Don Bosco e le processioni eucaristiche

Un aspetto poco conosciuto ma importante del carisma di san Giovanni Bosco sono le processioni eucaristiche. Per il santo dei giovani, l’Eucaristia non era solo devozione personale, ma strumento pedagogico e testimonianza pubblica. In una Torino in trasformazione, don Bosco vide nelle processioni un’occasione per rafforzare la fede dei ragazzi e annunciare Cristo nelle strade. L’esperienza salesiana, proseguita in tutto il mondo, mostra come la fede possa incarnarsi nella cultura e rispondere alle sfide sociali. Ancora oggi, vissute con autenticità e apertura, queste processioni possono diventare segni profetici di fede.

Quando si parla di san Giovanni Bosco (1815-1888) si pensa immediatamente ai suoi oratori popolari, alla passione educativa per i giovani e alla famiglia salesiana nata dal suo carisma. Meno noto, ma non per questo meno decisivo, è il ruolo che la devozione eucaristica — e in particolare le processioni eucaristiche — ebbe nella sua opera. Per Don Bosco l’Eucaristia non era soltanto il cuore della vita interiore; costituiva anche un potente strumento pedagogico e un segno pubblico di rinnovamento sociale in una Torino in rapida trasformazione industriale. Ripercorrere il legame fra il santo dei giovani e le processioni con il Santissimo significa entrare in un laboratorio di pastorale in cui liturgia, catechesi, educazione civica e promozione umana si intrecciano in modo originale e, a tratti, sorprendente.

Le processioni eucaristiche nel contesto del XIX secolo
Per comprendere Don Bosco occorre ricordare che l’Ottocento italiano visse un intenso dibattito sul ruolo pubblico della religione. Dopo l’epoca napoleonica e il moto risorgimentale, le manifestazioni religiose nelle vie cittadine non erano più scontate: in molte regioni si andava delineando uno stato liberale che guardava con sospetto qualsiasi espressione pubblica del cattolicesimo, temendo raduni di massa o rigurgiti “reazionari”. Le processioni eucaristiche, tuttavia, mantenevano una forza simbolica potentissima: ricordavano la signoria di Cristo su tutta la realtà e, allo stesso tempo, facevano emergere una Chiesa popolare, visibile e incarnata nei rioni. Contro questo sfondo si staglia l’ostinazione di Don Bosco, che non rinunciò mai ad accompagnare i suoi ragazzi nel testimoniare la fede fuori dalle mura dell’oratorio, fossero i viali di Valdocco o le campagne circostanti.

Fin dagli anni di formazione al seminario di Chieri, Giovanni Bosco maturò una sensibilità eucaristica di sapore “missionario”. Le cronache raccontano che spesso si fermava in cappella, dopo le lezioni, a lungo in preghiera davanti al tabernacolo. Nelle “Memorie dell’Oratorio” egli stesso riconosce di aver imparato dal suo direttore spirituale, don Cafasso, il valore di “farsi pane” per gli altri: contemplare Gesù che si dona nell’Ostia significava, per lui, apprendere la logica dell’amore gratuito. Questa linea attraversa l’intera sua vicenda: “Tenetevi amici Gesù sacramentato e Maria Ausiliatrice” ripeterà ai giovani, indicando la comunione frequente e l’adorazione silenziosa come pilastri di un cammino di santità laicale e quotidiana.

L’oratorio di Valdocco e le prime processioni interne
Nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, l’oratorio torinese non possedeva ancora una chiesa vera e propria. Le celebrazioni avvenivano in baracche di legno o in cortili adattati. Don Bosco, tuttavia, non rinunciò a organizzare piccole processioni interne, quasi “prove generali” di quella che sarebbe diventata una pratica stabile. I ragazzi portavano ceri e stendardi, cantavano lodi mariane e, al termine, si fermavano attorno ad un improvvisato altare per la benedizione eucaristica. Questi primi tentativi avevano una funzione eminentemente pedagogica: abituare i giovani a una partecipazione devota ma gioiosa, unendo disciplina e spontaneità. Nella Torino operaia, dove spesso la miseria sfociava in violenza, sfilare ordinati con il fazzoletto rosso al collo era già un segnale controcorrente: mostrava che la fede poteva educare al rispetto di sé e degli altri.

Don Bosco sapeva bene che una processione non si improvvisa: occorrono segni, canti, gesti che parlino al cuore ancor prima che alla mente. Per questo curava personalmente la spiegazione dei simboli. Il baldacchino diventava l’immagine della tenda del convegno, segno della presenza divina che accompagna il popolo in cammino. I fiori sparsi lungo il percorso ricordavano la bellezza delle virtù cristiane che devono adornare l’anima. I lampioni, indispensabili nelle uscite serali, alludevano alla luce della fede che rischiara le tenebre del peccato. Ogni elemento era oggetto di una piccola “predica” conviviale in refettorio o nella ricreazione, così che la preparazione logistica si intrecciasse alla catechesi sistematica. Il risultato? Per i ragazzi la processione non era un dovere rituale ma un’occasione di festa carica di significato.

Uno degli aspetti più caratteristici delle processioni salesiane era la presenza della banda formata dagli stessi allievi. Don Bosco considerava la musica un antidoto contro l’ozio e, al contempo, un potente strumento di evangelizzazione: “Un’allegra marcia eseguita bene — scriveva — attira la gente come la calamita il ferro”. La banda precedeva il Santissimo, alternando brani sacri ad arie popolari adattate con testi religiosi. Questo “dialogo” tra fede e cultura popolare riduceva le distanze con i passanti e creava attorno alla processione un’aura di festa condivisa. Non pochi cronisti laici testimonieranno di essere stati “intrigati” da quel drappello di giovanissimi suonatori disciplinati, così diverso dalle bande militari o filarmoniche dell’epoca.

Processioni come risposta alle crisi sociali
La Torino dell’Ottocento conobbe epidemie di colera (1854 e 1865), scioperi, carestie e tensioni anticlericali. Don Bosco reagì spesso proponendo processioni straordinarie di riparazione o di supplica. Durante il colera del ’54 portò i giovani per le vie più colpite, recitando ad alta voce le litanie per gli infermi e distribuendo pane e medicine. In quel frangente nacque la promessa — poi mantenuta — di costruire la chiesa di Maria Ausiliatrice: “Se la Madonna salva i miei ragazzi, le innalzerò un tempio”. Le autorità civili, inizialmente contrarie a cortei religiosi per timore di contagio, dovettero riconoscere l’efficacia della rete di assistenza salesiana, alimentata spiritualmente proprio dalle processioni. L’Eucaristia, portata fra i malati, diventava così segno tangibile della compassione cristiana.

Contrariamente a certi modelli devozionali chiusi entro le sacrestie, le processioni di Don Bosco rivendicavano un diritto di cittadinanza della fede nello spazio pubblico. Non si trattava di “occupare” le strade, ma di restituirle alla loro vocazione comunitaria. Passare sotto i balconi, attraversare piazze e portici voleva dire ricordare che la città non è solo luogo di scambio economico o di scontro politico, bensì di incontro fraterno. Per questo Don Bosco insisteva su un ordine impeccabile: mantelli spazzolati, scarpe pulite, file regolari. Voleva che l’immagine della processione comunicasse bellezza e dignità, persuadendo anche gli osservatori più scettici che la proposta cristiana elevava la persona.

L’eredità salesiana delle processioni
Dopo la morte di Don Bosco, i suoi figli spirituali diffusero la prassi delle processioni eucaristiche in tutto il mondo: dalle scuole agricole dell’Emilia alle missioni della Patagonia, dai collegi asiatici ai quartieri operai di Bruxelles. Ciò che contava non era duplicare pedissequamente un rito piemontese, ma trasmettere il nucleo pedagogico: protagonismo giovanile, catechesi simbolica, apertura alla società circostante. Così, in America Latina, i salesiani inserirono danze tradizionali all’inizio del corteo; in India adottarono tappeti di fiori secondo l’arte locale; in Africa subsahariana alternarono canti gregoriani a ritmi polifonici tribali. L’Eucaristia diventava ponte fra culture, realizzando il sogno di Don Bosco di “fare di tutti i popoli un’unica famiglia”.

Sotto il profilo teologico, le processioni di Don Bosco incarnano una forte visione della presenza reale di Cristo. Portare il Santissimo “fuori” significa proclamare che il Verbo non si è fatto carne per restare rinchiuso, ma per “piantare la sua tenda in mezzo a noi” (cfr. Gv 1,14). Tale presenza chiede di essere annunciata in forme comprensibili, senza ridursi a gesto intimista. In Don Bosco la dinamica centripeta dell’adorazione (raccogliere i cuori attorno all’Ostia) genera una dinamica centrifuga: i giovani, nutriti all’altare, si sentono inviati a servire. Dalla processione scaturiscono micro-impegni: assistere un compagno ammalato, pacificare un litigio, studiare con maggiore diligenza. L’Eucaristia si prolunga nelle “processioni invisibili” della carità quotidiana.

Oggi, in contesti secolarizzati o multireligiosi, le processioni eucaristiche possono sollevare interrogativi: sono ancora comunicative? Non rischiano di apparire folclore nostalgico? L’esperienza di Don Bosco suggerisce che la chiave sta nella qualità relazionale più che nella quantità di incenso o di paramenti. Una processione che coinvolge famiglie, spiega i simboli, integra linguaggi artistici contemporanei, e soprattutto si collega a gesti concreti di solidarietà, mantiene una sorprendente forza profetica. Il recente Sinodo sui giovani (2018) ha richiamato più volte l’importanza di “uscire” e di “mostrare la fede con la carne”. La tradizione salesiana, con la sua liturgia itinerante, offre un paradigma già collaudato di “Chiesa in uscita”.

Le processioni eucaristiche non erano per Don Bosco semplici tradizioni liturgiche, ma veri e propri atti educativi, spirituali e sociali. Esse rappresentavano una sintesi tra fede vissuta, comunità educante e testimonianza pubblica. Attraverso di esse, Don Bosco formava giovani capaci di adorare, di rispettare, di servire e di testimoniare.
Oggi, in un mondo frammentato e distratto, riproporre il valore delle processioni eucaristiche alla luce del carisma salesiano può essere un modo efficace per ritrovare il senso dell’essenziale: Cristo presente in mezzo al suo popolo, che cammina con lui, lo adora, lo serve e lo annuncia.
In un’epoca che cerca autenticità, visibilità e relazioni, la processione eucaristica – se vissuta secondo lo spirito di Don Bosco – può essere un segno potente di speranza e di rinnovamento.

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Il Venerabile padre Carlo Crespi “testimone e pellegrino di speranza”

Padre Carlo Crespi, missionario salesiano in Ecuador, ha vissuto la sua vita dedicandosi alla fede e alla speranza. Negli ultimi anni, nel santuario di Maria Ausiliatrice, ha consolato fedeli, infondendo ottimismo anche nei momenti di crisi. La sua pratica esemplare delle virtù teologali, evidenziata dalla testimonianza di chi lo conosceva, si è espressa anche nell’impegno per l’educazione: fondando scuole e istituti, ha offerto ai giovani nuove prospettive. Il suo esempio di resilienza e dedizione continua ad illuminare il cammino spirituale e umano della comunità. Il suo lascito perdura e ispira generazioni di credenti.

            Negli ultimi anni della sua vita, padre Carlo Crespi (Legnano, 29 maggio 1891 – Cuenca, 30 aprile 1982), missionario salesiano in Ecuador, messi gradualmente in secondo piano gli aneliti accademici della giovinezza, si circonda di essenzialità e la sua crescita spirituale appare inarrestabile. Viene visto nel santuario di Maria Ausiliatrice a divulgare la devozione alla Vergine, a confessare e a consigliare file interminabili di fedeli, rispetto ai quali gli orari, i pasti e persino il sonno non contano più. Così come aveva fatto in modo esemplare per tutta la vita, tiene lo sguardo fisso verso i beni eterni, che ora appaiono quanto mai vicini.
            Egli aveva quella speranza escatologica che si lega alle aspettative dell’uomo in vita e oltre la morte, influenzando in modo significativo la visione del mondo e il comportamento quotidiano. Secondo san Paolo, la speranza è un ingrediente indispensabile per una vita che si dona, che cresce collaborando con gli altri e sviluppando la propria libertà. Il futuro diventa così un compito collettivo che ci fa crescere come persone. La sua presenza ci invita a guardare al futuro con un senso di fiducia, intraprendenza e connessione con gli altri.
            Questa era la speranza del Venerabile padre Crespi! Una grande virtù che, come le braccia di un giogo, sorregge la fede e la carità; come il braccio trasverso della croce è trono di salvezza, è appoggio del serpente salutare alzato da Mosè nel deserto; ponte dell’anima per spiccare il volo nella luce.
            Il non comune livello raggiunto dal padre Crespi nella pratica di tutte le virtù è stato evidenziato, in maniera concorde, dai testimoni ascoltati nel corso della Inchiesta diocesana della Causa di beatificazione, ma emerge anche dall’analisi attenta dei documenti e dalle vicende biografiche di padre Carlo Crespi. L’esercizio delle virtù cristiane da parte sua fu, a detta di chi lo conobbe, non solo fuori dal comune, ma anche costante nel corso della sua lunga vita. La gente lo seguiva fedelmente perché nel suo quotidiano traspariva, quasi naturalmente, l’esercizio delle virtù teologali, tra le quali la speranza spiccava in modo particolare nei tanti momenti di difficoltà. Egli seminò la speranza nel cuore delle persone e visse tale virtù in massimo grado.
            Quando la scuola “Cornelio Merchan” fu distrutta da un incendio, al popolo accorso in lacrime davanti alle rovine fumanti, egli, pure piangente, manifestò una costante e non comune speranza incoraggiando tutti: “Pachilla non c’è più, ma noi ne costruiremo una migliore e i bambini saranno più felici e più contenti“. Dalle sue labbra non uscì mai una parola di amarezza o di dolore per ciò che era andato perduto.
            Alla scuola di don Bosco e di Mamma Margherita, ha vissuto e testimoniato la speranza in pienezza perché, confidando nel Signore e sperando nella Divina Provvidenza, ha realizzato grandi opere e servizi senza budget, anche se non gli è mai mancato il denaro. Non aveva tempo per agitarsi o disperarsi, il suo atteggiamento positivo dava fiducia e speranza agli altri.
            Don Carlo veniva spesso descritto come un uomo dal cuore ricco di ottimismo e speranza davanti alle grandi sofferenze della vita, perché era portato a relativizzare le vicende umane, anche le più difficili; in mezzo alla sua gente era testimone e pellegrino di speranza nel cammino della vita!
            Molto edificante, al fine di comprendere in che modo ed in quali ambiti della vita del Venerabile la virtù della speranza trovò concreta espressione, è anche il racconto che lo stesso padre Carlo Crespi fa in una lettera, inviata da Cuenca nel 1925, al Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi. In essa, accogliendo una sua insistente richiesta, gli riferisce un episodio vissuto in prima persona, quando, nel consolare una donna kivara per la perdita prematura del figlio, le annuncia la buona novella della vita senza fine: “Commosso fino alle lacrime mi accostai alla veneranda figlia della selva dai capelli sciolti al vento: l’assicurai che il figlio era morto bene, che prima di morire non aveva avuto sulle labbra che il nome della madre lontana, e che aveva avuto una sepoltura in una cassa espressamente lavorata, essendo certamente la sua anima stata raccolta dal grande Iddio nel Paradiso […]. Potei quindi scambiare tranquillamente alcune parole, gettando in quel cuore infranto il soave balsamo della Fede e della Speranza cristiana”.
            La pratica della virtù della speranza crebbe parallelamente alla pratica delle altre virtù cristiane, incentivandole: fu uomo ricco di fede, di speranza e di carità.
            Quando la situazione socio-economica di Cuenca nel XX secolo peggiorò notevolmente, creando importanti ripercussioni sulla vita della popolazione, ebbe l’intuizione di comprendere che formando i giovani da un punto di vista umano, culturale e spirituale, avrebbe seminato in loro la speranza in una vita e in futuro migliore, contribuendo a cambiare le sorti dell’intera società.
            Padre Crespi intraprese, pertanto, numerose iniziative in favore della gioventù di Cuenca, partendo anzitutto dall’educazione scolastica. La Scuola Popolare Salesiana “Cornelio Merchán”; il Collegio Normale Orientalista rivolto agli insegnanti salesiani; la fondazione delle scuole d’arti e mestieri – che in seguito diventarono il “Técnico Salesiano” e l’Istituto Tecnologico Superiore, culminante nell’Università Politecnica Salesiana – confermano il desiderio del Servo di Dio di offrire alla popolazione cuencana migliori e più numerose prospettive per una crescita spirituale, umana e professionale. I giovani e i poveri, considerati anzitutto quali figli di Dio destinati alla beatitudine eterna, furono quindi raggiunti da padre Crespi attraverso una promozione umana e sociale capace di confluire in una più ampia dinamica, quella della salvezza.
            Tutto ciò fu da lui attuato con pochi mezzi economici, ma abbondante speranza nel futuro dei giovani. Lavorò attivamente senza perdere di vista lo scopo ultimo della propria missione: il conseguimento della vita eterna. È proprio in questo senso che padre Carlo Crespi intese la virtù teologale della speranza ed è attraverso questa prospettiva che passò tutto il suo sacerdozio.
La riaffermazione della vita eterna fu senza dubbio uno dei temi centrali trattati negli scritti di padre Carlo Crespi. Questo dato ci permette di cogliere l’evidente importanza da lui assegnata alla virtù della speranza. Tale dato mostra chiaramente come la pratica di questa virtù permeò costantemente il percorso terreno del Servo di Dio.
            Nemmeno la malattia poté spegnere l’inesauribile speranza che sempre animò padre Crespi.
            Poco prima di chiudere la propria esistenza terrena don Carlo chiese che gli fosse dato fra le mani un crocifisso. La sua morte avvenne il 30 aprile 1982 alle ore 17.30 nella Clinica Santa Inés di Cuenca a causa di una broncopolmonite e d’un attacco cardiaco.
            Il medico personale del Venerabile Servo di Dio, che per 25 anni e fino alla morte, fu testimone diretto della serenità e della consapevolezza con la quale padre Crespi, che sempre aveva vissuto con lo sguardo rivolto al cielo, visse il tanto atteso incontro con Gesù.
            Nel processo testimoniò: “Per me un segno speciale è proprio quell’atteggiamento di aver comunicato con noi in un atto semplicemente umano, ridendo e scherzando e, quando -dico- ha visto che le porte dell’eternità erano aperte e forse la Vergine l’aspettava, ci ha zittito e ci ha fatto pregare tutti”.

Carlo Riganti,
Presidente Associazione Carlo Crespi




Le profezie di Malachia. I papi e la fine del mondo

Le cosiddette “Profezie di Malachia” rappresentano uno dei testi profetici più affascinanti e controversi legati al destino della Chiesa cattolica e del mondo. Attribuite a Malachia di Armagh, arcivescovo irlandese vissuto nel XII secolo, queste previsioni descrivono brevemente, attraverso enigmatici motti latini, i pontefici da Celestino II fino all’ultimo papa, il misterioso “Pietro Secondo”. Nonostante siano considerate dagli studiosi moderne falsificazioni risalenti al tardo Cinquecento, le profezie continuano a suscitare dibattiti, interpretazioni apocalittiche e speculazioni su possibili scenari escatologici. Al di là della loro autenticità, esse rappresentano comunque un forte richiamo alla vigilanza spirituale e all’attesa consapevole del giudizio finale.

Malachia di Armagh. Biografia di un “Bonifacio d’Irlanda”
Malachia (in irlandese Máel Máedóc Ua Morgair, in latino Malachias) nacque intorno al 1094 nei pressi di Armagh, da una famiglia nobile. Ricevette la sua formazione intellettuale dal dotto Imhar O’Hagan e, nonostante la sua iniziale riluttanza, fu ordinato sacerdote nel 1119 dall’arcivescovo Cellach. Dopo un periodo di perfezionamento liturgico presso il monastero di Lismore, Malachia intraprese un’intensa attività pastorale che lo portò a ricoprire incarichi di crescente responsabilità. Nel 1123 come Abate di Bangor, avviò il ripristino della disciplina sacramentale; nel 1124: nominato Vescovo di Down e Connor, proseguì la riforma liturgica e pastorale e nel 1132: divenuto Arcivescovo di Armagh, dopo difficili contese con gli usurpatori locali, liberò la sede primaziale d’Irlanda e promosse la struttura diocesana sancita dal sinodo di Ráth Breasail.

Durante il suo ministero, Malachia introdusse significative riforme adottando la liturgia romana, sostituendo le eredità monastiche claniche con la struttura diocesana prescritta dal sinodo di Ráth Breasail (1111) e promosse la confessione individuale, il matrimonio sacramentale e la cresima.
Per questi interventi riformatori, san Bernardo di Chiaravalle lo paragonò a san Bonifacio, l’apostolo della Germania.

Malachia compì due viaggi a Roma (1139 e 1148) per ricevere il pallio metropolitano per le nuove province ecclesiastiche d’Irlanda, e in tale occasione fu nominato legato pontificio. Al ritorno dal primo viaggio, con l’aiuto di san Bernardo di Chiaravalle, fondò l’abbazia cistercense di Mellifont (1142), la prima di numerose fondazioni cistercensi in terra irlandese. Morì durante un secondo viaggio verso Roma, il 2 novembre 1148 a Clairvaux, tra le braccia di san Bernardo, che ne scrisse la biografia intitolata “Vita Sancti Malachiae”.

Nel 1190, papa Clemente III lo canonizzò ufficialmente, rendendolo il primo santo irlandese proclamato secondo la procedura formale della Curia romana.

La “Profezia dei Papi”: un testo che compare quattro secoli dopo
Alla figura di questo arcivescovo riformatore venne associata, solo nel XVI secolo, una raccolta di 112 motti che descriverebbero altrettanti pontefici: da Celestino II fino all’enigmatico “Pietro Secondo”, destinato ad assistere alla distruzione della “città dei sette colli”.
La prima pubblicazione di queste profezie risale al 1595, quando il monaco benedettino Arnold Wion le inserì nella sua opera Lignum Vitae, presentandole come un manoscritto redatto da Malachia durante la sua visita a Roma nel 1139.
Le profezie consistono in brevi frasi simboliche che dovrebbero caratterizzare ciascun papa attraverso riferimenti al nome, al luogo di nascita, allo stemma araldico o a eventi significativi del pontificato. Di seguito sono riportati i motti attribuiti agli ultimi pontefici:

109De medietate Lunae (“Dalla metà della luna”)
Attribuito a Giovanni Paolo I, che regnò per un solo mese. Fu eletto il 26.08.1978, quando la luna era nell’ultimo quarto (25.08.1978), e morì il 28.09.1978, quando la luna era nel primo quarto (24.09.1978).

110De labore solis (“Dalla fatica del sole”)
Attribuito a Giovanni Paolo II, che guidò la Chiesa per 26 anni, il terzo pontificato più lungo della storia dopo san Pietro (34-37 anni) e il beato Pio IX (più di 31 anni). Fu eletto il 16.10.1978, poco dopo un’eclissi solare parziale (02.10.1978), e morì il 02.04.2005, pochi giorni prima di un’eclissi solare anulare (08.04.2005).

111Gloria olivae (“Gloria dell’oliva”)
Attribuito a Benedetto XVI (2005-2013). Il cardinale Ratzinger, impegnato nel dialogo ecumenico e interreligioso, scelse il nome di Benedetto XVI in continuità con Benedetto XV, papa che si adoperò per la pace durante la Prima Guerra Mondiale, come egli stesso spiegò nella sua prima Udienza Generale del 27 aprile 2005 (la pace è simboleggiata dal ramo d’ulivo portato dalla colomba a Noè al termine del Diluvio). Questo collegamento simbolico venne ulteriormente rafforzato dalla canonizzazione, nel 2009, di Bernardo Tolomei (1272-1348), fondatore della congregazione benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto (Monaci Olivetani).

112[a]In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit…
Questa non è propriamente un motto, ma una frase introduttiva. Nell’edizione originale del 1595 appare come riga a sé stante, suggerendo la possibilità di inserire ulteriori papi tra Benedetto XVI e il profetizzato “Pietro Secondo”. Ciò contraddirebbe l’interpretazione che identifica necessariamente Papa Francesco come l’ultimo pontefice.

112[b]Petrus Secundus
Riferito all’ultimo papa (la Chiesa ebbe come primo pontefice san Pietro e avrà come ultimo un altro Pietro) che guiderà i fedeli in tempi di tribolazione.
Il paragrafo intero della profezia recita:
“In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Secundus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, Civitas septicollis diruetur, et Iudex tremendus judicabit populum suum. Amen.”
“Durante l’estrema persecuzione della Santa Chiesa Romana siederà Pietro Secondo, che pascerà le pecore tra molte tribolazioni; quando queste saranno terminate, la città dei sette colli [Roma] sarà distrutta, ed il terribile Giudice giudicherà il suo popolo. Amen.”
“Pietro Secondo” sarebbe dunque l’ultimo pontefice prima della fine dei tempi, con un chiaro riferimento apocalittico alla distruzione di Roma e al giudizio finale.

Speculazioni contemporanee
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le interpretazioni speculative: chi identifica papa Francesco come il 112° e ultimo pontefice, chi ipotizza che lui è stato un papa di transizione verso il vero l’ultimo papa, chi addirittura calcola il 2027 come possibile data della fine dei tempi.
Quest’ultima ipotesi si basa su un curioso calcolo: dalla prima elezione papale menzionata nella profezia (Celestino II nel 1143) fino alla prima pubblicazione del testo (durante il pontificato di Sisto V, 1585-1590) trascorsero circa 442 anni; seguendo la stessa logica, aggiungendo altri 442 anni dalla pubblicazione si arriverebbe al 2027. Queste speculazioni, tuttavia, mancano di fondamento scientifico, poiché il manoscritto originale non contiene riferimenti cronologici espliciti.

L’autenticità contestata
Sin dalla comparsa del testo, numerosi storici hanno espresso dubbi sulla sua autenticità per diverse ragioni:
assenza di manoscritti antichi: non esistono copie databili a prima del 1595;
stile linguistico: il latino utilizzato è tipico del XVI secolo, non del XII;
precisione retrospettiva: i motti riferiti ai papi precedenti al conclave del 1590 sono sorprendentemente accurati, mentre quelli successivi risultano molto più vaghi e facilmente adattabili a eventi posteriori;
finalità politiche: in un’epoca di forti tensioni tra fazioni curiali, un simile elenco profetico avrebbe potuto influenzare l’elettorato cardinalizio nel Conclave del 1590.

La posizione della Chiesa
La dottrina cattolica insegna, come riportato nel Catechismo, che il destino della Chiesa non può essere diverso da quello del suo Capo, Gesù Cristo. Nei paragrafi 675-677 si descrive “L’ultima prova della Chiesa”:

Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il «mistero di iniquità» sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica sé stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.
Questa impostura anti-cristica si delinea già nel mondo ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato «intrinsecamente perverso».
La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest’ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa.

Allo stesso tempo, la dottrina cattolica ufficiale invita alla prudenza, fondandosi sulle parole stesse di Gesù:
«Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti» (Mt 24,11).
«Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» (Mt 24:24).

La Chiesa sottolinea, seguendo il Vangelo di Matteo (Mt 24,36), che il momento della fine del mondo non è conoscibile dagli uomini, ma soltanto da Dio stesso. E il Magistero ufficiale – Il Catechismo (n. 673-679) ribadisce che nessuno può “leggere” l’ora del ritorno di Cristo.

Le profezie attribuite a San Malachia non hanno mai ricevuto un’approvazione ufficiale dalla Chiesa. Tuttavia, al di là della loro autenticità storica, esse ci ricordano una verità fondamentale della fede cristiana: la fine dei tempi accadrà, come insegnato da Gesù.

Da duemila anni gli uomini riflettono su questo evento escatologico, spesso dimenticando che la “fine dei tempi” per ciascuno coincide con il proprio termine dell’esistenza terrena. Che importa se il nostro fine vita coinciderà con la fine dei tempi? Per molti non sarà così. Ciò che davvero conta è vivere autenticamente la vita cristiana nel quotidiano, seguendo gli insegnamenti di Cristo ed essendo sempre pronti a rendere conto al Creatore e Redentore dei talenti ricevuti. Resta sempre attuale l’ammonimento di Gesù: «Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24,42).
In quest’ottica, il mistero del “Pietro Secondo” non rappresenta tanto una minaccia di rovina, quanto piuttosto un invito alla costante conversione e alla fiducia nel disegno divino di salvezza.




Con Nino Baglieri pellegrino di Speranza, nel cammino del Giubileo

Il percorso del Giubileo 2025, dedicato alla Speranza, trova un testimone luminoso nella vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri. Dalla drammatica caduta che lo rese tetraplegico a diciassette anni fino alla rinascita interiore del 1978, Baglieri è passato dall’ombra della disperazione alla luce di una fede operosa, trasformando il suo letto di dolore in cattedra di gioia. La sua storia intreccia i cinque segni giubilari – pellegrinaggio, porta, professione di fede, carità e riconciliazione – mostrando che la speranza cristiana non è evasione, ma forza che apre il futuro e sostiene ogni cammino.

1. Sperare come attesa
            La speranza, secondo il vocabolario online Treccani, è un sentimento di “aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera”. L’etimologia del sostantivo “speranza” deriva dal latino spes, a sua volta derivato dalla radice sanscrita spa– che significa tendere verso una meta. Nella lingua spagnola “sperare” e “aspettare” vengono tradotti con il verbo esperar, che racchiude in un unico lemma entrambi i significati: quasi si potesse aspettare solo ciò che si spera. Questo stato d’animo ci permette di affrontare la vita e le sue sfide con coraggio e una luce nel cuore sempre ardente. La speranza viene espressa – in positivo o in negativo – anche in alcuni proverbi della saggezza popolare: “La speranza è l’ultima a morire”, “Finché c’è vita c’è speranza”, “Chi di speranza vive, disperato muore”.
            Quasi raccogliendo questo “sentire condiviso” sulla speranza, ma consapevole di dover aiutare a riscoprire la speranza nella sua dimensione più piena e vera, Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo Ordinario del 2025 alla Speranza (Spes non confundit [La speranza non delude] ne è la bolla di indizione) e già nel 2014 diceva: “La risurrezione di Gesù non è il finale lieto di una bella favola, non è l’happy end di un film; ma è l’intervento di Dio Padre e là dove si infrange la speranza umana. Nel momento nel quale tutto sembra perduto, nel momento del dolore, nel quale tante persone sentono come il bisogno di scendere dalla croce, è il momento più vicino alla risurrezione. La notte diventa più oscura proprio prima che incominci il mattino, prima che incominci la luce. Nel momento più oscuro interviene Dio e risuscita” (cf. Udienza del 16 aprile 2014).
            In questo contesto cade a pennello la vicenda del Servo di Dio Nino Baglieri (Modica, 1° maggio 1951 – 2 marzo 2007) che giovane muratore diciassettenne, cadendo da un’impalcatura alta diciassette metri per il cedimento improvviso di un tavolone, si schiantò al suolo rimanendo tetraplegico: da quella caduta, il 6 maggio 1968, potrà muovere solo testa e collo, dovendo dipendere a vita dagli altri in tutto, anche nelle cose più semplici e umili. Nino non può nemmeno stringere la mano a un amico, o fare una carezza alla mamma… e vede svanire la possibilità di realizzare i suoi sogni. Quale speranza di vita ha ora questo giovane? Con quali sentimenti può fare i conti? Quale futuro lo attende? La prima risposta di Nino è la disperazione, il buio più totale davanti a una richiesta di senso che non trova risposta: dapprima un lungo peregrinare in ospedali di regioni italiane diverse, poi il compatirlo di amici e conoscenti portano Nino a ribellarsi e a rinchiudersi in dieci lunghi anni di solitudine e rabbia, mentre il tunnel della vita si fa sempre più profondo.
            Nella mitologia greca, Zeus affida a Pandora un vaso che contiene tutti i mali del mondo: scoperchiato, gli uomini perdono l’immortalità e iniziano una vita di sofferenza. Per salvarli, Pandora riapre allora il vaso e libera elpis, la speranza, rimasta sul fondo: era l’unico antidoto agli affanni della vita. Guardando invece al Datore di ogni bene, sappiamo che «la speranza non delude» (Rm 5,5). Papa Francesco nella Spes non confundit scrive: “Nel segno di questa speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma […] Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza” (ivi, 1).

2. Da Testimone della “disperazione” ad “ambasciatore” di speranza
            Ritorniamo allora alla vicenda del nostro Servo di Dio, Nino Baglieri.
            Devono passare dieci lunghi anni prima che Nino esca dal tunnel della disperazione, le fitte tenebre si diradino ed entri la Luce. Era il pomeriggio del 24 marzo, Venerdì Santo del 1978, quando padre Aldo Modica con un gruppetto di giovani si recò a casa di Nino sollecitato dalla sua mamma Peppina e da alcune persone che frequentavano il cammino del Rinnovamento nello Spirito, allora agli albori nella vicina parrocchia salesiana. Scrive Nino: “mentre invocavano lo Spirito Santo sentii una sensazione stranissima, un grande calore invadeva il mio corpo, un forte formicolio in tutte le [mie] membra, come se una forza nuova entrasse in me e qualcosa di vecchio uscisse. In quel momento dissi il mio “sì” al Signore, accettai la mia croce e rinacqui a vita nuova, diventai un uomo nuovo. Dieci anni di disperazione cancellati in pochi istanti, perché una gioia sconosciuta entrò nel mio cuore. Io desideravo la guarigione del mio corpo e invece il Signore mi graziava con una gioia ancora più grande: la guarigione spirituale”.
            Inizia per Nino un nuovo cammino: da “testimone della disperazione” diventa “pellegrino di speranza”. Non più isolato all’interno della sua stanzetta ma “ambasciatore” di questa speranza, racconta il suo vissuto attraverso una trasmissione messa in onda da una radio locale e – grazia ancora più grande – il buon Dio gli dona la gioia di poter scrivere con la bocca. Nino confida: “Nel mese di marzo del 1979 il Signore mi fece un grande Miracolo imparai a scrivere, con la bocca, incominciai così, ero con i miei amici che si stavano facendo i compiti dissi di darmi una matita e un quaderno, incominciai a fare dei segni e a disegnare qualcosa, ma poi scoprii che potevo scrivere e così incominciai a scrivere”. Inizia allora a redigere le sue memorie e ad avere contatti tramite lettera con persone di ogni categoria e in varie parti del mondo, per migliaia di lettere a tutt’oggi custodite. La ritrovata speranza lo rende creativo, ora Nino riscopre il gusto delle relazioni e vuole rendersi – come può – indipendente: con l’ausilio di un’asticella che usa con la bocca, e di un elastico applicato al telefono, compone i numeri telefonici per mettersi in comunicazione con tante persone ammalate, per rivolgere loro una parola di conforto. Scopre un nuovo modo di affrontare la propria condizione di sofferenza, che lo fa uscire dall’isolamento e lo avvia a diventare testimone del Vangelo della gioia e della speranza: “Adesso c’è tanta gioia nel mio cuore, in me non esiste più dolore, nel mio cuore c’è il Tuo amore. Grazie Gesù mio Signore, dal mio letto di dolore ti voglio lodare e con tutto il mio cuore ti voglio ringraziare perché mi hai chiamato per conoscere la vita per conoscere la vera vita”.
            Nino ha cambiato prospettiva, ha effettuato una virata di 360° – il Signore gli ha regalato la conversione – ha posto la sua fiducia in quel Dio misericordioso che, attraverso la “disgrazia”, l’ha chiamato a lavorare nella sua vigna, per essere segno e strumento di salvezza e speranza. Così, tante persone che andavano a trovarlo per consolarlo uscivano consolati, con le lacrime agli occhi: non trovavano su quel lettuccio un uomo triste e mesto, ma un volto sorridente che sprigionava – nonostante tante sofferenze, tra cui le piaghe e i problemi respiratori – gioia di vivere: il sorriso era una costante sul suo volto e Nino si sentiva “utile da un letto di croce”. Nino Baglieri è l’opposto di tante persone di oggi, perennemente alla ricerca del senso della vita, che puntano al successo facile e alla felicità di cose effimere e senza valore, vivono on-line, consumano la vita in un click, vogliono tutto e subito ma hanno gli occhi tristi, spenti. Nino in apparenza non aveva niente, eppure aveva la pace e la gioia nel cuore: non ha vissuto isolato, ma sostenuto dall’amore di Dio espresso dall’abbraccio e dalla presenza di tutta la sua famiglia e di sempre più persone che lo conoscono ed entrano in rapporto con lui.

3. Ravvivare la speranza
            Costruire la speranza è: ogni volta che non mi accontento della mia vita e mi impegno per cambiarla. Ogni volta che non mi lascio indurire dalle esperienze negative e impedisco che esse mi rendano diffidente. Ogni volta che cado e provo a rialzarmi, che non permetto che le paure abbiano l’ultima parola. Ogni volta che, in un mondo segnato dai conflitti, scelgo la fiducia e di rilanciare sempre, con tutti. Ogni volta che non sfuggo al sogno di Dio che mi dice: “voglio che tu sia felice”, “voglio che tu abbia una vita piena… piena anche di santità”. Il culmine della virtù della speranza è infatti uno sguardo al Cielo per abitare bene la terra o, come direbbe Don Bosco, un camminare con i piedi per terra e il cuore in Cielo.
            In questo solco di speranza trova compimento il giubileo che, con i suoi segni, ci chiede di metterci in cammino, di varcare alcune frontiere.
            Primo segno, il pellegrinaggio: quando ci si muove da un luogo all’altro si è aperti al nuovo, al cambiamento. Tutta la vita di Gesù è stata “un mettersi in viaggio”, un cammino di evangelizzazione che si compie nel dono della vita e poi oltre, con la Risurrezione e l’Ascensione.
            Secondo segno, la porta: in Gv 10,9 Gesù afferma «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Passare la porta è lasciarsi accogliere, essere comunità. Nel vangelo si parla anche della “porta stretta”: il Giubileo diventa cammino di conversione.
            Terzo segno, la professione di fede: esprimere l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa e il dichiararlo pubblicamente.
            Quarto segno la carità: la carità è la password per il cielo, in 1Pt 4,8 l’apostolo Pietro ammonisce «conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati».
            Quinto segno, dunque, la riconciliazione e l’indulgenza giubilare: si tratta di un “tempo favorevole” (cf. 2Cor 6,2) per sperimentare la grande misericordia di Dio e percorrere cammini di riavvicinamento e perdono verso i fratelli; per vivere la preghiera del Padre Nostro dove si chiede “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. È diventare creature nuove.
            Anche nella vita di Nino ci sono episodi che lo collegano – sul “filo” della speranza – a queste dimensioni giubilari. Per esempio il pentimento per alcune bravate della sua infanzia, come quando, in tre (lui racconta), “rubavamo le offerte delle Messe in sacrestia, ci servivano per giocare al bigliardino. Quando incontri cattivi compagni ti portano nelle male vie. Poi uno ha preso il mazzo di chiavi dell’Oratorio e l’ha nascosto nella mia borsa dei libri che era nello studio; hanno trovato le chiavi, hanno chiamato i genitori, ci hanno dato due schiaffoni e ci hanno cacciato alla scuola. Vergogna!”. Ma soprattutto nella vita di Nino c’è la carità, l’aiutare il fratello povero, nella prova fisica e morale, il farsi vivo con chi ha fatiche anche psicologiche e il raggiungere per iscritto i fratelli in carcere per testimoniare loro la bontà e l’amore di Dio. A Nino, che prima della caduta era stato muratore, “[mi] piaceva costruire con le mie mani qualcosa che restasse nel tempo: anche ora – scrive – mi sento di essere un muratore che lavora nel Regno di Dio, per lasciare qualcosa che resti nel tempo, per vedere le Opere Meravigliose di Dio che compie nella nostra Vita». Confida: «il mio corpo sembra morto, ma nel mio petto continua a battere il mio cuore. Le gambe non si muovono, eppure, per le vie del mondo io cammino”.

4. Pellegrino verso il cielo
            Nino, consacrato cooperatore salesiano della grande Famiglia Salesiana, conclude il suo “pellegrinaggio” terreno venerdì 2 marzo 2007 alle ore 8.00 del mattino, a soli 55 anni, di cui 39 trascorsi da tetraplegico tra letto e carrozzina, dopo aver chiesto scusa alla famiglia per le fatiche che ha dovuto affrontare per la sua condizione. Lascia la scena di questo mondo in tuta e scarpette, come ha espressamente chiesto, per correre nei verdi prati fioriti e saltellare come una cerva lungo i corsi d’acqua. Leggiamo nel suo Testamento spirituale: “non finirò mai di ringraziarti, o Signore, per avermi chiamato a Te attraverso la Croce il 6 maggio 1968. Una croce pesante per le mie giovani forze…”. Il 2 marzo la vita – continuo dono che parte dai genitori e viene piano piano alimentato con stupore e bellezza – inserisce per Nino Baglieri il suo tassello più importante: quello dell’abbraccio con il suo Signore e Dio, accompagnato dalla Madonna.
            Alla notizia della sua dipartita da più parti si leva un coro unanime: «è morto un santo», un uomo che ha fatto del suo letto di croce il vessillo della vita piena, dono per tutti. Quindi un grande testimone di speranza.
            Trascorsi 5 anni dalla morte così, come previsto dalle Normae Servandae in Inquisitionibus ab Episcopis faciendis in Causis Sanctorum del 1983, il vescovo della Diocesi di Noto, su richiesta del Postulatore Generale della Congregazione Salesiana, sentita la Conferenza Episcopale Siciliana e ottenuto il Nihil obstat della Santa Sede, apre l’Inchiesta Diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Nino Baglieri.
            Il processo diocesano, durato 12 anni, si è svolto lungo due direttrici portanti: il lavoro della Commissione Storia che ha ricercato, raccolto, studiato e presentato tante fonti, soprattutto Scritti “del” e “sul” Servo di Dio; il Tribunale Ecclesiastico, titolare dell’Inchiesta, che ha altresì ascoltato sotto giuramento i testimoni.
            Questo percorso si è concluso lo scorso 5 maggio 2024 alla presenza di mons. Salvatore Rumeo, attuale vescovo della diocesi di Noto. Pochi giorni dopo gli Atti processuali sono stati consegnati al Dicastero delle Cause dei Santi che ha proceduto alla loro apertura in data 21 giugno 2024. All’inizio del 2025, il medesimo Dicastero ne ha decretato la “Validità Giuridica”, con cui la Fase romana della Causa può entrare nel vivo.
            Ora l’apporto alla Causa prosegue anche continuando a far conoscere la figura di Nino che al termine del suo cammino terreno ha raccomandato: “non lasciatemi senza far nulla. Io continuerò dal cielo la mia missione. Vi scriverò dal Paradiso”.
            Il cammino della speranza in sua compagnia diventa così desiderio del Cielo, quando “ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine […]. Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo. Insieme a tutte le creature, camminiamo su questa terra cercando Dio […] Camminiamo cantando!” (cf. Laudato Sì, 243-244).

Roberto Chiaramonte




Don Pietro Ricaldone rinasce a Mirabello Monferrato

Don Pietro Ricaldone (Mirabello Monferrato, 27 aprile 1870 – Roma, 25 novembre 1951) fu il quarto successore di don Bosco alla guida dei Salesiani, uomo di vasta cultura, profonda spiritualità e grande amore per i giovani. Nato e cresciuto tra le colline monferrine, portò sempre con sé lo spirito di quella terra, traducendolo in un impegno pastorale e formativo che lo avrebbe reso figura di rilievo internazionale. Oggi, gli abitanti di Mirabello Monferrato vogliono farlo tornare nelle loro terre.

Il Comitato Don Pietro Ricaldone: rinascita di un’eredità (2019)
Nel 2019, un gruppo di ex allievi e ex allieve, storici e appassionati di tradizioni locali ha dato vita al Comitato Don Pietro Ricaldone a Mirabello Monferrato. L’obiettivo – semplice e ambizioso allo stesso tempo – è stato fin dall’inizio quello di riportare la figura di don Pietro nel cuore del paese e dei giovani, perché la sua storia e la sua eredità spirituale non vadano perdute.

Per preparare il 150° anniversario della nascita (1870–2020), il Comitato ha scandagliato l’Archivio Storico Comunale di Mirabello e l’Archivio Storico Salesiano, rinvenendo lettere, appunti e antichi volumi. Da questo lavoro è nata una biografia illustrata, pensata per lettori di ogni età, in cui la personalità di Ricaldone emerge in forma chiara e avvincente. Fondamentale, in questa fase, è stata la collaborazione con don Egidio Deiana, studioso di storia salesiana.

Nel 2020 era prevista una serie di eventi – mostre fotografiche, concerti, spettacoli teatrali e circensi – tutti incentrati sul ricordo di don Pietro. Sebbene la pandemia abbia costretto a riprogrammare gran parte dei festeggiamenti, nel luglio dello stesso anno si è svolto un evento commemorativo con una mostra fotografica sulle tappe della vita di Ricaldone, una animazione per bambini con laboratori creativi e una celebrazione solenne, alla presenza di alcuni Superiori Salesiani.
Quell’incontro ha segnato l’inizio di una nuova stagione di attenzione al territorio mirabellese.

Oltre il 150°: il concerto per il 70° anniversario della morte
L’entusiasmo per il recupero della figura di don Pietro Ricaldone ha portato il Comitato a prolungare la propria attività anche dopo il 150° anniversario.
In vista del 70° anniversario della morte (25 novembre 1951), il Comitato ha organizzato un concerto dal titolo “Affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”, frase tratta dalla circolare di don Pietro sul Canto Gregoriano del 1942.
In piena Seconda Guerra Mondiale, don Pietro – allora Rettore Maggiore – scrisse una celebre circolare sul Canto Gregoriano in cui sottolineava l’importanza della musica come via privilegiata per ricondurre i cuori degli uomini alla carità, alla mitezza e soprattutto a Dio: “A taluno potrà causare meraviglia che, in tanto fragore di armi, io v’inviti ad occuparvi di musica. Eppure penso, anche prescindendo da allusioni mitologiche, che questo tema risponda pienamente alle esigenze dell’ora che volge. Tutto ciò che possa esercitare efficacia educativa e ricondurre gli uomini a sensi di carità e mitezza e soprattutto a Dio, dev’essere da noi praticato, diligentemente e senza indugio, per affrettare l’alba radiosa del giorno sospirato”.

Passeggiate e radici salesiane: la “Passeggiata di don Bosco”
Pur essendo nato come omaggio a don Ricaldone, il Comitato ha finito per diffondere nuovamente anche la figura di don Bosco e di tutta la tradizione salesiana, di cui don Pietro è stato erede e protagonista.
A partire dal 2021, ogni seconda domenica di ottobre, il Comitato promuove la “Passeggiata di Don Bosco”, riproponendo il pellegrinaggio che don Bosco compì con i ragazzi da Mirabello a Lu Monferrato nel 12–17 ottobre 1861. In quei cinque giorni si progettarono i dettagli del primo collegio salesiano fuori Torino, affidato al Beato Michele Rua con don Albera tra gli insegnanti. Anche se l’iniziativa non riguarda direttamente don Pietro, ne sottolinea le radici e il legame con la tradizione salesiana locale che egli stesso ha portato avanti.

Ospitalità e scambi culturali
Il Comitato ha favorito l’accoglienza di gruppi di giovani, scuole professionali e chierici salesiani da tutto il mondo. Alcune famiglie offrono ospitalità gratuita, rinnovando la fraternità tipica di don Bosco e di don Pietro. Nel 2023 ha toccato Mirabello un numeroso gruppo della Crocetta, mentre ogni estate arrivano gruppi internazionali accompagnati da don Egidio Deiana. Ogni visita è un dialogo tra memoria storica e gioia dei giovani.

Il 30 marzo 2025, quasi cento capitolari salesiani hanno fatto tappa a Mirabello, sui luoghi in cui don Bosco aprì il suo primo collegio fuori Torino e dove don Pietro visse i suoi anni formativi. Il Comitato, insieme alla Parrocchia e alla Pro Loco, ha organizzato l’accoglienza e realizzato un video divulgativo sulla storia salesiana locale, apprezzato da tutti i partecipanti.

Le iniziative continuano e oggi il Comitato, guidato dal suo presidente, collabora alla creazione del Cammino Monferrino di Don Bosco, un itinerario spirituale di circa 200 km attraverso le vie autunnali percorse dal Santo. L’obiettivo è ottenere il riconoscimento ufficiale a livello regionale, ma anche offrire ai pellegrini un’esperienza formativa e di evangelizzazione. Le passeggiate giovanili di don Bosco, infatti, erano esperienze di formazione ed evangelizzazione: lo stesso spirito che don Pietro Ricaldone avrebbe poi difeso e promosso durante tutto il suo rettorato.

La missione del Comitato: tenere viva la memoria di don Pietro
Dietro a ogni iniziativa c’è la volontà di far emergere l’opera educativa, pastorale e culturale di don Pietro Ricaldone. I fondatori del Comitato custodiscono ricordi personali di infanzia e desiderano trasmettere alle nuove generazioni i valori di fede, cultura e solidarietà che animarono il sacerdote mirabellese. In un’epoca in cui tanti punti di riferimento vacillano, riscoprire il cammino di don Pietro significa offrire un modello di vita capace di illuminare il presente: “Là dove passano i Santi, Dio cammina con loro e niente è più come prima” (San Giovanni Paolo II).
Il Comitato Don Pietro Ricaldone si fa portavoce di questa eredità, confidando che la memoria di un grande figlio di Mirabello continui a illuminare la via per le generazioni che verranno, tracciando un sentiero saldo fatto di fede, cultura e solidarietà.




Novena a Maria Ausiliatrice 2025

Questa novena a Maria Ausiliatrice 2025 invita a riscoprirci figli sotto lo sguardo materno di Maria. Ogni giorno, attraverso le grandi apparizioni – da Lourdes a Fatima, da Guadalupe a Banneaux – contempliamo un tratto del suo amore: umiltà, speranza, obbedienza, stupore, fiducia, consolazione, giustizia, dolcezza, sogno. Le meditazioni del Rettor Maggiore e le preghiere dei “figli” ci accompagnano in un cammino di nove giorni che apre il cuore alla fede semplice dei piccoli, alimenta la preghiera e incoraggia a costruire, con Maria, un mondo guarito e pieno di luce, per noi e per tutti coloro che cercano speranza e pace.

Giorno 1
Essere Figli – Umiltà e fede

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Lourdes
La piccola Bernadette Soubirous
11 febbraio 1858. Avevo appena compiuto 14 anni. Era un mattino come gli altri, un giorno d’inverno. Avevamo fame, come sempre. C’era questa grotta, con la bocca nera, Nel silenzio sentii come un gran soffio. Il cespuglio si mosse, una forza lo scuoteva. E allora io vidi una giovane, bianca, non più alta di me che mi salutò con un leggero inchino del capo; nello stesso tempo ella allontanò un po’ dal corpo le braccia tese, aprendo le mani, come le statue della Madonna; Io ebbi paura. Poi mi venne in mente di pregare: presi la corona che porto sempre con me e inizia a recitare il rosario.

Maria si mostra a sua figlia Bernadette Soubirous. A lei che non sapeva né leggere né scrivere, a lei che parlava in dialetto e non andava al catechismo. Una ragazzina povera, bullizzata da tutti nel paese, eppure pronta a fidarsi e ad affidarsi, come chi non ha niente. E niente da perdere. Maria le affida i suoi segreti e lo fa perché si fida di lei. La tratta con amorevolezza, si rivolge a lei con gentilezza, le dice “per favore”. E Bernadette si abbandona e le crede, proprio come un bimbo fa con sua madre. Crede alla sua promessa che la Madonna le fa di non farla felice in questo mondo, ma nell’altro. E la ricorda per tutta la vita, questa promessa. Una promessa che le permetterà di affrontare tutte le difficoltà a testa alta, con forza e determinazione, facendo quanto la Madonna le ha chiesto: pregare, pregare sempre per tutti noi peccatori. Anche lei promette: custodisce i segreti di Maria e dà voce alla sua richiesta di un Santuario nel luogo dell’apparizione. E in punto di morte Bernadette sorride, ripensando al volto di Maria, al suo sguardo amorevole, ai suoi silenzi, alle sue poche ma intense parole e soprattutto a quella promessa. E si sente ancora figlia, figlia di una Madre che mantiene le sue promesse.

Maria, Madre che promette
Tu, che hai promesso di diventare madre dell’umanità, sei rimasta accanto ai tuoi figli, iniziando dai più piccoli e dai più poveri. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Abbi fede: Maria si mostra anche a noi se sappiamo spogliarci di tutto.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, umiltà e fede

Possiamo dire che Maria Santissima per noi è un faro di umiltà e di fede che accompagna i secoli, accompagna la nostra vita, accompagna l’esperienza di ognuna e di ognuno di noi. Non dimentichiamo però che l’umiltà di Maria prima di tutto non è una semplice modestia esteriore, non è una facciata, piuttosto è una profonda consapevolezza della sua piccolezza di fronte alla grandezza di Dio.

Il suo sì, eccomi la serva del Signore che pronuncia davanti all’angelo, è un atto di umiltà, non di presunzione, è un abbandono fiducioso di chi si riconosce strumento nelle mani di Dio. Maria non cerca riconoscimenti, Maria cerca semplicemente di essere serva, ponendosi all’ultimo posto con silenzio, con umiltà, con semplicità che per noi è disarmante. Ecco, questa umiltà, questa umiltà radicale che è la chiave che ha aperto il cuore di Maria alla grazia divina, permettendo al Verbo di Dio con la sua grandezza, con la sua immensità, di incarnarsi nel suo grembo umano.

Ecco, Maria, Maria ci insegna a metterci così come siamo, con la nostra umiltà, senza orgoglio, non c’è bisogno di dipendere sulla nostra autorevolezza, sulla nostra autoreferenzialità, ponendoci liberamente davanti a Dio affinché possiamo cogliere pienamente con libertà e con disponibilità, come Maria, affinché con amore viviamo la sua volontà. Ecco il secondo punto, ecco allora la fede di Maria. L’umiltà della serva la pone in un cammino costante di un’adesione incondizionata al progetto di Dio, anche nei momenti più oscuri, incomprensibili, che vuol dire affrontare con coraggio la povertà della sua esperienza della grotta di Betlemme, la fuga in Egitto, la vita nascosta a Nazareth, però soprattutto ai piedi della croce, dove la fede di Maria raggiunge il suo apice.

Ecco, lì sotto la croce, un cuore trafitto dal dolore, Maria non vacilla, Maria non cade, Maria crede nella promessa. La sua fede allora non è un sentimento passeggero, ma è una roccia salda su cui si fonda la speranza della umanità, la nostra speranza. Umiltà e fede in Maria sono indissolubilmente legati.

Ecco, lasciamo che questa umiltà di Maria illumini il nostro terreno umano, affinché anche in noi la fede possa germogliare, che riconoscendo la nostra piccolezza davanti a Dio non ci lasciamo abbandonare per il fatto che siamo piccoli, non ci lasciamo conquistare dalle presunzioni, ma ci mettiamo lì, come Maria, con un atteggiamento di grande libertà, con un atteggiamento di grande disponibilità, riconoscendo la nostra dipendenza da Dio, viviamo con Dio nella semplicità ma allo stesso tempo nella grandezza. Ecco allora Maria ci esorta a coltivare una fede serena, salda, capace di superare le prove e di confidare nella promessa di Dio. Contempliamo la figura di Maria, umile e credente, perché anche noi possiamo dire con generosità il nostro sì, come ha fatto lei.

E noi, siamo capaci di cogliere le sue promesse d’amore con gli occhi di un bambino?

La preghiera di un figlio infedele
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi limpido il mio cuore.
Rendimi umile, piccolo, capace di perdermi nel tuo abbraccio di madre.
Aiutami a riscoprire quanto sia importante il ruolo di un figlio e segna i miei passi.
Tu prometti, io prometto in un patto che solo madre e figlio possono fare.
Io cadrò, madre, tu lo sai.
Non sempre manterrò le mie promesse.
Non sempre mi fiderò.
Non sempre riuscirò a vederti.
Ma tu resta lì, in silenzio, col sorriso, le braccia tese e le mani aperte.
E io prenderò il rosario e pregherò con te per tutti i figli come me.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 2
Essere Figli – Semplicità e speranza

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Fatima
I piccoli pastorelli in Cova di Iria
In Cova di Iria verso le 13, il cielo si apre e appare il sole. All’improvviso, alle 13,30 circa accade l’improbabile: davanti a una folla stupefatta avviene il miracolo più spettacolare, più grandioso e più incredibile mai avvenuto dai tempi biblici. Il sole inizia una danza frenetica e spaventosa che durerà più di dieci minuti. Un tempo lunghissimo.

Tre piccoli pastorelli, semplici e felici, assistono e diffondono il miracolo che sconvolge milioni di persone. Nessuno se lo spiega, dagli scienziati agli uomini di fede. Eppure, tre bambini hanno visto Maria, hanno ascoltato il suo messaggio. E loro ci credono, credono alle parole di quella donna che si è mostrata e ha chiesto loro di tornare in Cova di Iria ogni 13 del mese. Non hanno bisogno di spiegazioni perché nelle ripetute parole di Maria ripongono tutta la loro speranza. Una speranza difficile da tenere viva, che avrebbe spaventato qualunque bambino: la Madonna rivela a Lucia, Giacinta e Francesco sofferenze e conflitti mondiali. Eppure loro non hanno dubbi: chi confida nella protezione di Maria, madre che protegge, può affrontare tutto. E lo sanno bene, l’hanno provato sulla loro pelle rischiando di essere uccisi per non tradire la parola data alla loro mamma celeste. I tre pastorelli erano pronti al martirio, imprigionati e minacciati di fronte a un pentolone di olio bollente.
Avevano paura:
«Perché dobbiamo morire senza abbracciare i genitori? Io vorrei vedere la mamma».
Eppure decisero di sperare ancora, credendo in un amore più grande di loro:
«Non avere paura. Offriamo questo sacrificio per la conversione dei peccatori. Sarebbe peggio se la Madonna non tornasse più».
«Perché non recitiamo il Rosario?».
Una madre non è mai sorda al grido dei figli. E in lei i figli ripongono speranza.
Maria, Madre che protegge, è rimasta accanto ai suoi tre figli di Fatima e li ha salvati facendoli rimanere vivi.
E oggi protegge ancora tutti i suoi figli nel mondo che vanno in pellegrinaggio al santuario di Nostra Signora di Fatima.

Maria, Madre che protegge
Tu, che ti prendi cura dell’umanità dal momento dell’annunciazione, sei rimasta accanto ai tuoi figli più semplici e pieni di speranza. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Poni la tua speranza in Maria: lei saprà proteggerti.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, speranza e rinnovamento

Maria Santissima è aurora di speranza, fonte inesauribile di rinnovamento.
Contemplando la figura di Maria è come volgere lo sguardo verso un orizzonte luminoso, un invito costante a credere in un futuro pieno di grazia. E questa grazia è trasformatrice. Ecco, Maria è la personificazione della speranza cristiana in atto. La sua fede incrollabile di fronte alle prove, la sua perseveranza nel seguire Gesù fino alla croce, la sua attesa fiduciosa nella risurrezione sono per me le cose più importanti. Sono per noi un faro di speranza per l’umanità intera.

In Maria vediamo come la certezza è, per così dire, la conferma della promessa di un Dio che non viene mai meno alla sua parola. Che il dolore, la sofferenza, il buio non hanno l’ultima parola. Che la morte è vinta dalla vita.

Ecco, Maria allora è la speranza. È la stella del mattino che annuncia la venuta del sole di giustizia. Rivolgerci a lei significa affidare le nostre attese, le nostre aspirazioni a un cuore materno che le presenta con amore al suo figlio risorto. In qualche modo la nostra speranza è sostenuta dalla speranza di Maria. E se c’è la speranza allora le cose non rimangono come prima. C’è rinnovamento. Il rinnovamento della vita. Accogliendo il verbo incarnato, Maria ha reso possibile credere nella speranza e nella promessa di Dio. Ha reso possibile una nuova creazione, un nuovo inizio.
La maternità spirituale di Maria continua a generare noi nella fede, accompagnandoci nel nostro cammino di crescita e di trasformazione interiore.

Chiediamo a Maria Santissima la grazia necessaria perché questa speranza che noi vediamo compiuta in lei possa rinnovare il nostro cuore, guarire le nostre ferite, farci passare al di là del velo della negatività per intraprendere un cammino di santità, un cammino di vicinanza a Dio. Chiediamo a Maria, lei, la donna che sta con gli apostoli in preghiera, affinché ci aiuti oggi, credenti, comunità cristiane, perché siamo sostenuti nella fede e aperti ai doni dello Spirito, perché sia rinnovata la faccia della terra.
Maria ci esorta a non rassegnarci mai al peccato e alla mediocrità, ma pieni di speranza compiuta in lei, desideriamo ardentemente una vita nuova in Cristo. Che Maria continui a essere per noi modello e sostegno per continuare a credere sempre nella possibilità di un nuovo inizio, di una rinascita interiore che ci conformi sempre di più all’immagine del suo figlio Gesù.

E noi, siamo capaci di sperare in lei e farci proteggere con gli occhi di un bambino?

La preghiera di un figlio scoraggiato
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore semplice e pieno di speranza.
Io confido in te: tu in ogni situazione proteggimi.
Io mi affido a te: tu in ogni situazione proteggimi.
Io ascolto la tua parola: tu in ogni situazione proteggimi.
Donami la capacità di credere all’impossibile e di fare tutto quello che è nelle mie possibilità
per portare il tuo amore, il tuo messaggio di speranza e la tua protezione al mondo intero.
E ti prego, Madre mia, proteggi tutta l’umanità, anche quella che ancora non ti riconosce.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 3
Essere Figli – Obbedienza e dedizione

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Guadalupe
Il giovane Juan Diego
Juan Diego», disse la Signora, «piccolo e preferito tra i miei figli…». Juan scattò in piedi.
«Dove stai andando, Juanito?», chiese la Signora.
Juan Diego rispose più educatamente che poteva. Disse alla Signora che era diretto alla chiesa di Santiago per ascoltare la Messa in onore della Madre di Dio.
«Figlio mio diletto», disse la Signora, «sono io la Madre di Dio, e voglio che tu mi ascolti attentamente. Ho un messaggio molto importante da darti. Desidero che mi sia costruita una chiesa in questo luogo, da dove potrò mostrare il mio amore alla tua gente.

Un dialogo dolce, semplice e tenero come quello di una mamma con un figlio. E Juan Diego obbedì: andò dal vescovo a riferire quanto aveva visto ma lui non gli credette. Allora il giovane tornò da Maria e le spiegò quanto accaduto. La Madonna gli diede un altro messaggio e lo esortò a riprovare, e così ancora e ancora. Juan Diego obbediva, non si dava per vinto: avrebbe portato a termine il compito che la Madre celeste gli stava affidando. Ma un giorno, preso dai problemi della vita, stava per saltare l’appuntamento con la Madonna: suo zio stava morendo. «Credi proprio che dimenticherei chi amo tanto?» Maria guarì suo zio, mentre Juan Diego obbediva ancora una volta:
«Mio amato figlio», rispose la Signora, «sali sulla cima della collina dove ci siamo incontrati la prima volta. Taglia e raccogli le rose che vi troverai. Mettile nel tuo tilma e portamele qui. Ti dirò io che devi fare e dire». Pur sapendo che su quella collina non crescevano rose, e certo non d’inverno, Juan corse fin sulla cima. E là c’era il più bel giardino che avesse mai visto. Rose di Casti-glia ancora lucenti di rugiada si stendevano a perdita d’occhio. Tagliò delicatamente i boccioli più belli col suo coltello di pietra, ne riempì il mantello, e veloce tornò dove la Signora lo aspettava. La Signora prese le rose e le sistemò di nuovo nel tilma di Juan. Poi glielo legò dietro al collo e disse: «Questo è il segno che il vescovo vuole. Presto, vai da lui e non fermarti lungo la strada.»

Sul mantello era apparsa l’immagine della Madonna e alla vista di tale miracolo, il vescovo si convinse. Ed oggi il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe conserva ancora l’effige miracolosa.

Maria, Madre che non dimentica
Tu, che non dimentichi nessuno dei tuoi figli, non lasci indietro nessuno, hai guardato ai giovani che hanno riposto in te le loro speranze. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Obbedisci anche quando non comprendi: una madre non dimentica, una madre non lascia soli.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, maternità e compassione

La maternità di Maria non si esaurisce nel suo sì che ha reso possibile l’incarnazione del Figlio di Dio. Certamente, quel momento è il fondamento di tutto, ma la sua maternità è un’attitudine costante, un modo di essere per noi, di relazionarsi con l’umanità intera.
Gesù sulla croce proprio le affida Giovanni con le parole Donna, ecco tuo figlio, simbolicamente estendendo la sua maternità a tutti i credenti di tutti i tempi.
Maria diventa così madre della Chiesa madre spirituale di ognuno di noi.

Vediamo allora come questa maternità si manifesta in una cura tenera e premurosa in un’attenzione costante ai bisogni dei suoi figli e in un desiderio profondo del loro bene. Maria ci accoglie, ci nutre con la sua espressione di fedeltà, ci protegge sotto il suo manto. La maternità di Maria è un dono immenso che noi ci avviciniamo a lei, lo sentiamo una presenza amorevole che ci accompagna in ogni momento.

Ecco allora la compassione di Maria è il naturale corollario della sua maternità. Compassione che non è semplicemente un sentimento superficiale di pietà ma una partecipazione profonda al dolore degli altri, un “soffrire con”.  La vediamo manifestarsi in modo toccante durante la passione del figlio. E nella stessa maniera Maria non rimane indifferente al nostro dolore, intercede per noi, ci consola, ci offre il suo aiuto materno.

Ecco, il cuore di Maria allora diventa un rifugio sicuro dove noi possiamo deporre le nostre fatiche, trovare conforto e speranza. Maternità e compassione in Maria diventano, per così dire, due facce della stessa esperienza umana a favore di noi, due espressioni del suo amore infinito per Dio e per l’umanità.

La sua compassione allora è la manifestazione concreta del suo essere madre, compassione conseguenza della maternità. Contemplare Maria allora come madre ci apre il cuore alla speranza che in lei trova una esperienza veramente completa. Madre Celeste che ci ama.

Chiediamo a Maria affinché la vediamo come un modello di una umanità autentica, di una maternità capace di “sentire con”, capace di amare, capace di soffrire con gli altri, seguendo l’esempio del suo figlio Gesù, che per amore nostro ha patito ed è morto sulla croce.

E noi, siamo sicuri che una madre non dimentica, così come lo sono i bambini?

La preghiera di un figlio perso
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore obbediente.
Quando non ti ascolto, ti prego insisti.
Quando non torno, ti prego vienimi a cercare.
Quando non mi perdono, ti prego insegnami l’indulgenza.
Perché noi uomini ci perdiamo e ci perderemo sempre
ma tu non ti dimenticare di noi figli erranti.
Vieni a prenderci,
vieni a portarci per mano.
Non vogliamo e non possiamo rimanere soli qui.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 4
Essere Figli – Stupore e riflessione

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora de La Salette
I piccoli Melania e Maximin di La Salette
Sabato 19 settembre 1846 i due ragazzini salirono di buon’ora i versanti del monte Planeau, al di sopra del villaggio di La Salette, guidando ognuno quattro mucche a pascolare. A metà strada, presso una piccola sorgente, Melania per prima vide su un mucchio di pietre un globo di fuoco «come se il sole fosse caduto lì» e lo indicò a Maximin. Da quella sfera luminosa cominciò ad apparire una donna, seduta con la testa fra le mani, i gomiti sulle ginocchia, profondamente triste. Davanti al loro stupore, la Signora si alzò e con voce dolce, ma in lingua francese, disse loro: «Avvicinatevi figli miei, non abbiate paura, sono qui per annunciarvi una grande notizia». Rincuorati, i ragazzi si avvicinarono e videro che la figura stava piangendo.

Una madre annuncia una grande notizia ai suoi figli e lo fa piangendo. Eppure i ragazzini non si straniscono del suo pianto. Ascoltano nel più tenero dei momenti tra una madre e i suoi figli. Perché anche le madri a volte sono preoccupate, perché anche le madri affidano ai loro figli le proprie sensazioni, i propri pensieri e riflessioni. E Maria affida ai due pastorelli, poveri e trascurati negli affetti, un grande messaggio: “sono preoccupata per l’umanità, sono preoccupata per voi figli miei che vi state allontanando da Dio. E la vita lontana da Dio è una vita complicata, difficile, fatta di sofferenze.” Ecco perché piange. Piange come una qualunque madre e racconta ai sui figli più piccoli e più puri un messaggio tanto stupefacente quanto grande. Un messaggio da annunciare a tutti, da portare al mondo.
E loro lo faranno, perché non possono tenere per loro un momento così bello: l’espressione dell’amore di una mamma per i suoi figli bisogna annunciarla a tutti. Il Santuario di Nostra Signora di La Salette che sorge nel luogo delle apparizioni, pone le sue basi sulla rivelazione del dolore di Maria di fronte al peregrinare dei suoi figli peccatori.

Maria, Madre che annuncia/che racconta
Tu, che ti doni completamente ai tuoi figli tanto da non avere paura di raccontar loro di te, hai toccato il cuore dei tuoi figli più piccoli, capaci di riflettere sulle tue parole e accoglierle con stupore. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Stupisciti di fronte alle parole di una madre: saranno sempre le più autentiche.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, amore e misericordia

La sentiamo questa dimensione di Maria, queste due dimensioni? Maria è la donna del cuore traboccante di amore, di attenzione e anche di misericordia. Noi la sentiamo come un porto, un rifugio sicuro nel momento che stiamo passando momenti di difficoltà o di prova.

Contemplando Maria è come immergerci in un oceano di tenerezza, di compassione. Ci sentiamo circondati da un ambiente, da tutta un’atmosfera inesauribile di conforto e di speranza. L’amore di Maria è un amore materno che abbraccia tutta l’intera umanità, perché è un amore che ha le sue radici nel suo sì incondizionato al progetto di Dio.

Maria, accogliendo il suo figlio nel grembo, ha accolto l’amore di Dio. Per conseguenza il suo amore non conosce confine né distinzioni, si china sulle fragilità, sulle miserie umane, con una delicatezza infinita. Lo vediamo manifestarsi nella sua attenzione verso Elisabetta, nella sua intercessione alle nozze di Cana, nella sua presenza silenziosa, straordinaria ai piedi della croce.

Ecco, l’amore di Maria, questo amore materno, è un riflesso dello stesso amore di Dio, un amore che si fa vicino, che consola, perdona, non si stanca mai, non finisce mai. Ecco, ci insegna Maria che amare significa donarsi completamente, farsi prossimo di chi soffre, condividere le gioie e i dolori dei fratelli con la stessa generosità e la stessa dedizione che hanno animato il suo cuore. Amore, misericordia.

La misericordia allora diventa la naturale conseguenza dell’amore di Maria, una compassione, possiamo dirle viscerale, davanti alle sofferenze dell’umanità, del mondo. Maria la guardiamo, la contempliamo, la incontriamo con il suo sguardo materno e lo sentiamo posarsi sulle nostre debolezze, sui nostri peccati, sulla nostra vulnerabilità, senza aggressione, anzi con una infinita dolcezza. È un cuore immacolato, sensibile al grido del dolore.

Maria è una madre che non giudica, non condanna, ma accoglie, consola, perdona. La misericordia di Maria la sentiamo come un balsamo per le ferite dell’anima, una broccia che riscalda il cuore. Ci ricorda Maria che Dio è ricco di misericordia e che non si stanca mai di perdonare chi si rivolge a Lui con cuore contrito, sereno, aperto, disponibile.

Amore e misericordia in Maria Santissima si fondono in un abbraccio che avvolge l’intera umanità. Chiediamo a Maria che ci aiuti a spalancare i nostri cuori, all’amore di Dio, come ha fatto lei, a lasciare che questo amore pervada il nostro cuore, specialmente quando ci sentiamo più bisognosi, più sotto il peso delle prove e della difficoltà. In Maria troviamo una madre tenerissima e potente, pronta ad accoglierci nel suo amore e a intercedere per la nostra salvezza.

E noi, siamo capaci di stupirci ancora come un bambino di fronte all’amore della mamma?

La preghiera di un figlio lontano
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di compassione e conversione.
Nel silenzio, ti ritrovo.
Nella preghiera, ti ascolto.
Nella riflessione, ti scopro.
E di fronte alle tue parole d’amore, Madre, mi stupisco
e scopro la forza del tuo legame con l’umanità.
Lontano da te, chi mi tiene la mano nei momenti di difficoltà?
Lontano da te, chi mi conforta nel mio pianto?
Lontano da te, chi mi consiglia quando sto prendendo il bivio sbagliato?
Io ritorno a te, nell’unità.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 5
Essere Figli – Fiducia e preghiera

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Medaglia di Caterina
La piccola Caterina Labouré
La notte del 18 luglio 1830, verso le 11,30, si sentì chiamare per nome. Era un bambino che le disse: «Alzati e vieni con me». Caterina lo seguì. Tutte le luci erano accese. La porta della cappella si aprì appena il bambino l’ebbe sfiorata con la punta delle dita. Caterina si inginocchiò.
A mezzanotte venne la Madonna, si sedette sulla poltrona che c’era accanto all’altare. «Allora sono balzata vicino a lei, ai suoi piedi, sui gradini dell’altare, e ho posato le mani sulle sue ginocchia» raccontò Caterina. «Sono rimasta così non so quanto tempo. Mi è parso il momento più dolce della mia vita…».
«Dio vuole affidarti una missione» disse la Vergine a Caterina.

Caterina, orfana a 9 anni, non si rassegna a vivere senza la mamma. E si avvicina alla Madre del Cielo. La Madonna che la guardava già da lontano, non l’avrebbe mai abbandonata. Anzi, aveva grandi progetti per lei. Lei, una sua figlia attenta e amorevole, avrebbe avuto una grande missione: vivere una vita cristiana autentica, una relazione personale con Dio forte e salda. Maria crede nelle potenzialità della sua bambina e a lei affida la Medaglia Miracolosa, capace di intercedere e compiere grazie e miracoli. Una missione importante, un messaggio difficile. Eppure Caterina non si scoraggia, si fida della sua Mamma del Cielo e sa che lei non l’abbandonerà mai.

Maria, Madre che dà fiducia
Tu, che ti fidi e affidi missioni e messaggi a ogni tuo figlio, li accompagni sulla loro strada come presenza discreta, restando accanto a tutti ma soprattutto a chi ha vissuto grandi dolori. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Fidati: una madre ti affiderà sempre solo compiti che potrai portare a termine e ti starà accanto per tutto il cammino.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, fiducia e preghiera

Maria Santissima ci si presenta come la donna di una fiducia incrollabile, una potente interceditrice attraverso la preghiera. Ecco, contemplare questi due aspetti, la fiducia e la preghiera, vediamo due dimensioni fondamentali della relazione di Maria con Dio.

La fiducia di Maria in Dio possiamo dire che è un filo d’oro che percorre tutta la sua esistenza, dall’inizio fino alla fine. Quel sì pronunciato con consapevolezza delle conseguenze, è un atto di abbandono totale alla volontà divina. Ecco, Maria si affida, Maria vive la fiducia in Dio con un cuore saldo alla provvidenza divina, sapendo che Dio non l’avrebbe mai abbandonata.

Ecco, allora per noi, nella nostra vita quotidiana, guardare a Maria, questo abbandono non passivo, ma attivo, fiducioso, è un invito, non a dimenticare le nostre ansie, le nostre paure, ma in qualche modo di guardare tutto a quella luce dell’amore di Dio, che nel caso di Maria non è mai venuto a meno, e neanche nella nostra vita. Ecco, allora, questa fiducia che porta alla preghiera, che possiamo dire è quasi il respiro dell’anima di Maria, il canale privilegiato della sua intima comunione con Dio. La fiducia porta alla comunione, la sua vita abbandonata è stato un continuo dialogo di amore con il Padre, un’offerta costante di sé stessa, delle sue preoccupazioni, ma anche delle sue decisioni.

La visitazione a Elisabetta è un esempio di preghiera che si fa poi servizio. Vediamo Maria accompagnando Gesù fino alla croce, dopo l’ascensione la vediamo nel cenacolo unita agli Apostoli in fervente attesa. Maria ci insegna il valore della preghiera costante come conseguenza di una fiducia totale e completa abbandonandosi nelle mani di Dio, precisamente incontrare Dio e vivere con Dio.

Fiducia e preghiera e Maria Santissima sono strettamente interconnesse. Una profonda fiducia in Dio che fa nascere, fa emergere una preghiera perseverante. Chiediamo a Maria affinché sia lei il suo esempio che noi ci sentiamo esortati a fare della preghiera un’abitudine quotidiana perché vogliamo continuamente sentirci abbandonati nelle mani misericordiose di Dio.

Rivolgiamoci a lei con filiale e confidenza affinché imitandola, imitando la sua fiducia e la sua perseveranza nella preghiera, potremo sperimentare la pace che solo quando ci abbandoniamo a un Dio possiamo ricevere le grezze necessarie per il nostro cammino di fede.

E noi, siamo capaci di fidarci in maniera incondizionata come i bambini?

La preghiera di un figlio sfiduciato
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di pregare.
Non sono capace di ascoltarti, apri le mie orecchie.
Non sono capace di seguirti, muovi i miei passi.
Non sono capace di tenere fede a quanto vorrai affidarmi, rendi la mia anima salda.
Le tentazioni sono tante, fa’ che io non ceda.
Le difficoltà sembrano insormontabili, fa’ che io non cada.
Le contraddizioni del mondo gridano forte, fa’ che io sia non le segua.
Io, tuo figlio fallimentare, sono qui perché tu ti serva di me.
Rendendomi un figlio obbediente.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 6
Essere Figli – Sofferenza e guarigione

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora dei dolori di Kibeho
La piccola Alphonsine Mumiremana e i suoi compagni
La storia cominciò alle 12,35 di un sabato, il 28 novembre 1981, in un Collegio gestito da Suore locali, frequentato da poco più di un centinaio di ragazze della zona. Un Collegio rurale, povero, dove si imparava a diventare maestre oppure segretarie. Il complesso non era dotato di Cappella e, quindi, non vi era un clima religioso particolarmente sentito. Quel giorno tutte le ragazze del Collegio erano nel refettorio. La prima del gruppo a “vedere” fu Alphonsine Mumureke, di 16 anni. Secondo quanto lei stessa scrive nel suo diario, stava servendo a tavola le sue compagne, quando udì una voce femminile che la chiamava: “Figlia mia, vieni qui”. Si diresse verso il corridoio, accanto al refettorio, e lì le apparve una donna di incomparabile bellezza. Era vestita di bianco, con un velo bianco sulla testa, che nascondeva i capelli, e che sembrava unito al resto del vestito, che non aveva cuciture. Era scalza e le sue mani erano giunte sul petto con le dita rivolte al cielo.

Successivamente la Madonna apparve ad altri compagni di Alphonsine che all’inizio erano scettici ma poi, di fronte all’apparizione di Maria, dovettero ricredersi. Maria, parlando con Alphonsine, si definisce la Signora dei dolori di Kibeho e racconta ai ragazzi tutti gli spietati e sanguinosi avvenimenti che sarebbero avvenuti di lì a poco con lo scoppio della guerra in Ruanda. Il dolore sarà grande ma anche la consolazione e la guarigione da quel dolore, perché lei, la Signora dei Dolori, non avrebbe mai lasciato soli i suoi figli dell’Africa. I ragazzi restano lì, attoniti, di fronte alle visioni ma credono in questa mamma che tende loro le braccia dicendo chiamandoli “figli miei”. Sanno che solo in lei ci sarà consolazione. E per poter pregare affinché la madre che consola avesse alleviato le sofferenze dei suoi figli, viene eretto il santuario dedicato a Nostra Signora dei Dolori di Kibeho, oggi luogo segnato da stermini e genocidi. E la Madonna continua a essere lì e abbracciare tutti i suoi figli.

Maria, Madre che consola
Tu, che hai consolato i tuoi figli come Giovanni sotto la croce, hai guardato a chi vive nella sofferenza. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Non aver paura di attraversare la sofferenza: la madre che consola asciugherà le tue lacrime.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, sofferenza e invito alla conversione

Figura emblematica di sofferenza, trasfigurata e potente invito alla conversione è Maria. Quando contempliamo il suo cammino doloroso, è monito, silenzioso e pure eloquente, una chiamata profonda a rivedere un po’ le nostre vite, le nostre scelte, e la chiamata a ritornare al cuore del Vangelo. La sofferenza che attraversa la vita di Maria, come una spada affilata, profetizzata dal vecchio Simeone, segnata dalla scomparsa di Gesù Fanciullo, al dolore indicibile ai piedi della croce, ecco, Maria vive tutto questo, il peso della fragilità umana, e il mistero del dolore innocente in una maniera unica.

La sofferenza di Maria non è stata una sofferenza sterile, una rassegnazione passiva, ma in qualche modo notiamo che c’è una attività, un’offerta silenziosa e coraggiosa, unita al sacrificio redentivo del suo figlio Gesù.

Ecco, quando noi guardiamo a Maria, la donna che soffre con gli occhi da parte nostra della fede, quella sofferenza, piuttosto che deprimerci, ci rivela la profondità dell’amore di Dio per noi, che è visibile nella vita di Maria. Maria in qualche modo ci insegna che anche nel dolore più acuto può trovare senso, una possibilità di crescita spirituale, che viene frutto dell’unione con il mistero pasquale.

Ecco allora, dall’esperienza del dolore trasfigurato, scaturisce, emerge un potente invito alla conversione. Guardando, contemplando Maria come ha sopportato tanto per amore nostro e per la nostra salvezza, anche noi siamo interpellati a non rimanere indifferenti, di fronte al mistero della redenzione.

Maria, la donna dolce e materna, ci esorta a abbandonare le vie del male, per abbracciare il cammino della fede. La famosa frase di Maria alle nozze di Cana, «Fate tutto quello che vi dirà», risuona ancora per noi oggi come un pressante invito ad ascoltare la voce di Gesù nei momenti della difficoltà, nei momenti della prova. Nei momenti delle situazioni inaspettate e incognite.

La sofferenza di Maria, notiamo subito che non è fine a se stessa, ma è intimamente legata alla redenzione operata da Cristo. Ecco, il suo esempio di fede è incrollabile nel dolore, sia per noi luce e guida per trasformare le nostre sofferenze in opportunità di crescita spirituale, sia per rispondere con generosità all’appello pressante alla conversione, affinché la profondità che ancora risuona nel cuore di ogni uomo, l’invito di Dio, di un Dio che ci ama, possa attraverso l’intercessione di Maria trovare senso, sbocco, crescita, anche nei momenti più difficili, nei momenti più sofferenti.

E noi, siamo ci lasciamo consolare come i bambini?

La preghiera di un figlio che soffre
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace guarire.
Quando sono a terra, tendimi la mano, madre.
Quando mi sento distrutto, rimetti insieme i pezzi, madre.
Quando la sofferenza prende il sopravvento, aprimi alla speranza, madre.
Perché io non cerchi solo la guarigione del corpo ma mi renda conto di quanto il mio cuore
ha bisogno di pace.
E dalla polvere alzami, madre.
Alza me e tutti i tuoi figli che sono nella prova.
Quelli sotto le bombe,
quelli perseguitati,
quelli ingiustamente incarcerati,
quelli lesi nei diritti e nella dignità,
quelli a quali viene stroncata la vita troppo presto.
Alzali e consolali
perché sono tuoi figli. Perché siamo tuoi figli.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 7
Essere Figli – Giustizia e dignità

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Nostra Signora di Aparecida
I piccoli pescatori Domingos, Felice e Joao
All’alba del 12 ottobre 1717, Domingos Garcia, Felipe Pedroso e Joao Alves spinsero la loro barca nelle acque del fiume Paraiba che scorreva presso il loro villaggio. Non sembravano aver fortuna quella mattina: per ore gettarono le reti, senza pescare nulla. Avevano quasi deciso di rinunciare, quando Joao Alves, il più giovane, volle fare un ultimo tentativo. Gettò dunque nelle acque del fiume la sua rete e lentamente la tirò su. C’era qualcosa, ma non era un pesce… sembrava piuttosto un pezzo di legno. Quando lo liberò dalle maglie della rete, il pezzo di legno si rivelò essere una statua della Vergine Maria, purtroppo priva della testa. Joao gettò di nuovo la rete in acqua e questa volta, ritirandola su, vi trovò impigliato un altro pezzo di legno di forma arrotondata che sembrava proprio la testa della stessa statua: provò a mettere insieme i due pezzi e si accorse che combaciavano perfettamente. Come obbedendo ad un impulso, Joao Alves gettò nuovamente in acqua la rete e, quando provò a tirarla su, si accorse di non riuscirci, perché era piena di pesci. I suoi compagni gettarono le reti in acqua a loro volta e la pesca di quel giorno fu veramente abbondantissima.

Una madre vede le necessità dei sui figli, Maria ha visto le necessità dei tre pescatori ed è andata loro in soccorso. I figli le hanno dato tutto l’amore e la dignità che si può dare a una madre: hanno messo insieme i due pezzi della statua, l’hanno posta su una capanna e ne hanno fatto un santuario. Dall’alto della capanna, la Madonna Aparecida – che vuol dire Apparsa – ha salvato un suo figlio schiavo che scappava dai padroni: ne ha visto la sofferenza e gli ha restituito dignità. E oggi, quella capanna, è il più grande santuario mariano del mondo e porta il nome di Basilica di Nostra Signora di Aparecida.

Maria, Madre che vede
Tu, che hai visto la sofferenza dei tuoi figli maltrattati, a iniziare dai discepoli, ti poni accanto ai tuoi figli più poveri e perseguitati. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Non nasconderti dallo sguardo di una madre: lei vede anche nei tuoi desideri e bisogni più nascosti.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, dignità e giustizia sociale

Maria Santissima è uno specchio di dignità umana pienamente realizzata, silenziosa ma potente e ispiratrice per un senso giusto del vissuto sociale. Riflettere sulla figura di Maria in relazione a questi temi ci svela una prospettiva profonda e sorprendentemente attuale.

Guardiamo a Maria, la donna piena di dignità come un dono che per noi oggi ci aiuta a guardare questa sua purezza originaria, che non la pone su un piedistallo inaccessibile, ma rivela Maria nella pienezza di quella dignità a cui tutti ci sentiamo un pochettino attratti, chiamati.

Contemplando Maria vediamo risplendere la bellezza e la nobiltà precisamente la dignità dell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio, libero dal gioco del peccato, pienamente aperto all’amore divino, una umanità che non si perde nei dettagli, nelle cose superficiali.

Possiamo dire che il sì libero e consapevole di Maria è quel gesto di autodeterminazione che eleva Maria a quella che è a livello della volontà di Dio, entra in qualche modo nella logica di Dio. La sua umiltà poi la rende ancora più libera, lungi dall’essere sminuente dall’umiltà. L’umiltà di Maria diventa la consapevolezza della vera grandezza che viene da Dio.

Ecco allora questa dignità Maria ci aiuta a guardare come noi la stiamo vivendo nella quotidianità della vita. Il tema della giustizia sociale può apparire meno esplicito però da una lettura attenta contemplativa del Vangelo specialmente dal Magnificat riusciamo a captare, a sentire a incontrare quello spirito rivoluzionario che proclama l’abbattimento dei potenti dai troni e l’innalzamento degli umili, cioè il rovesciamento delle logiche mondane e l’attenzione privilegiata di Dio verso i poveri, gli affamati.

Parole che sgorgano da un cuore umile, pieno di Spirito Santo. Possiamo dire che sono un manifesto di giustizia sociale “ante Littera”, un’anticipazione del regno di Dio, dove gli ultimi saranno i primi.

Contempliamo Maria affinché ci sentiamo attratti da questa dignità che non si limita a chiudersi in se stesso ma è una dignità che nel Magnificat ci sfida a non rimanere chiusi nelle nostre logiche ma diventiamo aperti, lodando Dio cercando di vivere il dono ricevuto per il bene dell’umanità, con dignità per il bene dei poveri per il bene di quelli che sono gli scartati della società.

E noi, siamo ci nascondiamo o diciamo tutto come fanno i bambini?

La preghiera di un figlio che ha paura
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di restituire dignità.
Nell’ora della prova, guarda le mie mancanze e colmale.
Nell’ora della fatica, guarda le mie debolezze e sanale.
Nell’ora dell’attesa, guarda le mie insofferenze e curale.
Così che io guardando i miei fratelli, possa guardare le loro mancanze e colmarle,
vedere le loro debolezze e sanarle, sentire le loro insofferenze e curarle.
Perché nulla cura come l’amore e nessuno è forte come una madre che cerca giustizia per i suoi figli.
E allora anche io, Madre, mi fermo ai piedi della capanna, guardo con occhi fiduciosi la tua immagine e ti prego per la dignità di tutti i tuoi figli.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 8
Essere Figli – Dolcezza e quotidianità

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Madonna di Banneaux
La piccola Marietta di Banneaux
Il 18 gennaio, Marietta è in giardino, prega con il rosario. Maria viene e la porta a una piccola sorgente ai margini del bosco, ove dice: «Questa sorgente è per me», e invita la piccola a immergervi la mano e il rosario. Il papà e due altre persone hanno seguito, con indicibile stupore, Marietta in tutti i suoi gesti e parole. E quella stessa sera il primo d’essere conquistato dalla grazia di Banneaux è proprio il papà di Marietta, che corre a confessarsi e a ricevere l’Eucaristia: era dalla Prima Comunione che non si confessava più.
Il 19 gennaio, Marietta domanda: «Signora, chi siete?». «Sono la Vergine dei poveri».
Alla sorgente, aggiunge: «Questa sorgente è per me, per tutte le nazioni, per i malati. Vengo a consolarli!».

Marietta è una ragazza normale che vive i suoi giorni come tutti noi, come i nostri figli, i nostri nipoti. Un borgo piccolo e sconosciuto, il suo. Prega per rimanere vicina a Dio. Prega la sua mamma celeste per mantenere vivo il legame con lei. E Maria le parla con dolcezza, in un luogo a lei familiare. Le apparirà diverse volte, le confiderà segreti e le dirà di pregare per la conversione del mondo: questo per Marietta è un forte messaggio di speranza. Tutti i figli vengono abbracciati e consolati dalla Madre, tutta la dolcezza che Marietta trova nella “Signora gentile” la trasmette al mondo. E da questo incontro nasce una grande catena d’amore e spiritualità che trova il suo compimento nel santuario alla Madonna di Banneaux.

Maria, Madre che resta accanto
Tu, che sei rimasta accanto ai tuoi figli, senza perderne mai neanche uno, hai illuminato il cammino quotidiano dei più semplici. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Abbandonati nell’abbraccio di Maria: non temere, lei ti consolerà.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima, educazione e amore

Maria Santissima è una maestra incomparabile di educazione, perché è fonte inesauribile di amore e chi ama educa, educa veramente chi ama.

Riflettere sulla figura di Maria in relazione a questi due pilastri della crescita umana e spirituale ecco abbiamo qui un esempio da contemplare, da prendere sul serio, da assumere nelle nostre scelte quotidiane.
L’educazione che viene emanata da Maria, non è fatta di precetti, di insegnamenti formali ma si manifesta attraverso il suo esempio di vita. Un silenzio contemplativo che parla, la sua obbedienza alla volontà di Dio, umile e grande allo stesso tempo, la sua profonda umanità.

Ecco, il primo aspetto educativo che Maria ci comunica è quello dell’ascolto.
L’ascolto della parola di Dio, l’ascolto di quel Dio che è continuamente lì per aiutarci, per accompagnarci. Maria custodisce nel suo cuore, medita con cura favorisce l’ascolto attento alla parola di Dio e con la stessa maniera la necessità degli altri. Maria ci educa a quella umiltà che non sceglie di rimanere distaccata e passiva ma piuttosto a quell’umiltà che mentre riconosciamo la nostra piccolezza davanti alla grandezza di Dio, ci mettiamo come protagonisti al suo servizio. Il nostro cuore è aperto per essere veramente quelli che accompagniamo, viviamo il progetto che Dio ha per noi.

Maria è un esempio che ci aiuta a lasciarci educare dalla fede ci educa alla perseveranza rimanendo saldi nell’amore per Gesù, fino ai piedi della croce.
Educazione e amore.  Ecco, l’amore di Maria è il cuore pulsante della sua esistenza, continua a essere per noi, tutte le volte che ci avviciniamo a Maria, sentiamo questo amore materno, che si estende su tutti noi. È un amore per Gesù che diventa un amore per l’umanità. Il cuore di Maria che si apre con quella tenerezza infinita che lei riceve da Dio, che lei comunica a Gesù, ai suoi figli spirituali.

Chiediamo al Signore affinché contemplando l’amore di Maria, che è un amore che educa lasciamoci spingere a superare i nostri egoismi, le nostre chiusure e di aprirci agli altri. In Maria vediamo una donna che educa con amore e che ama con un amore che è educativo. Chiediamo al Signore che ci dia il dono di un amore, che è il dono del suo amore che a sua volta è un amore che ci purifica ci sostiene, ci fa crescere, affinché il nostro esempio, possa essere veramente un esempio che comunica amore e comunicando amore possiamo lasciarci educare da lei e lasciamo che lei ci aiuti affinché il nostro esempio educhi anche gli altri.

E noi, siamo capaci di abbandonarci come fanno i bambini?

La preghiera di un figlio dei nostri giorni
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore mite e docile.
Chi mi rimetterà insieme, dopo essermi spezzato sotto il peso delle croci che porto?
Chi riporterà la luce nei miei occhi, dopo aver visto le macerie della crudeltà umana?
Chi allevierà le sofferenze della mia anima, dopo gli errori che ho commesso sul mio cammino?
Madre mia, solo tu puoi consolarmi.
Abbracciami e tienimi con te per evitare che io vada in mille pezzi.
L’anima mia riposa in te e trova pace come un bimbo in braccio a sua madre.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.

Giorno 9
Essere Figli – Costruzione e sogno

I figli si fidano, i figli si affidano. E una madre è vicina, sempre. La vedi anche se non c’è.
E noi, siamo capaci di vederla?
Beato chi vede con il cuore.

Maria Ausiliatrice
Il piccolo Giovannino Bosco
A 9 anni ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito.
— Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici.
— Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile?
— Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza.
— Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?
— Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella.
—Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo per i miei figli.
Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci, apparvero altrettanti mansueti agnelli, che, saltellando, correvano attorno belando, come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai a voler parlare in modo da capire, poiché io non sapevo quale cosa volesse significare. Allora ella mi pose la mano sul capo dicendomi:
—A suo tempo tutto comprenderai.

Maria guida e accompagna Giovannino Bosco in tutta la sua vita e la sua missione. Lui, bambino, scopre così, da un sogno, la sua vocazione. Non capirà ma si lascerà guidare. Non comprenderà per molti anni ma alla fine ma sarà consapevole che “ha fatto tutto lei”. E la madre, sia quella terrena, sia quella celeste, sarà la figura centrale nella vita di questo figlio che si farà pane per i propri figli. E dopo aver incontrato Maria nei suoi sogni, Giovanni Bosco ormai diventato sacerdoti, ergerà un santuario alla Madonna perché tutti i suoi figli possano affidarsi a lei. E lo dedicherà a Maria Ausiliatrice, perché lei è stata il suo porto sicuro, il suo aiuto perenne. Così, tutti coloro che entrano nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino vengono presi sotto il manto protettivo di Maria che ne diventa guida.

Maria, Madre che accompagna/che guida
Tu, che hai accompagnato tuo figlio Gesù in tutto il suo cammino, ti sei proposta come guida a chi ha saputo ascoltarti con l’entusiasmo che solo i bambini sanno avere. A loro ti sei avvicinata, a loro ti sei manifestata.
Lasciati accompagnare: la Madre sarà sempre al tuo fianco per indicarti la via.

Intervento Rettor Maggiore
Maria Santissima aiuto nella conversione

Maria Santissima è un aiuto potente e silenzioso nel nostro cammino di crescita.
È un cammino che ha bisogno continuamente di liberarsi da quello che lo blocca verso la crescita. È un cammino che continuamente deve rinnovarsi, a non ritornare indietro oppure a fermarsi in degli angoli oscuri della propria esistenza. Ecco la conversione.

La presenza di Maria è un faro di speranza, è un invito costante affinché noi continuiamo a camminare verso Dio, aiutare il nostro cuore che sia continuamente focalizzato verso Dio, verso il suo amore. Riflettere su Maria, sul suo ruolo, significa che scopriamo Maria che non impone, che non giudica, ma piuttosto sostiene, incoraggia, con la sua umiltà, con il suo amore materno, aiuta il nostro cuore a rimanere accanto a lei per avvicinarci sempre di più verso il suo figlio Gesù, che è la via, la verità e la vita.

Anche per noi continua a essere valido questo Sì di Maria all’annunciazione che apre all’umanità la storia della salvezza raggiungibile e accessibile. La sua intercessione alle Nozze di Cana sostiene quelle che si trovano in situazioni non attese, inedite. Ecco, Maria è un modello di conversione continua. La sua vita, una vita di Immacolata, è stata però un progressivo aderire alla volontà di Dio, un cammino di fede che l’ha portata attraverso gioie e dolori, culminando nel sacrificio del Calvario.

Ecco, la perseveranza di Maria nel seguire Gesù diventa per noi un invito, affinché anche noi viviamo questa vicinanza continua, questa trasformazione interiore, che sappiamo bene che è un processo graduale, ma che richiede costanza, umiltà e fiducia nella grazia di Dio.

Maria aiuto nella conversione attraverso un ascolto molto attento e focalizzato sulla Parola di Dio. Un ascolto che ci aiuta a trovare la forza per abbandonare le vie del peccato, perché riconosciamo la forza, la bellezza di camminare verso Dio. Rivolgiamoci a Maria con fiducia filiale, perché questo significa che noi, mentre riconosciamo le nostre fragilità, i nostri peccati, i nostri difetti, vogliamo favorire quei desideri di cambiamento. Un cambiamento di un cuore che vuole lasciarsi accompagnare dal cuore materno di Maria. In Maria, troviamo quell’aiuto prezioso per discernere le false promesse del mondo e riscoprire la bellezza e la verità del Vangelo. Che Maria, l’aiuto dei cristiani, sia per tutti noi un aiuto continuo per scoprire la bellezza del Vangelo. E per accettare di camminare verso la bontà, la grandezza della parola di Dio, viva nel cuore per poterla comunicare agli altri.

E noi, siamo capaci di farci prendere per mano come i bambini?

La preghiera di un figlio immobile
Maria, tu che ti mostri a chi sa vedere…
rendi il mio cuore capace di sognare e di costruire.
Io che non mi lascio aiutare da nessuno.
Io che mi scoraggio, perdo la pazienza e non credo mai di aver costruito nulla.
Io che penso sempre di essere fallimentare.
Oggi voglio essere figlio, quel figlio in grado di darti la mano Madre mia
per farsi accompagnare sulle strade della vita.
Mostrami il mio campo,
mostrami il mio sogno
e fa’ che alla fine anche io possa comprendere tutto e riconoscere il tuo passaggio
nella mia vita.

Ave Maria…
Beato chi vede con il cuore.




È ancora necessario confessarsi?

Il Sacramento della Confessione, spesso trascurato nella frenesia contemporanea, rimane per la Chiesa cattolica una sorgente insostituibile di grazia e di rinnovamento interiore. Invitamo a riscoprirne il significato originario: non un rito formale, ma un incontro personale con la misericordia di Dio, istituito da Cristo stesso e affidato al ministero della Chiesa. In un’epoca che relativizza il peccato, la Confessione si rivela bussola per la coscienza, medicina per l’anima e porta spalancata alla pace del cuore.

Il Sacramento della Confessione: una necessità per l’anima
Nella tradizione cattolica, il Sacramento della Confessione – chiamato anche Sacramento della Riconciliazione o della Penitenza – occupa un posto centrale nel cammino di fede. Non si tratta di un semplice atto formale o di una pratica riservata a pochi fedeli particolarmente devoti, ma di una necessità profonda che coinvolge ogni cristiano, chiamato a vivere nella grazia di Dio. In un tempo che tende a relativizzare la nozione di peccato, riscoprire la bellezza e la forza liberatrice della Confessione è fondamentale per rispondere pienamente all’amore di Dio.

Gesù Cristo stesso ha istituito il Sacramento della Confessione. Dopo la sua Risurrezione, Egli apparve agli Apostoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non li perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,22-23). Queste parole non sono un simbolismo: esse stabiliscono un potere reale e concreto affidato agli Apostoli e, per successione, ai loro successori, i vescovi e i presbiteri.

Il perdono dei peccati, dunque, non avviene solo tra l’uomo e Dio in modo privato, ma passa anche attraverso il ministero della Chiesa. Dio, nel suo disegno di salvezza, ha voluto che la confessione personale davanti a un sacerdote fosse il mezzo ordinario per ricevere il Suo perdono.

La realtà del peccato
Per comprendere la necessità della Confessione, bisogna prima prendere coscienza della realtà del peccato.
San Paolo afferma: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm. 3,23). E: “Se diciamo che non abbiamo peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1Gv 1,8).
Nessuno può dirsi immune dal peccato, nemmeno dopo il Battesimo, che ci ha purificati dalla colpa originale. La nostra natura umana, ferita dalla concupiscenza, ci porta continuamente a cadere, a tradire l’amore di Dio con atti, parole, omissioni e pensieri.
Scrive san Agostino: “È vero: la natura dell’uomo fu creata in origine senza colpa e senza nessun vizio; viceversa la natura attuale dell’uomo, per la quale ciascuno nasce da Adamo, ha ormai bisogno del Medico, perché non è sana. Certo, tutti i beni che ha nella sua struttura, nella vita, nei sensi e nella mente, li riceve dal sommo Dio, suo creatore e artefice. Il vizio invece che oscura e indebolisce questi beni naturali, così da rendere la natura umana bisognosa d’illuminazione e di cura, non l’ha tratto dal suo irreprensibile artefice, ma dal peccato originale che fu commesso con il libero arbitrio.” (La natura e la grazia).

Negare l’esistenza del peccato equivale a negare la verità su noi stessi. Solo riconoscendo il nostro bisogno di perdono possiamo aprirci alla misericordia di Dio, che non si stanca mai di richiamarci a Sé.

La Confessione: incontro con la Misericordia Divina
Il Sacramento della Confessione è, innanzitutto, un incontro personale con la Misericordia divina. Non è semplicemente un’autoaccusa o una seduta di autoanalisi; è un atto di amore da parte di Dio che, come il padre nella parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32), corre incontro al figlio pentito, lo abbraccia e lo riveste di nuova dignità.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Quelli che si accostano al sacramento della Penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l’esempio e la preghiera.” (CCC, 1422).

Confessarsi è lasciarsi amare, guarire e rinnovare. È accogliere il dono di un cuore nuovo.

Perché confessarsi a un sacerdote?
Una delle obiezioni più comuni è: “Perché devo confessarmi a un sacerdote? Non posso confessarmi direttamente a Dio?” Certamente, ogni fedele può – e deve – rivolgersi direttamente a Dio con la preghiera di pentimento. Tuttavia, Gesù ha stabilito un mezzo concreto, visibile e sacramentale per il perdono: la confessione a un ministro ordinato. E questo è valido per ogni cristiano, ossia anche per i sacerdoti, vescovi, papi.

Il sacerdote agisce in persona Christi, cioè in persona di Cristo stesso. Egli ascolta, giudica, assolve, e offre consigli spirituali. Non si tratta di una mediazione umana che limita l’amore di Dio, bensì di una garanzia offerta da Cristo stesso: il perdono viene comunicato visibilmente, e il fedele ne può avere certezza.

Inoltre, confessarsi davanti a un sacerdote esige umiltà, una virtù indispensabile per la crescita spirituale. Riconoscere apertamente le proprie colpe ci libera dal giogo dell’orgoglio e ci apre alla vera libertà dei figli di Dio.

Non è sufficiente confessarsi solo una volta l’anno, come richiesto dal minimo della legge ecclesiastica. I santi e i maestri di spirito hanno sempre raccomandato la confessione frequente – anche bisettimanale o settimanale – come mezzo di progresso nella vita cristiana.

San Giovanni Paolo II si confessava ogni settimana. Santa Teresa di Lisieux, pur essendo monaca carmelitana e vivendo in clausura, si confessava regolarmente. La confessione frequente permette di affinare la coscienza, correggere difetti radicati, e ricevere nuove grazie.

Ostacoli alla confessione
Purtroppo, molti fedeli oggi trascurano il Sacramento della Riconciliazione. Tra i motivi principali troviamo:

Vergogna: temere il giudizio del sacerdote. Ma il sacerdote non è lì per condannare, bensì per essere strumento di misericordia.

Paura che i peccati riconosciuti vengano fatti pubblici: i sacerdoti confessori non possono rivelare a nessuno, in nessuna condizione (incluse le massime autorità ecclesiastiche) i peccati ascoltati in confessione, neanche se perde la propria vita. Se lo fanno, incorrono immediatamente nella scomunica latae sententiae (canone1386, Codice del Diritto Canonico). L’inviolabilità del sigillo sacramentale non ammette eccezioni né dispense. E le condizioni sono le stesse anche se la Confessione non è finita con l’assoluzione sacramentale. Anche dopo la morte del penitente, il confessore è tenuto ad osservare il sigillo sacramentale.

Mancanza di senso del peccato: in una cultura che minimizza il male, si rischia di non riconoscere più la gravità delle proprie colpe.

Pigrizia spirituale: rimandare la Confessione è una tentazione comune che porta a raffreddare il rapporto con Dio.

Errate convinzioni teologiche: alcuni credono erroneamente che basti “pentirsi nel cuore” senza bisogno della Confessione sacramentale.

La disperazione della salvezza: Alcuni pensano che per loro comunque non ci sarà più perdono. Dice san Agostino: “Alcuni infatti, dopo esser caduti in peccato, si perdono ancora di più per disperazione e non solo trascurano la medicina di pentirsi, ma si fanno schiavi di libidini e di desideri scellerati per soddisfare brame disoneste e riprovevoli, come se a non farlo perdessero pur quello a cui li istiga la libidine, convinti d’esser ormai già sull’orlo della sicura dannazione. Contro questa malattia estremamente pericolosa e dannosa giova il ricordo dei peccati in cui sono caduti anche i giusti e i santi.” (ibid.)

Per superare questi ostacoli bisogna chiedere consigli a chi li può dare, istruirsi, pregare.

Prepararsi bene alla confessione
Una buona confessione richiede una adeguata preparazione, che comprende:

1. Esame di coscienza: riflettere sinceramente sui propri peccati, aiutandosi anche con elenchi basati sui Dieci Comandamenti, sui vizi capitali o sulle Beatitudini.

2. Contrizione: dolore sincero per aver offeso Dio, non solo paura della punizione.

3. Proposito di emendarsi: desiderio reale di cambiare vita, di evitare il peccato futuro.

4. Accusa integrale dei peccati: confessare tutti i peccati mortali in modo completo, specificando la natura e il numero (se possibile).

5. Penitenza: accettare e compiere l’opera riparatrice proposta dal confessore.

Gli effetti della Confessione
Confessarsi non produce solo una cancellazione esterna del peccato. Gli effetti interiori sono profondi e trasformanti:

Riconciliazione con Dio: Il peccato rompe la comunione con Dio; la Confessione la ristabilisce, riportandoci alla piena amicizia divina.

Pace e serenità interiore: Ricevere l’assoluzione porta una pace profonda. La coscienza viene liberata dal peso della colpa e si sperimenta una gioia nuova.

Forza spirituale: Attraverso la grazia sacramentale, il penitente riceve una forza speciale per combattere le tentazioni future e per crescere nelle virtù.

Riconciliazione con la Chiesa: Poiché ogni peccato danneggia anche il Corpo Mistico di Cristo, la Confessione ricompone anche il nostro legame con la comunità ecclesiale.

La vitalità spirituale della Chiesa dipende anche dal rinnovamento personale dei suoi membri. I cristiani che riscoprono il Sacramento della Confessione diventano quasi senza accorgersi, più aperti al prossimo, più missionari, più capaci di irradiare la luce del Vangelo nel mondo.
Solo chi ha sperimentato il perdono di Dio può annunciarlo con convinzione agli altri.

Il Sacramento della Confessione è un dono immenso e insostituibile. È la via ordinaria attraverso la quale il cristiano può ritornare a Dio ogni volta che si allontana. Non è un peso, ma un privilegio; non una umiliazione, ma una liberazione.

Siamo chiamati, dunque, a riscoprire questo Sacramento nella sua verità e nella sua bellezza, a praticarlo con cuore aperto e fiducioso, e a proporlo con gioia anche a coloro che si sono allontanati. Come afferma il salmista: “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e rimesso il peccato” (Sal 32,1).

Oggi, più che mai, il mondo ha bisogno di anime purificate e riconciliate, capaci di testimoniare che la misericordia di Dio è più forte del peccato. Se non lo abbiamo fatto alla Pasqua, approfittiamo del mese mariano di maggio e accostiamoci senza paura alla Confessione: lì ci attende il sorriso di un Padre che non smette mai di amarci.




Habemus Papam: Leone XIV

L’8 maggio 2025, memoria della Beata Vergine del Rosario di Pompei, è stato eletto il cardinale Robert Francis Prevost (69 anni) come 267º Pontefice. È il primo Papa nato negli Stati Uniti e ha scelto il nome Leone XIV.

Presentiamo il suo profilo biografico essenziale

Nascita: 14 settembre 1955, Chicago (Illinois, USA)
Famiglia: Louis Marius Prevost (di origini francesi e italiane) e Mildred Martínez (di origini spagnole); fratelli Louis Martín e John Joseph
Lingue: Inglese, spagnolo, italiano, portoghese e francese; legge latino e tedesco
Soprannome in Perù: “Latin Yankee” – sintesi della sua doppia anima culturale
Cittadinanza: statunitense e peruviana

Formazione
– Seminario minore agostiniano (1973)
– Laurea in Scienze matematiche, Villanova University (1977)
– Master of Divinity, Catholic Theological Union, Chicago (1982)
– Licenza in Diritto Canonico, Pontificia Università San Tommaso d’Aquino – Angelicum (1984)
– Dottorato in Diritto Canonico, Pontificia Università San Tommaso d’Aquino – Angelicum (1987), con la tesi: “Il ruolo del priore locale dell’Ordine di Sant’Agostino”
– Professione religiosa: noviziato di Saint Louis della provincia di Nostra Signora del Buon Consiglio dell’Ordine di Sant’Agostino (1977)
– Voti solenni (29.08.1981)
– Ordinazione sacerdotale: 19.06.1982, Roma (dall’arcivescovo Jean Jadot)

Ministero e incarichi principali
1985-1986: Missionario a Chulucanas, Piura (Perù)
1987: Direttore delle vocazioni e direttore delle missioni della Provincia Agostiniana “Madre del Buon Consiglio” di Olympia Fields, in Illinois (USA)
1988: Invio nella missione di Trujillo (Perù) come direttore del progetto di formazione comune degli aspiranti agostiniani dei Vicariati di Chulucanas, Iquitos e Apurímac
1988-1992: Direttore della comunità
1992-1998: Insegnante dei professi
1989-1998: Vicario giudiziario nell’Arcidiocesi di Trujillo, professore di Diritto Canonico, Patristica e Morale nel Seminario Maggiore “San Carlos e San Marcelo”
1999: Priore provinciale della Provincia “Madre del Buon Consiglio” (Chicago)
2001-2013: Priore Generale degli Agostiniani per due mandati (ca. 2700 religiosi in 50 Paesi)
2013: insegnante dei professi e vicario provinciale nella sua Provincia (Chicago)
2014: Amministratore apostolico della Diocesi Chiclayo e vescovo titolare di Sufar, Perù (nomina episcopale nel 03.11.2014)
2014: consacrazione episcopale, nella festa di Nostra Signora di Guadalupe (12.12.2014)
2015: nominato vescovo di Chiclayo (26.09.2015)
2018: 2º vicepresidente della Conferenza Episcopale del Perù (08.03.2018 – 30.01.2023)
2020: Amministratore apostolico di Callao, Perù (15.04.2020 – 17.04.2021)
2023: Arcivescovo ad personam (30.01.2023 – 30.09.2023)
2023: Prefetto del Dicastero per i Vescovi (30.01.2023 [12.04.2023] – 09.05.2025)
2023: Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina (30.01.2023 [12.04.2023] – 09.05.2025)
2023: Creato cardinale diacono, titolare di S. Monica degli Agostiniani (30.09.2023 [28.01.2024] – 06.02.2025)
2025: Promosso cardinale vescovo della diocesi suburbicaria di Albano (06.02.2025 – 08.05.2025)
2025: Eletto Sommo Pontefice (08.05.2025)

Servizio nella Curia Romana
È stato membro dei dicasteri per l’Evangelizzazione, Sezione per la prima evangelizzazione e le nuove Chiese particolari; per la Dottrina della Fede; per le Chiese Orientali; per il Clero; per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica; per la Cultura e l’Educazione; per i Testi Legislativi, e della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano

Che lo Spirito Santo illumini il suo ministero, come fece con il grande sant’Agostino.
Preghiamo per un pontificato fecondo e ricco di speranza!




Elezione del 266° successore di san Pietro

Ogni morte o rinuncia di un Pontefice apre una delle fasi più delicate della vita della Chiesa cattolica: l’elezione del Successore di san Pietro. Sebbene l’ultimo conclave risalga al marzo 2013, quando Jorge Mario Bergoglio è diventato Papa Francesco, comprendere come si elegge un Papa resta fondamentale per cogliere il funzionamento di un’istituzione millenaria che incide su oltre 1,3 miliardi di fedeli e — indirettamente — sulla geopolitica mondiale.

1. La sede vacante
Tutto inizia con la sede vacante, ossia il periodo che intercorre fra la morte (o la rinuncia) del Pontefice regnante e l’elezione del nuovo. La Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, promulgata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996 e aggiornata da Benedetto XVI nel 2007 e 2013, stabilisce procedure dettagliate.

Accertamento della vacanza
In caso di decesso: il Cardinale Camerlengo — oggi il card. Kevin Farrell — constata ufficialmente la morte, chiude e sigilla l’appartamento pontificio, e notifica l’evento al Cardinale Decano del Collegio cardinalizio.
In caso di rinuncia: la sede vacante scatta nell’orario indicato dall’atto di dimissioni, come avvenne alle 20:00 del 28 febbraio 2013 per Benedetto XVI.

Amministrazione ordinaria
Durante la sede vacante, il Camerlengo governa materialmente il patrimonio della Santa Sede ma non può compiere atti che spettano esclusivamente al Pontefice (nomine vescovili, decisioni dottrinali, ecc.).

Congregazioni generali e particolari
Tutti i cardinali — elettori e non — presenti a Roma si riuniscono nella Sala del Sinodo per discutere questioni urgenti. Le “particolari” includono Camerlengo e tre cardinali estratti a sorte a rotazione; le “generali” convocano l’intero corpo cardinalizio e vengono impiegate, fra l’altro, per fissare la data di inizio del conclave.

2. Chi può eleggere e chi può essere eletto
Gli elettori
Dal motu proprio Ingravescentem aetatem (1970) di Paolo VI, solo i cardinali che non abbiano compiuto 80 anni prima dell’inizio della sede vacante hanno diritto di voto. Il numero massimo di elettori è fissato a 120, ma può essere superato temporaneamente a causa di concistori ravvicinati.
Gli elettori devono:
– essere presenti a Roma entro l’inizio del conclave (salvo motivi gravi);
– prestare giuramento di segretezza;
– alloggiare nella Domus Sanctae Marthae, la residenza voluta da Giovanni Paolo II per garantire dignità e discrezione.
La clausura non è un vezzo medievale: mira a tutelare la libertà di coscienza dei cardinali e a proteggere la Chiesa da indebite ingerenze. Violare il segreto comporta scomunica automatica.

Gli eleggibili
In teoria qualunque battezzato di sesso maschile può essere eletto Papa, in quanto l’ufficio petrino è di diritto divino. Tuttavia, dal Medioevo ad oggi il Papa è sempre stato scelto fra i cardinali. Qualora venisse scelto un non cardinale o addirittura un laico, egli dovrebbe ricevere immediatamente ordinazione episcopale.

3. Il conclave: etimologia, logistica e simbolismo
Il termine “conclave” deriva dal latino cum clave, “con chiave”: i cardinali vengono “rinchiusi” fino all’elezione, per evitare pressioni esterne. La clausura è garantita da alcune regole:
– Luoghi consentiti: Cappella Sistina (votazioni), Domus Sanctae Marthae (alloggio), un percorso riservato fra i due edifici.
– Divieto di comunicazione: apparecchi elettronici consegnati, jam di segnali, controllo anti microspy.
– Segretezza assicurata anche da un giuramento che prevede sanzioni spirituali (scomunica latae sententiae) e canoniche.

4. Ordine del giorno tipico del conclave
1. Messa “Pro eligendo Pontifice” nella Basilica di San Pietro la mattina dell’ingresso in conclave.
2. Processione in Sistina recitando il Veni Creator Spiritus.
3. Giuramento individuale dei cardinali, pronunciato davanti all’Evangeliario.
4. Extra omnes! (“Fuori tutti!”): il Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie congeda i non aventi diritto.
5. Prima votazione (facoltativa) nel pomeriggio del giorno d’ingresso.
6. Doppia votazione quotidiana (mattina e pomeriggio) con, al termine, lo scrutinio.

5. Procedura del voto
Ogni tornata segue quattro momenti:
5.1. Praescrutinium. Distribuzione e compilazione in latino della scheda “Eligo in Summum Pontificem…”.
5.2. Scrutinium. Ciascun cardinale, portando la scheda piegata, pronuncia: “Testor Christum Dominum…”. Depone la scheda nell’urna.
5.3. Post-scrutinium. Tre scrutatores (scrutatori) estratti a sorte contano le schede, leggono ad alta voce ogni nome, lo registrano e perforano la scheda con ago e filo.
5.4. Bruciatura. Schede e appunti vengono bruciati in una stufa speciale; il colore del fumo indica l’esito.
Per essere eletto serve la maggioranza qualificata, ossia, due terzi dei voti validi.

6. Il fumo: nera attesa, bianca gioia
Dal 2005, per rendere inequivocabile il segnale ai fedeli in Piazza San Pietro, si aggiunge un reagente chimico:
– Fumo nero (fumata nera): nessun eletto.
– Fumo bianco (fumata bianca): Papa eletto; suonano anche le campane.
Dopo la fumata bianca, ci vorranno altri 30 minuti o un’ora prima che il nuovo Papa venga nominato dal Cardinale Diacono in Piazza San Pietro. Poco dopo (dai 5 ai 15 minuti), il nuovo Papa apparirà per impartire una benedizione Urbi et Orbi.

7. “Acceptasne electionem?” – Accettazione e nome pontificio
Quando qualcuno raggiunge la soglia necessaria, il Cardinale Decano (o il più anziano per ordine e anzianità giuridica, se il Decano è l’eletto) chiede: «Acceptasne electionem de te canonice factam in Summum Pontificem?» (Accetti l’elezione?). Se l’eletto acconsente — Accepto! — gli viene domandato: «Quo nomine vis vocari?» (Con quale nome vuoi essere chiamato?). L’assunzione del nome è un atto carico di significati teologici e pastorali: richiama modelli (Francesco d’Assisi) o intenzioni riformatrici (Giovanni XXIII).

8. Riti immediatamente successivi
8.1 Vestizione.
8.2 Ingresso nella Cappella del Pianto, dove il nuovo Papa può raccogliersi.
8.3 Oboedientia: i cardinali elettori sfilano per il primo atto di ubbidienza.
8.4 Annuncio al mondo: il cardinale Protodiacono compare sulla Loggia centrale con il celebre «Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam!».
8.5 Prima benedizione “Urbi et Orbi” del nuovo Pontefice.

Da quel momento prende possesso dell’ufficio e inizia formalmente il suo pontificato, mentre l’incoronazione con il pallio petrino e l’anello del Pescatore avvengono nella Messa di inaugurazione (di solito la domenica successiva).

9. Alcuni aspetti storici e sviluppo delle norme
I–III secolo. Acclamazione del clero e del popolo romano. In assenza di una normativa stabile era forte l’influenza imperiale.
1059 – In nomine Domini. Collegio cardinalizio. Niccolò II limita l’intervento laicale; nascita ufficiale del conclave.
1274 – Ubi Periculum. Clausura obbligatoria. Gregorio X riduce le manovre politiche, introduce la reclusione.
1621–1622 – Gregorio XV. Scrutinio segreto sistematico. Perfezionamento delle schede; requisiti dei due terzi.
1970 – Paolo VI. Limite di età a 80 anni. Riduce l’elettorato, favorendo decisioni più rapide.
1996 – Giovanni Paolo II. Universi Dominici Gregis. Codifica moderna del processo, introduce Domus Sanctae Marthae.

10. Alcuni dati concreti di questo Conclave
Cardinali viventi: 252 (età media: 78,0 anni).
Cardinali votanti: 133 (135). Il Cardinale Antonio Cañizares Llovera, Arcivescovo emerito di Valencia, Spagna e il Cardinale John Njue, Arcivescovo emerito di Nairobi, Kenya, hanno comunicato che non potranno partecipare al conclave.
Dei 135 cardinali votanti, 108 (80%) sono stati nominati da Papa Francesco. 22 (16%) sono stati nominati da Papa Benedetto XVI. I restanti 5 (4%) sono stati nominati da Papa san Giovanni Paolo II.
Dei 135 cardinali votanti, 25 hanno partecipato come elettori al Conclave del 2013.
Età media dei 134 cardinali elettori partecipanti: 70,3 anni.
Anni medi di servizio come cardinale dei 134 cardinali elettori partecipanti: 7,1 anni.
Durata media di un papato: circa 7,5 anni.

Inizio del Conclave: 7 maggio, Cappella Sistina.
Cardinali votanti nel Conclave: 134. Numero dei voti richiesto per l’elezione è 2/3, ossia 89 voti.

Orario delle votazioni: 4 voti al giorno (2 al mattino, 2 al pomeriggio).
Dopo 3 giorni interi (ovvero da definire), il voto viene sospeso per un giorno intero (“per consentire una pausa di preghiera, una discussione informale tra gli elettori e una breve esortazione spirituale”).
Seguono altre 7 schede e un’altra pausa fino a un giorno intero.
Seguono altre 7 schede e un’altra pausa fino a un giorno intero.
Seguono altre 7 schede e poi una pausa per valutare come procedere.

11. Dinamiche “interne” non scritte
Pur nella rigida cornice giuridica, la scelta del Papa è un processo spirituale pero e anche umano influenzato da:
– Profili dei candidati (“papabili”): provenienza geografica, esperienze pastorali, competenze dottrinali.
– Correnti ecclesiali: curiale o pastorale, riformista o conservatrice, sensibilità liturgiche.
– Agenda globale: rapporti ecumenici, dialogo interreligioso, crisi sociali (migranti, cambiamento climatico).
– Lingue e reti personali: i cardinali tendono a riunirsi per regioni (gruppo dei “latinoamericani”, “africani”, ecc.) e a confrontarsi informalmente nei pasti o nelle “passeggiate” nei giardini vaticani.

Un evento spirituale e istituzionale insieme
L’elezione di un Papa non è un passaggio tecnico paragonabile a un’assemblea societaria. Nonostante la dimensione umana, è un atto spirituale guidato essenzialmente dallo Spirito Santo.
La cura di norme minuziose — dal sigillo delle porte della Sistina alla combustione delle schede — mostra come la Chiesa abbia trasformato la propria lunga esperienza storica in un sistema oggi percepito come stabile e solenne.
Sapere come si sceglie un Papa, quindi, non è soltanto curiosità: è comprendere la dinamica fra autorità, collegialità e tradizione che regge la più antica istituzione religiosa ancora operante su scala mondiale. E, in un’epoca di cambiamenti vertiginosi, quel “fumetto” che si leva dal tetto della Sistina continua a ricordare che decisioni secolari possono ancora parlare al cuore di miliardi di persone, dentro e fuori la Chiesa.
Questa conoscenza dei dati e delle procedure ci aiutino a pregare più intensamente, come si deve pregare davanti ad ogni decisione importante che affetti la nostra vita.




La nuova Sede Centrale dei Salesiani. Roma, Sacro Cuore

Oggi la vocazione originaria della casa del Sacro Cuore vede un nuovo inizio. Tradizione e innovazione continuano a caratterizzare il passato, il presente e il futuro di quest’opera così significativa.

            Quante volte don Bosco ha desiderato venire a Roma per aprire una casa salesiana. Fin dal primo viaggio del 1858 il suo obiettivo era di essere presente nella Città Eterna con una presenza educativa. Per venti volte è venuto a Roma e solo nell’ultimo viaggio del 1887 è riuscito a realizzare il suo sogno aprendo la casa del Sacro Cuore al Castro Pretorio.
            L’Opera salesiana è collocata nel quartiere Esquilino, nato nel 1875, dopo la breccia di Porta Pia e l’esigenza da parte dei Savoia di costruire nella nuova capitale i ministeri del Regno d’Italia. Il quartiere, chiamato anche Umbertino, è di architettura piemontese, tutte le vie portano il nome di battaglie o eventi legati allo stato sabaudo. Non poteva mancare in questo luogo, che richiama Torino, un Tempio, che fosse anche parrocchia, costruito da un piemontese, don Giovanni Bosco. Il nome della Chiesa non lo sceglie don Bosco, ma è una volontà di Leone XIII per rilanciare una devozione, quanto mai attuale, al Cuore di Gesù.
            Oggi la casa del Sacro Cuore è completamente rinnovata per rispondere alle esigenze della Sede Centrale dei Salesiani. Dal momento della sua fondazione fino ad oggi la casa ha subito diverse trasformazioni. L’Opera nasce come Parrocchia e Tempio Internazionale per la diffusione della devozione al Sacro Cuore, fin dall’inizio l’obiettivo dichiarato da don Bosco era costruire a fianco un Ospizio per ospitare fino a 500 ragazzi poveri. Don Rua porta a termine l’Opera e apre dei laboratori per artigiani (scuola arti e mestieri). Negli anni successivi vengono aperte la scuola media e il liceo classico. Per alcuni anni è stata anche la sede dell’università (Pontificio Ateneo Salesiano) e una casa di formazione per salesiani che studiavano nelle università romane e si impegnavano nella scuola e nell’oratorio (tra questi studenti si annovera anche don Quadrio). È stata inoltre sede ispettoriale dell’Ispettoria Romana prima e della Circoscrizione dell’Italia Centrale a partire dal 2008. Dal 2017, a causa dello spostamento da via della Pisana, è diventata la Sede Centrale dei Salesiani. Dal 2022 è iniziata la ristrutturazione per adeguare gli ambienti alla funzione di casa del Rettor Maggiore. In questa casa sono vissuti o passati: don Bosco, don Rua, il cardinale Cagliero (il suo appartamento era collocato al primo piano di via Marsala), Zeffirino Namuncurà, monsignor Versiglia, Artemide Zatti, tutti i Rettori Maggiori successori di don Bosco, san Giovanni Paolo II, santa Teresa di Calcutta, papa Francesco. Tra i direttori della casa ha svolto il suo servizio monsignor Giuseppe Cognata (durante il suo rettorato, nel 1930, è stata collocata la statua del Sacro Cuore sul campanile).
            Grazie al Sacro Cuore il carisma salesiano si è diffuso in vari quartieri di Roma; infatti, tutte le altre presenze salesiane di Roma sono state una gemmazione di questa casa: il Testaccio, il Pio XI, il Borgo Ragazzi don Bosco, il Don Bosco Cinecittà, il Gerini, l’Università Pontificia Salesiana.

Crocevia di accoglienza
            I tratti determinanti la Casa del Sacro Cuore sono, fin dagli inizi, due:
            1) la cattolicità in quanto aprire una casa a Roma ha sempre significato per i fondatori degli ordini religiosi una vicinanza al Papa e un ampliamento degli orizzonti a livello universale. Nella prima conferenza ai cooperatori salesiani presso il monastero di Tor De’ Specchi di Roma nel 1874 don Bosco afferma che i salesiani si sarebbero sparsi in tutto il mondo e aiutare le loro opere significava vivere il più autentico spirito cattolico;
            2) l’attenzione ai giovani poveri: la collocazione vicino alla stazione, crocevia di arrivi e partenze, luogo dove si sono sempre raccolti i più poveri, è iscritto nella storia del Sacro Cuore.
            Agli inizi l’Ospizio ospitava i ragazzi poveri per insegnare loro un mestiere, successivamente l’oratorio ha raccolto i ragazzi del quartiere; dopo la guerra gli sciuscià (ragazzi che lucidavano le scarpe alle persone che uscivano dalla stazione) sono stati raccolti e curati prima in questa casa e poi si sono trasferiti al Borgo Ragazzi don Bosco; a metà degli anni ’80 con la prima immigrazione in Italia sono stati ospitati dei giovani immigrati in collaborazione con la nascente Caritas; negli anni ’90 un Centro Diurno raccoglieva ragazzi in alternativa al carcere e insegnava loro i rudimenti della lettura e scrittura e un mestiere; dal 2009 un progetto di integrazione tra giovani rifugiati e giovani italiani ha visto fiorire tante iniziative di accoglienza e di evangelizzazione. La Casa del Sacro Cuore per circa 30 anni è stata anche sede del Centro Nazionale Opere Salesiane d’Italia.

Il nuovo inizio
            Oggi la vocazione originaria della casa del Sacro Cuore vede un nuovo inizio. Tradizione e innovazione continuano a caratterizzare il passato, il presente e il futuro di quest’opera così significativa.
            Innanzitutto, la presenza del Rettor Maggiore con il suo consiglio e dei confratelli che si occupano della dimensione mondiale indica il continuum della cattolicità. Una vocazione all’accoglienza di tanti salesiani che vengono da tutto il mondo e trovano al Sacro Cuore un luogo per sentirsi a casa, sperimentare la fraternità, incontrarsi con il successore di don Bosco. Nello stesso tempo è il luogo dal quale il Rettor Maggiore anima e governa la Congregazione tracciando le linee per essere fedeli a don Bosco nell’oggi.
            In secondo luogo, la presenza di un luogo salesiano significativo dove don Bosco ha scritto la lettera da Roma e ha compreso il sogno dei nove anni. All’interno della casa ci sarà il Museo Casa don Bosco di Roma che in tre piani racconterà la presenza del Santo nella città eterna. La centralità dell’educazione come “cosa di cuore” nel suo Sistema Preventivo, la relazione con i Papi che hanno amato don Bosco e che lui per primo ha amato e servito, il Sacro Cuore come luogo di espansione del carisma in tutto il mondo, il faticoso percorso di approvazione delle Costituzioni, la comprensione del sogno dei nove anni e il suo ultimo respiro educativo nello scrivere la lettera da Roma sono gli elementi tematici che, in forma multimediale immersiva, saranno raccontati a coloro che visiteranno lo spazio museale.
            In terzo luogo, la devozione al Sacro Cuore rappresenta il centro del carisma. Don Bosco ancor prima di ricevere l’invito a costruire la Chiesa del Sacro Cuore, aveva orientato i giovani verso questa devozione. Nel Giovane Provveduto ci sono preghiere e pratiche di pietà rivolte al Cuore di Cristo. Ma con l’accettazione della proposta di Leone XIII egli diventa un vero e proprio apostolo del Sacro Cuore. Non risparmia le sue forze per cercare denaro per la Chiesa. La cura nei minimi particolari infonde nelle scelte architettoniche e artistiche della Basilica il suo pensiero e la sua devozione al Sacro Cuore. Per sostenere la costruzione della Chiesa e della casa egli fonda la Pia Opera del Sacro Cuore di Gesù, l’ultima delle cinque fondazioni realizzate da don Bosco lungo il corso della sua vita insieme ai Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Cooperatori Salesiani, l’Associazione dei Devoti di Maria Ausiliatrice. Essa venne eretta per la celebrazione in perpetuo di sei messe quotidiane nella Chiesa del Sacro Cuore in Roma. Vi partecipano tutti gli iscritti, vivi e defunti, attraverso la preghiera svolta e le opere buone compiute dai Salesiani e dai giovani in tutte le loro case.
            La visione di Chiesa che deriva dalla fondazione della Pia Opera è quella di un “corpo vivo” composto da vivi e defunti in comunione tra loro attraverso il Sacrificio di Gesù, rinnovato quotidianamente nella celebrazione eucaristica a servizio dei giovani più poveri. Il desiderio del Cuore di Gesù è che tutti siano una sola cosa (ut unum sint) come Lui e il Padre. La Pia Opera collega, attraverso la preghiera e le offerte, i benefattori vivi e defunti, i Salesiani di tutto il mondo e i giovani che vivono al Sacro Cuore. Solo attraverso la comunione, che ha la sua sorgente nell’Eucaristia, i benefattori, i Salesiani e i giovani possono contribuire a costruire la Chiesa, a farla risplendere nel suo volto missionario. La Pia Opera ha inoltre il compito di promuovere, diffondere, approfondire la devozione al Sacro Cuore in tutto il mondo e rinnovarla secondo i tempi e il sentire della Chiesa.

La stazione centrale per evangelizzare
            Infine, l’attenzione ai giovani poveri si manifesta nella volontà missionaria di raggiungere i giovani di tutta Roma attraverso il Centro Giovanile aperto su via Marsala, proprio all’uscita della stazione Termini dove ogni giorno passano circa 300.000 persone. Un luogo che sia casa per i tanti giovani italiani e stranieri che visitano o vivono a Roma e hanno sete, a volte non consapevole, di Dio. Da sempre, inoltre, intorno alla stazione Termini si accalcano diversi poveri segnati dalla fatica della vita. Un’altra porta aperta su via Marsala, oltre quella del Centro Giovanile e della Basilica, esprime il desiderio di rispondere ai bisogni di queste persone con il Cuore di Cristo, in esse infatti risplende la gloria del suo volto.
            La profezia di don Bosco sulla Casa del Sacro Cuore del 5 aprile 1880 accompagna e guida la realizzazione di quanto è stato raccontato:

Don Bosco mirava lontano. Il nostro monsignor Giovanni Marenco ricordava una sua misteriosa parola, che il tempo non doveva coprire di oblio. Nel giorno stesso in cui accettò quell’onerosissima offerta, il Beato gli domandò:
– Sai perché abbiamo accettato la casa di Roma?
– Io no, rispose quegli.
– Ebbene, sta attento. L’abbiamo accettata perché quando il Papa sarà quello che ora non è e come deve essere. Metteremo nella nostra casa la stazione centrale per evangelizzare l’agro romano. Sarà opera non meno importante che quella di evangelizzare la Patagonia. Allora i Salesiani saranno conosciuti e risplenderà la loro gloria. (MB XIV, 591-592).

don Francesco Marcoccio