame nell’apostolato. Lo affiancano i confratelli – che negli anni riconosceranno in lui il “pioniere” dell’attuazione missionaria salesiana in Assam – e validi collaboratori laici, formati nel tempo.
Di questo primo periodo resta traccia di un missionario di “fuoco”, animato dal solo interesse per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Il suo stile diventa quello dell’Apostolo delle genti, cui sarà paragonato per l’efficacia propulsiva dell’annuncio e la forte capacità attrattiva dei pagani a Cristo. «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (cf. 1 Cor 9,16), dice don Vendrame con la vita. Si espone a ogni usura, purché Cristo sia annunciato. Davvero anche per lui: «Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi […], pericoli dai pagani […]; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, digiuni frequenti, freddo e nudità» (cf. 2 Cor 11,26-27). Il Servo di Dio diventa camminatore nel Nord-Est India infestato da rischi d’ogni sorta; si sostenta con un regime alimentare scarsissimo; affronta rientri a notte fonda o notti trascorse quasi all’addiaccio.

Sempre in trincea
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e negli anni successivi, don Costantino Vendrame può dunque avvantaggiarsi – in frangenti di particolare fatica “ambientale” (campi militari; povertà estrema nel Sud dell’India) ed “ecclesiale” (durissime opposizioni nel Nord Est India) – di tutto un allenamento previo: sotto custodia dei Gurkha; a Deoli; a Dehra Dun; missionario a Wandiwash nel Tamil Nadu; a Mawkhar in Assam. A Deoli è “rettore” dei religiosi nel campo; anche a Dehra Dun è di esempio.
Liberato al termine della guerra, ma impossibilitato da ragioni politiche del tutto estranee alla sua persona a rientrare in Assam, don Vendrame – che aveva superato i 50 anni ed era usurato dalle privazioni – è assegnato da Mons. Louis Mathias, Arcivescovo di Madras, al Tamil Nadu. Lì don Costantino dovrà ricominciare tutto: ancora una volta, saprà farsi profondamente amare, cosciente – come scrive in una lettera del 1950 indirizzata ai confratelli sacerdoti della Diocesi di Vittorio Veneto – delle condizioni durissime del suo mandato missionario:
Egli era convinto che ovunque vi fosse del bene da fare e ovunque vi fossero anime da salvare. Rimasto “ad experimentum”, così da garantire continuità a quella missione povera, rientra infine in Assam: potrebbe riposarsi, ma si progetta di fondare la presenza cattolica a Mawkhar, quartiere di Shillong allora considerato il “fortino” dei protestanti.
Ed è proprio a Mawkhar che il Servo di Dio realizza il suo “capolavoro”: la nascita d’una comunità cattolica ancora oggi fiorente in cui – in anni lontani dall’attuale sensibilità ecumenica – la presenza cattolica fu dapprima osteggiata con durezza, quindi tollerata, poi accettata e infine stimata. L’unità e la carità testimoniante da don Vendrame furono per Mawkhar un annuncio inedito e “scandaloso”, che conquistò i cuori più duri e gli attrasse la benevolenza di molti: aveva portato il «miele di san Francesco» – cioè l’amorevolezza salesiana, ispirata alla dolcezza del Salesio – in una terra dove gli animi si erano chiusi.

Verso il traguardo
Quando i dolori alle ossa si fanno insistenti, egli ammette in una lettera: «con difficoltà ho potuto controllare il lavoro della giornata». Si dischiude l’ultimo tratto di cammino terreno. Arriva il giorno in cui chiede di controllare se fosse rimasto un po’ di cibo: richiesta unica per don Vendrame che si faceva bastare l’essenziale e, rientrando tardi, non voleva mai disturbare per la cena. Quella sera nemmeno riusciva ad articolare qualche frase: era stremato, invecchiato anzitempo. Aveva taciuto sino all’ultimo, preda di un’artrite che gli intaccò anche la colonna vertebrale.
Si profila allora il ricovero, ma a Dibrugarh: avrebbe evitato a lui il continuo accorrere della gente; alla gente il dolore di assistere impotente all’agonia del loro padre. Il Servo di Dio arriverà a svenire dal dolore: ogni movimento divenne per lui terribile.
Gli sono vicini Mons. Oreste Marengo – suo amico e antico chierico, Vescovo di Dibrugarh –, le Suore di Maria Bambina, alcuni laici, il personale medico-sanitario tra cui molte infermiere, conquistate dalla sua dolcezza.
Tutti lo riconoscono vero uomo di Dio: anche chi è non cristiano. Don Vendrame nel suo patire può dire, come Gesù: «io non sono solo, perché il Padre è con me» (cf. Gv 16,32).
Provato dalla malattia e dalle complicanze di una polmonite da stasi, muore il 30 gennaio 1957 nella vigilia della festa di san Giovanni Bosco. Pochi giorni prima (24 gennaio), nell’ultima lettera alla sorella Angela era ancora era proiettato al dinamismo apostolico, lucido nella sofferenza ma uomo di speranza sempre.
Era così povero da non aver nemmeno una vesta idonea alla sepoltura: Mons. Marengo gliene donò una sua perché fosse più degnamente rivestito. Una testimonianza racconta come in morte don Costantino fosse bello, stesse persino meglio che in vita, finalmente liberato dalle “fatiche” e dagli “strapazzi” che ne avevano segnato tanti decenni.
Dopo un primo funerale / momento di commiato a Diburgarh, le veglie funebri e le solenni esequie si svolsero a Shillong. La gente era accorsa con tanti fiori da sembrare la processione Eucaristica. Il concorso di popolo fu immenso, molti si accostarono ai sacramenti di Riconciliazione e Comunione: questo atteggiamento generalizzato di avvicinamento a Dio, anche da parte di chi se ne era allontanato, fu uno dei segni più grandi che accompagnarono la morte di don Costantino.