L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (5/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Conclusione
            Nell’epilogo della vita di Francesco Besucco don Bosco esplicita il nocciolo del suo messaggio:

             “Vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l’abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimente certo che se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. […] Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno. […] Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell’osservanza dei suoi precetti nei giorni della vita, perché possiamo poi un giorno andare a godere in cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia”.[1]

            È su questo punto, di fatto, che confluiscono i discorsi di don Bosco. Tutto il resto appare funzionale: la sua arte educativa, il suo accompagnamento affettuoso e creativo, i consigli offerti e il programma di vita, la devozione mariana e i sacramenti, tutto è orientato all’oggetto primo dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, al grande affare della salvezza eterna.[2]
            Dunque, nella pratica educativa del Santo torinese, l’esercizio mensile della buona morte prosegue una ricca tradizione spirituale, adattandola alla sensibilità dei suoi giovani e con una marcata preoccupazione educativa. Infatti, la revisione mensile della propria vita, il rendiconto sincero al confessore-direttore spirituale, l’incoraggiamento a porsi in uno stato di costante conversione, la riconferma del dono di sé a Dio e la formulazione sistematica di proponimenti concreti, orientati alla perfezione cristiana, ne sono i momenti centrali e costitutivi. Anche le litanie della buona morte non avevano altro scopo che alimentare la confidenza in Dio e offrire uno stimolo immediato per accostarsi ai sacramenti con speciale consapevolezza. Erano anche – come dimostrano le fonti narrative – efficace strumento psicologico per rendere familiare il pensiero della morte, non in modo angosciante, ma come incentivo a valorizzare costruttivamente e gioiosamente ogni momento della vita in vista della “beata speranza”. L’accento, infatti, era posto sul vissuto virtuoso e gioioso, sul “servite Domino in laetitia”.


[1] Bosco, Il pastorello delle Alpi, 179-181.

[2] Così si conclude la Vita di Domenico Savio: “E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo incontro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia”, Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (4/5)

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3. La morte come momento dell’incontro gaudioso con Dio
            Come tutte le considerazioni e le istruzioni contenute nel Giovane provveduto, anche la meditazione sulla morte è connotata da una spiccata preoccupazione didascalica.[1] Il pensiero della morte come momento che fissa tutta l’eternità deve stimolare il proposito sincero di una vita buona e virtuosa feconda di frutti:

             “Considera che il punto di morte è quel momento da cui dipende la tua eterna salute, o la tua eterna dannazione. […] Capisci ciò che ti dico? Voglio dire che da quel momento dipende l’andare per sempre in paradiso o all’inferno; o sempre contento, o sempre afflitto; o sempre figlio di Dio, o sempre schiavo del demonio; o sempre godere cogli angeli e coi santi in cielo, o gemere ed ardere per sempre coi dannati nell’inferno.
            Temi grandemente per l’anima tua e pensa che dal ben vivere dipende una buona morte ed un’eternità di gloria; perciò non perdere tempo onde fare una buona confessione, promettendo al Signore di perdonare ai tuoi nemici, di riparare lo scandalo dato, di essere più obbediente, di non perdere più tempo, di santificare le feste, di adempiere i doveri del tuo stato. Intanto posto innanzi al tuo Signore digli di cuore così: mio Signore, sino da questo punto io mi converto a voi; io vi amo, vi voglio servire e servirvi fino alla morte. Vergine santissima, madre mia, aiutatemi in quel punto. Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia”.[2]

            Tuttavia il discorso più completo e anche il più espressivo delle visioni e dei quadri culturali di don Bosco sul tema della morte lo troviamo nel suo primo testo narrativo, composto in memoria di Luigi Comollo (1844). Vi racconta la morte dell’amico “nell’atto che si pronunciavano i nomi di Gesù, e di Maria, sempre sereno, e ridente in volto, movendo egli un dolce sorriso a guisa di chi resta sorpreso alla vista di un maraviglioso, e giocondo oggetto, senza fare alcun movimento”.[3] Ma il placido trapasso così succintamente esposto era stato preceduto dalla descrizione dettagliata di una tormentata malattia finale: “Un’anima sì pura e di sì belle virtù adorna, qual era quella del Comollo, direbbesi nulla dover paventare all’avvicinarsi l’ora della morte. Eppure ne provò anch’egli grande apprensione”.[4] Luigi aveva trascorso l’ultima settimana di vita “sempre tristo, e melanconico, assorto nel pensiero dei Giudizi divini”. La sera del sesto giorno, “l’assalì un accesso di febbre convulsiva sì gagliardo, che gli tolse l’uso della ragione. Sulle prime faceva un lamento clamoroso come se fosse stato atterrito da qualche spaventevole oggetto; da lì a mezzora, tornato alquanto in sé, e guardando fisso gli astanti, proruppe in tale esclamazione, Ahi Giudizio! Quindi cominciò a dibattersi con forze tali, che cinque, o sei che eravamo astanti appena lo potevamo trattenere in letto”.[5] Dopo tre ore di delirio, “ritornò in piena cognizione di se stesso” e confidò all’amico Bosco il motivo delle sue agitazioni: gli era parso di trovarsi di fronte all’inferno spalancato, insidiato da “un’innumerevole turba di mostri”, ma era stato soccorso da una squadra “di forti guerrieri” e poi, condotto per mano da “una Donna” (“che io giudico essere la comune nostra Madre”), si era trovato “in un deliziosissimo giardino”, per questo ora si sentiva tranquillo. Così, “quanto grande era prima lo spavento, e il timore di comparire innanzi a Dio, altrettanto più allegro mostravasi di poi e desideroso che giungesse un tal momento; non più tristezza, o malinconia in volto, ma un aspetto tutto ridente, e gioviale, in guisa che sempre voleva cantare salmi, inni o laudi spirituali”.[6]
            Tensione e angoscia si risolvono in una gaudiosa esperienza spirituale: è la visione cristiana della morte sostenuta dalla certezza della vittoria sul nemico infernale per la potenza della grazia di Cristo, che schiude le porte dell’eternità beata, e per l’assistenza materna di Maria. In questa luce va interpretato il racconto del Comollo. Il “profondo abisso a guisa di fornace” presso il quale viene a trovarsi, la “turba di mostri di forma spaventevole” che tentano di precipitarlo nella voragine, i “forti guerrieri” che lo liberano “da tale frangente”, la lunga scala di accesso al “giardino maraviglioso” difesa “da tanti serpenti pronti a divorare chiunque vi ascendesse”, la Donna “vestita nella più gran pompa” che lo prende per mano, lo guida e lo difende: tutto va riportato a quell’immaginario religioso che racchiude sotto forma di simboli e metafore una solida teologia della salvezza, la convinzione della destinazione personale all’eternità felice e la visione della vita come viaggio verso la beatitudine, insidiato da nemici infernali ma sostenuto dal soccorso onnipotente della divina grazia e dal patrocinio di Maria. Il gusto romantico, che impregna di intensa emotività e drammaticità il dato di fede, si serve spontaneamente del simbolismo popolare tradizionale, tuttavia l’orizzonte è quello di una visione ampiamente ottimista e storicamente operativa della fede.
            Più oltre don Bosco riporta un ampio discorso di Luigi. È quasi un testamento in cui emergono principalmente due tematiche tra loro connesse. La prima è l’importanza di coltivare nel corso della vita il pensiero della morte e del giudizio. Gli argomenti sono quelli della predicazione e della pubblicistica devota corrente: “Non sai ancora se brevi, o lunghi saranno i giorni di tua vita; ma, checché ne sia sull’incertezza dell’ora, n’è certa la venuta; perciò fa in maniera che tutto il tuo vivere altro non sia che una preparazione alla morte, al Giudizio”. La maggior parte degli uomini non ci pensa seriamente “perciò allorché s’appressa il momento rimangono confusi, e chi muore in confusione per lo più va eternamente confuso! Felici quelli che passando i loro giorni in opere sante e pie si trovano apparecchiati per quel momento”.[7]
            Il secondo tema è il legame tra devozione mariana e buona morte. “Per tutto il tempo che militiamo in questo mondo di lacrime, non abbiamo patrocinio più possente che quello di Maria SS. […]. Oh! se gli uomini potessero essere persuasi qual contento arrechi in punto di morte essere stati divoti di Maria, tutti a gara cercherebbero nuovi modi con cui offerirle speciali onori. Sarà pur dessa, che col suo figlio tra le braccia formerà la nostra difesa contro il nemico dell’anima nostra all’ora estrema; s’armi pure contro di noi l’inferno, con Maria in nostra difesa, nostra sarà la vittoria”. Naturalmente tale devozione dev’essere corretta: “Guardati però bene dall’essere di quei tali, che per recitare a Maria qualche preghiera, per offerirle qualche mortificazione credono essere da lei protetti, mentre conducono una vita tutta libera, e scostumata. […] Sii tu sempre dei veri divoti di Maria coll’imitare le di lei virtù e proverai i dolci effetti di sua bontà, ed amore”.[8] Sono ragioni prossime a quelle presentate da Louis-Marie Grignion de Montfort (1673-1716) nel terzo capitolo del Traité de la vraie dévotion à la sainte Vierge (che tuttavia né il Comollo né Giovanni Bosco potevano conoscere).[9] Tutta la mariologia classica, veicolata dalla predicazione e dai libri ascetici, insisteva su tali aspetti: li troviamo in sant’Alfonso (Glorie di Maria);[10] prima di lui negli scritti dei gesuiti Jean Crasset e Alessandro Diaotallevi,[11] dall’opera del quale parrebbe che Comollo abbia tratto ispirazione per l’invocazione elevata prima della morte “con voce franca”:

             “Vergine santa Madre Benigna, cara madre del mio amato Gesù, voi che fra tutte le creature sola foste degna di portarlo nel Vergineo ed immacolato Seno, Deh per quel amore con cui l’allattaste, lo stringeste amorosamente fra le vostre braccia, per quel che soffriste allorché gli foste compagna nella sua povertà, allorché lo vedeste fra gli strapazzi, sputi, flagelli, e finalmente spasimare morendo in Croce; Deh per tutto questo ottenetemi il dono della fortezza, viva fede, ferma speranza, infiammata carità, con sincero dolore dei miei peccati, ed ai favori che mi avete ottenuti in tutto il tempo di mia vita, aggiungete la grazia che io possa fare una santa morte. Sì cara Madre pietosa assistetemi in questo punto che sto per presentare l’anima mia al Divin giudizio, presentatela Voi medesima nelle braccia del Vostro Divin Figlio; che se tanto mi promettete, ecco io con animo ardito, e franco appoggiato alla vostra clemenza, e bontà, presento per mezzo delle vostre mani, quest’anima mia a quella Maestà Suprema, la cui misericordia conseguire spero”.[12]

            Questo testo mostra la solidità dell’impianto teologico sottostante al sentimento religioso di cui è impregnato il racconto, e svela una devozione mariana “regolata”, una spiritualità austera e concretissima.
            I Cenni sulla vita di Luigi Comollo, con tutta la loro tensione drammatica, rappresentano la sensibilità di Giovanni Bosco seminarista e allievo del Convitto ecclesiastico. Negli anni successivi, col crescere dell’esperienza educativa e pastorale tra adolescenti e ragazzi, il Santo preferirà mettere in evidenza soltanto il lato gaudioso e rasserenante della morte cristiana. Lo vediamo soprattutto nelle biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, ma ne troviamo esempi già nel Giovane provveduto dove, narrando la santa morte di Luigi Gonzaga, si afferma: “Le cose che ci possono turbare in punto di morte sono specialmente i peccati della vita passata e il timore dei castighi divini per l’altra vita”, ma se lo imitiamo conducendo una vita virtuosa, “veramente angelica”, potremo accogliere con gaudio l’annuncio della morte come lui, cantare il Te Deum pieni di “allegrezza” – “Oh che gioia, ce ne andiamo: Laetantes imus” – e “nel bacio di Gesù crocifisso placidamente spirò. Che bel morire!”.[13]
            Tutte e tre le Vite concludono con l’invito a tenersi preparati per fare una buona morte. Nella pedagogia di don Bosco, come se è accennato, il tema veniva declinato con accenti particolari, in funzione della conversione del cuore “franca e risoluta”[14] e del dono totale di sé a Dio, che genera un vissuto ardente, fecondo di frutti spirituali, di impegno etico ed insieme gaudioso. È questa la prospettiva nella quale, in queste biografie, don Bosco presenta l’esercizio della buona morte:[15] è uno strumento eccellente per educare alla visione cristiana della morte, per stimolare un’efficace e periodica revisione del proprio stile di vita e delle proprie azioni, per incoraggiare un atteggiamento di costante apertura e cooperazione all’azione della grazia, fruttuoso di opere, per disporre positivamente l’animo all’incontro col Signore. Non a caso i capitoli conclusivi raffigurano le ultime ore dei tre protagonisti come un’attesa fervente e tranquilla dell’incontro. Don Bosco ci riporta i dialoghi sereni, le “commissioni” affidate ai morenti[16], gli addii. L’istante della morte poi è descritto quasi come un’estasi beata.
            Domenico Savio negli ultimi momenti di vita si fa leggere dal padre le preghiere della buona morte:

             “Ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma infine di ciascuna parte voleva dire da solo: «Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me». Giunto alle parole: «Quando finalmente l’anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi». «Ebbene, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore!». Poscia parve prendere di nuovo un po’ di sonno a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ridente: «Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi… Oh! che bella cosa io vedo mai…». Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento”.[17]

            Michele Magone spira “placidamente”, “colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra”, dopo aver baciato il crocifisso e invocato: “Gesù, Giuseppe e Maria io metto nelle vostre mani l’anima mia”.[18]
            I momenti conclusivi della vita di Francesco sono connotati da fenomeni straordinari e ardori incontenibili: “Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell’infermeria”; “elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così: Lodate Maria […]. Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona, che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così: O Gesù d’amor acceso […]. Sembrava divenuto un angiolo cogli angioli del paradiso”.[19]

(continua)


[1] Cf. Bosco, Il giovane provveduto, 36-39 (considerazione per il martedì: La morte).

[2] Ibid., 38-39.

[3] [Giovanni Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto  nel Seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù. Scritti da un suo collega, Torino, Tipografia Speirani e Ferrero, 1844, 70-71.

[4] Ibid., 49.

[5] Ibid., 52-53.

[6] Ibid., 53-57.

[7] Ibid., 61.

[8] Ibid., 62-63.

[9] L’opera di Grignion de Monfort venne scoperta solo nel 1842 e pubblicata a Torino per la prima volta quindici anni più tardi: Trattato della vera divozione a Maria Vergine del ven. servo di Dio L. Maria Grignion de Montfort. Versione dal francese del C. L., Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1857.

[10] Seconda parte, capo IV (Vari ossequi di divozione verso la divina Madre colle loro pratiche), dove l’Autore afferma che per ottenere la protezione di Maria “vi bisognano due cose: la prima che le offeriamo i nostri ossequi coll’anima monda da’ peccati […]. La seconda condizione è che perseveriamo nella sua divozione” (Le glorie di Maria di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Torino, Giacinto Marietti, 1830, 272).

[11] Jean Crasset, La vera devozione verso Maria Vergine stabilita e difesa. Venezia, nella stamperia Baglioni, 1762, 2 voll.; Alessandro Diotallevi, Trattenimenti spirituali per chi desidera d’avanzarsi nella servitù e nell’amore della Santissima Vergine, dove si ragiona sopra le sue feste e sopra gli Evangelii delle domeniche dell’anno applicandoli alla medesima Vergine con rari avvenimenti, Venezia, presso Antonio Zatta,

1788, 3 voll.

[12] [Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo, 68-69; cf. Diotallevi, Trattenimenti spirituali…, vol. II, pp. 108-109 (Trattenimento XXVI: Colloquio dove l’anima supplica la B. Vergine che voglia esserle Avvocata nella gran causa della sua salute).

[13] Bosco, Il giovane provveduto, 70-71.

[14] Cf. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 24.

[15] Ad esempio, cf. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 106-107: “Il mattino di sua partenza fece coi suoi compagni l’esercizio della buona morte con tale trasporto di divozione nel confessarsi e nel comunicarsi, che io, che ne fui testimonio, non so come esprimerlo. Bisogna, egli diceva, che faccia bene questo esercizio, perché spero che sarà per me veramente quello della mia buona morte”.

[16] “Ma prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione […]. Quando sarai in paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che niuno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa abbia a perdersi”, Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 82.

[17] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 118-119.

[18] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 83. Don Zattini vedendo quella morte serena non trattenne la commozione e “profferì queste gravi parole: O morte! tu non sei un flagello per le anime innocenti; per costoro tu sei la più grande benefattrice che loro apri la porta al godimento dei beni che non si perderanno mai più. Oh perché io non posso essere in tua vece, o amato Michele?” (ibiId., 84).

[19] Giovanni Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1864, 169-170.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (2/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

1. L’esercizio della buona morte nelle istituzioni salesiane e la secolare tradizione delle “Praeparationes ad mortem

            Fin dagli inizi dell’Oratorio stabilito in Valdocco (1846-47), don Bosco propose ai giovani l’esercizio mensile della buona morte come mezzo ascetico mirato a stimolare – attraverso una visione cristiana della morte – un costante atteggiamento di conversione e di superamento dei limiti personali e assicurare, con una confessione e una comunione ben fatte, le condizioni spirituali e psicologiche favorevoli per un fecondo cammino di vita cristiana e di costruzione delle virtù, in docile cooperazione con l’azione della grazia di Dio. La pratica in quel tempo si faceva nella maggior parte delle parrocchie, delle istituzioni religiose ed educative. Era per il popolo l’equivalente del ritiro mensile. Negli Oratori salesiani si teneva l’ultima domenica di ogni mese, e consisteva, come leggiamo nel Regolamento, “in un’accurata preparazione, per ben confessarsi e comunicarsi, e raggiustare le cose spirituali e temporali, come se ci trovassimo al fine di vita”.[1]
            L’esercizio diverrà pratica comune in tutte le istituzioni educative salesiane. Nei collegi e negli internati si eseguiva l’ultimo giorno del mese, in comune tra educatori e ragazzi.[2] Le stesse Costituzioni salesiane, fin dalla prima stesura, ne stabilivano la normatività: “L’ultimo di ciascun mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui lasciando, per quanto sarà possibile, gli affari temporali, ognuno si raccoglierà in se stesso, farà l’esercizio della buona morte, disponendo le cose spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’eternità”.[3]
            Lo svolgimento era semplice. I ragazzi, raccolti in cappella, pronunciavano comunitariamente le formule proposte nel Giovane provveduto, che fornivano il significato spirituale e teologico essenziale della pratica. Innanzitutto si recitava la preghiera di papa Benedetto XIII “per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa” e ottenere, per i meriti della passione di Cristo, di non essere tolti “tantosto da questo mondo”, in modo da avere ancora un congruo “spazio di penitenza” e prepararsi a “un transito felice ed in grazia […], affinché io vi ami [Signore Gesù] con tutto il cuore, vi loda, e benedica in eterno”. Poi si leggeva l’orazione a san Giuseppe per implorare “un intero perdono” dei propri peccati, la grazia di imitare le sue virtù, di camminare “sempre per la via che conduce al Cielo” ed essere difeso “da’ nemici dell’anima in quell’ultimo punto di vita; di modo che consolato dalla dolce speranza di volare […] a possedere l’eterna gloria in Paradiso spiri pronunziando i SS. nomi di Gesù, di Giuseppe e di Maria”. Infine un lettore enunciava le litanie della buona morte ad ognuna delle quali si rispondeva con la giaculatoria “Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me”.[4] All’esercizio devoto seguiva la confessione personale e la comunione “generale”. Per l’occasione erano invitati confessori “straordinari”, affinché tutti avessero opportunità e piena libertà di sistemare le cose di coscienza.
            I religiosi salesiani, oltre alle orazioni recitate in comune cogli allievi, facevano un esame di coscienza più articolato. Il 18 settembre 1876, don Bosco spiegò ai discepoli il modo di renderlo fruttuoso:

             “Gioverà tanto fare un confronto tra mese e mese: ho fatto del profitto in questo mese? oppure vi fu in me regresso? Poi venire ai particolari: in questa virtù, in quest’altra, come mi sono diportato?
            E specialmente si dia una rivista a ciò che forma soggetto di voti ed alle pratiche di pietà: riguardo all’obbedienza come mi sono diportato? ho progredito? L’ho fatta proprio bene, per esempio, quell’assistenza che mi si diede da fare? come l’ho fatta? In quella scuola come mi sono impegnato? Riguardo alla povertà, sia negli abiti, nei cibi, nelle celle, ho niente che non sia da povero? ho desiderato golosità? mi son lamentato quando mi mancava qualche cosa? Poi venire alla castità: non ho dato in me luogo a pensieri cattivi? mi son distaccato sempre più dall’amore dei parenti? mi son mortificato nella gola, negli sguardi, ecc.?
            E così far passare le pratiche di pietà e notare specialmente se vi fu tiepidezza ordinaria, se si siano fatte le pratiche senza slancio.
            Questo esame, o più lungo o più corto, si faccia sempre. Siccome vi sono vari che hanno occupazioni da cui non possono esimersi in nessun giorno del mese, queste occupazioni sarà lecito tenerle, ma ciascuno in detto giorno faccia proprio [in modo] di eseguire queste considerazioni e di fare buoni propositi speciali”.[5]

            L’obiettivo, dunque, era quello di stimolare un monitoraggio regolare della propria vita in funzione perfettiva. Questo ruolo primario di stimolo e sostegno alla crescita virtuosa spiega perché don Bosco, nell’introduzione alle Costituzioni, sia giunto ad affermare che la pratica mensile della buona morte, insieme agli esercizi spirituali annuali, costituisce “la parte fondamentale delle pratiche di pietà, quella che in certo modo tutte le abbraccia”, e abbia concluso dicendo: “Credo che si possa dire assicurata la salvezza di un religioso, se ogni mese si accosta ai SS. Sacramenti, e aggiusta le partite di sua coscienza, come dovesse di fatto da questa vita partire per l’eternità”.[6]
            Col tempo l’esercizio mensile venne ulteriormente perfezionato, come leggiamo in una nota inserita nelle Costituzioni promulgate da don Michele Rua dopo il X Capitolo Generale:

             “a. L’esercizio della buona morte si faccia in comune, ed oltre a quello che prescrivono le nostre Costituzioni si tengano presenti queste regole: I) Oltre la meditazione solita del mattino, si faccia ancora una mezz’ora di meditazione alla sera, e questa versi su qualche novissimo; II) Si faccia come una rivista mensile della coscienza, e la confessione di quel giorno sia più accurata del solito, come se di fatto fosse l’ultima della vita, e si riceva la S. Comunione come per viatico; III) Finita la messa e le preghiere solite, si recitino le preghiere indicate nel manuale di pietà; IV) Si pensi almeno per mezz’ora al progresso od al regresso che si è fatto nella virtù nel mese passato, specialmente per ciò che riguarda i proponimenti fatti negli esercizi spirituali, l’osservanza delle Regole, e si prendano ferme risoluzioni di vita migliore; V) Si rileggano in quel giorno tutte, o almeno in parte, le Costituzioni della Pia Società; VI) Sarà anche bene di scegliere un santo protettore del mese che si sta per cominciare.
            b. Se taluno per le sue occupazioni non può fare l’esercizio della buona morte in comune, né attendere a tutte le accennate opere di pietà, col permesso del Direttore compia quelle soltanto che sono compatibili col suo impiego, rimandando le altre ad un giorno più comodo”.[7]

            Queste indicazioni rivelano la sostanziale continuità e sintonia con la secolare tradizione della preparatio ad mortem ampiamente documentata dalla produzione libraria fin dagli inizi del XVI secolo. Gli evangelici appelli all’attesa vigilante e operativa (cf. Mt 24,44; Lc 12,40), al tenersi preparati in vista del giudizio che fisserà la sorte eterna tra i “benedetti” o i “maledetti” (Mt 25,31-46), uniti al monito quaresimale “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”, nel corso dei secoli hanno costantemente alimentato le considerazioni dei maestri di spirito e dei predicatori, hanno ispirato le rappresentazioni artistiche, si sono tradotti in rituali, pratiche devote e penitenziali, hanno suggerito propositi e amorosi aneliti alla comunione eterna con Dio. Hanno anche suscitato timori, ansie, talvolta angosce, in base alle sensibilità spirituali e alle visioni teologiche delle varie epoche.
            Le dotte riflessioni sapienziali del De praeparatione ad mortem di Erasmo e di altri umanisti,[8] permeate di genuino spirito evangelico ma tanto erudite da sembrare esercizi retorici, tra Seicento e primo Settecento avevano lasciato progressivamente spazio alle esortazioni morali dei predicatori e alle considerazioni meditative degli spirituali. Un opuscolo del cardinale Giovanni Bona affermava che la migliore preparazione alla morte è quella remota, attuata attraverso una vita virtuosa in cui quotidianamente ci si esercita a morire a se stessi e fuggire ogni forma di peccato, a vivere secondo la legge di Dio in comunione orante con lui;[9] esortava a pregare costantemente per ottenere la grazia di una morte felice; suggeriva di dedicare un giorno al mese di preparazione prossima alla morte nel silenzio e nella meditazione, purificando l’anima con una “diligentissima e dolorosa confessione”, dopo un accurato esame del proprio stato, e accostandosi alla comunione per modum Viatici, con intensa devozione;[10] invitava poi a concludere la giornata immaginandosi sul letto di morte, nel momento estremo:

             “Rinnoverai più intensi atti di amore, di ringraziamento e di desiderio di vedere Dio; chiederai perdono di tutto; dirai: «Signore Gesù Cristo, in quest’ora della mia morte, poni la tua passione e la tua morte tra il tuo giudizio e l’anima mia. Padre, nelle tue mani affido il mio spirito. Aiutatemi santi di Dio, accorrete o angeli per sostenere la mia anima e offrirla al cospetto dell’Altissimo» […]. Poi immaginerai che la tua anima sia condotta all’orrendo giudizio di Dio e che, per le preghiere dei santi, ti sia prolungata la vita in modo da poter fare penitenza: quindi proponendo con forza di vivere più santamente, in futuro ti considererai e ti comporterai come morto al mondo e vivente solo per Dio e per la penitenza”.[11]

            Giovanni Bona chiudeva la sua Praeparatio ad mortem con un’aspirazione devota incentrata sul desiderio del Paradiso permeata da intenso afflato mistico.[12] Il cardinale cistercense era stato allievo dei gesuiti. Da essi aveva attinto l’idea della giornata mensile di preparazione alla morte.
            La meditazione sulla morte faceva parte integrale degli esercizi spirituali e delle missioni popolari: certa è la morte, incerto è il momento del suo arrivo, bisogna tenersi pronti perché quando essa verrà Satana moltiplicherà i suoi assalti per rovinarci eternamente: “Che conseguenza adunque ne viene? […] Fare adesso in vita abiti buoni. Non contentarmi solamente di vivere in grazia di Dio, né di star un sol momento in peccato; ma fare abitualmente, con l’esercizio continuo d’opere buone, una tal vita, che nell’ultimo momento non abbi il Demonio con qualche tentazione a farmi perdere per tutta l’Eternità”.[13]
            A partire dal Seicento e per tutto il Settecento i predicatori calcarono l’importanza del tema, modulando le loro riflessioni secondo le sensibilità proprie del gusto barocco, con forte accentuazione degli aspetti drammatici, senza però sviare l’attenzione degli uditori dalla sostanza: l’accettazione serena della morte, l’appello alla conversione del cuore, la costante vigilanza, il fervore nelle opere virtuose, l’offerta di sé a Dio e l’anelito alla comunione eterna d’amore con lui. Progressivamente l’esercizio della buona morte assunse un’importanza sempre più ampia, fino a diventare una delle pratiche ascetiche principali del cattolicesimo. Il modello di svolgimento è offerto, ad esempio, in un opuscolo seicentesco di un anonimo gesuita:

             “Scegliete un giorno d’ogni mese de’ più liberi da ogni altro affare, nel qual dovrete con particolar diligenza impiegarvi nell’Orazione, Confessione, Communione e visita del Santissimo Sacramento.
            L’Orazione di questo giorno dovrà in due volte arrivare a due ore: e la materia di essa potrà esser questa ch’accenneremo. Nella prim’ora concepite quanto più vivamente potrete lo stato, nel quale vi troverete già moribondo […]. Considerate quello, che moribondo vorreste aver fatto, prima verso Dio, secondo verso voi stesso, terzo verso il prossimo, mescolando in questa meditazione diversi affetti ferventi, e di pentimento, e di propositi, e di domande al Signore, per impetrar da lui virtù d’emendarvi. La seconda Orazione avrà per materia i motivi più forti che si ritrovino, per accettar volentieri da Dio la morte […]. Gli affetti di questa Meditazione saranno d’offerta della vita propria al Signore, di protesta, che se potessimo allungarla, oltre il suo divinissimo beneplacito, non lo faremmo; di domanda, per offerir questo sacrificio con quello spirito d’amore, che richiede il rispetto dovuto alla sua amorevolissima Provvidenza, e disposizione.
            La Confessione dovrà esser fatta da voi con più particolare diligenza, e come se fosse l’ultima volta, che vi andaste a mondar nel sangue preziosissimo di Gesù Cristo […].
            Anche la Comunione dovrà farsi con più straordinaria preparazione, e come se vi comunicaste per Viatico, adorando quel Signore, che sperate di dover adorare per tutta l’Eternità; ringraziandolo della vita, che vi ha concessa, chiedendogli perdono d’averla sì malamente impiegata; offerendovi pronto a terminarla, perché egli così vuole, e domandandogli finalmente grazia, che v’assista in questo gran passo, affinché l’anima vostra appoggiata al suo Diletto, da questo Deserto passi sicura al Regno”.[14]

            L’impegno per la diffusione dell’esercizio della buona morte non limitava le considerazioni dei predicatori e dei direttori di spirito al tema dei novissimi, quasi a voler fondare l’edificio spirituale unicamente sul timore dell’eternità dannata. Questi autori conoscevano i danni psicologici e spirituali che l’affanno e l’angoscia per la propria salvezza producevano sugli animi più sensibili. Le raccolte di meditazioni prodotte tra la fine del Seicento e metà Settecento, non solo insistevano sulla misericordia di Dio e sull’abbandono in lui, per condurre il fedele allo stato permanente di serenità spirituale che è proprio di chi ha integrato la coscienza della propria finitudine temporale in una solida visione di fede, ma spaziavano su tutti i temi della dottrina e della pratica cristiana, della morale privata e pubblica: verità della fede e soggetti evangelici, vizi e virtù, sacramenti e preghiera, opere di carità spirituale e materiale, ascetica e mistica. La considerazione del destino eterno dell’uomo si allargava alla proposta di un vissuto cristiano esemplare e ardente, che si traducesse in cammini spirituali orientati alla santificazione personale e all’affinamento del vissuto quotidiano e sociale, sullo sfondo di una teologia sostanziosa e di un’antropologia cristiana raffinata.
            Un esempio tra i più eloquenti è fornito dai tre volumi del gesuita Giuseppe Antonio Bordoni, che raccolgono le meditazioni proposte ogni settimana per oltre vent’anni ai confratelli della Compagnia della buona morte, da lui istituita nella chiesa dei Santi Martiri di Torino (1719). L’opera fu molto apprezzata per la solidità teologica, la forma priva di orpelli retorici, la ricchezza di esempi concreti ed ebbe decine di ristampe fino alle soglie del Novecento.[15] All’ambiente religioso torinese sono legati anche i Discorsi sacri e morali per l’esercizio della buona morte – più segnati dal gusto del tempo ma altrettanto solidi – predicati, nella seconda metà del Settecento, dal sacerdote Giorgio Maria Rulfo direttore spirituale della Compagnia dell’Umiltà formata da signore della nobiltà sabauda.[16]
            La pratica proposta da san Giovanni Bosco agli allievi dell’Oratorio e delle istituzioni educative salesiane aveva, dunque, una solida tradizione spirituale di riferimento.

(continua)


[1] Giovanni Bosco, Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 44.

[2] Cf. Giovanni Bosco, Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 63 (parte II, capo II, art. 4): “[…] Una volta al mese si farà da tutti l’esercizio della buona morte, preparandovisi con qualche sermoncino od altro esercizio di pietà”.

[3] [Giovanni Bosco], Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales secondo il Decreto di approvazione del 3 aprile 1874, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 81 (cap. XIII, art. 6). Lo stesso stabilivano le Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice, con una dicitura molto simile: “La prima Domenica o il primo Giovedì del mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui, lasciando per quanto   è possibile gli affari temporali, ognuna si raccoglierà in se stessa, farà l’Esercizio della buona morte, disponendo le cose sue spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’Eternità. Si faccia qualche lettura acconcia al bisogno, e ove si possa la Superiora procuri dal Direttore una predica od una conferenza sull’argomento”, Regole o Costituzioni per le Figlie di Maria SS. Ausiliatrice aggregate alla Società salesiana (ed. 1885), Titolo XVII, art. 5, in Giovanni Bosco, Costituzioni per l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872-1885). Testi critici a cura di Cecilia Romero, Roma, LAS, 1983, 325.

[4] Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri degli esercizi di cristiana pietà per la recita dell’uffizio della Beata Vergine e de principali vespri dell’anno coll’aggiunta di una scelta di laudi sacre ecc., Torino, Tipografia Paravia e Comp. 1847, 138-142.

[5] Archivio Salesiano Centrale, A0000409 Prediche di don Bosco – Esercizi Lanzo 1876, quaderno XX, ms di Giulio Barberis, pp. 10-11.

[6] Giovanni Bosco, Ai Soci Salesiani, in Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales (ed. 1877), 38.

[7] Costituzioni della Società di san Francesco di Sales precedute dall’introduzione scritta dal Fondatore sac. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia Salesiana, 1907, 227- 231.

[8] Des. Erasmi Roterodami liber cum primis pius, de praeparatione ad mortem, nunc primum et conscriptus et aeditus…, Basileae, in officina Frobeniana per Hieronymum Frobenium & Nicolaum Episcopium 1533, 3-80 (Quomodo se quisque debeat praeparare ad mortem). Cf. anche Pro salutari hominis ad felicem mortem praeparatione, hinc inde ex Scriptura sacra, et sanctis, doctis, et christianissimis doctoribus, ad cujusdam petitionem, et aliorum etiam utilitatem, a Sacrarum literarum professore Ludovico Bero conscripta et nunc primum edita, Basileae, per Joan. Oporinum, 1549.

[9] Giovanni Bona, De praeparatione ad mortem…, Roma, in Typographia S. Michaelis ad Ripam per Hieronimum Maynardi, 1736, 11-13.

[10] Ibid., 67-73.

[11] Ibid., 74-75.

[12] Ibid., 126-132: “Affectus animae suspirantis ad Paradisum”.

[13] Carlo Ambrogio Cattaneo, Esercizi spirituali di sant’Ignazio, Trento, per Gianbatista Monauni, 1744, 74.

[14] Esercizio di preparazione alla morte proposto da un religioso della Compagnia di Gesù per indirizzo di chi desidera far bene un tal passo, Roma, per gl’Eredi del Corbelletti [1650], ff. 3v-6v.

[15] Giuseppe Antonio Bordoni, Discorsi per l’esercizio della buona morte, Venezia, nella stamperia di Andrea Poletti, 1749-1751, 3 vol.; l’ultima edizione è quella torinese di Pietro Marietti in 6 volumi (1904-1905).

[16] Giorgio Maria Rulfo, Discorsi sacri, e morali per l’esercizio della buona morte, Torino, presso i librai B.A. Re e G. Rameletti, 1783-1784, 5 vol.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (1/5)

La celebrazione annuale della memoria di tutti i defunti ci mette davanti agli occhi una realtà che nessuno può negare: il fine della nostra vita terrena. Per tanti, parlare della morte sembra una cosa macabra, da evitare assolutamente. Ma non era così per san Giovanni Bosco; per tutta la sua vita aveva coltivato l’Esercizio della Buona Morte fissando a questo scopo l’ultimo giorno del mese. Chi sa che non sia questo il motivo che il Signore lo ha preso con sé nell’ultimo giorno di gennaio del 1888 trovandolo preparato…

            Jean Delumeau, nell’introduzione della sua opera su La paura in Occidente, racconta l’angoscia da lui provata all’età di dodici anni quando, novello alunno interno di un collegio salesiano, ascoltò per la prima volta le “inquietanti sequenze” delle litanie della buona morte, seguite da un Pater ed Ave “per quello tra noi che sarà il primo a morire”. A partire da quell’esperienza, dai suoi antichi timori, dai suoi difficili sforzi per abituarsi alla paura, dalle sue meditazioni d’adolescente sui fini ultimi, dalla personale paziente ricerca della serenità e della gioia nell’accettazione, lo storico francese ha elaborato un progetto di indagine storiografica focalizzato sul ruolo della “colpevolizzazione” e sulla “pastorale della paura” nella storia dell’Occidente e ha tratto la chiave interpretativa “di un panorama storico assai ampio: per la Chiesa – scrive – la sofferenza e l’annientamento (provvisorio) del corpo sono da temere meno che il peccato e l’inferno. L’uomo non può nulla contro la morte, ma – coll’aiuto di Dio – gli è possibile evitare le pene eterne. Da quel momento un nuovo tipo di paura – teologica – si sostituiva a un’altra che era anteriore, viscerale e spontanea: si trattava di una medicazione eroica, ma sempre di una medicazione, giacché introduceva uno sfogo là dove non c’era che vuoto; di questo genere fu la lezione che i religiosi incaricati della mia educazione cercarono d’insegnarmi”[1].
            Anche Umberto Eco ricordava con ironica simpatia l’esercizio della buona morte che gli veniva proposto nell’Oratorio di Nizza Monferrato:

             “Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull’inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal Giovane provveduto di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un’immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte – se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l’Esercizio della Buona Morte […]. Puro sadismo, si dirà. Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. […] Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita – e con cui l’uomo saggio viene a patti per tutta la vita”[2].

            Nelle case salesiane la pratica mensile della buona morte, con la recita delle litanie inserite da don Bosco nel Giovane provveduto, rimase in uso dal 1847 fino alle soglie del Concilio.[3] Delumeau narra che tutte le volte che gli capitava di leggere quelle litanie ai suoi studenti del Collège de France constatava quanto ne rimanessero sbalorditi: “È la prova – scrive – d’un cambiamento rapido e profondo di mentalità da una generazione all’altra. Essendo rapidamente invecchiata dopo essere stata a lungo attuale, questa preghiera per una buona morte è diventata documento di storia nella misura in cui riflette una lunga tradizione di pedagogia religiosa”.[4] Lo studioso delle mentalità, infatti, ci insegna come i fenomeni storici, per evitare forvianti anacronismi, devono sempre essere affrontati in relazione alla loro coerenza interna e con rispetto dell’alterità culturale, alla quale si deve ricondurre ogni rappresentazione mentale collettiva, ogni credenza e pratica culturale o cultuale delle società antiche. Fuori di quei quadri antropologici, di quell’insieme di conoscenze e di valori, di modi di pensare e di sentire, di abitudini e modelli di comportamento diffusi in un determinato contesto culturale, che plasmano la mentalità collettiva, è impossibile attuare un approccio critico corretto.
            Per quanto ci riguarda, il racconto di Delumeau è documento di come l’anacronismo non insidia soltanto lo storico. Anche il pastore e l’educatore rischiano di perpetuare pratiche e formule fuori degli universi culturali e spirituali che le generarono: così esse, oltre ad apparire per lo meno strane alle giovani generazioni, possono risultare persino controproducenti, essendo venuti meno l’orizzonte di senso globale e le “attrezzature mentali” e spirituali che le rendevano significative. Questa è stata la sorte della preghiera della buona morte riproposta, per oltre un secolo, agli allievi delle opere salesiane in tutto il mondo, poi – intorno al 1965 – del tutto abbandonata, senza alcuna forma di sostituzione che ne salvaguardasse gli aspetti positivi. L’abbandono non era dovuto soltanto alla sua obsolescenza. Era anche un sintomo di quel processo in atto di eclisse della morte nella cultura occidentale, una sorta di “interdetto” e di “proibizione” oggi fortemente denunciato dagli studiosi e dai pastori.[5]
            Il nostro contributo intende indagare il significato e il valore educativo dell’esercizio della buona morte nella pratica di don Bosco e delle prime generazioni salesiane, mettendolo in relazione con una feconda tradizione secolare, per poi individuarne la peculiarità spirituale attraverso le testimonianze narrative lasciate dal Santo.

(continua)


[1] Jean Delumeau, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino, SEI, 1979, 42-44.

[2] Umberto Eco, “La bustina di Minerva: Dov’è andata la morte?”, in L’Espresso, 29 novembre 2012.

[3] Le “Preghiere per la buona morte” sono ancora riportate, con poche varianti sostanziali, nel riveduto manuale di preghiera per le istituzioni educative salesiane d’Italia, che sostituiva definitivamente il Giovane Provveduto, usato fino a quel momento: Centro Compagnie Gioventù Salesiana, In preghiera. Manuale di pietà ispirato al Giovane Provveduto di san Giovanni Bosco, Torino, Opere Don Bosco, 1959, 360-362.

[4] Delumeau, La paura in Occidente, 43.

[5] Cf. Philippe Ariés, Storia della morte in Occidente, Milano, BUR, 2009; Jean-Marie R. Tillard, La morte: enigma o mistero? Magnano (BI), Edizioni Qiqajon, 1998.