Un vero cieco

Un’antica fiaba persiana racconta di un uomo che aveva un unico pensiero: possedere oro, tutto l’oro possibile.
Era un pensiero vorace che gli divorava il cervello e il cuore. Non riusciva così ad avere nessun altro pensiero, nessun altro desiderio per altre cose che non fossero oro.
Quando passava davanti alle vetrine della sua città, vedeva solo quelle degli orefici. Non si accorgeva di tante altre cose meravigliose.
Non si accorgeva delle persone, non badava al cielo azzurro o al profumo dei fiori.
Un giorno non seppe resistere: entrò di corsa in una gioielleria e cominciò a riempirsi le tasche di bracciali d’oro, anelli o spille.
Naturalmente, mentre usciva dal negozio, fu arrestato. I gendarmi gli dissero: «Ma come potevi credere di farla franca? Il negozio era pieno di gente».
«Davvero?», fece l’uomo stupito. «Non me ne sono accorto. Io vedevo solo l’oro».

«Hanno gli occhi e non vedono», dice la Bibbia degli idoli falsi. Si può dire di tante persone, oggi. Sono abbagliati dal luccichio delle cose che brillano di più: quelle che la pubblicità quotidiana ci fa scorrere sotto gli occhi, come fossero il pendolino di un ipnotizzatore.
Una volta, un maestro fece una macchiolina nera nel centro di un bel foglio di carta bianco e poi lo mostrò agli allievi.
«Che cosa vedete?», chiese.
«Una macchia nera!», risposero in coro.
«Avete visto tutti la macchia nera che è piccola piccola», ribatté il maestro, «e nessuno ha visto il grande foglio bianco».

Nel Talmud, che riunisce la saggezza dei maestri ebrei dei primi cinque secoli, è scritto: «Nel mondo a venire, ciascuno di noi sarà chiamato a rendere conto di tutte le belle cose che Dio ha messo in terra e che abbiamo rifiutato di vedere».
La vita è una serie di momenti: il vero successo sta nel viverli tutti.
Non rischiare di perdere il grande foglio bianco, per inseguire una macchiolina nera.




Un sorriso all’aurora

Una toccante testimonianza di Raoul Follereau. Si trovava in un lebbrosario in un’isola del Pacifico. Un incubo di orrore. Solo cadaveri ambulanti, disperazione, rabbia, piaghe e mutilazioni orrende.
Eppure, in mezzo a tanta devastazione, un anziano malato conservava occhi sorprendentemente luminosi e sorridenti. Soffriva nel corpo, come i suoi infelici compagni, ma dimostrava attaccamento alla vita, non disperazione, e dolcezza nel trattare gli altri.
Incuriosito da quel vero miracolo di vita, nell’inferno del lebbrosario, Follereau volle cercarne la spiegazione: che cosa mai poteva dare tanta forza di vivere a quel vecchio così colpito dal male?
Lo pedinò, discretamente. Scoprì che, immancabilmente, allo spuntar dell’alba, il vecchietto si trascinava al recinto che circondava il lebbrosario, e raggiungeva un posto ben preciso.
Si metteva a sedere e aspettava.
Non era il sorgere del sole che aspettava. Né lo spettacolo dell’aurora del Pacifico.
Aspettava fino a quando, dall’altra parte del recinto, spuntava una donna, anziana anche lei, con il volto coperto di rughe finissime, gli occhi pieni di dolcezza.
La donna non parlava. Lanciava solo un messaggio silenzioso e discreto: un sorriso. Ma l’uomo si illuminava a quel sorriso e rispondeva con un altro sorriso.
Il muto colloquio durava pochi istanti, poi il vecchio si rialzava e trotterellava verso le baracche. Tutte le mattine. Una specie di comunione quotidiana. Il lebbroso, alimentato e fortificato da quel sorriso, poteva sopportare una nuova giornata e resistere fino al nuovo appuntamento con il sorriso di quel volto femminile.
Quando Follereau glielo chiese, il lebbroso gli disse: «è mia moglie!».
E dopo un attimo di silenzio: «Prima che venissi qui, mi ha curato in segreto, con tutto ciò che riusciva a trovare. Uno stregone le aveva dato una pomata. Lei tutti i giorni me ne spalmava la faccia, salvo una piccola parte, sufficiente per apporvi le sue labbra per un bacio… Ma tutto è stato inutile. Allora mi hanno preso, mi hanno portato qui. Ma lei mi ha seguito. E quando ogni giorno la rivedo, solo da lei so che sono ancora vivo, solo per lei mi piace ancora vivere».

Certamente qualcuno ti ha sorriso stamattina, anche se tu non te ne sei accorto. Certamente qualcuno aspetta il tuo sorriso oggi. Se entri in una chiesa e spalanchi la tua anima al silenzio, ti accorgerai che Dio, per primo, ti accoglie con un sorriso.




La rosa

Il poeta tedesco Rilke abitò per un certo periodo a Parigi. Per andare all’Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata.
Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante che chiedeva l’elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo.
Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta.
Un giorno la giovane francese, meravigliata domandò al poeta:
– Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?
– Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani, rispose il poeta.
Il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene.
Allora accadde qualcosa d’inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno.
Per una intera settimana nessuno la vide più. Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre.
– Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla? chiese la giovane francese.
– Della rosa, rispose il poeta.

«Esiste un solo problema, uno solo sulla terra. Come ridare all’umanità un significato spirituale, suscitare un’inquietudine dello spirito. È necessario che l’umanità venga irrorata dall’alto e scenda su di lei qualcosa che assomigli a un canto gregoriano. Vedete, non si può continuare a vivere occupandosi soltanto di frigoriferi, politica, bilanci e parole crociate. Non è possibile andare avanti così», ha scritto Antoine de Saint-Exupéry.




Le mani di Dio

Un maestro viaggiava con un discepolo incaricato di occuparsi del cammello. Una sera, arrivati a una locanda, il discepolo era talmente stanco che non legò l’animale.
«Mio Dio» pregò coricandosi, «prenditi cura del cammello: te lo affido».
Il mattino dopo il cammello era sparito.
– Dov’è il cammello? chiese il maestro.
– Non lo so, rispose il discepolo. Devi chiederlo a Dio! Ieri sera ero così sfinito che gli ho affidato il nostro cammello. Non è certo colpa mia se è scappato o è stato rubato. Ho esplicitamente domandato a Dio di sorvegliarlo. È Lui il responsabile. Tu mi esorti sempre ad avere la massima fiducia in Dio, no?
– Abbi la più grande fiducia in Dio, ma prima lega il tuo cammello, rispose il maestro. Perché Dio non ha altre mani che le tue.

Dio solo può dare la fede;
tu, però, puoi dare la tua testimonianza.
Dio solo può dare la speranza;
tu, però, puoi infondere fiducia nei tuoi fratelli.
Dio solo può dare l’amore;
tu, però, puoi insegnare all’altro ad amare.
Dio solo può dare la pace;
tu, però, puoi seminare l’unione.
Dio solo può dare la forza;
tu, però, puoi dare sostegno a uno scoraggiato.
Dio solo è la via;
tu, però, puoi indicarla agli altri.
Dio solo è la luce;
tu, però, puoi farla brillare agli occhi di tutti.
Dio solo è la vita;
tu, però, puoi far rinascere negli altri il desiderio di vivere.
Dio solo può fare ciò che appare impossibile;
tu, però, potrai fare il possibile.
Dio solo basta a sé stesso;
egli, però, preferisce contare su di te.
(Canto brasiliano)




Essere amabili come don Bosco (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

5) Essere autentici
Nell’era digitale, le persone autentiche sono molto importanti. Non si mettono in mostra, non cercano di adattarsi a uno stampo, si sentono a proprio agio con chi sono e non hanno paura di mostrarlo. Esprimono i loro pensieri e sentimenti con totale onestà, senza preoccuparsi di ciò che gli altri potrebbero pensare, creando un ambiente di onestà e accettazione.
Nelle sue Memorie è registrata questa compiaciuta affermazione: «Io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, ero temuto per il mio coraggio e per la mia forza gagliarda».
«È inutile, – dirà a sua volta don Cafasso – vuol fare a suo modo; eppure bisogna lasciarlo fare; anche quando un progetto sarebbe da sconsigliare, a don Bosco riesce»; risentita per non averlo guadagnato alla sua causa, la Marchesa Barolo lo taccerà di «cocciuto, ostinato, superbo».
Sono buoni mattoni. Li sa usare bene per costruire un capolavoro.

La semplicità.
Molte persone hanno bisogno di fingere di essere diversi, di apparire più forti di quello che sono. Per voler essere quello che non sono.
I fiori semplicemente fioriscono. Leggeri silenziosi sono quello che sono. La persona semplice come gli uccelli del cielo. Il canto qualche volta, il silenzio più sovente, la vita sempre. Don Bosco vive come respira. È sempre lui. Mai doppio, mai pretenzioso, mai complesso. L’intelligenza non è arruffamento, complicazione, snobismo. La realtà è complessa senza dubbio. Non riusciremmo facilmente a descrivere un albero, un fiore, una stella, un sasso… Questo non impedisce loro di essere semplicemente quello che sono. La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce, non si preoccupa per sé stessa, non desidera essere vista…
Le Memorie raccontano che nel 1877, ad Ancona «don Bosco andò a celebrare verso le dieci nella chiesa del Gesù, ufficiata dai Missionari del Preziosissimo Sangue. Gli servì la messa un giovanetto, che per tutta la vita non dimenticò più quell’incontro. Vide egli entrare in sacrestia un «pretarello» basso, modesto nel viso e nell’atteggiamento, affatto sconosciuto. Però «in quel viso bruno» scorse un non so che di bontà attraente, che destò subito in lui un misto di curiosità e riverenza. Nel celebrare poi notò che aveva qualche cosa di speciale, d’invitante al raccoglimento e al fervore. Terminata la messa, dopo il ringraziamento, il prete gli pose la mano sul capo, gli regalò dieci centesimi, volle sapere chi fosse e che cosa facesse e gli disse alcune buone parole. A quarantotto anni di distanza quel giovane, che si chiamava Eugenio Marconi ed era alunno dell’Istituto Buon Pastore, doveva poi scrivere: «Oh la dolcezza di quella voce! l’affabilità, l’affetto racchiusi in quelle parole! Io rimasi confuso e commosso». Scoprì poco dopo che il «pretarello» era don Bosco e gli fu amico devoto per tutta la vita.
Il contrario del semplice non è il complicato, ma il falso. Semplicità è nudità, spoliazione, povertà. Senz’altra ricchezza che tutto. Senza altro tesoro che niente. Semplicità è libertà, leggerezza, trasparenza. Semplice come l’aria, libero come l’aria. Come una finestra aperta al grande soffio del mondo, all’infinita e silenziosa presenza di tutto.
Dove soffia lo Spirito del Vangelo: «Guardate gli uccelli che vivono in libertà: essi non seminano, non mietono e non mettono il raccolto nei granai… eppure il Padre vostro che è in cielo li nutre! Ebbene, voi non siete forse molto più importanti di loro?» (Mt 6,26).
Le Memorie Biografiche tranquillamente affermano: «Era evidente essersi egli gettato nelle braccia della divina Provvidenza, come un bambino in quelle di sua madre» (MB III, 36).
Tutto è semplice per Dio. Tutto è divino per i semplici. Anche il lavoro. Anche lo sforzo. 

6) Essere resistenti
La vita è piena di sorprese. Le cose non vanno sempre lisce e a volte affrontiamo sfide che mettono alla prova la nostra forza e la nostra determinazione. In questi momenti, la resilienza è una qualità potente. Si tratta di avere la forza mentale ed emotiva di riprendersi di fronte alle avversità, di andare avanti anche quando le cose si fanno difficili. Ed è qualcosa che le persone ammirano. Avere accanto qualcuno che incarna il coraggio può essere un’incredibile fonte di ispirazione. Il miglior titolo per una vita di don Bosco credo sia Giovannino Semprinpiedi.
Monsignor Cagliero ricorda: «Non ricordo di averlo visto un solo momento, nei 35 anni in cui stetti al suo fianco, scoraggiato, infastidito o inquieto per i debiti dei quali era sovente carico. Sovente diceva: «La Provvidenza è grande, e come pensa agli uccelli dell’aria, così penserà ai miei giovanetti».
“Guarda, io sono un povero prete, ma se rimanessi anche solo più con un pezzo di pane, lo farei a metà con te”. Era la frase più ripetuta da don Bosco.
I veri amici sono come le stelle… non sempre le vedi, ma sai che ci sono sempre.

7) Essere umili
Le persone umili non hanno bisogno di continui elogi o riconoscimenti per sentirsi bene con sé stesse e non sentono il bisogno di dimostrare il proprio valore agli altri. Inoltre, hanno una mente aperta e sono sempre disposte a imparare dagli altri, indipendentemente dal loro status o dalla loro posizione.
Don Bosco non si vergognò mai di chiedere l’elemosina. Umile e forte, come gli aveva chiesto la Maestra. A testa alta con tutti.

8) Diffondere la tenerezza
Michele Rua si affezionò a don Bosco, quel prete accanto al quale ci si sentiva allegri e come pieni di calore. Abitava alla Regia Fabbrica d’Armi, Michelino, dove suo papà era stato impiegato. Quattro dei suoi fratelli erano morti giovanissimi, e lui era molto gracile. Per questo sua madre non lo lasciava andare molte volte all’oratorio. Ma incontrò ugualmente don Bosco dai Fratelli delle Scuole Cristiane, dove andò a frequentare la terza elementare. Raccontò:
«Quando don Bosco veniva a dirci la Messa e a predicare, appena entrava in cappella pareva che una corrente elettrica passasse per tutti quei numerosi fanciulli. Saltavamo in piedi, uscivamo dai nostri posti, ci stringevamo attorno a lui. Ci voleva un gran tempo perché egli potesse arrivare in sacrestia. I buoni Fratelli non potevano impedire quell’apparente disordine. Quando venivano altri preti non capitava niente di simile».
Don Bosco era attraente come una calamita. C’è un episodio comico e tenero, raccontato nelle Memorie Biografiche di don Bosco con la leggerezza dei Fioretti:
«Una sera don Bosco camminando lungo un marciapiede in via Doragrossa, ora chiamata via Garibaldi, passò innanzi all’invetriata di un magnifico fondaco da panni il cui cristallo teneva tutta l’ampiezza della porta. Un buon giovanetto dell’Oratorio, il quale ivi serviva da fattorino, visto don Bosco, nel primo slancio del suo cuore, senza riflettere che l’invetriata era chiusa, corre per andarlo a riverire; ma dà col capo nel cristallo e lo riduce a pezzi. Al rovinoso cader dei vetri don Bosco si ferma e apre la vetrata; il fanciullo tutto mortificato gli si fa da presso; il padrone esce di bottega, alza la voce e grida; i passeggeri fanno crocchio. «Che cosa hai fatto?» domandò don Bosco al giovanetto; ed egli ingenuamente risponde: «Ho veduto Lei a passare e, pel gran desiderio di riverirla, non ho più badato che doveva aprire la vetriera e l’ho rotta» (Memorie Biografiche MB III, 169-170).
Era un senso di amicizia esplosivo, quello che i ragazzi provavano per don Bosco. Sulla linea di san Francesco di Sales, cantore dell’amicizia spirituale, don Bosco sentiva che l’amicizia fondata sulla benevolenza e sulla confidenza reciproca pareva essenziale al suo sistema preventivo.
L’amicizia per don Bosco è quel “tocco in più” che ha trasformato un metodo educativo simile ad altri in un capolavoro unico ed originale.
Don Rua, Monsignor Cagliero e gli altri lo chiamavano papà
In fin dei conti, la gentilezza è ciò che conta di più. È il modo in cui trattate gli altri, la compassione che mostrate e l’amore che diffondete che definisce davvero chi siete come persona. La gentilezza può essere semplice come un sorriso, una parola di incoraggiamento o una mano tesa. L’idea è quella di far sentire gli altri apprezzati e amati. I ragazzi di don Bosco testimonieranno con un’insistenza quasi monotona: «Mi voleva bene». Uno di loro, san Luigi Orione, scriverà: «Camminerei sui carboni ardenti per vederlo ancora una volta, e dirgli grazie».
Il ragazzo non riusciva a capacitarsi come don Bosco, che aveva incontrato per caso settimane prima in cortile, ricordasse ancora il suo nome. Si fece coraggio e gli domandò: “Don Bosco, come ha fatto a ricordarsi del mio nome?
I miei figli io non li dimentico mai!“, egli rispose.

Ad un ragazzo che lasciava l’Oratorio di sua spontanea volontà, don Bosco, incontrandolo, gli chiese:
“Che cosa hai in mano?”.
“Cinque lire che mia mamma mi ha fatto avere per comprare il biglietto del treno”.
“Tua mamma ti ha pagato il biglietto per il viaggio dall’Oratorio a casa tua, e va bene. Adesso prendi queste altre cinque lire. Sono per il tuo biglietto di ritorno. In qualunque momento ne avessi bisogno, vieni a trovarmi!”.
L’attenzione è una forma di gentilezza, come la disattenzione è lo sgarbo più grande che si possa fare. A volte è una violenza implicita, soprattutto se si tratta di bambini: la negligenza è giustamente considerata un abuso quando arriva a una soglia insopportabile, ma in piccole dosi fa parte delle ordinarie ignominie che molti bambini sono costretti a subire. La disattenzione è gelo: ed è difficile crescere nel gelo, dove l’unica consolazione è magari una televisione piena di sogni violenti o consumistici. L’attenzione è calore e affetto, che permette alle potenzialità migliori di svilupparsi e fiorire.
«Ho anche bisogno che si venga a conoscere l’importanza dei Cooperatori Salesiani. Finora pare una cosa da poco; ma io spero che con questo mezzo una buona parte della popolazione italiana diventi salesiana e ci apra la via a moltissime cose. L’Opera dei Cooperatori Salesiani… si dilaterà in tutti i paesi, si diffonderà in tutta la Cristianità, verrà un tempo in cui il nome di cooperatore vorrà dire vero cristiano… già mi par di vedere non solo famiglie, ma città e paesi interi a farsi Cooperatori Salesiani».
Dal momento che le previsioni di don Bosco si sono avverate, in questo secolo preparatevi a vederne delle belle!

9) Così don Bosco predicava Dio
Quelli che scrivono di lui sbagliano clamorosamente quando tentano di trasformarlo in un pedagogista o anche un geniale innovatore sociale. Certo don Bosco si occupò di opere caritative come molti altri, e ancora di giustizia sociale. La sua forza eccezionale è riposta, però, nel fatto che in tutto ciò che faceva egli contava unicamente e completamente su Dio.
«È mirabile davvero, esclamò uno dei presenti, il modo con cui procedono le cose. Don Bosco incomincia, e non si dà mai indietro».
 «Per questo, riprese don Bosco, non diamo mai indietro, perché noi andiamo sempre avanti sul sicuro. Prima d’intraprendere una cosa ci accertiamo che è volontà di Dio che le cose si facciano. Noi incominciamo le opere nostre con la certezza che è Dio che le vuole. Avuta questa certezza, noi andiamo avanti. Parrà che mille difficoltà s’incontrino per via; non importa; Dio lo vuole, e noi stiamo intrepidi in faccia a qualunque ostacolo. Io confido illimitatamente nella Divina Provvidenza; ma anche la Provvidenza vuol essere aiutata da immensi sforzi nostri».
I suoi sforzi hanno sempre il colore dell’infinito.
Perfino Nietzsche afferma che la percezione della vita interiore delle persone è istintiva. I giovani poi hanno una naturale attitudine per l’osservazione di ciò che sta dietro l’esterno di una persona.  Hanno delle antenne speciali per captare i segnali che non sono osservabili con mezzi ordinari. Sono in grado di percepire ciò che per gli altri è nascosto. 
La nostra antenna spirituale ci rende sensibili alla bellezza morale nelle persone, istintivamente ci fa notare la dimensione morale e spirituale della loro vita. 
Nel 1864 don Bosco arriva a Mornese con i suoi ragazzi, durante le passeggiate autunnali. È già notte. La gente gli viene incontro preceduta dal parroco don Valle e dal sacerdote don Pestarino. La banda suona, molti s’inginocchiano al passaggio di don Bosco chiedendo che li benedica. I giovani e la gente entrano in chiesa, si da la benedizione con il Santissimo, quindi tutti a cena.
Dopo, incoraggiati dagli applausi, i ragazzi di don Bosco danno un breve concerto di marce e musica allegra. In prima fila c’è Maria Mazzarello, 27 anni. Al termine, don Bosco dice poche parole: «Siamo tutti stanchi, e i miei ragazzi hanno voglia di fare una bella dormita. Domani però ci parleremo più a lungo».
Don Bosco a Mornese si ferma cinque giorni. Maria Mazzarello ogni sera riesce ad ascoltare la «buona notte» che dà ai suoi giovani. Scavalca le panchette per arrivare più vicino a quell’uomo. Qualcuno la rimprovera di questo come di un gesto sconveniente. E lei risponde: «Don Bosco è un santo, io lo sento».

È molto di più di una semplice sensazione. A quante donne cambierà la vita? Basta un movimento, un semplice movimento di quelli che compiono i bambini quando si slanciano in avanti con tutte le loro forze, senza timore di cadere o di morire, dimentichi del peso del mondo.
È di nuovo un problema di specchio: nessuno più di Gesù Cristo ha rivolto il suo viso verso le donne, come si volge lo sguardo verso le fronde degli alberi, come ci si china sull’acqua di un fiume per attingervi forza e voglia di proseguire il cammino. Le donne nella Bibbia sono numerose. Sono là all’inizio e sono là alla fine. Esse danno la luce a Dio, lo guardano crescere, giocare e morire, poi lo risuscitano coi gesti semplici dell’amore folle.

C’è ancora chi si affanna intorno alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. La più perfetta dimostrazione di Dio non è difficile.
Il bambino chiese alla mamma: «Secondo te, Dio esiste?».
«Sì».
 «Com’è?».
La donna attirò il figlio a sé.
Lo abbracciò forte e disse: «Dio è così».
«Ho capito».
Don Paolo Albera: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. […] Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace d’una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca, come quando si vuoi parlare senza pronunziar le parole; le parole stesse cadenzate in un modo piuttosto che in un altro; il portamento della persona e la sua andatura snella e spigliata: tutte queste cose operavano sui nostri cuori giovanili a mo’ di una calamita a cui non era possibile sottrarsi; e anche se l’avessimo potuto, non l’avremmo fatto per tutto l’oro del mondo, tanto si era felici di questo suo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale, senza studio né sforzo alcuno».

Sempre presente e vivo. Dio come compagnia, aria che si respira. Dio come l’acqua per i pesci. Dio come il nido caldo di un cuore che ama. Dio come il profumo della vita. Dio è ciò che sanno i bambini, non gli adulti.

Adesso andiamo a cambiare il mondo (Willy Wonka)




Essere amabili come don Bosco (1/2)

Essere amabili è una qualità umana che si coltiva, accettando la fatica che tante volte comporta. Per don Bosco non era una finalità a sé stessa, ma una via per condurre le anime a Dio. Intervento alla 42° edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana a Valdocco, Torino.

Tutte le cose belle di questo mondo sono incominciate da un sogno (Willy Wonka).
Non mollare il tuo (La mamma di Willy Wonka).

Uno scultore stava lavorando alacremente col suo martello e il suo scalpello su un grande blocco di marmo. Un ragazzino, che passeggiava leccando il gelato, si fermò davanti alla porta spalancata del laboratorio.
Il ragazzino fissò affascinato la pioggia di polvere bianca, di schegge di pietra piccole e grandi che ricadevano a destra e a sinistra.
Non aveva idea di ciò che stava accadendo; quell’uomo che picchiava come un forsennato la grande pietra gli sembrava un po’ strano.
Qualche settimana dopo, il ragazzino ripassò davanti allo studio e con sua grande sorpresa vide un grande e possente leone nel posto dove prima c’era il blocco di marmo.
Tutto eccitato, il bambino corse dallo scultore e gli disse: «Signore, dimmi, come hai fatto a sapere che c’era un leone nella pietra?».

Il sogno di don Bosco è lo scalpello di Dio.
Il semplice e singolare consiglio della Madonna nel sogno dei nove anni «Renditi umile, forte e robusto» divenne la struttura di una personalità unica e affascinante. E soprattutto uno “stile” che possiamo definire “salesiano”.

Tutti amavano don Bosco. Perché? Era attraente, leader nato, una vera calamita umana. Per tutta la vita sarà sempre un “conquistatore” di amici affezionati.
Giovanni Giacomelli che gli rimase amico per la vita ricorda: «Entrato in seminario un mese dopo gli altri, non conoscevo quasi nessuno, e nei primi giorni ero come sperso in mezzo ad una solitudine. Fu il chierico Bosco, che si avanzò a me la prima volta che mi vide solo, dopo il pranzo, e mi tenne compagnia tutto il tempo di ricreazione, raccontandomi varie cose graziose, per divagarmi dai pensieri che potessi avere di casa o dei parenti lasciati. Discorrendo con lui, venni a sapere che durante le vacanze era stato alquanto ammalato. Egli poi mi usò molte gentilezze. Tra le altre mi ricordo che, avendo io una berretta sproporzionatamente alta per cui vari compagni mi prendevano in giro, e ciò rincrescendo a me e a Bosco che veniva sovente con me, me la aggiustò egli stesso, avendo seco l’occorrente ed essendo molto abile nel cucire. D’allora in poi incominciai ad ammirare la bontà del suo cuore. La sua compagnia era edificante».
Possiamo rubare qualcuna delle sue qualità per diventare anche noi “amabili”?

1) Essere una forza positiva
Qualcuno che mantiene costantemente un atteggiamento positivo ci aiuta a vedere il lato positivo e ci spinge ad andare avanti.
«Quando Don Bosco visitò per la prima volta la misera tettoia, che doveva servire pel suo oratorio, dovette far attenzione per non rompersi la testa, perché da un lato non aveva che più di un metro di altezza; per pavimento aveva il nudo terreno, e quando pioveva l’acqua penetrava da tutte le parti. Don Bosco sentì correre tra i piedi grossi topi, e sul capo svolazzare pipistrelli». Ma per don Bosco era il più bel posto del mondo. E partì di corsa: «Corsi tosto da’ miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: “Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica andremo nel novello Oratorio che è colà in casa Pinardi. E loro additava il luogo”.

La gioia.
La gioia, uno stato d’animo positivo e felice, era la normalità della vita di don Bosco.
Più che mai vera per lui è l’espressione «La mia vocazione è un’altra. La mia vocazione è di essere felice nella felicità degli altri».
Davanti all’amore non vi è nessun adulto, solo dei bambini, questo spirito infantile che è abbandono, spensieratezza, libertà interiore.

«Passava da un punto all’altro del cortile, sempre riportando il vanto di abile giocatore, cosa che richiedeva sacrificio e fatica continua. “Innamorava il vederlo in mezzo a noi, diceva uno di questi allievi, ora già in età avanzata. Alcuni di noi erano senza, giubba, altri l’avevano, ma tutta a brandelli; questi a stento teneva ai fianchi i calzoni, quell’altro non aveva cappello, o le dita dei piedi sì affacciavano dalle scarpe rotte. Si era scarmigliati, talora sudici, screanzati, importuni, capricciosi, ed egli trovava le sue delizie stare coi più miserabili. Pei più piccini, aveva poi un affetto da madre. Talora due fanciulli per questioni di giuoco si ingiuriavano e si percuotevano. Don Bosco tosto si faceva presso di loro invitandoli a smettere. Accecati dalla rabbia alcuna volta non gli badavano, ed egli allora alzava la mano come in atto di percuoterli; ma ad un tratto si fermava, prendendoli per un braccio li divideva, e tosto quei birichini cessavano come per incanto da ogni alterco”.
Sovente schierava in due campi opposti i giovani per la barrarotta, e facendosi egli stesso capo di una parte, si incamminava un giuoco così animato che, parte giocatori e parte spettatori, tutti i giovani si infiammavano per quelle partite. Da un lato si voleva la gloria di vincere don Bosco, dall’altro si, faceva festa per la sicurezza della vittoria.
Non di rado egli sfidava tutti i giovani a sopravanzarlo nella corsa, e fissava la meta destinando il premio al vincitore. Ed eccoli allineati. Don Bosco solleva la veste al ginocchio: – Attenti, grida: Uno, due, tre! – E un nugolo di giovani si slancia, ma don Bosco è sempre il primo a toccar la meta. L’ultima di queste sfide ebbe luogo precisamente nel 1868 e don Bosco, non ostante le sue gambe enfiate, correva ancora con tanta rapidità da lasciarsi indietro 800 giovani fra i quali moltissimi di una snellezza meravigliosa. Noi presenti, non potevamo credere ai nostri occhi (MB III,127).

2) Preoccuparsi sinceramente degli altri
Una delle caratteristiche delle persone “attiranti” è l’attenzione e la preoccupazione genuina e sincera per gli altri. Non si tratta solo di chiedere a qualcuno come è andata la giornata e di ascoltare la sua risposta. Si tratta di ascoltare davvero, entrare in empatia e mostrare un interesse genuino per la vita degli altri. Don Bosco piangerà con il cuore in pezzi alla morte di don Calosso, di Luigi Comollo, alla vista dei primi ragazzi dietro le sbarre di una prigione.

Il giovane anticlericale
Di questo giovane daremo qualche cenno perché è come il rappresentante di cento e cento altri suoi compagni. Don Bosco nell’autunno, del 1860 entrava nella bottega da caffè, così detta della Consolata, perché presso al celebre Santuario di tal nome, e prendeva posto in una stanza appartata per leggere con tranquillità la corrispondenza che soleva recar seco. In quella bottega un cameriere disinvolto e cortese serviva gli avventori. Si chiamava Cotella Giovanni Paolo, nativo di Cavour (Torino), dell’età di 13 anni. Era fuggito da casa nell’estate di quell’anno stesso, perché insofferente de’ rimproveri e della severità de’ suoi genitori. Lasciamo a lui la descrizione del suo incontro con Don Bosco, come la narrò a D. Cerruti Francesco.
Una sera, raccontò egli, il padrone mi disse: «Porta una tazza di caffè ad un prete che è nella camera di là». «Io portare il caffè ad un prete?» soggiunsi tosto come trasecolato. I preti erano allora malveduti come adesso, anzi più, che adesso. Ne avevo sentite e lette di tutti i colori e mi era quindi formato dei preti un pessimo concetto.
Andato con aria beffarda: «Che vuole da me, lei prete?» chiesi malamente a Don Bosco. Ed egli guardandomi fisso: «Desidero da te, bravo giovane, una tazza di caffè» mi rispose con grande amabilità «ma ad un patto». «Quale?»  «Che me la porti tu stesso».
Quelle parole e quello sguardo mi vinsero e dissi fra me: «Questo non è un prete come gli altri».
Gli portai il caffè; una forza arcana mi teneva presso di lui, che prese ad interrogarmi, sempre colla più grande amorevolezza, sul mio paese natio, la mia età, le mie occupazioni e soprattutto perché fossi fuggito di casa. Poi: «Vuoi venire con me?» mi disse. «Dove?» «All’Oratorio di D. Bosco. Questo luogo e questo servizio non fanno per te». «E quando sarò là?» «Se ti piace, potrai studiare». «Ma lei mi terrà bene?» «Oh, pensa! Là si giuoca, si sta allegri, ci si diverte…» «Bene, bene» risposi «vengo. Ma quando? Subito? Domani?» «Di stasera» soggiunse D. Bosco.
Mi licenziai dal padrone, che avrebbe voluto mi fermassi ancora alcuni giorni, ed io, presi i miei pochi cenci, andai nella stessa sera all’Oratorio. Il domani Don Bosco scrisse a miei genitori per rassicurarli sul conto mio, e invitandoli a recarsi da lui per le necessarie intelligenze intorno al concorso loro per vitto e spese relative. Venne infatti mia madre cui, dopo aver ascoltato quanto espose intorno alle condizioni della famiglia: «Bene, concluse D. Bosco, facciamo così; lei paghi 12 lire al mese, il resto lo metterà D. Bosco».
Ammirai in questo, non solo la squisita carità, ma la prudenza di D. Bosco. La mia famiglia non era ricca, ma godeva di sufficiente benestare. Se quindi egli mi avesse accettato affatto gratuitamente, non avrebbe fatto bene, perché questo sarebbe stato di danno ad altri più bisognosi di me.
Per due anni i suoi parenti avevano mantenuto l’accordo con Don Bosco riguardo alla pensione, ma sul principio del terzo cessarono di pagare e più non ne vollero sapere: Il giovane, pur essendo vivace in sommo grado, era aperto, schietto, buono di cuore, di una condotta esemplare, e faceva molto profitto nello studio. Ora in quest’anno scolastico (1862 – 1863) essendo per entrare nella quarta classe, timoroso di dover troncare gli studi, se ne aperse con don Bosco, il quale gli rispose: «E che importa se i tuoi non vogliono più pagare? Non ci sono io? Sta’ sicuro che don Bosco non ti abbandonerà». E infatti, finché stette nell’Oratorio, don Bosco lo provvide di tutto il necessario.
Compiuta la quarta ginnasiale e superati felicemente gli esami, s’impiegò; e i primi denari che poté mettere insieme col suo lavoro, li mandò a costo di privazioni e a piccole rate a don Bosco per fare il saldo di quella poca pensione che i parenti nell’ultimo anno dell’Oratorio avevano tralasciato di pagare. Visse da buon cristiano, zelò la diffusione delle Letture Cattoliche, fu tra i primi ad aggregarsi all’unione degli ex allievi e si tenne sempre in affettuosa comunicazione con suoi antichi superiori.

3) Essere un buon ascoltatore
In un mondo in cui tutti sembrano parlare in continuazione, un buon ascoltatore si distingue. Una cosa è ascoltare ciò che qualcuno dice, ma ascoltare davvero – assorbire e capire – è un’altra cosa. Essere un buon ascoltatore non significa solo rimanere in silenzio mentre l’altra persona parla. Si tratta di partecipare alla conversazione, di fare domande di approfondimento e di mostrare un interesse genuino.

Il contatto come scambio di energia.
Aveva una delle qualità più rare: la “grazia di esistenza”. Una vita traboccante, come vino buono dal tino. Per cui migliaia di persone hanno detto: «Grazie perché ci sei!» e «Accanto a te io sono un altro!».
«Ascoltava i ragazzi colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti. Talora si alzava, o passeggiava con essi nella stanza. Finito il colloquio li accompagnava fino alla soglia, apriva egli stesso la porta, e li congedava dicendo: «Siamo sempre amici, neh!» (Memorie Biografiche VI, 439).

4) La bellezza dell’uomo buono
Per questo don Bosco è attraente. Il Cardinale Giovanni Cagliero riferiva il fatto seguente notato personalmente nell’accompagnare don Bosco. Dopo una conferenza tenuta a Nizza, don Bosco usciva dal presbitero della chiesa per avviarsi alla porta, tutto circondato dalla folla che non lo lasciava camminare. Un individuo dall’aspetto torvo stava immobile a guardarlo come se macchinasse un brutto tiro. Don Cagliero, che lo teneva d’occhio, inquieto per ciò che potesse succedere, vide l’uomo avvicinarsi. Don Bosco gli rivolse la parola: «Che cosa desiderate?» «Io? Nulla!»
«Eppure sembra che abbiate qualche cosa da dirmi!» «Io non ho nulla da dirle».
«Volete confessarvi?» «Confessarmi, io? Ma neppur per sogno!»
«Dunque che cosa fate qui?» «Sto qui perché… non posso andar via!»
«Ho capito… Signori, mi lascino un momento solo», disse don Bosco a quelli che lo circondavano. I vicini si tirarono in disparte, don Bosco sussurrò qualche parola all’orecchio di quell’uomo che, cadendo in ginocchio, si confessò in mezzo alla chiesa (cf. MB XIV, 37).

Papa Pio XI, il Pontefice che canonizzò don Bosco e che nell’autunno del 1883 era stato ospite di don Bosco, nella Casa Pinardi, ricorda: «Eccolo a rispondere a tutti: e aveva la parola esatta per tutto, così propria da meravigliare: prima infatti sorprendeva e poi troppo meravigliava».
Due cose ci fanno capire l’eternità: l’amore e lo stupore. Don Bosco le sintetizzava nella sua persona. La bellezza esteriore è la componente visibile di quella interiore. E si manifesta attraverso la luce che promana dagli occhi di ogni individuo. Non importa che questi sia malvestito o non si conformi ai nostri canoni dell’eleganza, oppure se non cerchi di imporsi all’attenzione delle persone che lo circondano. Gli occhi sono lo specchio dell’anima e, in qualche maniera, rivelano ciò che sembra occulto.
Ma, oltre alla capacità di brillare, essi posseggono un’altra qualità: fungono da specchio sia per le doti racchiuse nell’animo sia per gli uomini e le donne che sono oggetto dei loro sguardi.
Infatti riflettono chi li sta guardando. Come ogni specchio, gli occhi restituiscono il riflesso più intimo del volto che hanno davanti.

Un vecchio sacerdote già alunno a Valdocco, lasciò scritto nel 1889: “Quel che in don Bosco più spiccava era lo sguardo, dolce ma penetrantissimo, fino alle latebre del cuore, cui appena si poteva resistere fissandolo”. E aggiungeva: “In genere i ritratti e i quadri non riportano questa singolarità” (MB VI, 2-3).
Un altro ex-allievo, degli anni ’70, Pons Pietro, rivela nei suoi ricordi: “Don Bosco aveva due occhi che foravano e penetravano nella mente… Egli passeggiava adagio parlando e guardando tutti con due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzando di gioia i cuori” (MB XVII, 863).
Sapete di essere una buona persona quando le persone vengono sempre a chiedervi consigli e incoraggiamenti. La porta di don Bosco era sempre aperta per grandi e piccoli. La bellezza dell’uomo buono è una qualità difficile da definire, ma quando c’è, te ne accorgi: come un profumo. Tutti sappiamo che cos’è il profumo delle rose, ma nessuno si può alzare in piedi e spiegarlo.
Talora accadeva questo fenomeno, che un giovane udita la parola di don Bosco, non gli si staccava più dal fianco, assorto quasi in un’idea luminosa… Altri vegliavano di sera alla sua porta, picchiando leggermente ogni tanto, finché non venisse loro aperto, perché non volevano andare a dormire col peccato nell’anima.

(continua)




Messaggio alla fine della 42ª edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana

Alla mia carissima Famiglia

Figli e figlie miei, carissimi,

Il sogno che fa sognare. Questa è tutta l’eredità che vi lascio: un sogno. Quel sogno che ha guidato la mia vita. Ora è il vostro sogno. Ciò che ho avuto di più prezioso, lo dono a voi. È venuto dall’alto e, come tutto ciò che nasce da Dio, non può morire. È stata la mia vocazione e la mia missione.

Se siete qui oggi, è perché siete stati scelti per una missione. Questa è la vostra vocazione: voi siete chiamati a continuare quello che io ho incominciato. A realizzare oggi tutti i sogni di Dio che sono anche i miei. E a realizzarli insieme, in famiglia.

Perciò vi chiedo di partire. Ancora una volta, partire. Senza tregua, incessantemente partire.
Come Abramo, come Giuseppe e Maria, come Levi, Simone, Andrea e tutti gli altri. Come ho fatto io. Parti, dice Dio. Ti dirò io dove devi andare. Non stancatevi. Non fermatevi mai.
Vi ho detto spesso: ci riposeremo in Paradiso. Sia questa la vostra direzione. Andare in Paradiso e portare con voi quanti più ragazzi, ragazze e giovani possibile.

Credete nelle verità più alte e più belle. Confidate in Dio Creatore, nello Spirito Santo che muove tutto verso il bene, nell’abbraccio di Cristo presente in ogni persona e che attende tutti alla fine della loro esistenza; credete, Lui vi aspetta, in famiglia.
Fidatevi della Maestra, lasciatevi prendere per mano da Lei. Non vi abbandonerà mai.
Una madre tiene sempre il fuoco acceso e la porta aperta.

Ovunque siate, costruite! In piedi, sempre. Se siete a terra, alzatevi! Il mondo ha bisogno di voi! Il nostro gregge è minacciato, i lupi sono in agguato: le loro zanne si chiamano violenza fisica, violenza affettivo-sessuale, violenza economica, cyber-violenza e la terribile esclusione sociale.

Amate le persone. Amatele una ad una. Rispettate il cammino di tutti, lineare o tormentato che sia, perché ogni persona è sacra.
Piangete con chi piange, ma lavorate perché non ci siano più lacrime in questo mondo. «Non piangere» ha detto Gesù alla vedova di Nain. Restituite figli vivi alle madri di questo mondo.

Il vostro modo di amare sia una potenza di trasformazione che porta alla felicità. Abbiate un amore limpido, seminate allegria e ovunque passate siate una benedizione. Non sciupate la vostra vita. Contagiate il mondo con la vostra gioia.

Salvatevi dall’indifferenza. Godete il miracolo della luce, dell’acqua viva e del pane condiviso. Ricordatevi che la fede umanizza. Sempre. Guardate, imparate e siate pazienti, e lasciamo che sia Dio a dettare i tempi della Provvidenza.

Non lasciate spazio ai pensieri amari, oscuri. Questo mondo è il primo miracolo che Dio ha fatto, e Dio ha messo nelle vostre mani la grazia di nuovi miracoli. Aspettatevi sempre un miracolo, nella vita di tutti i giorni.

Sincronizzate i battiti del vostro cuore sulle lacrime di tanti giovani impoveriti. E sulla rabbia di chi ha incontrato solo ingiustizia e abusi. Tenete le porte sempre aperte. Siate responsabili di questo mondo e della vita di ogni giovane. Pensate che ogni ingiustizia contro un povero è una ferita aperta nel cuore di Dio.

Operate la pace in mezzo agli uomini, e non ascoltate la voce di chi sparge odio e divisioni. Che sia pace e perdono nelle vostre case. Tutti insieme formate una vera famiglia, una città salda, uno spazio inclusivo. Un Oratorio. Siate Oratorio.

Che ogni giovane uomo e ogni giovane donna che incontrate possa crescere in sapienza, in età, in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini e diventare protagonista di una nuova umanità.

Ogni giorno domandate a Dio il dono del coraggio. Ricordatevi sempre che Gesù ha vinto per noi la paura. Vincerete il mondo con l’arma di Maria, la tenerezza. Come vi ha raccomandato Papa Francesco: Gesù ci ha consegnato una luce che brilla nelle tenebre: difendetela, proteggetela. Quell’unico lume è la ricchezza più grande affidata alla vostra vita.

E soprattutto, sognate! Non abbiate paura di sognare. Sognate! Sognate un mondo che ancora non si vede, ma che di certo arriverà.
Organizzate la speranza. Abbiate cura del creato. La speranza ci porta a credere all’esistenza di una creazione che si estende fino al suo compimento definitivo, quando Dio sarà tutto in tutti.

Il nostro sogno è come la vita: è tutto quello che abbiamo.
Non lasciatelo morire.
E allora andiamo, andiamo a cambiare il mondo. Insieme.

Don Bosco




Il sogno di 9 anni. Genesi di una vocazione

Il sogno di 9 anni presentato in dieci punti, sintesi di una celeste vocazione, confermata dai frutti che ha prodotto, presentato alla 42° edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana a Valdocco, Torino.

Duecento anni fa, un ragazzino di nove anni, povero e senza altro futuro se non quello di fare il contadino, fece un sogno. Lo raccontò al mattino a madre, nonna e fratelli, che la presero sul ridere. La nonna concluse: «Non bisogna badare ai sogni». Molti anni dopo, quel ragazzo, Giovanni Bosco, scrisse: «Io ero del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile togliermi quel sogno dalla mente». Perché non era un sogno come tanti altri e non morì all’alba.

Primo: è un ordine imperioso
Don Lemoyne, il primo storico di Don Bosco, infatti riassume così il sogno: «Gli era parso di vedere il Divin Salvatore vestito di bianco, raggiante per luce splendidissima, in atto di guidare una turba innumerabile di giovanetti. Rivoltosi a lui aveagli detto: – Vieni qua: mettiti alla testa di questi fanciulli e guidali tu stesso. – Ma io non sono capace, rispondeva Giovanni. Il Divin Salvatore insistette imperiosamente finché Giovanni si pose a capo di quella moltitudine di ragazzi e cominciò a guidarli giusto il comando che eragli stato fatto». Come il «Seguimi» di Gesù.

Secondo: è il segreto della gioia
Quel sogno tornò e tornò, altre volte. Con una carica trascinante di energia. Era fonte di gioiosa sicurezza e di forza inesauribile per Giovanni Bosco. La fonte della sua vita.
Al processo diocesano per la causa di beatificazione di Don Bosco, Don Rua, suo primo successore, testimoniò: «Mi raccontò Lucia Turco, appartenente a famiglia, ove D. Bosco si recava sovente a trattenersi coi di lei fratelli, che un mattino lo videro arrivare più giulivo del solito. Interrogato quale ne fosse la causa, rispose che nella notte aveva avuto un sogno, che tutto l’aveva rallegrato».

Terzo: la risposta
La domanda per tutti è: «Vuoi una vita qualunque o vuoi cambiare il mondo?»
Viktor Frankl sottolinea la differenza tra “senso della vita” e “senso nella vita“. Il senso della vita è associato a domande come Perché sono qui? Qual è il senso di tutto questo? Che senso ha la vita? Molte persone cercano le risposte nella religione o in una nobile missione per un bene superiore, come per esempio combattere la povertà o fermare il riscaldamento globale. Spesso è difficile trovare il senso della vita; portare avanti la lotta per afferrare questo concetto può essere sfiancante, soprattutto nei momenti di difficoltà, quando fatichiamo perfino ad arrivare a fine giornata. D’altro canto, è molto più facile trovare senso nella vita: nelle cose ordinarie che facciamo d’abitudine, nel momento presente, nelle attività quotidiane a casa o al lavoro. È proprio il senso nella vita che costituisce il mezzo preferenziale per sperimentare il benessere spirituale.

Quarto: un segno dall’Alto
In seminario, Don Bosco come motivazione della sua vocazione scrisse una pagina di umiltà ammirevole: «II sogno di Morialdo, mi stava sempre impresso; anzi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro» Noi possiamo essere sicuri: egli aveva riconosciuto il Signore e sua Madre. Nonostante la sua modestia, non dubitava affatto di essere stato visitato dal Cielo. Non dubitava nemmeno che quelle visite fossero destinate a svelargli il suo avvenire e quello della sua opera. Lui stesso l’ha detto: «La Congregazione salesiana non ha fatto un passo senza che un fatto soprannaturale glielo avesse consigliato. Non è arrivata al punto di sviluppo in cui si trova senza un ordine speciale del Signore».

Quinto: assistenza continua
«Intesi poi da altri che egli chiese: – Come farò io ad aver cura di tante pecore? E tanti agnelli? Dove troverò i pascoli per mantenerli? La Signora gli rispose: – Non temere, io ti assisterò, e poi sparì».

Sesto: una Maestra
Una madre.

Settimo: una missione
«Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare, continuò a dire quella Signora. Renditi umile, forte, robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». 

Ottavo: un metodo
«Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici».

Nono: i destinatari
«Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, di orsi e di parecchi altri animali».

Decimo: un’Opera
«Oppresso dalla stanchezza voleva sedermi accanto di una strada vicina, ma la pastorella mi invitò a continuare il cammino. Fatto ancora breve tratto di via, mi sono trovato in un vasto cortile con porticato attorno, alla cui estremità eravi una chiesa. Allora mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli. Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi pastorelli per custodirli. Ma essi fermavansi poco e tosto partivano. Allora succedette una meraviglia. Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri. Io voleva andarmene, ma la pastora mi invitò di guardare al mezzodì. ‘Guarda un’altra volta’, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Nell’interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea».
Per questo, quando entriamo nella Basilica di Maria Ausiliatrice, entriamo nel sogno di Don Bosco.

Il testamento di Don Bosco
Il Papa stesso chiese ordinò a Don Bosco di scrivere il sogno per i suoi figli. Lui cominciò così: «A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro».
Per questo le Costituzioni salesiane cominciano con un “atto di fede”: «Con senso di umile gratitudine crediamo che la Società di san Francesco di Sales è nata non da solo progetto umano, ma per iniziativa di Dio».




La barca

Una sera, due turisti che si trovavano in un camping sulle rive di un lago decisero di attraversare il lago in barca per andare a «farsi un bicchierino» nel bar situato sull’altra riva.
Ci rimasero fino a notte fonda, scolandosi una discreta serie di bottiglie.
Quando uscirono dal bar ondeggiavano alquanto, ma riuscirono a prendere posto nella barca per intraprendere il viaggio di ritorno.
Cominciarono a remare gagliardamente. Sudati e sbuffanti, si sforzarono con decisione per due ore. Finalmente uno disse all’altro:
– Non pensi che a quest’ora dovremmo già aver toccato l’altra riva, da un bel po’ di tempo?
– Certo, rispose l’altro, ma forse non abbiamo remato con abbastanza energia.
I due raddoppiarono gli sforzi e remarono risolutamente ancora per un’ora. Solo quando spuntò l’alba constatarono stupefatti che erano sempre allo stesso punto.
Si erano dimenticati di slegare la robusta fune che legava la loro barca al pontile.

Quanta gente annaspa e si agita tutto il giorno senza approdare a nulla perché non si libera davvero dai legami e dalle abitudini vischiose.




L’orario dei treni

Io conoscevo un uomo che sapeva a memoria l’orario ferroviario, perché l’unica cosa che gli dava gioia erano le ferrovie, ed egli passava tutto il suo tempo alla stazione, guardava come i treni arrivavano e come ripartivano. Egli osservava con meraviglia i vagoni, la forza delle locomotive, la grandezza delle ruote, osservava meravigliato i controllori che saltavano in carrozza e il capostazione.
Conosceva ogni treno, sapeva da dove veniva, dove andava, quando sarebbe arrivato in un certo posto e quali treni ripartivano da quel posto e quando sarebbero arrivati.
Sapeva i numeri dei treni, sapeva in che giorno viaggiano, se hanno il vagone ristorante, se aspettano o no delle coincidenze. Sapeva quali treni hanno il vagone postale e quanto costa un biglietto per Frauenfeld, per Olten, per Niederbipp o per un qualche posto.
Non andava al bar, non andava al cinema, non andava a spasso, non aveva né la bicicletta, né la radio, né il televisore, non leggeva giornali né libri, e se avesse ricevuto delle lettere, non avrebbe letto neanche queste. Per fare queste cose gli mancava il tempo, perché egli passava le sue giornate alla stazione, e solo quando l’orario ferroviario cambiava, a maggio e a ottobre, non lo si vedeva più per qualche settimana.
Allora se ne stava a casa seduto al suo tavolo e imparava tutto a memoria, leggeva l’orario nuovo dalla prima all’ultima pagina, faceva attenzione ai cambiamenti ed era contento quando non c’erano. Capitò anche che qualcuno gli chiese l’orario di partenza di un treno. Allora divenne raggiante in volto e volle sapere con esattezza qual era la meta del viaggio, e chi gli aveva chiesto l’informazione perse di sicuro il treno, perché egli non lo lasciò andare, non si accontentò di citare l’ora, citò anche il numero del treno, il numero dei vagoni, le possibili coincidenze, tutti gli orari di partenza; spiegò che con quel treno si poteva andare a Parigi, dove bisognava scendere e a che ora si arrivava, e non capiva che tutto ciò alla gente non interessava. Se però qualcuno lo piantava lì e se ne andava prima che gli avesse elencato tutte le sue conoscenze, si arrabbiava, lo insultava e gli gridava dietro:
– Lei non ha la minima idea delle ferrovie!
Lui personalmente, non salì mai su un treno.
Ciò non avrebbe avuto senso, diceva, perché egli sapeva già prima a che ora il treno arrivava (Peter Bichsel).

Molte persone (tra cui molti studiosi insigni) sanno tutto della Bibbia, anche l’esegesi dei versetti più piccoli e nascosti, anche il significato delle parole più difficili e perfino quello che lo scrittore sacro voleva veramente dire, anche se sembra il contrario.
Ma non trasformano in vita personale niente di quello che è scritto nella Bibbia.