Le lotterie: autentiche imprese

Don Bosco non fu soltanto un instancabile educatore e pastore di anime, ma anche un uomo di straordinaria intraprendenza, capace di inventare soluzioni nuove e coraggiose per sostenere le sue opere. Le necessità economiche dell’Oratorio di Valdocco, in continua espansione, lo spinsero a cercare mezzi sempre più efficaci per garantire vitto, alloggio, scuola e lavoro a migliaia di ragazzi. Tra questi, le lotterie rappresentarono una delle intuizioni più ingegnose: vere imprese collettive, che coinvolgevano nobili, sacerdoti, benefattori e semplici cittadini.Non era semplice, poiché la legislazione piemontese regolava con rigore le lotterie, consentendone l’organizzazione ai privati solo in casi ben definiti. E non si trattava soltanto di raccogliere fondi, ma di creare una rete di solidarietà che univa la società torinese intorno al progetto educativo e spirituale dell’Oratorio. La prima, nel 1851, fu un’avventura memorabile, ricca di imprevisti e successi.

            Il tanto denaro che è giunto nelle mani di don Bosco vi è rimasto per poco, perché subito impiegato nel dare vitto, alloggio, scuola e lavoro a decine di migliaia di ragazzi o nel costruire collegi, orfanotrofi e chiese o nel sostenere le missioni sudamericane. I suoi conti, si sa, erano sempre in rosso; i debiti lo hanno accompagnato tutta la vita.
            Ora fra i mezzi intelligentemente adottati da don Bosco per finanziare le sue opere si possono di certo collocare le lotterie: una quindicina quelle da lui organizzate, fra piccole e grandi. La prima, modesta, fu quella di Torino nel 1851 a favore della chiesa di san Francesco di Sales in Valdocco e l’ultima, grandiosa, a metà degli anni ottanta, fu quella per sopperire alle immense spese della chiesa e dell’ospizio del S. Cuore presso la stazione Termini di Roma.
            Una vera storia di tali lotterie non è ancora stata scritta, benché al riguardo non manchino le fonti. Solo in riferimento alla prima, quella del 1851, ne abbiamo recuperato noi stessi una dozzina di inedite. Con esse ne ricostruiamo la tormentata storia in due puntate.

Domanda di autorizzazione
            A norma di legge del 24 febbraio 1820 – modificata da Regie Patenti del gennaio 1835 e da Istruzioni dell’Azienda Generale delle Regie Finanze in data 24 agosto 1835 e successivamente da Regie Patenti del 17 luglio 1845 – per qualunque lotteria nazionale (Regno di Sardegna) si richiedeva la preventiva autorizzazione governativa.
            Per don Bosco si trattò anzitutto di avere la morale certezza di riuscire nel progetto. La ebbe dall’appoggio economico e morale dei primissimi benefattori: le nobili famiglie Callori e Fassati ed il canonico Anglesio del Cottolengo. Si lanciò dunque in quella che sarebbe risultata un’autentica impresa. In tempi brevi riuscì a costituire una Commissione organizzatrice, composta inizialmente da sedici note personalità, poi accresciuta fino a venti. Fra loro numerose autorità civili ufficialmente riconosciute, come un senatore (nominato tesoriere), due vicesindaci, tre consiglieri comunali; poi sacerdoti di prestigio come i teologi Pietro Baricco, vicesindaco e segretario della Commissione, Giovanni Borel cappellano di corte, Giuseppe Ortalda, direttore di Opera Pia di Propaganda Fide, Roberto Murialdo, cofondatore del collegio degli Artigianelli e dell’Associazione di carità; infine uomini esperti come un ingegnere, un orefice stimatore, un negoziante all’ingrosso ecc. Tutte persone, per lo più possidenti, conosciute da don Bosco e “vicine” all’opera di Valdocco.
            Completata la Commissione, ad inizio dicembre 1851 don Bosco inoltrò la domanda formale all’Intendente generale di Finanza, cavalier Alessandro Pernati di Momo (futuro senatore e ministro dell’Interno del Regno) nonché “amico” dell’opera di Valdocco.

L’appello per i doni
            Alla richiesta di autorizzazione allegò un’interessantissima circolare, in cui, dopo aver tracciato una commovente storia dell’Oratorio – apprezzato dalla famiglia reale, dalle autorità di governo, dalle autorità municipali – indicava che le continue necessità di ampiamento dell’Opera di Valdocco per accogliere sempre più giovani consumavano le risorse economiche della beneficenza privata. Perciò al fine di pagare le spese del completamento della nuova cappella in costruzione, si era presa la decisione di far appello alla pubblica carità mediante una lotteria di doni da offrire spontaneamente: “Consiste questo mezzo in una lotteria d’oggetti, che i sottoscritti vennero in pensiero d’intraprendere per sopperire alle spese di ultimazione della nuova cappella, ed a cui la signoria vostra vorrà, non vi ha dubbio, prestare il suo concorso, riflettendo all’eccellenza dell’opera cui è diretta. Qualunque oggetto piaccia alla signoria vostra offrire o di seta, o di lana, o di metallo, o di legno, ossia lavoro di riputato artista, o di modesto operaio, o di laborioso artigiano, o di caritatevole gentildonna, tutto sarà accettato con gratitudine, perché in fatto di beneficenza ogni piccolo aiuto è gran cosa, e perché le offerte anche tenui di molti insieme riunite possono bastare a compir l’opera desiderata”.
            Nella circolare indicò pure i nomi dei promotori e promotrici, cui si potevano consegnare i doni e delle persone di fiducia che li avrebbero poi raccolti e custoditi. Fra i 46 promotori figuravano varie categorie di persone: professionisti, professori, impresari, studenti, chierici, negozianti, mercanti, sacerdoti; diversamente fra la novantina di promotrici sembra prevalessero le nobildonne (baronessa, marchesa, contessa e relative damigelle).
            Non mancò di allegare alla domanda pure il “piano della lotteria” in tutti i suoi molteplici aspetti formali: raccolta degli oggetti, ricevuta di consegna degli stessi, loro valutazione, biglietti autenticati da smerciare in numero proporzionato al numero e valore degli oggetti, loro esposizione al pubblico, estrazione dei vincitori, pubblicazione dei numeri estratti, tempi di ritiro dei premi ecc. Una serie di impegnativi adempimenti cui don Bosco non si sottrasse. Per i suoi giovani non bastava più la cappella Pinardi: ci voleva una chiesa più grande, quella, progettata, di san Francesco di Sales (una dozzina di anni dopo ce ne sarebbe voluta un’altra ancora più grande, quella di Maria Ausiliatrice!).

Risposta positiva
            Vista la serietà dell’iniziativa e l’alta “qualità” dei membri della Commissione proponente, la risposta dell’Intendenza non poté che essere positiva ed immediata. Il 17 dicembre il suddetto vicesindaco Pietro Baricco trasmise a don Bosco il relativo decreto, con l’invito a trasmettere sempre in copia i futuri atti formali della lotteria all’Amministrazione comunale, responsabile delle regolarità di tutti gli adempimenti di legge. A questo punto prima di Natale don Bosco mandò alle stampe la suddetta circolare, la diffuse ed incominciò a raccogliere doni.
            Gli erano stati concessi due mesi di tempo al riguardo, in quanto durante l’anno avevano luogo anche altre lotterie. I doni arrivavano però lentamente, per cui a metà gennaio don Bosco si vide costretto a ristampare la predetta circolare e chiese la collaborazione a tutti i giovani di Valdocco ed agli amici per scrivere indirizzi, fare visita a benefattori conosciuti, propagandare l’iniziativa, raccogliere i doni.
            Ma “il bello” doveva ancora venire.

Il salone espositivo
            Valdocco non aveva spazi per l’esposizione dei doni, per cui don Bosco domandò al vicesindaco Baricco, tesoriere della commissione per la lotteria, di chiedere al Ministero della guerra, tre stanze di quella parte del Convento di san Domenico che era a disposizione dell’esercito. I padri domenicani erano d’accordo. Il ministro Alfonso Lamarmora in data 16 gennaio le concesse. Ma ben presto don Bosco si rese conto che non sarebbero state sufficientemente ampie, per cui fece chiedere al re, tramite l’elemosiniere, abate Stanislao Gazzelli, un locale più grande. Dal sovraintendente reale Pamparà gli venne risposto che il re non disponeva di locale adatto e proponeva di affittare a sue spese il locale del gioco del Trincotto (o pallacorda: una sorta di tennis a mano ante litteram). Questo locale però sarebbe stato disponibile per il solo mese di marzo e a certe condizioni. Don Bosco rifiutò la proposta ma accettò le 200 lire offerte dal re per il fitto del locale. Messosi allora alla ricerca di altro salone, ne trovò uno adatto su indicazione del municipio cittadino, dietro la chiesa di S. Domenico, a poche centinaia di metri da Valdocco.

Arrivo dei doni
            Nel frattempo don Bosco aveva chiesto al ministro delle Finanze, il famoso conte Camillo Cavour, una riduzione o l’esenzione delle spese di spedizione delle lettere circolari, dei biglietti e degli stessi doni. Tramite il fratello del conte, il religiosissimo marchese Gustavo di Cavour, ricevette il consenso per varie riduzioni postali.
            Si trattava ora di trovare un perito per la valutazione dell’ammontare dei doni e il conseguente numero dei biglietti da smerciare. Don Bosco lo chiese all’Intendente suggerendone anche il nome: un orefice membro della Commissione. L’Intendente, invece, tramite il sindaco gli rispose chiedendogli una doppia copia descrittiva dei doni arrivati onde nominare un proprio perito. Don Bosco eseguì subito la richiesta e così il 19 febbraio il perito valutò in 4124,20 lire i 700 oggetti raccolti. Dopo tre mesi si arrivò a 1000 doni, dopo quattro a 2000, sino alla conclusione di 3251 doni, grazie al continuo “questuare di don Bosco” presso singoli, sacerdoti e vescovi e alle sue ripetute richieste formali al Comune di proroga del tempo per l’estrazione. Don Bosco non mancò neppure di criticare la stima fatta dal perito comunale dei doni che continuamente arrivavano, a suo dire, inferiore all’effettivo loro valore; ed in effetti vennero aggiunti altri estimatori, soprattutto un pittore per le opere d’arte.
            La cifra finale fu tale che don Bosco fu autorizzato ad emettere 99 999 biglietti al prezzo di 50 centesimi l’uno. Al catalogo già stampato con i doni numerati con nome del donatore e dei promotori e promotrici si aggiunse un supplemento con gli ultimi doni arrivati. Fra loro quelli del papa, del re, della regina madre, della regina consorte, deputati, senatori, autorità municipali ma anche tantissime persone umili, soprattutto donne che offrirono oggetti e suppellettili per la casa, anche di poco valore (bicchiere, calamaio, candela, caraffa, cavatappi, cuffia, ditale, forbici, lampada, metro, pipa, portachiavi, saponetta, temperino, zuccheriera). Il dono più offerto furono i libri, ben 629 e i quadri-quadretti, 265. Pure i ragazzi di Valdocco andarono a gara ad offrire il loro piccolo dono, magari un libretto regalato loro da don Bosco stesso.

Un lavoro immane fino all’estrazione dei numeri
            A questo punto bisognava stampare i biglietti in serie progressiva in duplice forma (piccola matrice e biglietto), farli firmare entrambi da due membri della commissione, spedire il biglietto tenendone nota, documentare il denaro incassato… A molti benefattori si inviavano decine di biglietti, con l’invito a tenerli o a smerciarli presso amici e conoscenti.
            La data dell’estrazione, inizialmente fissata per il 30 aprile, fu rinviata al 31 maggio e quindi al 30 giugno, per effettuarlo poi a metà luglio. Quest’ultima proroga fu dovuta allo scoppio della polveriera di Borgo Dora che devastò l’area di Valdocco.
            Per due pomeriggi, 12-13 luglio 1852, sul balcone del palazzo municipale si procedette all’estrazione dei biglietti. Quattro urne a ruota di diverso colore contenevano 10 pallottole (da 0 a 9) identiche e dello stesso colore della ruota. Inserite ad una ad una dal vicesindaco nelle urne, e fatte girare, otto giovani dell’Oratorio compivano l’operazione ed il numero estratto veniva proclamato ad alta voce e poi pubblicato sulla stampa. Molti doni furono lasciati all’Oratorio, dove furono successivamente riutilizzati.

Valeva la pena?
            Per i circa 74 mila biglietti venduti, tolte le spese, a don Bosco restarono circa 26.000 lire, che poi provvide a suddividere equamente con l’attigua opera Cottolengo. Un piccolo capitale certo (la metà del prezzo di acquisto della casetta Pinardi l’anno precedente), ma il risultato più grande del lavoro massacrante cui si sottopose per effettuare la lotteria – documentata da decine di lettere spesso inedite – è stato il diretto e sentito coinvolgimento di migliaia di persone di ogni classe sociale nel suo “incipiente progetto Valdocco”: nel farlo conoscere, apprezzare e poi sostenere economicamente, socialmente, politicamente.
            Don Bosco ricorrerà molte volte alle lotterie e sempre con il duplice scopo: raccogliere fondi per le sue opere per i ragazzi poveri, per le missioni e offrire modalità a credenti (e non credenti) di praticare la carità, il mezzo più efficace, come ripeteva continuamente, per “ottenere il perdono dei peccati e assicurarsi la vita eterna”.

«Ho sempre avuto bisogno di tutti» Don Bosco

Al senatore Giuseppe Cotta

Giuseppe Cotta, banchiere, fu grande benefattore di don Bosco. In archivio si conserva la seguente dichiarazione su carta da bollo in data 5 Febbraio 1849: “I sottoscritti sacerdoti T. Borrelli Gioanni di Torino e D. Bosco Gio’ di Castelnuovo d’Asti si dichiarano debitori di franchi tre mila verso l’ill.mo Cavaliere Cotta che ne fece imprestito ai medesimi per un’opera pia. Questa somma dovrà essere dai medesimi sottoscritti restituita fra un anno cogli interessi legali”. Firmato Sacerdote Giovanni Borel, D. Bosco Gio.

In calce allo stesso foglio e nella stessa data p. Cafasso Giuseppe scrive: “Il sottoscritto rende distinte grazie all’Ill. mo Sig. Cav. Cotta per quanto sopra e nello stesso tempo si rende fideiussore verso il medesimo della somma nominata”. A fondo pagina il Cotta sottoscrive di aver ricevuto lire 2.000 il 10 aprile 1849, altre 500 lire il 21 luglio 1849 e il saldo il 4 gennaio 1851.




L’oratorio festivo di Valdocco

Nel 1935, a seguito della canonizzazione di don Bosco nel 1934, i salesiani si premurarono di raccogliere testimonianze su di lui. Un certo Pietro Pons, che fanciullo aveva frequentato l’oratorio festivo di Valdocco per una decina di anni (dal 1871 al 1882), e che pure aveva frequentato due anni di scuole elementari (con le aule sotto la basilica di Maria Ausiliatrice) l’8 novembre rilasciò una bella testimonianza di quegli anni. Ne stralciamo alcuni passi, quasi tutti inediti.

La figura di don Bosco
Era il centro di attrazione di tutto l’Oratorio. Così lo ricorda il nostro antico oratoriano Pietro Pons sul finire degli anni settanta: “Non aveva più vigore, ma era sempre pacato e sorridente. Aveva due occhi, che foravano, e penetravano nella mente. Compariva tra di noi: era una gioia per tutti. D. Rua, D. Lazzero gli stavano ai fianchi come se avessero in mezzo a loro il Signore. D. Barberis e tutti i ragazzi gli correvano incontro, lo circondavano, chi camminando sui fianchi, chi dietro per aver la faccia rivolta a lui. Era una fortuna, un ambito privilegio il poter stargli vicino, il parlare con lui. Egli passeggiava adagio parlando, e guardando tutti con quei due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzavano di gioia i cuori”.
Fra gli episodi rimasti impressi nella mente a 60 anni di distanza ne ricorda due in particolare: “Un giorno… compare soletto dalla porta d’ingresso presso il santuario. Allora uno stuolo di ragazzi piglia la corsa per investirlo come una folata di vento. Ma egli tiene in mano l’ombrello, che ha il manico ed il fusto grosso come quello dei contadini. Lo alza e servendosene come una spada si destreggia a respingere quell’affettuoso assalto ora a destra ora a sinistra per aprirsi il passo. Tocca uno colla punta, un altro di fianco, ma intanto s’accostano gli altri dall’altra parte. Così il gioco, lo scherzo continua portando la gioia nei cuori, desiderosi di vedere il buon Padre ritornare dal suo viaggio. Sembrava un parroco di paese, ma di quelli alla buona”.

I giochi e il teatrino
Un oratorio salesiano senza gioco è impensabile. Ricorda l’anziano exallievo: “il cortile era occupato da un fabbricato, dalla chiesa di Maria A. e al termine di un muretto… appoggiava all’angolo a sinistra una specie di capanna, presso cui c’era sempre qualcuno a controllare chi entrava… Appena entrato a destra c’era l’altalena con un posto solo, le parallele poi e la sbarra fissa per i più grandicelli, che si divertivano a fare le loro giravolte e capriole, ed anche il trapezio, ed il passo volante unico, che si trovavano però presso le sacrestie oltre la cappella di S. Giuseppe”. Ed ancora: “Questo cortile era di una bella lunghezza e si prestava assai bene a fare le corse di velocità partendo dal lato della chiesa e tornando ivi al ritorno. Si giocava pure a bara rotta, alle corse dei sacchi, alle pignatte. Questi ultimi giochi erano annunziati fin dalla domenica precedente. Così pure la cuccagna; ma l’albero si piantava con la parte sottile in basso perché fosse più difficile l’ascendere. C’erano delle lotterie, ed il biglietto si pagava un soldo o due. Dentro alla casetta c’era una piccola biblioteca contenuta in un armadietto”.

Al gioco si univa il famoso “teatrino” su cui si svolgevano autentici drammi come “il figlio del Crociato”, si cantavano le romanze di don Cagliero e si presentavano “musical” come il Ciabattino personificato dal mitico Carlo Gastini [brillantissimo animatore degli exallievi]. La recita, presenti gratuitamente i genitori, si teneva nel salone sotto la navata centrale della chiesa di Maria A., ma il vecchio ex oratorio ricorda anche che “una volta si recitò presso la casa Moretta [attuale chiesa parrocchiale presso la piazza]. Ivi abitava della povera gente nella più squallida miseria. Nelle cantine che si vedono sotto il poggiolo c’era una povera madre, che sul mezzogiorno portava sulle spalle il suo Carlo, che per un morbo aveva il corpo rigido, a pigliare il sole”.

Le funzioni religiose e le riunioni formative
All’oratorio festivo non mancavano le funzioni religiose della domenica mattina: santa Messa con santa comunione, preghiere del buon cristiano; seguiva al pomeriggio la ricreazione, il catechismo, la predica di don Giulio Barberis. Ormai anziano “D. Bosco non veniva mai a dir messa o a far la predica, ma solo per visitare e trattenersi coi ragazzi durante la ricreazione… I catechisti e assistenti avevano con sé in chiesa durante le funzioni i loro allievi a cui insegnavano il catechismo. La dottrina piccola era regalata a tutti. Si esigeva la lezione a memoria ogni festa e poi anche la spiegazione”. Le feste solenni si concludevano con una processione e una merenda per tutti: “uscendo di chiesa dopo la messa c’era la colazione. Un giovane a destra fuori della porta dava la pagnotta, un altro a sinistra con una forchetta vi metteva sopra due fette di salame”. Si accontentavano di poco quei ragazzi, ma erano contentissimi. Quando poi i ragazzi interni si univano agli oratoriani per il canto dei vespri si potevano udire le loro voci in via Milano e in via Corte d’appello!
All’oratorio festivo si tenevano anche riunioni di gruppi formativi. Nella casetta presso la chiesetta di S. Francesco vi era “una stanza piccola e bassa che poteva contenere circa una ventina di persone…Nella stanza c’era un tavolinetto per il conferenziere, c’erano le panche per le adunanze e conferenze dei più grandi in genere, e della Compagnia di S. Luigi, quasi tutte le domeniche”.

Chi erano gli oratoriani?
Dei suoi circa 200 compagni – ma il loro numero diminuiva in inverno per il ritorno in famiglia degli stagionali – il nostro arzillo vecchietto ricordava che molti erano biellesi “quasi tutti ‘ bic’, portavano cioè la secchia di legno piena di calce e il cesto di vimini pieno di mattoni ai muratori delle costruzioni”. Altri erano “apprendisti muratori, meccanici, lattonieri”. Poveri garzoni: lavoravano da mattina a sera tutti i giorni e solo la domenica si potevano permettere un po’ di svago “da don Bosco” (come veniva definito il suo oratorio): “Si giocava all’Asino vola, sotto la direzione dell’allora sig. Milanesio [futuro sacerdote grande missionario in Patagonia.]. Il sig. Ponzano, poi sacerdote, era maestro di ginnastica. Egli ci faceva fare esercizi a corpo libero, coi bastoni, agli attrezzi”.
I ricordi di Pietro Pons sono molto più ampi, tanto ricchi di suggestioni lontane, quanto pervasi da un’ombra di nostalgia; attendono di essere conosciuti per intero. Speriamo di farlo presto.




Il titolo di Basilica al tempio del Sacro Cuore di Roma

Nel centenario della morte di don Paolo Albera si è messo in luce come il secondo successore di don Bosco abbia realizzato quello che si potrebbe definire un sogno di don Bosco. Difatti trentaquattro anni dopo la consacrazione del tempio del S. Cuore di Roma, avvenuta presente l’ormai esausto don Bosco (maggio 1887), papa Benedetto XVI – il papa della famosa ed inascoltata definizione della prima guerra mondiale come “inutile strage” – conferì alla chiesa il titolo di Basilica Minore (11 febbraio 1921). Per la sua costruzione don Bosco aveva “dato l’anima” (e anche il corpo!) negli ultimi sette anni di vita. Aveva per altro fatto lo stesso un ventennio precedente (1865-1868) con la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice a Torino-Valdocco, prima chiesa salesiana elevata alla dignità di basilica minore il 28 giugno 1911, presente il neo rettor Maggiore don Paolo Albera.

Il ritrovamento della supplica
Ma come si è arrivati a questo risultato? Chi ne è stato all’origine? Ora lo sappiamo con certezza grazie al recente ritrovamento della minuta dattiloscritta della richiesta di tale titolo da parte del Rettor Maggiore don Paolo Albera. È inserita in un fascicoletto commemorativo del 25° del Sacro Cuore curato nel 1905 dall’allora direttore don Francesco Tomasetti (1868-1953). Il dattiloscritto, datato 17 gennaio 1921, ha minime correzioni del Rettor Maggiore ma, ciò che è importante, porta la sua firma autografa.
Dopo aver descritto l’operato di don Bosco e l’attività incessante della parrocchia, desunte probabilmente dal vecchio fascicolo, don Albera si rivolge al Papa in questi termini:

Mentre la divozione al Sacro Cuore di Gesù va ognor più crescendo ed estendendosi in tutto il mondo, e sempre nuovi Templi vanno dedicandosi al Divin Cuore, anche per nobile iniziativa dei Salesiani, come a S. Paolo nel Brasile, a La Plata nell’Argentina, a Londra, a Barcellona e altrove, pare che il primario Tempio-Santuario dedicato al S. Cuore di Gesù in Roma, ove così importante divozione ha un’affermazione tanto degna dell’Eterna Città, meriti una speciale distinzione. Il sottoscritto pertanto, udito il parere del Consiglio Superiore della Pia Società Salesiana, supplica umilmente la Santità Vostra a volersi degnare di accordare al Tempio Santuario del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio in Roma il Titolo e i Privilegi di Basilica Minore, ripromettendosi da tale onorifica elevazione accrescimento di devozione, di pietà e di ogni attività cattolicamente benefica”.

La supplica, in bella copia, a firma di don Albera, venne inviata con ogni probabilità dal procuratore don Francesco Tomasetti alla Sacra Congregazione dei Brevi, che la accolse con favore. Stese in tempi rapidi la minuta del Breve Apostolico da conservare negli Archivi vaticani, la fece trascrivere dagli esperti calligrafi su ricca pergamena e la passò alla Segreteria di Stato per la firma del titolare del momento, cardinal Pietro Gasparri.
Oggi i fedeli possono ammirare ben incorniciato nella sacrestia della Basilica tale originale della concessione del titolo richiesto (v. foto).
Non si può che essere riconoscenti alla dott.ssa Patrizia Buccino, cultrice di archeologia e storia, e allo storico salesiano don Giorgio Rossi, che ne hanno divulgato la notizia. A loro il compito di portare a termine l’indagine avviata ricercando negli Archivi Vaticani l’intero carteggio, da far conoscere anche al mondo scientifico attraverso la nota rivista di storia salesiana “Ricerche Storiche Salesiane”.

Sacro Cuore: una basilica nazionale a raggio internazionale
Ventisei anni prima, il 16 luglio 1885, su richiesta di don Bosco e con il consenso esplicito di papa Leone XIII, monsignor Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino, aveva calorosamente sollecitato gli Italiani a partecipare alla riuscita della “nobile e santa proposta [del nuovo tempio] chiamandola voto nazionale degli Italiani”.
Ebbene, don Albera nella sua richiesta al pontefice, dopo aver ricordato il pressante appello del cardinal Alimonda, ricordava che a tutte le nazioni del mondo era stato chiesto di contribuire economicamente alla costruzione, decorazione del tempio e opere annesse (compreso l’immancabile oratorio salesiano con tanto di ospizio!) cosicché il Tempio-Santuario, oltreché voto nazionale, era divenuto “manifestazione mondiale o internazionale della devozione al S. Cuore”.
Al proposito, in uno scritto storico-ascetico edito in occasione del 1° Centenario della Consacrazione della Basilica (1987) lo studioso Armando Pedrini lo definiva: “Tempio dunque internazionale per la cattolicità e universalità del suo messaggio a tutte le genti”, anche in considerazione della “posizione di primissimo piano” della Basilica attigua alla riconosciuta internazionalità della stazione ferroviaria.
Roma-Termini non è dunque solo una grande stazione ferroviaria con problemi di ordine pubblico e un territorio difficile da gestire, di cui sovente si parla sui giornali e come per altro le stazioni ferroviarie di moltissime capitali europee. Ma è anche la sede della Basilica del Sacro Cuore di Gesù. E se alla sera e alla notte la zona non trasmette sicurezza ai turisti, di giorno la Basilica distribuisce pace e serenità ai fedeli che vi entrano, vi sostano in preghiera, vi ricevono i sacramenti.
Se lo ricorderanno i pellegrini che passeranno dallo scalo ferroviario di Termini nell’ormai non lontano anno santo (2025)? Basta che attraversino una strada… e il Sacro Cuore di Gesù li aspetta.

PS. In Roma esiste una seconda basilica parrocchiale salesiana, più grande e artisticamente più ricca di quella del Sacro Cuore: è quella di San Giovanni Bosco al Tuscolano, diventata tale nel 1965, a pochi anni della sua inaugurazione (1959). Dove si trova? “Ovviamente” nel Quartiere Don Bosco (a due passi dai celebri studi di Cinecittà). Se la statua sul campanile della basilica del Sacro Cuore domina la piazza della stazione Termini, la cupola della basilica di don Bosco, di poco inferiore a quella di San Pietro, la guarda però frontalmente, sia pure da due punti estremi della capitale. E siccome non c’è il due senza il tre, a Roma vi una terza splendida basilica parrocchiale salesiana: quella di Santa Maria Ausiliatrice, al quartiere Appio-Tuscolano, accanto al grande Istituto Pio XI.

Lettera apostolica intitolata Pia Societas, datata 11 febbraio 2021, con la quale, Sua Santità Benedetto XV ha elevato la chiesa del Sacro Cuore di Gesù al rango di Basilica.

Ecclesia parochialis SS.mi Cordis Iesu ad Castrum Praetorium in urbe titulo et privilegiis Basilicae Minoris decoratur.
Benedictus pp. XV

            Ad perpetuam rei memoriam.
            Pia Societas sancti Francisci Salesii, a venerabili Servo Dei Ioanne Bosco iam Augustae Taurinorum condita atque hodie per dissitas quoque orbis regiones diffusa, omnibus plane cognitum est quanta sibi merita comparaverit non modo incumbendo actuose sollerterque in puerorum, orbitate laborantium, religiosam honestamque institutionem, verum etiam in rei catholicae profectum tum apud christianum populum, tum apud infideles in longinquis et asperrimis Missionibus. Eiusdem Societatis sodalibus est quoque in hac Alma Urbe Nostra ecclesia paroecialis Sacratissimo Cordi Iesu dicata, in qua, etsi non abhinc multos annos condita, eximii praesertim Praedecessoris Nostri Leonis PP. XIII iussu atque auspiciis, christifideles urbani, eorumdem Sodalium opera, adeo ad Dei cultum et virtutum laudem exercentur, ut ea vel cum antiquioribus paroeciis in honoris ac meritorum contentionem veniat. Ipsemet Salesianorum Sodalium fundator, venerabilis Ioannes Bosco, in nova Urbis regione, aere saluberrimo populoque confertissima, quae ad Gastrum Praetorium exstat, exaedificationem inchoavit istius templi, et, quasi illud erigeret ex gentis italicae voto et pietatis testimonio erga Sacratissimum Cor Iesu, stipem praecipue ex Italiae christifidelibus studiose conlegit; verumtamen pii homines ex ceteris nationibus non defuerunt, qui, in exstruendum perficiendumque templum istud, erga Ssmum Cor Iesu amore incensi, largam pecuniae vim contulerint. Anno autem MDCCCLXXXVII sacra ipsa aedes, secundum speciosam formam a Virginio Vespignani architecto delineatam, tandem perfecta ac sollemniter consecrata dedicataque est. Eamdem vero postea, magna cum sollertia, Sodales Salesianos non modo variis altaribus, imaginibus affabre depictis et statuis, omnique sacro cultui necessaria supellectili exornasse, verum etiam continentibus aedificiis iuventuti, ut tempora nostra postulant, rite instituendae ditasse, iure ac merito Praedecessores Nostri sunt” laetati, et Nos haud minore animi voluptate probamus. Quapropter cum dilectus filius Paulus Albera, hodiernus Piae Societatis sancti Francisci Salesii rector maior, nomine proprio ac religiosorum virorum quibus praeest, quo memorati templi Ssmi Cordi Iesu dicati maxime augeatur decus, eiusdem urbanae paroeciae fidelium fides et pietas foveatur, Nos supplex rogaverit, ut eidem templo dignitatem, titulum et privilegia Basilicae Minoris pro Nostra benignitate impertiri dignemur; Nos, ut magis magisque stimulos fidelibus ipsius paroeciae atque Urbis totius Nostrae ad Sacratissimum Cor Iesu impensius colendum atque adamandum addamus, nec non benevolentiam, qua Sodales Salesianos ob merita sua prosequimur, publice significemus, votis hisce piis annuendum ultro libenterque censemus. Quam ob rem, conlatis consiliis cum VV. FF. NN. S. R. E. Cardinalibus Congregationi Ss. Rituum praepositis, Motu proprio ac de certa scientia et matura deliberatione Nostris, deque apostolicae potestatis plenitudine, praesentium Litterarum tenore perpetuumque in modum, enunciatum templum Sacratissimo Cordi Iesu dicatum, in hac alma Urbe Nostra atque ad Castrum Praetorium situm, dignitate ac titulo Basilicae Minoris honestamus, cum omnibus et singulis honoribus, praerogativis, privilegiis, indultis quae aliis Minoribus Almae huius Urbis Basilicis de iure competunt. Decernentes praesentes Litteras firmas, validas atque efficaces semper exstare ac permanere, suosque integros effectus sortiri iugiter et obtinere, illisque ad quos pertinent nunc et in posterum plenissime suffragari; sicque rite iudicandum esse ac definiendum, irritumque ex nunc et inane fieri, si quidquam secus super his, a quovis, auctoritate qualibet, scienter sive ignoranter attentari contigerit. Non obstantibus contrariis quibuslibet.

            Datum Romae apud sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XI februarii MCMXXI, Pontificatus Nostri anno septimo.
P. CARD. GASPARRI, a Secretis Status.

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La chiesa parrocchiale del Santissimo Cuore di Gesù a Castro Pretorio in città è insignita del titolo e dei privilegi di Basilica Minore.
Benedetto PP. XV

A perpetua memoria.
La Pia Società di San Francesco di Sales, già fondata a Torino dal venerabile Servo di Dio Giovanni Bosco e oggi diffusa anche in regioni lontane del mondo, ha acquisito meriti notevoli non solo dedicandosi attivamente e diligentemente all’educazione religiosa e onesta dei fanciulli orfani, ma anche al progresso della causa cattolica sia tra il popolo cristiano, sia tra gli infedeli nelle Missioni lontane e difficilissime. I membri della stessa Società hanno anche in questa Nostra Alma Urbe una chiesa parrocchiale dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, nella quale, sebbene fondata non molti anni fa, per ordine e sotto gli auspici soprattutto del Nostro esimio Predecessore Leone PP. XIII, i fedeli urbani, con l’opera degli stessi Salesiani, sono così esercitati al culto di Dio e alla lode delle virtù, che essa gareggia in onore e meriti anche con le parrocchie più antiche. Lo stesso fondatore dei Salesiani, il venerabile Giovanni Bosco, in una nuova regione dell’Urbe, con aria saluberrima e popolosissima, che si trova a Castro Pretorio, iniziò la costruzione di quel tempio, e, quasi volesse erigerlo per voto della nazione italiana e testimonianza di pietà verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, raccolse con zelo elemosine soprattutto dai fedeli d’Italia; tuttavia non mancarono uomini pii di altre nazioni che, spinti dall’amore verso il Sacratissimo Cuore di Gesù, contribuirono con ingenti somme di denaro alla costruzione e al completamento di quel tempio. Nell’anno 1887, la stessa sacra costruzione, secondo la splendida forma disegnata dall’architetto Virginio Vespignani, fu finalmente completata e solennemente consacrata e dedicata. I Salesiani, con grande diligenza, non solo l’hanno poi adornata con vari altari, immagini finemente dipinte e statue, e con tutti gli arredi necessari al sacro culto, ma l’hanno anche arricchita con edifici contigui per l’istruzione della gioventù, come richiedono i nostri tempi, e a buon diritto i Nostri Predecessori si sono rallegrati, e Noi non con minore piacere approviamo. Perciò, poiché il diletto figlio Paolo Albera, attuale rettore maggiore della Pia Società di San Francesco di Sales, a nome proprio e dei religiosi che presiede, affinché sia massimamente accresciuto il decoro del menzionato tempio dedicato al Santissimo Cuore di Gesù, e sia favorita la fede e la pietà dei fedeli di quella parrocchia urbana, Ci ha supplicato di degnarci di impartire a quel tempio la dignità, il titolo e i privilegi di Basilica Minore per Nostra benignità; Noi, per aggiungere sempre più stimoli ai fedeli di quella parrocchia e di tutta la Nostra Urbe a coltivare e amare più intensamente il Sacratissimo Cuore di Gesù, e per manifestare pubblicamente la benevolenza con cui seguiamo i Salesiani per i loro meriti, riteniamo di dover accogliere volentieri e spontaneamente questi pii voti. Per tale motivo, consultati i Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti alla Congregazione dei Sacri Riti, di Nostro Motu proprio e con certa scienza e matura deliberazione Nostra, e dalla pienezza della potestà apostolica, con il tenore delle presenti Lettere e in perpetuo, onoriamo il suddetto tempio dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, situato in questa Nostra Alma Urbe e a Castro Pretorio, con la dignità e il titolo di Basilica Minore, con tutti e singoli gli onori, le prerogative, i privilegi, gli indulti che spettano di diritto alle altre Basiliche Minori di questa Alma Urbe. Decretando che le presenti Lettere siano e rimangano sempre ferme, valide ed efficaci, e che ottengano e conservino sempre i loro pieni effetti, e che siano pienamente a favore di coloro a cui si riferiscono ora e in futuro; e che così si debba giustamente giudicare e definire, e che sia nullo e invalido fin d’ora, se qualcosa di diverso su queste cose, da chiunque, con qualsiasi autorità, scientemente o ignorantemente, dovesse essere tentato. Nonostante qualsiasi cosa contraria.

Dato a Roma presso San Pietro sotto l’anello del Pescatore, l’11 febbraio 1921, settimo anno del Nostro Pontificato.
P. CARD. GASPARRI, Segretario di Stato.




Patagonia: “La più grande impresa della nostra Congregazione

Appena giunti in Patagonia, i Salesiani – guidati da Don Bosco – puntarono a ottenere un Vicariato apostolico che garantisse autonomia pastorale e sostegno di Propaganda Fide. Tra il 1880 e il 1882 ripetute richieste a Roma, al presidente argentino Roca e all’arcivescovo di Buenos Aires si infransero contro disordini politici e diffidenze ecclesiastiche. Missionari come Rizzo, Fagnano, Costamagna e Beauvoir percorrevano il Río Negro, il Colorado e fino al lago Nahuel-Huapi, fondando presenze tra indios e coloni. La svolta giunse il 16 novembre 1883: un decreto eresse il Vicariato della Patagonia settentrionale, affidato a mons. Giovanni Cagliero, e la Prefettura meridionale, guidata da mons. Giuseppe Fagnano. Da quel momento l’opera salesiana si radicò «alla fine del mondo», preparandone la futura fioritura.

            Erano appena arrivati i Salesiani in Patagonia, che don Bosco il 22 marzo 1880 tornò nuovamente alla carica presso varie Congregazioni Romane e lo stesso papa Leone XIII
per l’erezione di Vicariato o Prefettura della Patagonia con sede a Carmen, che abbracciasse le colonie già costituite o che si sarebbero andate organizzando sulle sponde del Río Negro, dal 36° al 50° grado di latitudine Sud. Carmen sarebbe potuta divenire “il centro delle Missioni Salesiane fra gli Indi”.
            Ma i disordini militari al momento dell’elezione del generale Roca a Presidente della Repubblica (maggio-agosto 1880) e la morte dell’ispettore salesiano don Francesco Bodrato (agosto 1880) fecero sospendere le pratiche. Don Bosco insistette anche presso il Presidente in novembre, ma senza risultati. Il Vicariato non era voluto né dall’arcivescovo né era gradito all’autorità politica.
            Pochi mesi dopo, nel gennaio 1881 don Bosco incoraggiava il neoispettore don Giacomo Costamagna a darsi da fare per il Vicariato in Patagonia ed assicurava il direttore-parroco don Fagnano che a proposito della Patagonia – “la più grande impresa della nostra Congregazione” – una grande responsabilità sarebbe presto ricaduta su di lui. Ma si rimaneva nell’impasse.
            Intanto in Patagonia don Emilio Rizzo, che aveva accompagnato nel 1880 il vicario di Buenos Aires monsignor Espinosa lungo il Río Negro fino a Roca (50 km), con altri salesiani si apprestava ad ulteriori missioni volanti lungo lo stesso fiume. Don Fagnano poi nel 1881 poté accompagnare l’esercito fino alla Cordigliera. Don Bosco, impaziente, fremeva e don Costamagna ancora nel novembre 1881 lo consigliò di trattare direttamente con Roma.
            Fortuna volle che a fine 1881 venisse in Italia monsignor Espinosa; don Bosco ne approfittò per informare suo tramite l’arcivescovo di Buenos Aires, che nell’aprile del 1882 sembrò favorevole al progetto di un Vicariato affidato ai Salesiani. Più che altro forse per l’impossibilità di attendervi con il suo clero. Ma ancora una volta non se ne fece nulla.           Nell’estate 1882 e poi ancora nel 1883 don Beauvoir accompagnò l’esercito fino al lago Nahuel-Huapi sulle Ande (880 km); altrettante escursioni apostoliche avevano fatto altri salesiani in aprile lungo il Río Colorado, mentre don Beauvoir ritornava a Roca e in agosto don Milanesio si inoltrava fino a Ñorquín nel Neuquén (900 km).
            Don Bosco era sempre più convinto che senza un proprio Vicariato apostolico i Salesiani non avrebbero goduto della necessaria libertà di azione, visti i difficilissimi rapporti che aveva avuto lui con il suo arcivescovo di Torino e tenuto pure conto che lo stesso Concilio Vaticano I non aveva deciso nulla circa i non facili rapporti fra Ordinari e superiori di Congregazioni religiose nei territori di missione. Inoltre, cosa non di poco conto, solo un Vicariato missionario avrebbe potuto avere il sostegno finanziario dalla Congregazione di Propaganda Fide.
            Pertanto don Bosco riprese i suoi sforzi, avanzando alla Santa Sede la proposta di suddivisione amministrativa della Patagonia e Terra del Fuoco in tre Vicariati o Prefetture: dal Río Colorado al Río Chubut, da questi al Río Santa Cruz, e da questi alle isole della Terra del Fuoco, Malvine (Falkland) comprese.
            Papa Leone XIII alcuni mesi dopo acconsentì e gli fece chiedere i nominativi. Don Bosco allora suggerì al cardinale Simeoni l’erezione di un solo Vicariato per la Patagonia settentrionale con sede a Carmen, dal quale dipendesse una Prefettura apostolica per la Patagonia meridionale. Per quest’ultima proponeva don Fagnano; per il Vicariato don Cagliero o don Costamagna.

Un sogno che si avvera
            Il 16 novembre 1883 un decreto di Propaganda Fide eresse il Vicario apostolico della Patagonia settentrionale e centrale, che comprendeva il sud della provincia di Buenos Aires, i territori nazionali di La Pampa centrale, il Río Negro, il Neuquén e il Chubut. Quattro giorni dopo lo affidò a don Cagliero come Provicario apostolico (e successivamente Vicario apostolico). Il 2 dicembre 1883 fu la volta del Fagnano ad essere nominato Prefetto apostolico della Patagonia cilena, del territorio cileno di Magallanes-Punta Arenas, del territorio argentino di Santa Cruz, delle isole Malvinas e delle non meglio definite isole che si estendevano fino allo stretto di Magellano. Ecclesiasticamente la Prefettura copriva aree appartenenti alla diocesi cilena di San Carlos de Ancud.
            Il sogno del famoso viaggio in treno da Cartagena in Colombia a Punta Arenas in Cile del 10 agosto 1883 iniziava così a realizzarsi, tanto più che alcuni Salesiani da Montevideo in Uruguay all’inizio del 1883 erano arrivati a fondare la casa di Niteroi in Brasile. Il lungo processo di poter gestire una missione in piena libertà canonica era arrivato a conclusione. Nell’ottobre del 1884 don Cagliero sarebbe stato insignito della nomina di Vicario apostolico della Patagonia, là dove avrebbe fatto la sua entrata l’8 luglio successivo, sette mesi dopo la sua consacrazione episcopale avvenuta a Valdocco il 7 dicembre 1884.

Il seguito
            Sia pure in mezzo a difficoltà di ogni genere che la storia ricorda – comprese accuse e vere calunnie – l’opera salesiana da quei timidi inizi si dispiegò rapidamente sia nella Patagonia Argentina sia in quella cilena. Si radicò per lo più in piccolissimi centri di indios e di coloni, oggi diventati cittadine e città. Monsignor Fagnano nel 1887 si stabilì a Punta Arenas (Cile), da dove iniziò poco dopo le missioni nelle isole della Terra del Fuoco. Generosi e capaci missionari spesero generosamente la vita al di qua e al di là dello Stretto di Magellano “per la salvezza delle anime” e pure dei corpi (per quanto era nelle loro possibilità) degli abitanti di quelle terre “laggiù, alla fine del mondo”. Lo hanno riconosciuto in tanti, fra loro una persona che se ne intende, perché a sua volta venuto “quasi dalla fine del mondo”: papa Francesco.

Foto d’epoca: I tre Bororòs che accompagnarono i missionari salesiani a Cuyabà (1904)




Finalmente in Patagonia

Tra il 1877 e il 1880 si compie la svolta missionaria salesiana verso la Patagonia. Dopo l’offerta del 12 maggio 1877 della parrocchia di Carhué, don Bosco sogna l’evangelizzazione delle terre australi, ma don Cagliero lo invita alla prudenza dinanzi alle difficoltà culturali. I tentativi iniziali subiscono ritardi, mentre la “campagna del deserto” del generale Roca (1879) ridefinisce gli equilibri con gli indios. Il 15 agosto 1879 l’arcivescovo Aneiros affida ai salesiani la missione patagonica: «È arrivato finalmente il momento, in cui posso offrirvi la Missione della Patagonia, verso la quale il vostro cuore ha tanto sospirato». Il 15 gennaio 1880 parte il primo gruppo guidato da don Giuseppe Fagnano, inaugurando l’epopea salesiana nel sud argentino.

            A far sospendere a don Bosco e don Cagliero, almeno temporaneamente, qualunque progetto missionario in Asia fu la notizia del 12 maggio 1877: l’arcivescovo di Buenos Aires aveva offerto ai salesiani la missione di Caruhé (a sud est della provincia di Buenos Aires), luogo di presidio e di frontiera tra numerose tribù di indigeni del vastissimo deserto della Pampa e della Provincia di Buenos Aires.
            Si aprivano così ai salesiani per la prima volta le porte della Patagonia: don Bosco ne rimase come elettrizzato, ma a raffreddare decisamente i suoi entusiasmi ci pensò subito don Cagliero: “Le ripeto però che a riguardo della Patagonia non bisogna correre con velocità elettrica, né andarci a vapore, perché a questa impresa i Salesiani non sono ancor preparati […] si è pubblicato troppo ed abbiamo potuto fare troppo poco a riguardo degli Indii. L’impresa non bisogna disconoscerla, facile assai ad idearsi, difficile a realizzarsi, ed è troppo poco tempo che siamo qui venuti, e ci conviene sì con zelo ed attività lavorare a questo scopo, ma non fare fracasso, per non suscitare ammirazione a questa gente di qui, per volere aspirare noi, arrivati jeri, alla conquista di un paese che ancora non conosciamo e di cui ignoriamo persino la lingua”.
            Venuta meno l’opzione di Carmen de Patagónes con la parrocchia affidata dall’arcivescovo ad un padre lazzarista, ai salesiani rimasero aperte quella appunto più a nord di Carhué e quella più a sud di Santa Cruz, per la quale don Cagliero ottenne un passaggio navale in primavera, che gli avrebbe fatto rimandare di sei mesi il previsto rientro in Italia.
            La decisione di chi dovesse “entrare il primo nella Patagonia” la lasciava così a don Bosco, che invece intendeva offrire a lui tale onore. Ma prima ancora di venirne a conoscenza, don Cagliero decise di rientrare: “La Patagonia mi attende, quei di Dolores, del Carhué, del Chaco ci domandano, ed io li contento tutti scappando!” (8 luglio 1877). Rientrò per partecipare al 1°Capitlo Generale della società salesiana che si sarebbe tenuto a Lanzo Torinese nel settembre. Fra l’altro era sempre membro del Capitolo superiore della congregazione, in cui ricopriva l’importante ruolo di Catechista generale (vale il numero tre della congregazione, dopo don Bosco e don Rua).
            L’anno 1877 si chiuse con la terza spedizione di 26 missionari capitanati da don Giacomo Costamagna e con la nuova richiesta di don Bosco alla Santa Sede di una Prefettura a Carhué e un Vicariato a Santa Cruz. Eppure, a dire il vero, in tutto l’anno l’evangelizzazione diretta dei salesiani fuori città si era limitata alla breve esperienza di don Cagliero e del chierico Evasio Rabagliati nella colonia italiana di Villa Libertad a Entre Ríos (aprile 1877) ai confini della Diocesi del Paranà e ad alcune escursioni nel campo pampeano dei salesiani di S. Nicolás de los Arroyos.

Il sogno si realizza (1880)
            Nel maggio 1878 falliva per una tormenta oceanica il primo tentativo di raggiungere Carhué da parte di don Costamagna e del chierico Rabagliati. Ma intanto don Bosco era già ritornato alla carica con il nuovo Prefetto di Propaganda Fide, cardinal Giovanni Simeoni proponendogli un Vicariato o Prefettura con sede a Carmen, come aveva suggerito lo stesso don Fagnano che lo vedeva come punto strategico per raggiungere gli indigeni.
            L’anno dopo (1879), proprio mentre veniva meno un progetto di entrata dei Salesiani in Paraguay, si aprivano loro finalmente le porte della Patagonia. Nell’aprile infatti il generale Julio A. Roca dava inizio alla famosa “campagna del deserto” con l’obiettivo di sottomettere gli indios e ottenere sicurezza interna, respingendoli oltre i fiumi Río Negro e Neuquén. Era il “colpo di grazia” al loro sterminio, dopo i numerosi massacri dell’anno precedente.
            Il vicario generale di Buenos Aires, monsignor Espinosa, come cappellano di un esercito forte di seimila uomini, si fece accompagnare dal chierico argentino Luigi Botta e da don Costamagna. Il futuro vescovo si rese subito conto dell’ambiguità della loro posizione, ne scrisse immediatamente a don Bosco, ma non vide altra via per aprire la strada della Patagonia ai missionari salesiani. Ed in effetti appena il governo chiese all’arcivescovo di stabilire alcune missioni sulle sponde del Río Negro e nella Patagonia, si pensò subito ai salesiani.
            Questi, dal loro canto, avevano in animo di chiedere al governo la concessione per dieci anni di un territorio da loro amministrato in cui costruire, con materiali pagati dal governo e con manodopera degli indios, gli edifici indispensabili per una sorta di reducción in quel territorio: gli indigeni avrebbero evitato la contaminazione dei coloni cristiani “corrotti e viziosi” ed i missionari vi avrebbero piantato la croce di Cristo e la bandiera argentina. Ma l’ispettore salesiano don Francesco Bodrato non se la sentì di decidere da solo e don Lasagna nel maggio lo sconsigliò per il fatto che il governo Avellaneda era alla fine del suo mandato e non era interessato al problema religioso. Meglio dunque conservare salesianamente indipendenza e libertà d’azione.
            Il 15 agosto 1879 monsignor Aneiros offriva formalmente a don Bosco la missione patagonica: “È arrivato finalmente il momento, in cui posso offrirvi la Missione della Patagonia, verso la quale il vostro cuore ha tanto sospirato, come la cura d’anime tra i Patagoni, che può servire di centro alla missione”.
            Don Bosco la accettò subito e di buon grado, anche se essa non era ancora il tanto sospirato consenso all’erezione di circoscrizioni ecclesiastiche autonome rispetto all’arcidiocesi di Buenos Aires, realtà costantemente avversata dall’Ordinario diocesano.

La partenza
            Il drappello di missionari partì alla volta della sospirata Patagonia il 15 gennaio 1880: era composto da don Giuseppe Fagnano, direttore della Missione e parroco a Carmen de Patagónes (il padre lazzarista si era ritirato), due sacerdoti, di cui uno si occupava della parrocchia di Viedma sull’altra riva del Río Negro, un salesiano laico (coadiutore) e quattro suore. In dicembre a dar man forte arrivò don Domenico Milanesio e pochi mesi dopo don Giuseppe Beauvoir con un altro coadiutore novizio. L’epopea missionaria salesiana in Patagonia incominciava.




Don Bosco promotore della “misericordia divina”

Giovanissimo sacerdote, don Bosco ha pubblicato un volume, in formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla misericordia di Dio”.

Tutto cominciò dalla marchesa di Barolo
            La marchesa Giulia Colbert di Barolo (1785-1864), dichiarata venerabile da papa Francesco il 12 maggio 2015, coltivava personalmente una particolare devozione alla divina misericordia, per cui aveva fatto introdurre nelle comunità religiose ed educative da lei fondate vicino a Valdocco l’abitudine di una settimana di meditazioni e preghiere sul tema. Ma non si accontentava. Desiderava che tale pratica si diffondesse anche altrove, soprattutto nelle parrocchie, in mezzo al popolo. Ne chiese il consenso alla Santa Sede, che non solo l’accordò, ma concesse a tale pratica devozionale varie indulgenze. A questo punto si trattava dunque di fare una pubblicazione adeguata allo scopo.
            Siamo nell’estate 1846, quando don Bosco, superata la grave crisi di sfinimento che lo aveva portato sull’orlo della tomba, si era ritirato presso mamma Margherita ai Becchi a fare la convalescenza e si era ormai “licenziato” dal suo apprezzatissimo servizio di cappellano ad una delle opere della Barolo, con grave disappunto della marchesa stessa. Ma i “suoi giovani” lo chiamavano alla casa Pinardi appena affittata.
            A questo punto intervenne il famoso patriota Silvio Pellico, segretario-bibliotecario della marchesa ed estimatore ed amico di don Bosco, che ne aveva messo in musica alcune poesie. Ci raccontano le memorie salesiane che il Pellico, con un certo ardire, propose alla marchesa di incaricare don Bosco di fare la pubblicazione che le interessava. Che fece la marchesa? Accettò, sia pure non troppo entusiasta. Chissà? Forse voleva metterlo alla prova. E don Bosco, accettò pure lui.

Un tema che gli stava a cuore
            Il tema della misericordia di Dio rientrava fra i suoi interessi spirituali, quelli su cui era stato formato in seminario a Chieri e soprattutto al Convitto di Torino. Solo due anni prima aveva finito di frequentare le lezioni del conterraneo san Giuseppe Cafasso, appena quattro anni più vecchio di lui, ma suo direttore spirituale, di cui seguiva le predicazioni agli esercizi spirituali ai sacerdoti, ma anche formatore di una mezza dozzina di altri fondatori, alcuni anche santi. Ebbene il Cafasso, se pur figlio della cultura religiosa del suo tempo – fatta di prescrizioni e della logica del “fare il bene per sfuggire il castigo divino e meritarsi il Paradiso” – non perdeva occasione tanto nel suo insegnamento quanto nella sua predicazione di parlare della misericordia di Dio. E come poteva non farlo se era dedito costantemente al sacramento della Penitenza e all’assistenza ai condannati a morte? Tanto più che tale indulgenziata devozione all’epoca costituiva una reazione pastorale contro il rigorismo del giansenismo che sosteneva la predestinazione di coloro che si salvavano.
            Don Bosco dunque, appena tornato dal paese ai primi di novembre, si mise al lavoro, seguendo le pratiche di pietà approvate da Roma e diffuse in Piemonte. Con l’aiuto di qualche testo che poté facilmente trovare nella biblioteca del Convitto che ben conosceva, a fine anno pubblicava a sue spese un libriccino di 111 pagine, formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla Misericordia di Dio. Ne fece immediatamente omaggio alle ragazze, alle donne e alle suore delle fondazioni della Barolo. Non è documentato, ma logica e riconoscenza vuole che ne abbia fatto omaggio pure alla marchesa Barolo, la promotrice del progetto: ma la stessa logica e riconoscenza vorrebbe che la marchesa non si sia fatta vincere in generosità, facendogli pervenire, magari in anonimato come altre volte, un suo contributo alle spese.
            Non c’è qui lo spazio per presentare i contenuti “classici” del libretto di meditazioni e preghiere di don Bosco; ci preme solo evidenziare che il suo principio di fondo è: “ciascuno deve invocare la Misericordia di Dio per sé stesso e per tutti gli uomini, perché ‘siamo tutti peccatori’ […] tutti bisognosi di perdono e di grazia […] tutti chiamati all’eterna salvezza”.
            Significativo è poi il fatto che a conclusione di ciascun giorno della settimana don Bosco, nella logica del titolo “esercizi di divozione”, assegni una pratica di pietà: invitare altri ad intervenire, perdonare chi ci ha offesi, fare subito una mortificazione per ottenere da Dio misericordia a tutti i peccatori, fare qualche elemosina o sostituirla con la recita di preghiere o giaculatorie ecc. L’ultimo giorno la pratica è sostituita da un simpatico invito, forse anche allusivo alla marchesa di Barolo, di recitare “almeno un’Ave Maria per la persona che ha promosso questa divozione!”.

La prassi educativa
            Ma al di là degli scritti con finalità edificanti e formative, ci si può chiedere come don Bosco abbia in concreto educato i suoi giovani a confidare nella misericordia divina. La risposta non è difficile e si potrebbe documentarla in tanti modi. Ci limitiamo a tre esperienze vitali vissute a Valdocco: i sacramenti della Confessione e Comunione e la sua figura di “padre pieno di bontà e amore”

La Confessione
            Don Bosco ha avviato alla vita cristiana adulta centinaia di giovani di Valdocco. Ma con quali mezzi? Due in particolare: la Confessione e la Comunione.
            Don Bosco, si sa, è uno dei grandi apostoli della Confessione, e questo anzitutto perché ha esercitato a fondo tale ministero, così come, per altro, il già citato suo maestro e direttore spirituale Cafasso e l’ammiratissima figura del quasi coetaneo il santo curato d’Ars (1876-1859). Se la vita di quest’ultimo, come è stato scritto, “è trascorsa in confessionale” e quella del primo ha saputo offrire molte ore della giornata (“il tempo necessario”) per ascoltare in confessione “vescovi, sacerdoti, religiosi, laici eminenti e gente semplice che accorrevano a lui”, quella di don Bosco non poté fare altrettanto per le tante occupazioni in cui era immerso. Ciononostante gli si è messo in confessionale a disposizione dei giovani (e dei salesiani) tutti i giorni in cui a Valdocco o in case salesiane si celebravano le funzioni religiose o vi erano occasioni speciali.
            Aveva per altro incominciato a farlo appena finito di “imparare a fare il prete” al Convitto (1841-1844), quando di domenica radunava i giovani nell’oratorio itinerante del biennio, quando si recava a confessare al santuario della Consolata o nelle parrocchie piemontesi in cui era invitato, quando approfittava dei viaggi in carrozza o in treno per confessare vetturino o passeggeri. Non smise mai di farlo fino all’ultimo, allorché invitato a non stancarsi con le confessioni, rispondeva che ormai era l’unica cosa che ormai poteva fare per i suoi giovani. E quale non è stato il suo dolore quando, per motivi burocratici e di malintesi, non gli era stata rinnovata dall’arcivescovo la patente di confessione! Le testimonianze al riguardo di don Bosco confessore sono innumerevoli e del resto la famosa fotografia, che lo ritrae nell’atto di confessare un ragazzino circondato da tanti altri in attesa di farlo, dovette piacere molto allo stesso santo che forse ne ebbe l’idea e che comunque rimane tuttora un’icona significativa ed indelebile della sua figura nell’immaginario collettivo.
            Ma al di là della sua esperienza di confessore, don Bosco si è fatto promotore instancabile del sacramento della Riconciliazione, ne ha divulgato la necessità, l’importanza, l’utilità della frequenza, ha indicato i pericoli di una celebrazione priva delle necessarie condizioni, ha illustrato le classiche modalità il modo di accostarvisi con frutto. Lo ha fatto attraverso conferenze, buone notti, motti arguti e paroline all’orecchio, lettere circolari ai giovani dei collegi, lettere personali, narrazione di numerosi sogni che avevano come oggetto proprio la confessione, bene o male fatta. Secondo poi la sua intelligente prassi catechistica narrava loro episodi di conversioni di grandi peccatori, ed anche sue personali esperienze al riguardo.
            Don Bosco, profondo conoscitore dell’anima giovanile, per indurre tutti giovani al pentimento sincero, fa leva sull’amore e riconoscenza verso Dio, presentato nella sua infinita bontà, generosità e misericordia. Per scuotere invece i cuori più freddi e induriti, descrive i possibili castighi del peccato e impressiona salutarmente le loro menti con la viva descrizione del giudizio divino e dell’Inferno. Anche in questi casi tuttavia, non soddisfatto di aver spinto i ragazzi al dolore del peccato commesso, cerca di portarli al bisogno della misericordia divina, disposizione importante per anticipare loro il perdono ancora prima della confessione sacramentale. Don Bosco, al solito, non entra in disquisizioni dottrinali, gli interessa solo una confessione sincera, che terapeuticamente cicatrizzi la ferita del passato, ricomponga il tessuto spirituale del presente per un futuro di “vita di grazia”.
            Don Bosco crede al peccato, crede al peccato grave, crede all’inferno e della loro esistenza parla a lettori ed uditori. Ma di riflesso è anche convinto che Dio è la misericordia in persona, per cui ha dato all’uomo il sacramento della Riconciliazione. Ed eccolo allora insistere sulle condizioni per riceverlo bene e soprattutto sul confessore “padre” e “medico” e non tanto “dottore e giudice”: “Il confessore sa quanto sia ancora maggiore della vostre colpe la misericordia di Dio che vi concedere il perdono mediante il suo intervento” (Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, pp. 24-25).
            Stando anche alle memorie salesiane, suggeriva sovente ai suoi ragazzi d’invocare la divina misericordia, di non scoraggiarsi dopo il peccato, ma di ritornare a confessarsi senza aver paura, confidando nella bontà del Signore e facendo poi fermi propositi di bene.
            Da “educatore sul campo giovanile” don Bosco sente l’esigenza di insistere di meno sull’ex opere operato e di più sull’ex opere operantis, vale dire sulle disposizioni del penitente. A Valdocco tutti si sentivano invitati a confessarsi bene, tutti avvertivano il rischio di confessioni cattive e l’importanza di confessarsi bene; molti di loro poi sentivano di vivere in una terra benedetta dal Signore. Non per nulla la misericordia divina aveva fatto sì che un giovane defunto si risvegliasse dopo che si erano esposti i drappi funebri perché potesse confessare (a don Bosco) i suoi peccati.
            Insomma il sacramento della confessione, ben spiegato nei suoi tratti specifici e celebrato di frequente, è stato il mezzo forse più̀ efficace attraverso il quale il santo piemontese ha portato i suoi giovani a confidare nella immensa misericordia di Dio.

II-a parteLa Comunione
            Ma anche la Comunione, il secondo pilastro della pedagogia religiosa di don Bosco, servì allo scopo.
            Don Bosco è certamente uno dei massimi promotori della pratica sacramentale della Comunione frequente. La sua dottrina, modellata sul modo di pensare della controriforma, più che alla celebrazione liturgica dell’Eucaristica, dava importanza alla Comunione, anche se nella sua frequenza vi è stata un’evoluzione. Nei i primi vent’anni della sua vita sacerdotale, sulla scia di Sant’Alfonso, ma anche del Concilio di Trento e prima ancora di Tertulliano e S. Agostino, suggeriva la comunione settimanale, o più volte alla settimana o anche tutti i giorni a seconda della perfezione delle disposizioni corrispondenti alle grazie del sacramento. Domenico Savio, che a Valdocco aveva cominciato a confessarsi e comunicarsi ogni quindici giorni, passò poi a farlo ogni settimana, indi tre volte alla settimana, infine, dopo un anno di intensa crescita spirituale, ogni giorno, ovviamente sempre seguendo l’avviso del confessore, lo stesso don Bosco.
            Successivamente nei secondi anni sessanta don Bosco, sulla base delle sue esperienze pedagogiche e di una forte corrente teologica favorevole alla comunione frequente, che vedeva come capofila il francese mons. de Ségur e il priore di Genova don Giuseppe Frassinetti, passò ad invitare i suoi giovani ad una maggior frequenza, convinto che essa permetteva passi decisivi nella vita spirituale e favoriva la loro crescita nell’amore di Dio. E nel caso di impossibilità di Comunione Sacramentale quotidiana, suggeriva quella spirituale, magari nel corso dei una visita al Santissimo Sacramento, tanto apprezzata da Sant’Alfonso. Comunque l’importante era tenere la coscienza in stato da poter fare la comunione tutti i giorni: la decisione spettava in un certo modo al confessore.
            Per don Bosco ogni Comunione degnamente ricevuta – digiuno prescritto, stato di grazia, volontà di staccarsi dal peccato, un bel ringraziamento dopo di essa – cancella i difetti quotidiani, rafforza l’anima per evitarli in futuro, aumenta la confidenza in Dio e nella sua infinita bontà e misericordia; inoltre è fonte di grazia per riuscire nella scuola e nella vita, è aiuto nel sopportare le sofferenze e nel vincere le tentazioni.
            Don Bosco crede che la Comunione sia una necessità per i “buoni” per mantenersi tali e per i “cattivi” per diventare “buoni”. Essa è per chi vuol farsi santo, non per i santi, come le medicine si danno ai malati. Ovviamente sa che la sola frequenza non è sicuro indizio di bontà, in quanto c’è chi la riceva con molta tiepidezza e per abitudine, tanto più che la stessa superficialità dei giovani sovente non permette loro di capire tutta l’importanza di quello che fanno.
            Con la Comunione poi si possono impetrare dal Signore particolari grazie per sé e per altri. Le lettere di don Bosco sono colme di richieste ai suoi giovani di pregare e di ricevere la Comunione secondo la sua intenzione, perché il Signore gli conceda la buona riuscita negli “affari” di ogni ordine in cui si trova immerso. E lo stesso fa con tutti i suoi corrispondenti, invitati ad accostarsi a tale sacramento per ottenere le grazie richieste, mentre lui avrebbe fatto altrettanto nella celebrazione della santa Messa.
            Don Bosco ci tiene tanto che i suoi ragazzi crescano nutriti dai sacramenti, ma vuole anche il massimo rispetto della loro libertà. E ha lasciato disposizioni precise ai suoi educatori nel suo trattatello sul Sistema Preventivo: “Non mai obbligare i giovani alla frequenza dei santi sacramenti ma soltanto incoraggiarli, e porgere loro comodità di approfittarne”.
            Nel tempo stesso però rimane irremovibile nella sua convinzione che i sacramenti hanno un’importanza capitale. Ha scritto perentoriamente: “Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura se non nella frequenza della Confessione e della Comunione” (Il pastorello delle Alpi, ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, 1864. p. 100).

Una paternità e misericordia fatta persona
            La misericordia di Dio, operante particolarmente nel momento dei sacramenti della Confessione e della Comunione, trovava poi la sua espressione esterna non solo in un don Bosco “confessore padre”, ma anche “padre, fratello, amico” dei giovani nella vita ordinaria di tutti i giorni. Con qualche esagerazione si potrebbe dire che la loro confidenza con don Bosco era tale che tanti di loro quasi non facevano distinzione fra don Bosco “confessore” e don Bosco “amico” e “fratello”; altri poi potevano talora scambiare l’accusa sacramentale con le sincere effusioni di un figlio verso il padre; di converso la conoscenza dei giovani da parte di don Bosco era tale che con domande sobrie ispirava loro estrema confidenza e non di rado sapeva fare l’accusa al loro posto.
            La figura di Dio padre, misericordioso e provvidente, che lungo tutta la storia ha dimostrato la sua bontà da Adamo in poi verso gli uomini, giusti o peccatori, ma tutti bisognosi di aiuto e oggetto di cure paterne, e comunque tutti chiamati alla salvezza in Gesù Cristo, si viene così a modulare e a riflettere sulla bontà di don Bosco “Padre dei suoi giovani”, che vuole solo il loro bene, che non li abbandona, sempre pronto a comprenderli, compatirli, perdonarli. Per molti di loro, orfani, poveri ed abbandonati, adusi fin da piccoli ad un duro lavoro quotidiano, oggetto di manifestazioni molto contenute di tenerezza, figli di un’epoca in cui ciò che prevaleva era la decisa sottomissione e l’obbedienza assoluta a qualunque autorità costituita, don Bosco è stato forse la carezza mai sperimentata di un padre, la “tenerezza” di cui parla papa Francesco.
            Commuove tuttora la lettera ai giovani della casa di Mirabello sul finire del 1864: “Quelle voci, quegli evviva, quel baciare e stringere la mano, quel sorriso cordiale, quel parlarci dell’anima, quell’incoraggiarci reciprocamente al bene sono cose che mi imbalsamarono il cuore, e per ciò non ci posso pensare senza sentirmi commosso fino alle lagrime. Vi dirò […] che voi siete la pupilla dell’occhio mio” (Epistolario II a cura di F. Motto II, lett. n. 792).
            Ancor più commovente la lettera ai giovani di Lanzo il 3 gennaio 1876: “Lasciate che ve lo dica e niuno si offenda, voi siete tutti ladri; lo dico e lo ripeto, voi mi avete preso tutto. Quando fui a Lanzo, mi avete incantato con la vostra benevolenza ed amorevolezza, mi avete legate le facoltà della mente colla vostra pietà; mi rimaneva ancora questo povero cuore, di cui già mi avevate rubati gli affetti per intiero. Ora la vostra lettera segnata da 200 mani amiche e carissime hanno preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla più è rimasto, se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore, di farvi del bene e salvare l’anima di tutti» (Epistolario III, lett. n. 1389).
            L’amorevolezza con cui trattava e voleva che i salesiani trattassero i ragazzi aveva un fondamento divino. Lo affermava citando un’espressione di s. Paolo: “La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”.
            L’amorevolezza era dunque un segno della misericordia e dell’amore divino che sfuggiva al sentimentalismo e a forme di sensualità in ragione della carità teologica che ne era la sorgente. Don Bosco comunicava tale amore ai singoli ragazzi e anche a gruppi di loro: “Che io vi porti molta affezione, non occorre che ve lo dica, ve ne ho date chiare prove. Che poi voi mi vogliate bene, non ho bisogno che lo diciate, perché me lo avete costantemente dimostrato. Ma questa nostra reciproca affezione sopra cosa è fondata? […] Dunque il bene delle anime nostre è il fondamento della nostra affezione” (Epistolario II, n. 1148). L’amore di Dio, il primum teologico, è dunque il fondamento del primum pedagogico.
            L’amorevolezza era anche la traduzione dell’amore divino in amore realmente umano, fatto di giusta sensibilità, amabile cordialità, affetto benevolo e paziente che tende alla comunione profonda del cuore. Insomma quell’amore effettivo ed affettivo che si sperimenta in forma privilegiata nella relazione fra educando ed educatore, allorquando gesti di amicizia e di perdono da parte dell’educatore inducono il giovane, in forza dell’amore che guida l’educatore, ad aprirsi alla confidenza, a sentirsi sostenuto nel suo sforzo di superarsi e di impegnarsi, a dare il consenso e ad aderire in profondità ai valori che l’educatore vive personalmente e gli propone. Il giovane capisce che questa relazione lo ricostruisce e lo ristruttura come uomo. L’impresa più ardua del Sistema preventivo è proprio quella di conquistare il cuore del giovane, di goderne la stima, la fiducia, di farselo amico. Se un giovane non ama l’educatore, questi può fare ben poco del giovane e per il giovane.

Le opere di misericordia
            Si potrebbe ora continuare con le opere di Misericordia che il catechismo distingue tra quelle corporali e quelle spirituali, fissando due gruppi di sette. Non sarebbe difficile documentare sia come don Bosco abbia vissuto, praticato e incentivato la pratica di tali opere di misericordia sia come con il suo “essere ed operare” abbia di fatto costituito un segno e testimonianza visibile, con fatti e parole, dell’amore di Dio verso gli uomini. Per limiti di spazio ci limitiamo ad indicare la possibilità della ricerca. Resta però fermo che oggi esse sembrano abbandonate anche per la falsa contrapposizione fra misericordia e giustizia, come se la misericordia non fosse un modo tipico di esprimere quell’amore che, in quanto tale, non può mai contraddire la giustizia.




Se la Patagonia deve aspettare… andiamo in Asia

Si ripercorre l’espansione dei missionari salesiani in Argentina nella seconda metà dell’Ottocento, in un Paese aperto ai capitali stranieri e caratterizzato da intensa immigrazione italiana. Le riforme legislative e la carenza di scuole favorirono i progetti educativi di Don Bosco e Don Cagliero, ma la realtà si rivelò più complessa di quanto immaginato in Europa. Un contesto politico instabile e un nazionalismo ostile alla Chiesa si intrecciavano con tensioni religiose anticlericali e protestanti. Vi era inoltre la drammatica condizione degli indigeni, respinti verso sud dalla forza militare. Il ricco carteggio tra i due religiosi mostra come dovettero adeguare obiettivi e strategie di fronte a nuove sfide sociali e religiose, mantenendo però vivo il desiderio di estendere la missione anche in Asia.

Con la missio giuridica ricevuta dal papa, con il titolo e le facoltà spirituali dei missionari apostolici concessi dalla Congregazione di Propaganda Fide, con una lettera di presentazione di don Bosco all’arcivescovo di Buenos Aires, i dieci missionari dopo un mese di viaggio attraverso l’oceano Atlantico, a metà dicembre 1875, arrivarono in Argentina, paese immenso popolato da poco meno di due milioni di abitanti (quattro milioni nel 1895, nel 1914 sarebbero stati otto milioni). Di essa conoscevano a malapena la lingua, la geografia e un po’ di storia.
Accolti con simpatia dalle autorità civili, dal clero locale e da benefattori, vissero inizialmente mesi felici. La situazione nel paese si presentava infatti favorevole, tanto dal punto di vista economico, con grandi investimenti di capitali stranieri, quanto sociale con l’apertura legale (1875) all’immigrazione, soprattutto italiana: 100 000 immigrati, di cui 30 000 nella sola Buenos Aires. Favorevole era anche la congiuntura educativa data dalla nuova legge sulla libertà d’insegnamento (1876) e dal vuoto di scuole per “ragazzi poveri ed abbandonati”, come quelli cui volevano dedicarsi i salesiani.
Difficoltà sorgevano invece dal punto di vista religioso – data la forte presenza di anticlericali, massoni, liberali ostili, inglesi (gallesi) protestanti in alcune zone – e dal modesto spirito religioso di molto clero nativo e immigrato. Analogamente sul versante politico per i sempre incombenti rischi d’instabilità politica, economica e commerciale, per un nazionalismo ostile alla Chiesa cattolica e suscettibilissimo ad ogni influenza esterna e per il problema irrisolto degli indigeni della Pampa e della Patagonia. Il continuo avanzamento della linea di frontiera meridionale infatti li costringeva con la forza ad arretrare sempre più a sud e verso la Cordigliera, quando addirittura non li eliminava o, catturati, non li vendeva come schiavi. Se ne rese subito conto il capospedizione don Cagliero. Due mesi dopo il suo sbarco scriveva: “Gli Indi sono esasperati contro il Governo Nazionale. Vanno per essi armati di Remington, fanno prigionieri uomini, donne, fanciulli, cavalli e pecore […] bisogna pregare Dio che loro mandi missionari per liberarli dalla morte dell’anima e del corpo”.

Dall’utopia del sogno al realismo della situazione
Nel biennio 1876-1877 ebbe luogo una sorta di dialogo a distanza fra don Bosco e don Cagliero: in meno di venti mesi ben 62 loro lettere hanno attraversato l’Atlantico. Don Cagliero in loco s’impegnava ad attenersi alle direttive date da don Bosco sulla base delle lacunose letture a sua disposizione e delle sue ispirazioni dall’Alto, non facilmente decifrabili. Don Bosco a sua volta veniva a sapere dal suo condottiero sul campo come la realtà in Argentina si presentasse diversa da quella pensata in Italia. Il progetto operativo studiato in Torino poteva sì essere condiviso negli obiettivi e nella stessa strategia generale, ma non nelle coordinate geografiche, cronologiche e antropologiche previste. Don Cagliero se ne rendeva perfettamente conto, a differenza di don Bosco che invece continuava instancabilmente ad allargare gli spazi per le missioni salesiane.
Il 27 aprile 1876 infatti annunciava a don Cagliero l’accettazione di un Vicariato Apostolico in India – esclusi dunque gli altri due proposti dalla Santa Sede, in Australia e Cina – da affidare appunto a lui stesso, che dunque avrebbe lasciato ad altri le missioni in Patagonia. Due settimane dopo però don Bosco presentava a Roma la richiesta di erigere un Vicariato Apostolico pure per la Pampa e la Patagonia, che riteneva, erroneamente, territorio nullius [di nessuno] sia civilmente sia ecclesiasticamente. Lo ribadiva nell’agosto successivo firmando il lungo manoscritto La Patagonia e le terre australi del continente americano, redatto assieme a don Giulio Barberis. La situazione era resa ancor più complicata dall’acquisizione da parte del governo argentino (d’accordo con quello cileno) delle terre abitate dagli indigeni, che le autorità civili di Buenos Aires avevano suddiviso in quattro governatorati e che l’arcivescovo di Buenos Aires riteneva a ragione soggette alla sua giurisdizione ordinaria.
Ma le furibonde lotte governative contro gli indigeni (settembre 1876) fecero sì che il sogno salesiano “Alla Patagonia, alla Patagonia. Dio lo vuole!” per il momento restasse tale.

Gli italiani “indianizzati”
Intanto nell’ottobre 1876 l’arcivescovo aveva proposto ai missionari salesiani di assumere la parrocchia della Boca in Buenos Aires a servizio di migliaia di italiani “più indianizzati che gli Indiani quanto a costume e religione” (avrebbe scritto don Cagliero). La accettarono. Lungo il primo anno di permanenza in Argentina infatti avevano già reso stabile la loro posizione nella capitale: con l’acquisto formale della cappella Mater misericordiae in centro città, con l’impianto di oratori festivi per Italiani in tre punti della città, con l’ospizio di “artes y officios” e la chiesa di San Carlo ad Ovest – che sarebbe rimasto colà dal maggio 1877 al marzo 1878 quando si trasferì ad Almagro – e ora la parrocchia della Boca al sud con oratorio in via di attivazione. Progettavano anche un noviziato e mentre aspettavano le Figlie di Maria Ausiliatrice prospettavano un ospizio e un collegio a Montevideo in Uruguay.
A fine anno 1876 don Cagliero era pronto a rientrare in Italia, visto anche che si prolungava eccessivamente sia la possibilità di entrare nel Chubut sia la fondazione di una colonia a Santa Cruz (all’estremo sud del continente) a causa di un governo che creava impacci ai missionari e che gli indigeni avrebbe preferito “distruggerli anziché ridurli”.
Ma con l’arrivo in gennaio 1877 della seconda spedizione di 22 missionari, don Cagliero progettò autonomamente di ritentare un’escursione a Carmen de Patagones, sul Río Negro, in accordo con l’arcivescovo. Don Bosco a sua volta lo stesso mese suggerì alla Santa Sede l’erezione di tre Vicariati Apostolici (Carmen de Patagones, Santa Cruz, Punta Arenas) o almeno uno a Carmen de Patagones, impegnandosi ad accettare nel 1878 quello di Mangalor in India con don Cagliero Vicario. Non solo, ma il 13 febbraio con immenso coraggio si dichiarava pure disponibile per lo stesso 1878 per il Vicariato apostolico di Ceylon a preferenza di quello dell’Australia, entrambi propostogli dal papa (o suggeriti da lui al papa?). Insomma a don Bosco non bastava l’America Latina, ad occidente, sognava di mandare i suoi missionari in Asia, ad oriente.




L’inclusione sociale secondo don Bosco

La lungimirante proposta di don Bosco per i “minori non accompagnati” di Roma.

È piuttosto nota la storia della chiesa del Sacro Cuore di Roma, oggi basilica, assai frequentata da persone che frettolose transitano per l’attigua stazione Termini. Una storia irta di problemi e difficoltà di ogni genere per don Bosco mentre la chiesa era in costruzione (1880-1887), ma anche motivo di gioia e soddisfazioni una volta portata a termine (1887). Meno nota invece la storia dell’origine della “casa di carità e di beneficienza capace di accogliere almeno 500 giovanetti” che don Bosco volle edificare a fianco della chiesa. Un’opera, una riflessione estremamente attuale… di 140 anni fa! Ce la presenta don Bosco stesso nel numero di gennaio 1884 del Bollettino Salesiano: “A centinaia e a migliaia sono oggidì i poveri fanciulli, che vagano per le vie e per le piazze di Roma, in pericolo della fede e del buon costume. Come già vi faceva notare in altre occasioni, molti giovanetti o da soli o colle loro famiglie si recano in detta città non soltanto dalle varie parti dell’Italia, ma eziandio da altre nazioni, colla speranza di trovare lavoro e danaro; ma delusi nella loro aspettazione cadono ben presto nella miseria e nel rischio di mal fare, e per conseguenza di essere condotti a popolare le prigioni”.
Fare l’analisi della condizione giovanile nella “città eterna” non era difficile: la preoccupante situazione di “ragazzi di strada”, italiani o no, era sotto gli occhi di tutti, delle autorità civili e di quelle ecclesiastiche, dei cittadini romani e della moltitudine di “buzzurri” e di stranieri arrivati in città una volta dichiarata capitale del Regno d’Italia (1871). La difficoltà nasceva dalla soluzione da prospettare per risolverla e dalla capacità di realizzarla una volta individuata.
Don Bosco, per altro non sempre ben visto in città per la sua origine piemontese, propone ai Cooperatori la sua soluzione: “Or bene l’Ospizio del Sacro Cuore di Gesù avrebbe per iscopo di ricoverare giovanetti poveri e abbandonati, provenienti da qualsiasi città d’Italia o di altro paese del mondo, educarli nella scienza e nella religione, istruirli in qualche arte o mestiere, e così allontanarli dal vestibolo delle prigioni, ridonarli alle loro famiglie e alla civile società buoni cristiani, onesti cittadini, capaci di guadagnarsi onorato sostentamento colle proprie fatiche”.

In anticipo sui tempi
Accoglienza, educazione, formazione al lavoro, integrazione e inclusione sociale: ma non è questo oggi l’obiettivo prioritario di tutte le politiche giovanili a favore degli immigrati? Don Bosco dalla sua parte aveva esperienze al riguardo: da 30 anni a Valdocco si accoglievano ragazzi di varie parti di Italia, da alcuni anni nelle case salesiane di Francia vi erano figli di immigrati italiani e non solo, dal 1875 a Buenos Aires i salesiani avevano la cura spirituale degli italiani immigrati, provenienti da varie regioni d’Italia (decenni dopo si sarebbero anche interessati di Jorge Mario Bergoglio, futuro papa Francesco, figlio di immigrati piemontesi).

La dimensione religiosa
Naturalmente a don Bosco interessava soprattutto la salvezza dell’anima dei giovani, che richiedeva la professione di fede cattolica: “Extra ecclesia nulla salus”, come si diceva. Ed in effetti scrive: “Altri poi e della città e forestieri per la miseria sono esposti quotidianamente al pericolo di cadere nelle mani de’ protestanti, che hanno, per così dire, invasa la città di S. Pietro, e tendono specialmente i loro agguati ai giovanetti poveri e bisognosi, e sotto il colore di porgere loro l’alimento e le vesti del corpo, propinano invece alle anime loro il veleno dell’errore e dell’incredulità”.
Si spiega allora come nel suo progetto educativo di Roma, vorremmo dire, nel suo “global compact on education”, don Bosco non trascuri la fede. Un percorso di vera integrazione in una “nuova” società civile non può escludere la dimensione religiosa della popolazione. Gli torna utile l’appoggio papale: uno stimolo in più “per le persone che amano la religione e la società”: “Quest’Ospizio sta molto a cuore al Santo Padre Leone XIII, il quale, mentre con apostolico zelo si adopra per dilatare la fede ed il buon costume in ogni parte del mondo, lascia nulla d’intentato in favore dei fanciulli più esposti ai pericoli. Quest’Ospizio deve quindi stare a cuore a tutte le persone, che amano la religione e la società; deve stare a cuore soprattutto ai nostri Cooperatori e alle nostre Cooperatrici, a cui in modo speciale il Vicario di Gesù Cristo affidò il nobile incarico e dell’Ospizio medesimo e della Chiesa annessa”.
Infine nell’appello alla generosità dei benefattori per la costruzione dell’ospizio don Bosco non poteva far mancare un riferimento esplicito al Sacro Cuore di Gesù, cui era dedicata l’attigua chiesa: “Possiamo eziandio ritenere per certo che tale Ospizio sarà ben gradito al Cuor di Gesù… Nella vicina Chiesa il divin Cuore sarà il rifugio degli adulti, e nell’Ospizio attiguo si mostrerà l’amico amorevole, il tenero padre dei fanciulli. Egli avrà in Roma ogni giorno un drappello di 500 fanciulli a fargli divota corona, a pregarlo, a cantargli osanna, a domandargli la santa benedizione”.

Tempi nuovi, nuove periferie
L’ospizio salesiano, sorto come scuola di arte e mestieri e oratorio alla periferia della città – che all’epoca iniziava in piazza della Repubblica – successivamente risultò assorbito dall’espansione edilizia della stessa città. La primitiva scuola per ragazzi poveri ed orfani fu trasportata nel 1930 in una nuova periferia e venne sostituita in tappe successive da vari tipi di scuole (elementari, medie, ginnasio, liceo). Diede anche ospitalità per un certo tempo agli studenti salesiani che frequentavano l’università gregoriana e ad alcune facoltà dell’Ateneo Salesiano. Sempre rimase parrocchia e oratorio nonché sede centrale dell’ispettoria romana. A lungo ha ospitato alcuni uffici nazionali e adesso è sede centrale della Congregazione salesiana: strutture queste che hanno animato e animano le case salesiane per lo più nate e cresciute alle periferie di centinaia di città, o nelle “periferie geografiche ed esistenziali” del mondo per dirla con papa Francesco. Così come il S. Cuore di Roma, che conserva tuttora un piccolo segno del grande “sogno” di don Bosco: offre una primissima assistenza ad immigrati extracomunitari e con il “Banco dei talenti” del Centro giovanile provvede alimenti, vestiario e beni di prima necessità ai senza tetto della stazione Termini.




Si parte per le missioni… confidando nei sogni

I sogni missionari di don Bosco, pur senza anticipare il corso degli eventi futuri, hanno avuto per l’ambiente salesiano il sapore delle previsioni.

            A richiamare l’attenzione di don Bosco al problema missionario contribuirono non poco pure il sogno missionario del 1870-1871 e soprattutto quelli degli anni Ottanta. Se nel 1885 invitava monsignor Giovanni Cagliero alla prudenza: “non si dia gran retta ai sogni” ma “solo se servono moralmente”, lo stesso Cagliero partito alla testa della prima spedizione missionaria (1875) e futuro cardinale, li giudicava come semplici ideali da perseguire. Altri salesiani invece e soprattutto don Giacomo Costamagna, missionario della terza spedizione (1877) e futuro ispettore e vescovo, li intendeva come un itinerario da seguire quasi obbligatoriamente, tanto da chiedere al segretario di don Bosco, don Giovanni Battista Lemoyne, di mandargli i “necessari” aggiornamenti. A sua volta don Giuseppe Fagnano, sempre missionario della prima ora e futuro Prefetto apostolico, li considerava come espressione di un desiderio di tutta la Congregazione, che doveva sentirsi responsabile di realizzarli cercando i mezzi ed il personale. Don Luigi Lasagna infine, missionario partito con la seconda spedizione nel 1876, e pure futuro vescovo, li considerava come una chiave per conoscere il futuro salesiano in missione. Don Alberto Maria De Agostini poi nella prima metà del secolo xx si sarebbe lanciato personalmente in pericolose e innumerevoli escursioni in America australe sulla scia dei sogni di don Bosco.
            Comunque si possano intendere oggigiorno, resta il fatto che i sogni missionari di don Bosco, pur senza anticipare il corso degli eventi futuri, hanno avuto per l’ambiente salesiano il sapore delle previsioni. Visto poi che erano privi di significati simbolici e allegorici ed invece erano ricchi di riferimenti antropologici, geografici, economici, ambientali (si parla di tunnel, di treno, di aereo…) hanno costituito un incentivo per i missionari salesiani ad agire, tanto più che si sarebbe potuto verificarne l’effettiva realizzazione. In altre parole i sogni missionari hanno orientato la storia e tracciato un programma di lavoro missionario per la società salesiana.

La chiamata (1875): un progetto immediatamente rielaborato
            Negli anni Settanta in America Latina era in corso un notevole tentativo di evangelizzazione, grazie soprattutto ai religiosi, nonostante le forti tensioni presenti fra la Chiesa e i singoli Stati liberali. Attraverso contatti con il console argentino in Savona, Giovanni Battista Gazzolo, don Bosco nel dicembre 1874 si offrì di provvedere preti per la Chiesa della misericordia (la chiesa degli italiani) in Buenos Aires, come richiesto dal Vicario generale di Buenos Aires monsignor Mariano Antonio Espinosa ed accettò l’invito di una Commissione interessata ad un collegio a San Nicolás de los Arroyos, a 240 km a nord ovest della Capitale argentina. In effetti la società salesiana – che all’epoca comprendeva pure il ramo femminile delle Figlie di Maria Ausiliatrice – aveva come suo primo obiettivo la cura della gioventù povera (con catechismi, scuole, collegi, ospizi, oratori festivi), ma non escludeva di estendere i suoi servizi a ogni tipo di sacro ministero. Dunque in quel fine 1874 don Bosco non offriva altro di quello che già si faceva in Italia. Del resto le Costituzioni salesiane, approvate definitivamente nell’aprile precedente, proprio mentre da anni erano in corso trattative per fondazioni salesiane in “terre di missione” extraeuropee, non contenevano alcun accenno ad eventuali missiones ad gentes.
            Le cose cambiarono nel volgere di pochi mesi. Il 28 gennaio 1875 in un discorso ai direttori, e il giorno dopo a tutta la comunità salesiana, ragazzi compresi, don Bosco annunciò che erano state accolte le due suddette domande in Argentina, dopo che erano state rifiutate richieste in altri continenti. Riferì anche che “le Missioni in Sud America” (cosa che in questi termini invero nessuno aveva offerto) erano state accettate alle condizioni richieste, con la sola riserva dell’approvazione del papa. Don Bosco con un colpo da maestro presentava così a Salesiani e giovani un entusiasmante “progetto missionario” approvato da Pio IX.
            Iniziava subito una febbrile preparazione della spedizione missionaria. Il 5 febbraio una sua circolare invitava i Salesiani ad offrirsi liberamente per tali missioni, dove, a parte alcune aree civilizzate, essi avrebbero esercitato il loro ministero fra
“popoli selvaggi sparsi in immensi territori”. Se anche aveva individuato nella Patagonia la terra del suo primo sogno missionario – dove selvaggi crudeli di zone sconosciute uccidevano missionari ed invece accoglievano benevolmente quelli salesiani – tale piano di evangelizzazione di “selvaggi” andava ben oltre le richieste pervenute dall’America. Di certo non ne era consapevole, almeno in quel momento, l’arcivescovo di Buenos Aires, monsignor Federico Aneiros.
            Don Bosco procedette con determinazione ad organizzare la spedizione. Il 31 agosto al Prefetto di Propaganda Fide, cardinale Alessandro Franchi, comunicava di avere accettato la gestione del collegio di S. Nicolás come “base per le missioni” e dunque chiedeva le facoltà spirituali solitamente concesse in tali casi. Ne ebbe alcune, ma non ricevette alcun sussidio economico pur sperato perché l’Argentina non dipendeva dalla Congregazione di Propaganda Fide, in quanto con un arcivescovo e quattro vescovi non era considerata “terra di missione”. E la Patagonia? E la terra del Fuoco? E le decine e decine di migliaia di indios viventi laggiù, a due, tremila chilometri di distanza, “alla fine del mondo”, senza alcuna presenza missionaria?
            A Valdocco, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, nel corso della famosa cerimonia di addio ai missionari dell’11 novembre, don Bosco si soffermò sulla missione universale di salvezza data dal Signore agli apostoli e dunque alla Chiesa. Parlò della carenza di sacerdoti in Argentina, delle famiglie di emigranti abbonate e del lavoro missionario fra le “grandi orde di selvaggi” della Pampa e nella Patagonia, regioni “che circondano la parte civilizzata” dove “non penetrò ancora né la religione di Gesù Cristo, né la civiltà, né il commercio, dove piede europeo non poté finora lasciare alcun vestigio”.
            Lavoro pastorale per gli emigrati italiani e poi plantatio ecclesiae nella Patagonia: ecco il duplice obiettivo, originale, che don Bosco lasciava alla prima spedizione. (Stranamente non fece però alcun accenno alle due precise sedi di lavoro concordato con l’altra sponda dell’Atlantico). Pochi mesi dopo, nell’aprile 1876, avrebbe insistito con don Cagliero che “lo scopo nostro è di tentare una scorsa nella Patagonia […] ritenendo sempre per nostra base l’impianto di collegi e di ospizi […] in vicinanze delle tribù selvagge”. Glielo avrebbe ripetuto il 1° agosto: “In generale ricordati sempre che Dio vuole i nostri sforzi verso i Pampas e verso i Patagonici, e verso ai ragazzi poveri e abbandonati”.
            A Genova, all’imbarco a ciascuno dei dieci missionari – fra cui cinque sacerdoti – diede venti particolari ricordi. Li riproponiamo:

RICORDI AI MISSIONARI

1. Cercate anime, ma non danari né onori, né dignità.
2. Usate carità e somma cortesia con tutti, ma fuggite la conversazione e la famigliarità colle persone di altro sesso o di sospetta condotta.
3. Non fate visite se non per motivi di carità e di necessità.
4. Non accettate mai inviti di pranzo se non per gravissime ragioni. In questi casi procurate di essere in due.
5. Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini.
6. Rendete ossequio a tutte le autorità civili, religiose, municipali e governative.
7. Incontrando persona autorevole per via, datevi premura di salutarla ossequiosamente.
8. Fate lo stesso verso le persone ecclesiastiche o aggregate ad Istituti religiosi.
9. Fuggite l’ozio e le questioni. Gran sobrietà nei cibi, nelle bevande e nel riposo.
10. Amate, temete, rispettate gli altri ordini religiosi e parlatene sempre bene. È questo il mezzo di farvi stimare da tutti e promuovere il bene della congregazione.
11. Abbiatevi cura della sanità. Lavorate, ma solo quanto le proprie forze comportano.
12. Fate che il mondo conosca che siete poveri negli abiti, nel vitto, nelle abitazioni, e voi sarete ricchi in faccia a Dio e diverrete padroni del cuore degli uomini.
13. Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi, ma non portatevi mai né invidia, né rancore, anzi il bene di uno, sia il bene di tutti; le pene e le sofferenze di uno siano considerate come pene e sofferenze di tutti, e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle.
14. Osservate le vostre Regole, né mai dimenticate l’esercizio mensile della buona morte.
15. Ogni mattino raccomandate a Dio le occupazioni della giornata nominatamente le confessioni, le scuole, i catechismi, e le prediche.
16. Raccomandate costantemente la divozione a M.A. ed a Gesù Sacramentato.
17. Ai giovanetti raccomandate la frequente confessione e comunione
18. Per coltivare la vocazione ecclesiastica insinuate 1. amore alla castità, 2. orrore al vizio opposto, 3. separazione dai discoli, 4. comunione frequente, 5. carità con segni di amorevolezza e benevolenza speciale.
19. Nelle cose contenziose prima di giudicare si ascolti ambe le parti.
20. Nelle fatiche e nei patimenti non si dimentichi che abbiamo un gran premio preparato in cielo.
Amen.




I precedenti delle missioni salesiane (1/5)

Il 150° anniversario delle missioni salesiane si terrà l’11 novembre 2025. Crediamo possa essere interessante raccontare ai nostri lettori una breve storia dei precedenti e delle prime fasi di quella che sarebbe diventata una sorta di epopea missionaria salesiana in Patagonia. Lo facciamo in cinque puntate, con l’aiuto di inedite fonti che ci permettono di correggere le tante imprecisioni passate alla storia.

            Sgombriamo subito il campo: si dice e si scrive che don Bosco volesse partire per le missioni tanto da seminarista, che da giovane sacerdote. Non è documentato. Se studente di 17 anni (1834) fece la domanda di entrare tra i frati Francescani Riformati del convento degli Angeli a Chieri che avevano missioni, la richiesta, a quanto pare, era stata avanzata soprattutto per motivi economici. Se dieci anni dopo (1844), al momento di lasciar il “Convitto Ecclesiastico” in Torino, fu tentato di entrare nella Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, cui erano appena state affidate missioni in Birmania (Myanmar), è però vero che quella missionaria, per la quale aveva forse anche intrapreso qualche studio di lingue estere, era solo per il giovane sacerdote Bosco una delle possibilità di apostolato che gli si aprivano davanti. In entrambi i casi don Bosco seguì immediatamente il consiglio, prima, di don Comollo di entrare in seminario diocesano e, dopo, di don Cafasso, di continuare a dedicarsi ai giovani di Torino. Anche nel ventennio 1850-1870, impegnato com’era nel progettare una continuità della sua “opera degli Oratori”, nel dare un fondamento giuridico alla società salesiana che stava avviando e nella formazione spirituale e pedagogica dei primi salesiani, tutti giovani del suo Oratorio, non era certo in condizione di poter dar seguito ad eventuali aspirazioni missionarie personali o degli stessi suoi “figli”. Dell’andata sua o dei salesiani in Patagonia neanche l’ombra, benché lo si trovi scritto su carta o sul web.

Acuirsi della sensibilità missionaria
            Ciò non toglie che la sensibilità missionaria in don Bosco, ridotta probabilmente a deboli spunti e vaghe aspirazioni negli anni di formazione sacerdotale e del primo sacerdozio, si acuì notevolmente lungo gli anni. La lettura degli Annali della Propagazione della Fede gli offriva infatti una buona informazione sul mondo missionario, tanto da ricavarne episodi per alcuni suoi libri e da lodare papa Gregorio XVI che incentivava l’espandersi del vangelo nei remoti angoli della terra ed approvava nuovi Ordini religiosi con finalità missionarie. Notevole influenza don Bosco poté ricevere dal canonico G. Ortalda, direttore del Consiglio diocesano dell’Associazione di Propaganda Fide per 30 anni (1851-1880) ed anche promotore di “Scuole Apostoliche” (una sorta di seminario minore per vocazioni missionarie). Nel dicembre 1857 aveva pure lanciato il progetto di un’Esposizione a favore delle Missioni Cattoliche affidate ai seicento Missionari Sardi. Don Bosco ne era informatissimo.
            L’interesse missionario poté crescere in lui nel 1862 al momento della solennissima canonizzazione in Roma dei 26 protomartiri di giapponesi e nel 1867 in occasione della beatificazione di oltre duecento martiri giapponesi, celebrata questa con solennità pure a Valdocco. Sempre nella città papale nel corso dei lunghi soggiorni degli anni 1867, 1869 e 1870 poté rendersi conto di altre iniziative missionarie locali, come la fondazione del Pontificio seminario dei santi apostoli Pietro e Paolo per le missioni straniere.
            Il Piemonte con quasi il 50% dei missionari italiani (1500 con 39 vescovi) si poneva all’avanguardia in tale ambito e a Torino venne in visita nel novembre 1859 il francescano monsignor Luigi Celestino Spelta, Vicario Apostolico di Hupei. Non visitò l’Oratorio, lo fece invece nel dicembre 1864 don Daniele Comboni che proprio in Torino diede alle stampe il Piano di rigenerazione per l’Africa con l’intrigante progetto di evangelizzare l’Africa attraverso gli africani.
            Don Bosco ebbe uno scambio di idee con lui, che nel 1869 tentò, senza esito, di associarlo al suo progetto e l’anno dopo lo invitò a mandargli qualche prete e laico per dirigere un istituto al Cairo e così prepararlo alle missioni in Africa, al cui centro contava di affidare ai Salesiani un Vicariato apostolico. A Valdocco la richiesta, non accolta, fu sostituita dalla disponibilità ad accettare ragazzi da educare in vista delle missioni. Colà però il drappello di algerini raccomandati da monsignor Charles Martial Lavigerie trovò difficoltà, per cui furono mandati a Nizza Marittima, in Francia. La richiesta nel 1869 dello stesso arcivescovo di avere aiutanti salesiani in un orfanotrofio di Algeri in momento di emergenza non fu accolta. Così come dal 1868 era sospesa la petizione del missionario bresciano Giovanni Bettazzi di mandare dei salesiani a dirigere un erigendo istituto di arti e mestieri, nonché un piccolo seminario minore, nella diocesi di Savannah (Georgia, USA). Le proposte altrui, tanto di direzione di opere educative in “territori di missione”, quanto di diretta azione in partibus infidelium, potevano essere anche appetibili, ma don Bosco non avrebbe mai rinunciato né alla sua piena libertà di azione – che forse vedeva compromessa nelle proposte altrui pervenutegli – né soprattutto al suo peculiare lavoro con i giovani, per i quali al momento era impegnatissimo a sviluppare la società salesiana appena approvata (1869) oltre i confini torinesi e piemontesi. Insomma fino al 1870 don Bosco, pur teoricamente sensibile alle necessità missionarie, coltivava altri progetti in sede nazionale.

Quattro anni di richieste non accolte (1870-1874)
            Il tema missionario e le importanti questioni che vi si riferivano furono oggetto di attenzione nel corso del Concilio Vaticano I (1868-1870). Se il documento Super Missionibus Catholicis non fu mai presentato in assemblea generale, la presenza in Roma di 180 vescovi di “terre di missioni” e le informazioni positive sul modello di vita religiosa salesiana, diffuse fra loro da alcuni vescovi piemontesi, diedero occasione a Don Bosco di incontrarne molti e anche di essere da loro contattato, tanto in Roma che in Torino.
            Qui il 17 novembre 1869 fu ricevuta la delegazione cilena, con l’arcivescovo di Santiago e il vescovo di Concepción. Nel 1870 fu la volta di mons. D. Barbero, Vicario Apostolico a Hyderabad (India), già conosciuto da Don Bosco, che gli chiese delle suore disponibili per l’India. A Valdocco si recò nel luglio 1870 il domenicano mons. G. Sadoc Alemany, arcivescovo di San Francisco in California (USA), che chiese ed ottenne dei Salesiani per un ospizio con scuola professionale (poi mai realizzato). Visitarono pure Valdocco il francescano mons. L. Moccagatta, Vicario Apostolico di Shantung (Cina) e il suo confratello mons. Eligio Cosi poi suo successore. Nel 1873 fu la volta del milanese mons. T. Raimondi che offrì a Don Bosco la possibilità di andare a dirigere scuole cattoliche nella Prefettura apostolica di Hong Kong. La trattativa, durata oltre un anno, per vari motivi si arenò, così come nello stesso 1874 rimase sulla carta anche un progetto di nuovo seminario del succitato don Bertazzi per Savannah (USA). Lo stesso avvenne in quegli anni per fondazioni missionarie in Australia ed in India, per le quali Don Bosco intavolò con i singoli vescovi trattative, da lui date talora come concluse alla Santa Sede, mentre in realtà erano solo progetti in fieri.
            In quei primi anni settanta, con un personale costituito da poco più di due decine di persone (fra preti, chierici e coadiutori), un terzo delle quali con voti temporanei, sparsi in sei case difficilmente Don Bosco avrebbe potuto mandarne alcune in terra di missione. Tanto più che le missioni estere offertegli fino a quel momento fuori Europa presentavano serie difficoltà di lingua, cultura e tradizioni non neolatine e il tentativo a lungo condotto di disporre di giovane personale di lingua inglese anche con l’aiuto del rettore del collegio irlandese di Roma, mons. Toby Kirby, erano andato fallito.

(continua)

Foto d’epoca: il porto di Genova, 14 novembre 1877.