Il Venerabile mons. Stefano Ferrando

Mons. Stefano Ferrando è stato un esempio straordinario di dedizione missionaria e servizio episcopale, coniugando il carisma salesiano con una vocazione profonda al servizio dei più poveri. Nato nel 1895 in Piemonte, entrò giovane nella Congregazione salesiana e, dopo aver prestato servizio militare durante la Prima guerra mondiale, che gli valse la medaglia d’argento al valore, si dedicò all’apostolato in India. Vescovo di Krishnagar e poi di Shillong per oltre trent’anni, camminò instancabilmente fra le popolazioni, promuovendo l’evangelizzazione con umiltà e profondo amore pastorale. Fondò istituzioni, sostenne i catechisti laici e incarnò nel suo vivere il motto “Apostolo di Cristo”. La sua vita fu un esempio di fede, abbandono a Dio e totale donazione, lasciando un’eredità spirituale che continua ad ispirare la missione salesiana nel mondo.

            Il venerabile Mons. Stefano Ferrando seppe coniugare la propria vocazione salesiana con il carisma missionario e il ministero episcopale. Nato il 28 settembre 1895 a Rossiglione (Genova, diocesi di Acqui) da Agostino e Giuseppina Salvi, si contraddistinse per un ardente amore a Dio e una tenera devozione alla beata Vergine Maria. Nel 1904 entrò nelle scuole salesiane, prima a Fossano e poi a Torino – Valdocco, dove conobbe i successori di Don Bosco e la prima generazione di Salesiani, e intraprese gli studi sacerdotali; nel frattempo nutrì il desiderio di partire missionario. Il 13 settembre 1912, a Foglizzo fece la sua prima professione religiosa nella Congregazione salesiana. Chiamato alle armi nel 1915, partecipò alla Prima guerra mondiale. Per il coraggio dimostrato gli venne conferita la medaglia d’argento al valore. Tornato a casa nel 1918, il 26 dicembre 1920 emise i voti perpetui.
            Fu ordinato sacerdote a Borgo San Martino (Alessandria) il 18 marzo 1923. Il 2 dicembre dello stesso anno, con nove compagni, s’imbarcò a Venezia come missionario in India. Il 18 dicembre, dopo 16 giorni di viaggio, il gruppo arrivò a Bombay e il 23 dicembre a Shillong, luogo del suo nuovo apostolato. Maestro dei novizi, educò i giovani salesiani all’amore per Gesù e Maria ed ebbe un grande spirito di apostolato.
            Il 9 agosto 1934 papa Pio XI lo nominò vescovo di Krishnagar. Il suo motto fu “Apostolo di Cristo”. Nel 1935, il 26 novembre, venne trasferito a Shillong dove rimarrà vescovo per 34 anni. Pur operando in una gravosa situazione di impatto culturale, religioso e sociale, Mons. Ferrando si prodigò instancabilmente per stare accanto al popolo che gli era stato affidato, lavorando con zelo nella vasta diocesi che comprendeva l’intera regione dell’India del Nord Est. Preferì alla macchina, di cui avrebbe potuto disporre, muoversi a piedi: questo gli permetteva infatti di incontrare le persone, fermarsi a parlare con loro, essere reso partecipe della loro vita. Tale contatto in diretta con la vita delle persone fu una delle principali ragioni della fecondità del suo annuncio evangelico: umiltà, semplicità, amore per i poveri spingono molti a convertirsi e a richiedere il Battesimo. Istituì un seminario per la formazione dei giovani salesiani indiani, costruì un ospedale, edificò un santuario dedicato a Maria Ausiliatrice e fondò la prima Congregazione di suore autoctone, la Congregazione delle Suore Missionarie di Maria Aiuto dei Cristiani (1942).

            Uomo dal carattere forte, non si scoraggiò di fronte alle innumerevoli difficoltà, che affrontò con il sorriso e la mitezza. La perseveranza di fronte agli ostacoli fu una delle sue caratteristiche principali. Cercò di unire il messaggio evangelico alla cultura locale nella quale esso andava inserito. Fu intrepido nelle visite pastorali, che compì nei luoghi più sperduti della diocesi, pur di ricuperare l’ultima pecorella smarrita. Manifestò una particolare sensibilità e promozione per i catechisti laici, che considerava complementari alla missione del vescovo e da cui dipese buona parte della fecondità dell’annuncio del Vangelo e della sua penetrazione nel territorio. Immensa anche la sua attenzione alla pastorale familiare. Nonostante i numerosi impegni, il venerabile fu un uomo dalla ricca vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal raccoglimento. Come Pastore fu apprezzato dalle sue suore, dai sacerdoti, dai confratelli salesiani e nell’episcopato, nonché dal popolo che lo sentì profondamente vicino. Si donò in maniera creativa al suo gregge, occupandosi dei poveri, difendendo gli intoccabili, curando i malati di colera.
            I punti-cardine della sua spiritualità furono il legame filiale con la Vergine Maria, lo zelo missionario, il continuo riferimento a Don Bosco, come emerge dai suoi scritti e in tutta la sua attività missionaria. Il momento più luminoso ed eroico della sua vita virtuosa fu l’abbandono della diocesi di Shillong. Mons. Ferrando dovette presentare al Santo Padre le dimissioni quando era ancora nel pieno delle proprie facoltà fisiche e intellettive, per consentire la nomina del suo successore, che andava scelto, secondo le superiori indicazioni, fra i sacerdoti indigeni da lui stesso formati. Fu un momento particolarmente doloroso, vissuto dal grande vescovo con umiltà e obbedienza. Egli comprese che era tempo di ritirarsi in preghiera secondo la volontà del Signore.
            Tornato a Genova nel 1969, continuò la sua attività pastorale, presiedendo le cerimonie per il conferimento della Cresima e dedicandosi al sacramento della Penitenza.
            Fu sino all’ultimo fedele alla vita religiosa salesiana, decidendo di vivere in comunità e rinunciando ai privilegi che la sua posizione di vescovo poteva riservargli. Egli in Italia continuò ad essere «a missionary». Non «a missionary who moves, but […] a missionary who is»: non un missionario che si muove, ma un missionario che è. La sua vita in questa ultima stagione diventò un “irradiare”. Egli diventa un “missionario della preghiera” che dice: «Sono contento di essere venuto via perché altri subentrassero a compiere opere così meravigliose».
            Da Genova Quarto, continuò ad animare la missione dell’Assam, sensibilizzando le coscienze ed inviando aiuti economici. Visse quest’ora di purificazione con spirito di fede, di abbandono alla volontà di Dio e di obbedienza, toccando con mano tutto il senso dell’espressione evangelica «siamo solo servi inutili», e confermando con la sua vita il caetera tolle, l’aspetto oblativo-sacrificale della vocazione salesiana. Morì il 20 giugno 1978 e venne sepolto a Rossiglione, sua terra natale. Nel 1987 le sue spoglie mortali furono riportate in India.

            Nella docilità allo Spirito svolse una feconda azione pastorale, che si manifestò nel grande amore per i poveri, nell’umiltà di spirito e nella carità fraterna, nella gioia e nell’ottimismo dello spirito salesiano.
            Mons. Ferrando ha inaugurato, insieme a tanti missionari che con lui hanno condiviso l’avventura dello Spirito nella terra dell’India, tra i quali i Servi di Dio Francesco Convertini, Costantino Vendrame e Oreste Marengo, un nuovo metodo missionario: essere missionario itinerante. Tale esempio è un provvidenziale monito, soprattutto per le congregazioni religiose tentate da un processo di istituzionalizzazione e di chiusura, a non perdere la passione di andare incontro alle persone e alle situazioni di maggior povertà e indigenza materiale e spirituale, andando là dove nessuno vuole andare e affidandosi come lei fece. «Guardo con fiducia all’avvenire fidando in Maria Ausiliatrice… Mi affiderò all’Ausiliatrice che mi salvò già da tanti pericoli».




Il cardinale Augusto Hlond

            Secondo di 11 figli, suo padre era un operaio delle ferrovie. Ricevuta dai genitori una fede semplice ma forte, a 12 anni, attratto dalla fama di Don Bosco, seguì in Italia il fratello Ignazio per consacrarsi al Signore nella Società Salesiana, e vi attirò presto altri due fratelli: Antonio, che diventerà salesiano e rinomato musicista, e Clemente, che sarà missionario. Lo accolse il collegio di Valsalice per gli studi ginnasiali. Ammesso quindi al noviziato, ricevette l’abito talare dal beato Michele Rua (1896). Fatta la professione religiosa nel 1897, i superiori lo destinarono a Roma all’Università Gregoriana per il corso di filosofia che coronò con la laurea. Da Roma tornò in Polonia a esercitare il tirocinio pratico nel collegio di Oświęcim. La sua fedeltà al sistema educativo di Don Bosco, il suo impegno nell’assistenza e nella scuola, la sua dedizione ai giovani e l’amabilità del suo tratto gli acquistarono grande ascendente. Si affermò subito anche per il talento musicale.
            Compiuti gli studi di teologia, ricevette il 23 settembre 1905 l’ordinazione sacerdotale, conferitagli in Cracovia da Mons. Nowak. Negli anni 1905-09 frequentò la facoltà di lettere presso le università di Cracovia e di Leopoli. Nel 1907 fu preposto alla direzione della nuova casa di Przemyśl (1907-09), da dove passò alla direzione della casa di Vienna (1909-19). Qui il suo valore e la sua abilità personale ebbero un campo ancor più vasto per le particolari difficoltà in cui si trovava l’istituto nella capitale imperiale. Don Augusto Hlond, con la sua virtù e col suo tatto, riuscì in breve non solo a sistemare la situazione economica, ma anche a suscitare una fioritura di opere giovanili da attirare l’ammirazione di ogni ceto di persone. La cura dei poveri, degli operai, dei figli del popolo gli attirava l’affetto delle classi più umili. Carissimo ai vescovi e ai nunzi apostolici, godeva la stima delle autorità e della stessa famiglia imperiale. Come riconoscimento di tale opera sociale ed educativa ricevette per tre volte alcune delle onorificenze più prestigiose.
            Nel 1919 lo sviluppo dell’Ispettoria Austro-Ungarica consigliò una divisione proporzionata al numero delle case, e i superiori nominarono don Hlond ispettore dell’Ispettoria tedesco-ungarica, con sede a Vienna (191922), affidandogli la cura dei confratelli austriaci, tedeschi e ungheresi. In nemmeno tre anni, il giovane ispettore aprì una decina di nuove presenze salesiane, e le formò al più genuino spirito salesiano, suscitando numerose vocazioni.
            Era nel pieno fervore della sua attività salesiana, quando, nel 1922, dovendo la Santa Sede provvedere alla sistemazione religiosa della Slesia Polacca, ancor sanguinante per le lotte politiche e nazionali, il Santo Padre Pio XI affidò a lui la delicatissima missione, nominandolo Amministratore Apostolico. Dalla sua mediazione tra tedeschi e polacchi nacque nel 1925 la diocesi di Katowice, di cui diventò vescovo. Nel 1926 è arcivescovo di Gniezno e Poznań e primate di Polonia. L’anno successivo il Papa lo crea cardinale. Nel 1932 fonda la Società di Cristo per gli emigrati polacchi, volta ad assistere i tanti compatrioti che hanno lasciato il Paese.
            Nel marzo del 1939 partecipa al Conclave che elegge Pio XII. Il primo settembre dello stesso anno i nazisti invadono la Polonia: inizia la Seconda guerra mondiale. Il cardinale alza la voce contro le violazioni dei diritti umani e della libertà religiosa compiute da Hitler. Costretto all’esilio si rifugia in Francia, presso l’Abbazia di Hautecombe, denunciando le persecuzioni contro gli Ebrei in Polonia. La Gestapo penetra nell’Abbazia e lo arresta, deportandolo a Parigi. Il porporato si rifiuta categoricamente di appoggiare la formazione di un governo polacco filonazista. Viene internato prima in Lorena e poi in Westfalia. Liberato dalle truppe alleate, nel 1945 torna in Patria.
            Nella nuova Polonia liberata dal nazismo, trova il comunismo. Con coraggio difende i Polacchi dall’oppressione atea marxista, scampando anche ad alcuni attentati. Muore il 22 ottobre 1948 a causa di una polmonite, all’età di 67 anni. Ai funerali accorrono migliaia di persone.
            Il cardinale Hlond fu un uomo virtuoso, un luminoso esempio di religioso salesiano e un pastore generoso, austero, capace di visioni profetiche. Obbediente alla Chiesa e fermo nell’esercizio dell’autorità, dimostrò umiltà eroica e inequivocabile costanza nei momenti di maggiore prova. Coltivò la povertà e praticò la giustizia verso i poveri e i bisognosi. Le due colonne della sua vita spirituale, alla scuola di san Giovanni Bosco, furono l’Eucaristia e Maria Ausiliatrice.
            Nella storia della Chiesa di Polonia, il cardinale Augusto Hlond è stato una delle figure più eminenti per la testimonianza religiosa della sua vita, per la grandezza, la varietà e l’originalità del suo ministero pastorale, per le sofferenze che affrontò con intrepido animo cristiano per il Regno di Dio. L’ardore apostolico distinse l’opera pastorale e la fisionomia spirituale del venerabile Augusto Hlond, che assumendo come motto episcopale Da mihi animas coetera tolle, da vero figlio di san Giovanni Bosco lo confermò con la sua vita di consacrato e di vescovo, dando testimonianza di instancabile carità pastorale.
            Va ricordato il suo grande amore alla Madonna, appreso nella sua famiglia e nella grande devozione del popolo polacco alla Madre di Dio, venerata nel santuario di Częstochowa. Inoltre da Torino, dove iniziò il suo cammino come salesiano, diffuse in Polonia il culto a Maria Ausiliatrice e consacrò la Polonia al Cuore Immacolato di Maria. L’affidamento a Maria lo sostenne sempre nelle avversità e nell’ora dell’incontro estremo con il Signore. Morì con la corona del Rosario fra le mani dicendo ai presenti che la vittoria, quando sarebbe venuta, sarebbe stata la vittoria di Maria Immacolata.
            Il venerabile cardinale Augusto Hlond è testimone singolare di come dobbiamo accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, difficoltà, anche persecuzioni: questo è santità. «Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché “chi vuol salvare la propria vita, la perderà” (Mt 16,25). Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi… La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione» (Francesco, Gaudete et Exsultate, nn. 90-92).




Venerabile Ottavio Ortiz Arrieta Coya, vescovo

Ottavio Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima, in Perù, il 19 aprile 1878, è stato il primo salesiano peruviano. Da giovane si formò come falegname, ma il Signore lo chiamò a una missione più alta. Emise la sua prima professione salesiana il 29 gennaio 1900 e fu ordinato sacerdote nel 1908. Nel 1922 fu consacrato vescovo della diocesi di Chachapoyas, incarico che mantenne con dedizione fino alla morte, avvenuta il 1º marzo 1958. Due volte rifiutò la nomina alla più prestigiosa sede di Lima, preferendo restare vicino al suo popolo. Instancabile pastore, percorse tutta la diocesi per conoscere personalmente i fedeli e promosse numerose iniziative pastorali per l’evangelizzazione. Il 12 novembre 1990, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, fu aperta la sua causa di canonizzazione, e gli fu attribuito il titolo di Servo di Dio. Il 27 febbraio 2017, papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche, dichiarandolo Venerabile.


            Il venerabile Mons. Ottavio Ortiz Arrieta Coya trascorse la prima parte della vita quale oratoriano, studente e quindi diventò egli stesso Salesiano, impegnato nelle opere dei Figli di Don Bosco in Perù. Fu il primo Salesiano formatosi nella prima casa salesiana del Perù, fondata nel Rimac, un quartiere povero, dove imparò a vivere una vita austera di sacrificio. Tra i primi Salesiani che arrivarono in Perù nel 1891, conobbe lo spirito di Don Bosco e il Sistema Preventivo. Come Salesiano della prima generazione apprese che il servizio e il dono di sé sarebbero stati l’orizzonte della sua vita; per questo fin da giovane salesiano assunse importanti responsabilità, come l’apertura di nuove opere e la direzione di altre, con semplicità, sacrificio e totale dedizione ai poveri.
            Visse la seconda parte della vita, dall’inizio degli anni venti, come vescovo di Chachapoyas, diocesi immensa, vacante da anni, in cui le proibitive condizioni del territorio si sommavano a una certa chiusura, soprattutto nei villaggi più sperduti. Qui il campo e le sfide dell’apostolato erano immensi. Ortiz Arrieta era di temperamento vivace, abituato alla vita comunitaria; inoltre delicatissimo d’animo, al punto da venire chiamato “pecadito” nei suoi giovani anni, per la sua esattezza nel rilevare le mancanze e aiutare sé stesso e gli altri a emendarsene. Disponeva inoltre di un innato senso del rigore e del dovere morale. Le condizioni in cui dovette svolgere il ministero episcopale gli si prospettano invece diametralmente opposte: solitudine e sostanziale impossibilità a condividere una vita salesiana e sacerdotale, nonostante le reiterate e quasi supplicanti richieste alla propria Congregazione; necessità di contemperare il proprio rigore morale con una fermezza sempre più docile e quasi disarmata; fine coscienza morale continuamente messa alla prova da grossolanità di scelte e tiepidezza nella sequela, da parte di alcuni collaboratori meno eroici di lui, e di un popolo di Dio che sapeva opporsi al vescovo quando la sua parola diveniva denuncia di ingiustizia e diagnosi dei mali spirituali. Il cammino del venerabile verso la pienezza della santità, nell’esercizio delle virtù, fu pertanto segnato da fatiche, difficoltà e dalla continua necessità di convertire il proprio sguardo e il proprio cuore, sotto l’azione dello Spirito.
            Se senz’altro troviamo nella sua vita episodi definibili come eroici in senso stretto, occorre però evidenziare nel suo cammino virtuoso anche e forse soprattutto quei momenti in cui egli avrebbe potuto agire diversamente, ma non lo fece; cedere all’umana disperazione, mentre rinnovò la speranza; accontentarsi di una carità grande, senza però dare piena disponibilità all’esercizio di quella carità eroica che invece praticò con esemplare fedeltà per diversi decenni. Quando, per due volte, gli venne proposto di cambiare sede, e nel secondo caso gli fu offerta la sede primaziale di Lima, decise di restare tra i suoi poveri, quelli che nessuno voleva, davvero alla periferia del mondo, rimanendo nella diocesi che aveva per sempre sposato e amato così come essa era, impegnandosi con tutto sé stesso a renderla anche solo un poco migliore. Fu pastore “moderno” nel suo stile di presenza e nel ricorso a mezzi di azione come l’associazionismo e la stampa. Uomo di temperamento deciso e di salde convinzioni di fede, Mons. Ortiz Arrieta usò certamente di questo “don de gobierno” nella sua guida, sempre unita però al rispetto e alla carità, espressi con coerenza straordinaria.
            Benché sia vissuto prima del Concilio Vaticano II, tuttavia è attuale il modo in cui egli pianificò e svolse gli incarichi pastorali a lui affidati: dalla pastorale vocazionale al concreto appoggio ai suoi seminaristi e sacerdoti; dalla formazione catechetica e umana dei più giovani a quella pastorale familiare attraverso cui incontra coppie di sposi in crisi o coppie di conviventi restii nel regolarizzare la loro unione. Mons. Ortiz Arrieta del resto non educa solo con la sua concreta azione pastorale, ma con il suo stesso comportamento: con la capacità di discernere per sé stesso, prima di tutto, che cosa significhi e che cosa comporti rinnovare la fedeltà alla strada intrapresa. Egli davvero ha perseverato nella povertà eroica, nella fortezza attraverso le numerose prove della vita e nella radicale fedeltà alla diocesi cui era stato assegnato. Umile, semplice, sempre sereno; tra il serio e il gentile; la dolcezza del suo sguardo faceva trasparire tutta la tranquillità del suo spirito: questo fu il cammino della santità che percorse.
            Le belle caratteristiche che i suoi superiori salesiani riscontrarono in lui prima dell’ordinazione sacerdotale – quando lo definiscono una “perla di salesiano” e ne valorizzano lo spirito di sacrificio – ritornano come una costante in tutta la sua vita, anche episcopale. Davvero si può dire che Ortiz Arrieta si sia «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22): autorevole con le autorità, semplice con i bambini, povero tra i poveri; mite con chi lo insultava o tentava per rancore di delegittimarlo; sempre pronto a non restituire male per male, ma a vincere il male con il bene (cf Rm 12,21). Tutta la sua vita fu dominata dal primato della salvezza delle anime: una salvezza cui vorrebbe fattivamente dedicati anche i suoi sacerdoti, dei quali prova a contrastare la tentazione di rinserrarsi entro facili sicurezze o trincerarsi dietro incarichi di maggior prestigio, per impegnarli invece nel servizio pastorale. Si può davvero dire che si sia situato in quella misura “alta” della vita cristiana, che ne fa un pastore che incarnò in modo originale la carità pastorale, cercando la comunione nel popolo di Dio, andando verso i più bisognosi e testimoniando una vita evangelica povera.




Comunicato del Rettor Maggiore alla fine del suo mandato

Ai miei Confratelli Salesiani
Ai miei fratelli e sorelle della Famiglia Salesiana

Carissimi fratelli e sorelle,
nel giorno in cui ricordiamo la nascita del nostro Padre Don Bosco, ricevete il mio affettuoso e fraterno saluto.

Le parole che invio vi giungono a pochi minuti dal termine della solenne celebrazione eucaristica in onore di Don Bosco, che nacque, proprio qui ai Becchi, il 16 agosto 1815. Quel bambino è diventato un meraviglioso strumento dello Spirito di Dio, chiamato a dare vita a questo grande movimento che è oggi la Famiglia di Don Bosco.

Questa mattina, alla presenza del Vicario del Rettor Maggiore, di molti confratelli salesiani, della Famiglia salesiana, degli amici di Don Bosco, delle autorità civili e militari e dei 375 giovani provenienti da tutto il mondo, che hanno partecipato al Sinodo dei Giovani, ho firmato le mie dimissioni da Rettor Maggiore, come previsto dalle Costituzioni e dai Regolamenti dei Salesiani di Don Bosco. Infatti, come molti di voi sapranno, Papa Francesco mi ha chiamato ad un altro servizio per il bene della Chiesa.

Con queste parole desidero esprimere nella fede e nella speranza, a tutto il mondo salesiano, come il Signore ci ha guidati fin qui e manifestare la mia gratitudine per il tanto bene ricevuto in questi dieci anni e mezzo come Rettor Maggiore della Congregazione Salesiana e come Padre, a nome di Don Bosco, di tutta la Famiglia Salesiana.

Innanzitutto, cari fratelli e sorelle, ringrazio Dio per questi anni in cui Lui stesso ha benedetto la nostra Congregazione e la Famiglia Salesiana e dove abbiamo vissuto momenti e realtà molto diversi, perché la Congregazione è presente in 136 nazioni. Credo di poter dire che in questi dieci abbiamo affrontato tutto con uno sguardo di fede, con grande speranza e determinazione, sempre per il bene della missione e nella fedeltà al carisma che abbiamo ricevuto.

Ringrazio il Signore perché in questi anni non mi è mancata – e non ci è mancata – quella serenità e quella forza che viene da Lui. Infatti, è proprio vero ciò che il Signore risorto dice a San Paolo: «Ti basta la mia grazia» (2 Cor 12,9). È proprio così che ho vissuto personalmente e insieme al Consiglio generale il servizio di animazione e di governo a me affidato. In particolare, vorrei ringraziare i due consigli generali che mi hanno accompagnato in questi dieci anni e mezzo per la fedeltà al progetto comune, per la loro dedizione e il loro servizio.

Al termine di questo tempo alla guida della Congregazione Salesiana, esprimo un particolare ringraziamento al Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio, che assume il compito di guidare la Congregazione con totale dedizione e generosità. Nei prossimi mesi il lavoro e la responsabilità saranno grandi, ma la sua personalità, la sua fraternità, la sua capacità e il suo ottimismo, con l’aiuto del Signore e del Consiglio generale, faciliteranno il cammino che condurrà la Congregazione al 29° Capitolo generale.

Esprimo la mia profonda gratitudine a tutti i miei confratelli salesiani. In ogni parte del mondo mi sono sempre sentito accolto, amato e fraternamente accettato e ho trovato collaborazione e generosità. È proprio vero che i Salesiani amano e si prendono cura del Rettor Maggiore come farebbero con Don Bosco stesso – come lui stesso ci ha chiesto nel suo testamento spirituale. Grazie per questa generosità.

Desidero anche manifestare la mia gratitudine a tutti i gruppi della Famiglia Salesiana: alle nostre sorelle, le Figlie di Maria Ausiliatrice, ai Salesiani Cooperatori, all’Associazione di Maria Ausiliatrice (ADMA) – fondati dallo stesso Don Bosco – e a tutti i 32 gruppi che oggi compongono questo grande albero carismatico. Sono stati anni di crescita e di benedizione. Grazie a tutti coloro che, confidando nel Signore, hanno reso possibile tutto questo.

In questi dieci anni di servizio di animazione e di governo, nei quali ho potuto visitare le 120 nazioni in cui sono presenti la Congregazione e la Famiglia Salesiana, ho ricevuto il grande dono di incontrare giovani, ragazzi, adolescenti, bambini e bambine di ogni paese e cultura. Ho potuto “toccare con gli occhi e con il cuore”, in prima persona, come “i miracoli educativi che guariscono e trasformano le vite” continuano ad accadere ogni giorno in tante presenze salesiane e nella nostra Famiglia. Tutto questo è stato una delle mie gioie più profonde.

Ho un ultimo ringraziamento da presentare. In questi anni sono stato incoraggiato e sostenuto da un amore incondizionato: quello della mia famiglia di sangue. I miei genitori, che riposano in Dio, mi hanno accompagnato per nove anni con amore sereno, con le loro preghiere, dicendomi sempre di non preoccuparmi per loro. Loro e tutti i membri della mia famiglia sono sempre stati presenti, mi hanno sostenuto con la loro presenza, rimanendo un porto sicuro da raggiungere per non dimenticare mai le mie umili origini.

Concludo riferendomi a quanto dissi il 25 marzo 2014, quando il IX Successore di Don Bosco, Don Pascual Chavez, mi domandò, a nome del 27° Capitolo Generale che mi aveva eletto, se avrei accettato il ruolo di Rettor Maggiore.

Ricordo che, nel mio povero italiano di allora, dissi – non senza profonda emozione – che confidando nella Grazia del Signore e nella fede, con la certezza che sarei stato sempre sostenuto dai miei confratelli salesiani, poiché amo veramente i giovani che porto nel mio cuore salesiano, accettavo quanto mi veniva chiesto.

Oggi, con riconoscenza, posso affermare che, con la grazia di Dio, tutto ciò che avevo sperato è
diventato realtà.

Rivolgo un’ultima parola a nostro padre Don Bosco e all’Ausiliatrice.

Sono certo che Don Bosco in questi anni ha vegliato e sostenuto la sua Congregazione e la sua Famiglia. Non ho alcun dubbio che in tutto questo tempo si sia realizzato quello che lui stesso ci aveva assicurato: «Ha fatto tutto lei». Così è stato con Don Bosco, così è stato in questi anni e così senza dubbio continuerà ad essere.

A Lei, Madre Ausiliatrice, ci affidiamo.

Grazie di cuore, e arrivederci da questo vostro fratello che è e sarà sempre un salesiano di Don Bosco.

Con tutto il mio affetto,

Ángel Fernández Cardinale Artime
Prot. 24/0427
Colle Don Bosco, 16.08.2024

Aggiungiamo anche l’atto di cessazione ufficio.

Io, sottoscritto Ángel Fernández Cardinale Artime, Rettore Maggiore della Società di San Francesco di Sales,

– atteso che nel Concistoro del 30 settembre 2023 il Santo Padre Francesco mi ha creato e pubblicato Cardinale della Diaconia di Santa Maria Ausiliatrice in Via Tuscolana; che in data 5 marzo 2024 Egli mi ha assegnato la sede titolare di Ursona, con dignità arcivescovile, e che il 20 aprile 2024 ho ricevuto la Ordinazione Episcopale nella Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma;
– considerato che il religioso elevato all’Episcopato è soggetto soltanto al Romano Pontefice (can.705);
– tenuto conto che, a norma del can. 184 §1 CIC “l’ufficio ecclesiastico si perde con lo scadere del tempo prestabilito” e che, con decreto del 19 aprile 2024 il Santo Padre ha disposto “in via eccezionale e solo per questo caso” la prosecuzione del mio servizio come Rettore Maggiore, dopo l’ordinazione episcopale, fino al 16 agosto 2024,
con il presente atto

DICHIARO

che, essendo compiuto il tempo prestabilito dal suddetto decreto, a partire dalla data odierna cesso dall’ufficio di Rettore Maggiore della Società di San Francesco di Sales.

A norma dell’art. 143 delle Costituzioni, il Vicario Don Stefano Martoglio assume, contestualmente, ad interim il governo della Società, fino alla elezione del Rettore Maggiore che avverrà nel corso del 29° Capitolo Generale convocato in Torino dal 16 febbraio al 12 aprile 2025.

Ángel Fernández Cardinale Artime
Prot. 24/0406
Roma, 16.08.2024




Tra ammirazione e dolore

Oggi vi saluto per l’ultima volta da questa pagina del Bollettino Salesiano. Il 16 agosto, nel giorno in cui si commemora la nascita di Don Bosco, termina il mio servizio come Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco.
È sempre un motivo per ringraziare, sempre Grazie! Innanzitutto a Dio, alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana, a tante persone care e amiche, a tanti amici del carisma di Don Bosco, i molti benefattori.

            Anche in questa occasione il mio saluto trasmette qualcosa che ho vissuto recentemente. Di qui il titolo di questo saluto: Tra ammirazione e dolore. Vi racconto la gioia che ha riempito il mio cuore a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, ferita da una guerra interminabile, e alla gioia e alla testimonianza che ho ricevuto ieri.
            Tre settimane fa quando, dopo aver visitato l’Uganda (nel campo profughi di Palabek che, grazie all’aiuto e al lavoro salesiano di questi anni, non è più un campo per rifugiati sudanesi ma un luogo dove decine di migliaia di persone si sono insediate e hanno trovato una nuova vita), ho attraversato il Ruanda e sono arrivato al confine nella regione di Goma, una terra meravigliosa, bella e ricca di natura (e proprio per questo così desiderata e desiderabile). Ebbene, a causa dei conflitti armati, in quella regione ci sono più di un milione di sfollati che hanno dovuto lasciare le loro case e la loro terra. Anche noi abbiamo dovuto lasciare la presenza salesiana a Sha-Sha che è stata occupata militarmente.
            Questo milione di sfollati è arrivato nella città di Goma. A Gangi, uno dei quartieri, c’è l’opera salesiana “Don Bosco”. Sono stato immensamente felice di vedere il bene che là viene fatto. Centinaia di ragazzi e ragazze hanno una casa. Decine di adolescenti sono stati tolti dalla strada e vivono nella casa di Don Bosco. Proprio lì, a causa della guerra, hanno trovato casa 82 bambini neonati e ragazzini e ragazzine che hanno perso i genitori o sono stati lasciati indietro (“abbandonati”) perché i genitori non potevano occuparsene.
            E lì, in quella nuova Valdocco, una delle tante Valdocco del mondo, una comunità di tre suore di San Salvador, insieme a un gruppo di signore, tutte sostenute dalla casa salesiana con aiuti che arrivano grazie alla generosità dei benefattori e della Provvidenza, si prendono cura di questi bambini e bambine. Quando sono andato a trovarli, le suore avevano vestito tutti a festa, anche i bambini che dormivano nelle loro culle. Come non sentire il cuore pieno di gioia per questa realtà di bontà, nonostante il dolore causato dall’abbandono e dalla guerra!
            Ma il mio cuore è stato toccato quando ho incontrato alcune centinaia di persone che sono venute a salutarmi in occasione della mia visita. Sono tra i 32.000 sfollati che hanno lasciato le loro case e la loro terra a causa delle bombe e sono venuti a cercare rifugio. Lo hanno trovato nei campi da gioco e nei terreni della casa Don Bosco di Gangi. Non hanno nulla, vivono in baracche di pochi metri quadrati. Questa è la loro realtà. Insieme cerchiamo ogni giorno un modo per trovare da mangiare. Ma sapete cosa mi ha colpito di più? La cosa che mi ha colpito di più è che quando ero con queste centinaia di persone, per lo più anziani e madri con bambini, non avevano perso la loro dignità e non avevano perso la loro gioia o il loro sorriso. Sono rimasto stupito e il mio cuore si è rattristato per tanta sofferenza e povertà, anche se stiamo facendo la nostra parte nel nome del Signore.

Un concerto straordinario
            Un’altra grande gioia ho provato quando ho ricevuto una testimonianza di vita che mi ha fatto pensare agli adolescenti e ai giovani delle nostre presenze, e a tanti figli di genitori che forse mi leggono e che sentono che i loro figli sono demotivati, annoiati dalla vita, o che non hanno passione per quasi nulla. Tra gli ospiti della nostra casa, in questi giorni, c’era una straordinaria pianista che ha girato il mondo dando concerti e che ha fatto parte di grandi orchestre filarmoniche. È un’ex allieva dei Salesiani e ha avuto un salesiano, ora scomparso, come grande riferimento e modello. Ha voluto offrirci questo concerto nell’atrio del tempio del Sacro Cuore come omaggio a Maria Ausiliatrice, che tanto ama, e come ringraziamento per tutto ciò che è stata la sua vita finora.
            E dico quest’ultimo perché la nostra cara amica ci ha regalato un concerto meraviglioso, con una qualità eccezionale a 81 anni. Era accompagnata dalla figlia. E a quell’età, forse quando alcuni dei nostri anziani in famiglia hanno già detto da tempo che non hanno più voglia di fare nulla, né di fare nulla che richieda uno sforzo, la nostra cara amica, che si esercita ogni giorno al pianoforte, muoveva le mani con un’agilità meravigliosa ed era immersa nella bellezza della musica e della sua esecuzione. La buona musica, un sorriso generoso alla fine della sua esibizione e la consegna delle orchidee alla Vergine Ausiliatrice erano tutto ciò di cui avevamo bisogno in quella meravigliosa mattinata. E il mio cuore salesiano non ha potuto fare a meno di pensare a quei ragazzi, ragazze e giovani che forse non hanno avuto o non hanno più nulla che li motivi nella loro vita. Lei, la nostra amica concertista, a 81 anni vive con grande serenità e, come mi ha detto, continua a offrire il dono che Dio le ha fatto e ogni giorno trova sempre più motivi per farlo.
            Un’altra lezione di vita e un’altra testimonianza che non lascia il cuore indifferente.

            Grazie, amici miei, grazie dal profondo del cuore per tutto il bene che stiamo facendo insieme. Per quanto piccolo possa essere, contribuisce a rendere il nostro mondo un po’ più umano e più bello. Che il buon Dio vi benedica.




Quando un educatore tocca il cuore dei suoi figli

L’arte di essere come don Bosco: «Ricordatevi che l’educazione è cosa di cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne dà in mano le chiavi». (MB XVI, 447)

Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano e amici del carisma di Don Bosco. Vi scrivo questo saluto, direi quasi in diretta, prima che questo numero vada in stampa.
Dico questo perché la scena che sto per raccontarvi è accaduta solo quattro ore fa.
Sono arrivato da poco a Lubumbashi. Da dieci giorni sto visitando presenze salesiane molto significative, come gli sfollati e i rifugiati di Palabek – oggi in condizioni molto più umane di quando sono arrivati da noi, grazie a Dio – e dall’Uganda sono passato nella Repubblica Democratica del Congo, nella torturata e crocifissa regione di Goma.
Le presenze salesiane lì sono piene di vita. Più volte ho detto che il mio cuore era “toccato” (touché), cioè commosso nel vedere il bene che si fa, nel vedere che c’è una presenza di Dio anche nella più grande povertà. Ma il mio cuore è stato toccato dal dolore e dalla tristezza quando ho incontrato alcune delle 32.000 persone (per lo più anziani, donne e bambini) che sono ospitate nei terreni della presenza salesiana di Don Bosco-Gangi.
Ma di questo vi parlerò la prossima volta, perché ho bisogno di lasciarlo riposare nel mio cuore.

Il “papà” degli scugnizzi di Goma
Ora voglio solo accennare a una bellissima scena a cui ho assistito sul volo che ci ha portato a Lubumbashi.
Era un volo extra commerciale con un aereo di medie dimensioni. Ma il comandante era una persona familiare, non a me, ma ai salesiani locali. Quando ho salutato il comandante sull’aereo, mi ha detto che aveva studiato formazione professionale nella nostra scuola qui a Goma. Mi ha detto che quelli erano stati anni che avevano cambiato la sua vita, ma ha aggiunto un’altra cosa, dicendomi e dicendoci: ed ecco colui che è stato un “papà” per noi.
Nella cultura africana, quando si dice che qualcuno è un papà, si dice una cosa estrema. E non di rado il papà non è la persona che ha generato quel figlio o quella figlia, ma colui che lo ha realmente accudito, sostenuto e accompagnato.
A chi si riferiva il comandante, un uomo di circa 45 anni, con il figlio pilota ormai giovane che lo accompagnava in volo? Si riferiva al nostro fratello salesiano coadiutore (cioè non sacerdote ma laico consacrato, un capolavoro del carisma salesiano).
Questo salesiano, Fratel Onorato, missionario spagnolo, è missionario nella regione di Goma da più di 40 anni. Ha fatto di tutto per rendere possibile questa scuola professionale e molte altre cose, certamente insieme ad altri salesiani. Ha conosciuto il comandante e alcuni suoi amici quando erano solo ragazzi sperduti del quartiere (cioè tra centinaia e centinaia di ragazzi). Anzi, il comandante mi ha raccontato che quattro dei suoi compagni, che in quegli anni erano praticamente per strada, sono riusciti a studiare meccanica nella casa di Don Bosco e oggi sono ingegneri e si occupano della manutenzione meccanica e tecnica dei piccoli aerei della loro compagnia.

Il «sacramento» salesiano
Ebbene, quando ho sentito il comandante, ex allievo salesiano, dire che Onorato era stato suo padre, il padre di tutti loro, mi sono commosso profondamente e ho subito pensato a don Bosco, che i suoi ragazzi sentivano e consideravano come loro padre.
Nelle lettere di don Rua e Monsignor Cagliero, don Bosco è sempre chiamato “papà”. La sera del 7 dicembre 1887, quando la salute di don Bosco peggiorò, don Rua telegrafò semplicemente a Monsignor Cagliero: «Papà è in stato allarmante». Un antico canto terminava: «Viva don Bosco nostro papà!»
E ho pensato quanto sia vero che l’educazione è una questione di cuore. E ho confermato tra le mie convinzioni che la presenza tra i ragazzi, le ragazze e i giovani è per noi quasi un “sacramento” attraverso il quale anche noi arriviamo a Dio. È per questo che negli anni ho parlato con tanta passione e convinzione ai miei fratelli e sorelle salesiani e alla famiglia salesiana del “sacramento” salesiano della presenza.
E so che nel mondo salesiano, nella nostra famiglia in tutto il mondo, tra i nostri fratelli e sorelle ci sono tanti “papà” e tante “mamme” che, con la loro presenza e il loro affetto, con la loro conoscenza dell’educazione, raggiungono il cuore dei giovani, che oggi hanno tanto bisogno, direi sempre di più, di queste presenze che possono cambiare in meglio una vita.

Un saluto dall’Africa e tutte le benedizioni del Signore agli amici del carisma salesiano.
Dio vi benedica tutti.




Maria Ausiliatrice, da qui al mondo

            Amici, lettori del Bollettino Salesiano, ricevete il mio affettuoso e cordiale saluto in questo tempo di Pasqua. In un mondo travagliato, scosso da guerre e non poca violenza, continuiamo a dichiarare, annunciare e proclamare che Gesù è il Signore, risorto dal Padre e che VIVE. E abbiamo fortemente bisogno della sua Presenza in cuori pronti ad accoglierlo.
            Allo stesso tempo, ho potuto vedere il contenuto del Bollettino di questo mese, sempre ricco e pieno di vita salesiana, di cui sono grato a coloro che lo realizzano. E mentre leggevo le pagine, prima di scrivere il mio saluto, mi sono imbattuto nella presentazione di tanti luoghi salesiani nel mondo dove è arrivata Maria Ausiliatrice.
Devo confessare che quando ci si trova a Valdocco, all’interno della magnifica Basilica di Maria Ausiliatrice, in questo luogo santo dove tutto parla della presenza di Dio, della protezione materna della Madre e di Don Bosco, non riuscivo a immaginare come si fosse avverato l’annuncio dell’Ausiliatrice a Don Bosco, dicendo che da qui, da questo tempio mariano, la sua gloria si sarebbe diffusa nel mondo. E così è.
            Nel servizio di questi dieci anni come Rettor Maggiore ho incontrato centinaia di presenze salesiane nel mondo dove la Madre era presente. E ancora una volta vorrei raccontarvi la mia ultima esperienza. È stato durante la mia ultima visita alle presenze salesiane tra il popolo Xavante che ho potuto “toccare con mano” la Provvidenza di Dio e il bene che continua a essere fatto e che continuiamo a fare tra tutti noi.
Ho potuto visitare diversi villaggi e città nello Stato del Mato Grosso. Sono stato a San Marcos, al villaggio di Fatima, a Sangradouro, e intorno a questi tre grandi centri ne abbiamo visitati altri, tra cui il luogo dove è avvenuto il primo insediamento con il popolo Xavante, un popolo che era ferito dalle malattie e in pericolo di estinzione, e che grazie all’aiuto di quei missionari, alle loro medicine e a decine di anni di presenza affettuosa in mezzo a loro, è stato possibile raggiungere la realtà di oggi con più di 23.000 membri del popolo Xavante. Questa è la Provvidenza, l’annuncio del Vangelo e allo stesso tempo il viaggio con un popolo e la sua cultura, conservati oggi come mai prima.
            Ho avuto l’opportunità di parlare con diverse autorità civili. Sono stato grato per tutto ciò che possiamo fare insieme per il bene di questo popolo e degli altri. E allo stesso tempo mi sono permesso di ricordare con semplicità ma con onestà e legittimo orgoglio che chi accompagna questo popolo da 130 anni, come ha fatto in questo caso la Chiesa attraverso i figli e le figlie di Don Bosco, è degno di uno sguardo rispettoso, e di ascoltare la sua parola.
Abbiamo fatto tutto il possibile per unirci alle voci che chiedono terra per questi coloni. La difesa della loro terra e della fede vissuta con questi popoli (in questo caso con i Boi-Bororo) è stata la causa del martirio del salesiano Rodolfo Lunkenbein e dell’indiano Simao a Meruri.
            Percorrendo centinaia di chilometri di strada, sono stato felice di vedere tanti cartelli che annunciavano: “Territorio de Reserva Indígena” (Territorio di Riserva Indigena). E ho pensato che questa fosse la migliore garanzia di pace e prosperità per questo popolo.
E cosa c’entra quello che sto descrivendo con Maria Auxiliadora? Semplicemente tutto, perché è difficile immaginare un secolo di presenza salesiana (sdb e fma) tra gli indigeni Xavantes e non aver trasmesso l’amore per la madre di nostro Signore, e madre nostra.

L’Ausiliatrice nella giungla
            A San Marcos, tutti o quasi gli abitanti del villaggio, insieme ai nostri ospiti, hanno concluso il giorno del nostro arrivo con una processione e la recita del santo rosario. L’immagine della Vergine era illuminata nel cuore della notte in mezzo alla giungla. Anziani, adulti, giovani e molte madri che portavano i bambini addormentati in una cesta sulle spalle erano in pellegrinaggio. Abbiamo fatto diverse soste in diversi quartieri del villaggio. Senza dubbio la Madre in quel momento, e senza dubbio in molti altri, stava attraversando il villaggio di San Marcos e benedicendo i suoi figli e figlie indigeni.
            Non posso sapere se Don Bosco abbia sognato questa scena della Vergine in mezzo al villaggio di Xavante. Ma non c’è dubbio che nel suo cuore c’era questo desiderio, con questo popolo e con molti altri, sia in Patagonia, sia in Amazzonia, sia sul fiume Paraguay…
E quel desiderio e quel sogno missionario si sta realizzando in Amazzonia da 130 anni. Come ho scritto nel commento alla Strenna, la dimensione femminile-materna-mariana è forse una delle dimensioni più impegnative del sogno di don Bosco. È Gesù stesso che gli da una maestra, che è sua Madre, e che «il suo nome deve chiederlo a Lei»; Giovannino deve lavorare “con i suoi figli”, e sarà “Lei” che si occuperà della continuità del sogno nella vita, che lo prenderà per mano fino alla fine dei suoi giorni, fino al momento in cui capirà veramente tutto.
C’è un’enorme intenzionalità nel voler dire che, nel carisma salesiano a favore dei ragazzi più poveri, deprivati e privi di affetti, la dimensione del trattare con “dolcezza”, con mitezza e carità, così come la dimensione “mariana”, sono elementi imprescindibili per chi vuole vivere questo carisma. Senza Maria di Nazareth parleremmo di un altro carisma, non del carisma salesiano, né dei figli e delle figlie di Don Bosco.
            In questa festa di Maria Ausiliatrice, il 24 maggio, in momenti diversi, Maria Ausiliatrice sarà presente nei cuori dei suoi figli e delle sue figlie in tutto il mondo, sia a Taiwan e a Timor Est, sia in India, sia a Nairobi (Kenya), sia a Valdocco, sia in Amazzonia e nel piccolo villaggio di San Marcos, che non è nulla per il mondo ma è un mondo intero per questo popolo che ha conosciuto l’Ausiliatrice.
            Buon mese di Maria. Buona festa dell’Ausiliatrice a tutti, da Valdocco al mondo intero.




Lettera del Rettor Maggiore cardinal Ángel Fernández Artime

Alla cortese attenzione dei Confratelli salesiani e dei Membri dei gruppi della Famiglia Salesiana

Carissimi Confratelli,
Cari fratelli e sorelle dei diversi gruppi della Famiglia Salesiana di tutto il mondo, giunga a tutti voi il mio saluto pieno di affetto e vicinanza.

Alla vigilia della mia Ordinazione Episcopale, essendo stato nominato dal Santo Padre Papa Francesco, vi scrivo per comunicare ufficialmente e definitivamente la mia situazione personale in rapporto alla nostra Congregazione e alla Famiglia Salesiana.
Qualche tempo fa Papa Francesco ha espresso il desiderio che la mia Ordinazione episcopale potesse avvenire durante il tempo pasquale, insieme a quella del nostro confratello monsignor Giordano Piccinotti, e che io potessi continuare il mio servizio fino al momento opportuno.
Ebbene, confidando sempre nel Signore, che è l’unico garante della nostra vita, vi comunico quanto segue:

1. Il Santo Padre mi ha inviato il documento di “deroga” (espressione che significa “eccezione a ciò che è legiferato”) con il quale mi autorizza a continuare per un ulteriore periodo come Rettore Maggiore, pur avendo ricevuto la consacrazione episcopale. Questo documento con l’autorizzazione del Santo Padre ci è già pervenuto ed è conservato nell’archivio della Congregazione.

2. D’accordo con Papa Francesco terminerò il mio servizio come Rettor Maggiore la sera del 16 agosto 2024, dopo la celebrazione del 209° anniversario della nascita del nostro Padre Don Bosco. Lo stesso giorno concluderemo il “Sinodo dei Giovani” a cui parteciperanno 370 giovani di tutto il mondo in occasione del bicentenario del sogno dei nove anni, che per Don Bosco è stato un sogno-visione e un programma di vita che è arrivato fino a noi.
Quella sera, con un semplice atto, firmerò le mie dimissioni secondo l’art. 128 delle nostre Costituzioni e consegnerò questo documento al Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio che, secondo l’art. 143, assumerà ad interim il governo della nostra Congregazione, fino all’elezione del nuovo Rettor Maggiore in occasione del CG29 che si terrà a Valdocco (Torino) a partire dal 16 febbraio 2025.

3. Certamente d’ora in poi e soprattutto dopo il 16 agosto 2024, assumerò il servizio che il Santo Padre mi indicherà e mi affiderà per il bene della Chiesa.
Desidero ringraziare il Signore, insieme a tutti voi, cari fratelli e sorelle, per il modo con cui siamo stati benedetti in questi dieci anni, sia come Congregazione sia come Famiglia Salesiana di Don Bosco. Il Signore ci ha assistito con il suo Spirito e Madre Ausiliatrice, a noi tanto cara, ci ha sempre tenuti per mano. Siamo certi che sarà così anche in futuro, perché «Lei ha fatto tutto».

In questo momento il mio ultimo pensiero va a Don Bosco che, senza dubbio, continuerà a prendersi cura della sua Congregazione e della sua preziosa Famiglia.

Con vero affetto e unito nel Signore vi saluta,

Cardinale Ángel FERNÀNDEZ ARTIME, sdb
Rettor Maggiore
Società di S. Francesco di Sales
Roma, 19 aprile 2024
Prot. 24/0160




Sono un salesiano e sono un bororo

Diario di una giornata missionaria felice e benedetta

            Cari amici del Bollettino Salesiano, vi scrivo da Meruri, nello stato del Mato Grosso do Sul. Scrivo questo saluto quasi come se fosse una cronaca giornalistica, perché sono passate 24 ore da quando sono arrivato in mezzo a questa città.
            Ma i miei confratelli salesiani sono arrivati 122 anni fa e da allora siamo sempre stati in questa missione in mezzo alle foreste e ai campi, accompagnando la vita di questo popolo indigeno.
            Nel 1976 un salesiano e un indio sono stati derubati della loro vita con due colpi di pistola (da parte di “facendeiros” o grandi proprietari terrieri), perché ritenevano che i salesiani della missione fossero un problema per potersi appropriare di altre proprietà in queste terre che appartengono al popolo Boi-Bororo. Si tratta del Servo di Dio Rodolfo Lunkenbein, salesiano, e dell’indio Simao Bororo.
            E qui abbiamo potuto vivere ieri molti momenti semplici: siamo stati accolti dalla comunità indigena al nostro arrivo, li abbiamo salutati – senza fretta – perché qui tutto è tranquillo. Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale, abbiamo condiviso riso e feijoada (stufato di fagioli), e abbiamo goduto di una conversazione amabile e calorosa.
            Nel pomeriggio mi avevano preparato una riunione con i capi delle varie comunità; erano presenti alcune donne capo (in diversi villaggi è la donna ad avere l’autorità ultima). Abbiamo dialogato in modo sincero e profondo. Mi hanno esposto le loro riflessioni e mi hanno presentato alcune delle loro esigenze.
            In uno di questi momenti, un giovane salesiano Boi Bororo ha preso la parola. È il primo Bororo a diventare salesiano dopo 122 anni di presenza salesiana. Questo ci invita a riflettere sulla necessità di dare tempo a tutto; le cose non sono come pensiamo e vogliamo che siano nel modo efficiente e impaziente di oggi.
            E questo giovane salesiano ha parlato così davanti alla sua gente, alla sua gente e ai suoi capi o autorità: «Sono salesiano ma sono anche Bororo; sono Bororo ma sono anche salesiano, e la cosa più importante per me è che sono nato proprio in questo luogo, che ho incontrato i missionari, che ho sentito parlare dei due martiri, padre Rodolfo e Simao, e ho visto la mia gente e il mio popolo crescere, grazie al fatto che la mia gente ha camminato insieme alla missione salesiana e la missione ha camminato insieme alla mia gente. È ancora la cosa più importante per noi, camminare insieme».
            Ho pensato per un attimo a quanto sarebbe stato orgoglioso e felice don Bosco di sentire uno dei suoi figli salesiani appartenere a questo popolo (come altri salesiani che provengono dal popolo Xavante o dagli Yanomani).
            Allo stesso tempo, nel mio discorso ho assicurato loro che vogliamo continuare a camminare al loro fianco, che vogliamo che facciano tutto il possibile per continuare a curare e salvare la loro cultura – e la loro lingua – con tutto il nostro aiuto. Ho detto loro che sono convinto che la nostra presenza li abbia aiutati, ma sono anche convinto di quanto ci faccia bene stare con loro.

«Avanti!» disse la Pastorella
            Ho pensato all’ultimo sogno missionario di don Bosco: e quella Pastorella, che si fermò accanto a Don Bosco e gli disse: «Ti ricordi del sogno che hai fatto a 9 anni?… Guarda ora, che cosa vedi?» «Vedo montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari».
            «Bene — disse la Pastorella — Ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani». «Ma come fare tutto questo? — esclamò Don Bosco — Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi». «Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei loro figli». Lo stanno facendo.
            Fin dall’inizio del nostro cammino come congregazione, guidato (e amabilmente “spinto”) da Maria Ausiliatrice, Don Bosco ha inviato i primi missionari in Argentina. Siamo una congregazione riconosciuta con il carisma dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani, ma siamo anche una congregazione e una famiglia molto missionaria. Dall’inizio a oggi, ci sono stati più di undicimila missionari salesiani sdb e diverse migliaia di Figlie di Maria Ausiliatrice. E oggi, la nostra presenza tra questo popolo indigeno, che conta 1940 membri e che continua a crescere a poco a poco, ha perfettamente senso dopo 122 anni, perché sono alla periferia del mondo, ma un mondo che a volte non capisce che deve rispettare ciò che sono.
            Ho parlato anche con la matriarca, la più anziana di tutte, che è venuta a salutarmi e a raccontarmi del suo popolo. E dopo un bel temporale di pioggia torrenziale, nel luogo del martirio, con grande serenità, ci siamo seduti a recitare il rosario in una bella domenica sera (era già buio). Eravamo in tanti a rappresentare la realtà di questa missione: nonne, nonni, adulti, giovani madri, neonati, bambini piccoli, religiosi consacrati, laici… Una ricchezza nella semplicità di questa piccola parte di mondo che non ha potere ma che è anche scelta e prediletta dal Signore, come ci dice nel Vangelo.
            E so che così continueremo, a Dio piacendo, per molti anni a venire, perché si può essere un Bororo e un figlio di Don Bosco, ed essere un figlio di Don Bosco e un Bororo che ama e si prende cura del suo popolo e della sua gente.
            Nella semplicità di questo incontro, oggi è stato un grande giorno di vita condivisa con i popoli indigeni. Una grande giornata missionaria.




Il sogno di don Bosco è più vivo che mai

Davanti a tutto quello che sto vedendo nel mondo salesiano, mi sento di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno continua a realizzarsi.

            Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano, come ogni mese, vi invio il mio personale saluto dal cuore e dalle mie riflessioni, motivate da ciò che sto vivendo, perché credo che la vita arrivi a tutti noi e che ciò che condividiamo, se è buono, ci fa bene e ci dona nuovo entusiasmo.
            Quaresima e Pasqua ci invitano a rinascere. Ogni giorno. Rinascere alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di lavorare e creare, di custodire e coltivare persone e talenti e creature, tutto intero il piccolo o grande giardino che Dio ci ha affidato.
            A noi salesiani la festa di Pasqua ricorda sempre quella del 1846 a Valdocco, quando don Bosco passò dalle lacrime del prato Filippi alla povera tettoia Pinardi e alla striscia di terreno intorno, dove il sogno cominciò a diventare realtà.
            Ho visto il sogno continuare a realizzarsi.
            Vi scrivo in questo momento da Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana. Ho fatto in precedenza una visita magnifica, molto significativa a Juazeiro do Norte (nel nord-est brasiliano di Recife) e questi ultimi giorni sono stati dominicani.
            Tra poche ore proseguirò per il Vietnam, e in mezzo a questo “trambusto”, che può essere vissuto anche con molta tranquillità, ho nutrito il mio cuore salesiano di belle esperienze e di confortanti certezze.
            Ve le racconterò, perché parlano della missione salesiana, ma permettetemi di iniziare con un aneddoto che un salesiano mi ha raccontato ieri, che mi ha fatto ridere, mi ha commosso e mi ha parlato di “cuore salesiano”.

Un piccolo lanciatore di sassi
            Un confratello mi ha raccontato che qualche giorno fa, mentre viaggiava lungo una delle strade dell’interno di questo Paese, è passato vicino a un luogo dove alcuni bambini avevano preso l’abitudine di lanciare sassi contro le auto per provocare piccoli incidenti – come rompere un finestrino – e nella confusione rubare qualcosa al viaggiatore.
            Ebbene, è così che gli è successo. Stava attraversando il villaggio e un bambino ha tirato una pietra per rompere un finestrino della sua auto e ci è riuscito. Il salesiano scese dall’auto, prese in braccio il bambino e si fece portare dai suoi genitori. Solo che in quella famiglia non c’era un padre (li aveva abbandonati da tempo).  C’era solo una madre sofferente che era rimasta sola con questo figlio e una bambina più piccola. Quando il salesiano disse alla madre che il figlio aveva rotto il finestrino dell’auto (cosa che il ragazzo riconobbe), e che costava parecchio, e che avrebbe dovuto ripagarlo, la povera donna tra le lacrime si scusò, chiedendo perdono, ma facendogli capire che non aveva alcun modo di pagarlo, che era povera, che avrebbe rimproverato il figlio… In quel momento, la bambina, la sorellina del “piccolo Magone di Don Bosco”, si avvicinò timidamente con il pugnetto chiuso, lo aprì e porse al salesiano l’unica moneta, quasi senza valore, che aveva. Era tutto il suo tesoro e gli disse: “Ecco, signore, per pagare il vetro”. Il mio confratello mi disse che era così commosso che non riusciva più a parlare e finì per dare alla donna un po’ di soldi per un piccolo aiuto alla famiglia.
            Non sapevo come interpretare la storia, ma era così piena di vita, dolore, bisogno e umanità che mi sono ripromesso di condividerla con voi. E poche ore dopo, molto vicino a dove alloggiavo nella casa salesiana, mi è stata mostrata un’altra piccola casa salesiana dove accogliamo i bambini senza nessuno che vivono per strada.
            La maggior parte di loro sono haitiani. Conosciamo bene la tragedia che si sta consumando ad Haiti, dove non c’è ordine, non c’è governo, non c’è legge… Solo le mafie dominano su tutto. Ebbene, sapere che questi bambini, minori arrivati qui non si sa come, che non hanno un posto dove stare,  vengono accolti nella nostra casa (in tutto 20 al momento), per passare poi in altre case, una volta stabilizzati, con altri obiettivi educativi (dove abbiamo, tra varie case e sempre con salesiani ed educatori laici, altri 90 minori), mi ha riempito il cuore di gioia e mi ha fatto pensare che Valdocco a Torino, con Don Bosco, è nato così, e così siamo nati noi salesiani, e un piccolo gruppo di quei ragazzi di Valdocco, insieme a Don Bosco, ha dato vita “de facto” alla congregazione salesiana quel 18 dicembre 1859.
            Come non vedere “la mano di Dio in tutto questo”? Come non vedere che tutto questo lavoro è il risultato di molto più di una strategia umana? Come non vedere che qui e in migliaia di altri luoghi salesiani nel mondo si continua a fare del bene, sempre con l’aiuto di tante persone generose e di tante altre che condividono la passione per l’educazione?
            Quest’anno, in Spagna-Madrid e in altri luoghi (anche in America), è stato presentato il magnifico cortometraggio “Canillitas”, che mostra la vita di tanti di questi giovani. Sono stato felice di toccare con mano e con gli occhi questa realtà. Ed è proprio vero, amici miei, che il sogno di Don Bosco si sta realizzando ancora oggi, 200 anni dopo.
            Ieri ho poi trascorso l’intera giornata con giovani del mondo salesiano che si definiscono e si sentono leader in tutta l’America Latina salesiana di un movimento che cerca di far sì che almeno il mondo educativo salesiano prenda molto sul serio la cura del creato e l’ecologia con la sensibilità di Papa Francesco espressa nella “Laudato Si’“. I giovani di 12 Paesi dell’America Latina erano presenti (di persona o online) nel loro movimento “America Latina Sostenibile”. È bello che i giovani sognino e si impegnino in qualcosa che è buono per loro, per il mondo e per tutti noi. Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d’erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: se potremo impedire a un Cuore di spezzarsi, non avremo vissuto invano. Se potremo alleviare il Dolore di una Vita o lenire una Pena, o aiutare un bambino a crescere non avremo vissuto invano.
            Mi sento, di fronte a tutto questo, di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno è ancora MOLTO VIVO.
            State bene e siate felici.