Secondo Congresso dei Coadiutori dell’Africa

Il secondo Congresso Regionale dei Salesiani Coadiutori della Regione Africa-Madagascar si è svolto dal 24 al 29 maggio 2023 a Yaoundé, in Camerun, nella Visitatoria “Nostra Signora dell’Africa” dell’Africa Tropicale Equatoriale (ATE). Il motto del Congresso: “Camminando con Raffaele e Tobia, pedalando con Artemide” ha guidato le giornate di approfondimento del carisma, puntando a promuovere l’identità vocazionale del salesiano coadiutore e ad offrire una visione che aiuti la formazione permanente. Presentiamo l’intervento del Consigliere Regionale, don Alphonse Owoudou.


Introduzione
Il Capitolo Generale 28° ci ha posto una sfida di identità sotto forma di domanda: “Che tipo di Salesiani per i giovani di oggi?”. Questa domanda potrebbe essere rivolta a noi durante questo Congresso dei Fratelli Salesiani: Quali Salesiani per i giovani dell’Africa e del Madagascar di oggi? Le varie riflessioni che hanno alimentato questi giorni ci danno motivo di ridisegnare costantemente il ritratto di ciascuno dei nostri confratelli laici consacrati, ed è questo il contributo che daremo contemplando un libro della Bibbia, il libro di Tobith, una leggenda estremamente profetica, pedagogica e pastorale. Vedremo, attraverso una prospettiva analogica e un po’ ermeneutica, come e in che misura, come don Bosco e in particolare come sant’Artemide Zatti, il Coadiutore è chiamato a diventare un genitore spirituale e un accompagnatore competente per i giovani, per non dire un vero e proprio “sacramento della presenza salesiana”.

1.Camminare con Raffaello e il giovane Tobia
La leggenda di Raffaele e Tobia è un’affascinante storia biblica che riguarda un giovane di nome Tobia e il suo angelo custode, Raffaele. Vorrei riassumere la vita di Tobith dandogli la parola: “Io, Tobith, camminavo nella verità e facevo ciò che era giusto. Facevo l’elemosina alla mia famiglia e ai prigionieri assiri a Ninive e visitavo spesso Gerusalemme per le feste, portando offerte e decime. Quando crebbi, mi sposai ed ebbi un figlio di nome Tobia. Deportato da Sennacherib, mi astenni dal mangiare il loro cibo e Dio mi concesse misericordia davanti a lui. Tramite mio nipote Ahikar, ottenni di tornare a Ninive dove aiutai gli orfani, le vedove e gli stranieri secondo la legge di Mosè”.

Accusato da uno dei cittadini, Tobith viene purtroppo rovinato e persino accecato dagli escrementi di un uccello che gli cadono sul viso. Ricordiamo anche il litigio con la moglie (cap. 2), che aveva portato una pecora: il marito cieco pensava che l’avesse rubata, cosa che fece arrabbiare la moglie, la quale insultò il marito cieco. Tobith aveva un figlio, al quale aveva dato il suo stesso nome. L’arcangelo Raffaele apparve a questo ragazzo in forma umana e gli offrì il suo aiuto. Raffaele accompagna Tobia in una missione difficile, un viaggio pericoloso per raccogliere denaro per la sua famiglia (cap. 4). Durante il viaggio, Raffaele aiuta Tobia a sconfiggere un demone che ha ucciso i mariti delle sue future mogli e cura la cecità di Tobia. Alla fine del viaggio, Tobia sposa Sara, la figlia di un parente lontano, e Raffaele rivela la sua vera identità di angelo di Dio.

Il salesiano laico Artemide Zatti era un religioso e un uomo vicino ai suoi fratelli e sorelle, soprattutto a quelli che soffrivano. Ha dedicato la sua vita ad aiutare i malati e i poveri in Argentina. Zatti era un giovane proveniente da una famiglia povera che iniziò a lavorare all’età di quattro anni per aiutare la famiglia. In seguito emigrò in Argentina con la sua famiglia alla ricerca di una vita migliore. Colpito dalla tubercolosi, guarì e si unì all’ordine salesiano.
Zatti lavorò come farmacista e gestì anche un ospedale, dove fu descritto come molto devoto ai malati e ai poveri. Era anche coinvolto in attività religiose ed era considerato un potenziale candidato alla canonizzazione. Zatti era noto per la sua compassione e dedizione ai pazienti, per la sua competenza medica, per il suo lavoro volto all’espansione dell’ospedale e per la sua eredità duratura. La sua bicicletta, che usava per girare la città visitando i poveri malati, divenne un simbolo della sua vita dedicata agli altri. Zatti rifiutava i regali per sé, preferendo continuare a usare la sua bicicletta, che considerava un mezzo di trasporto sufficiente per adempiere alla sua missione di curare i malati e servire gli altri.

2. I due tweet di papa Francesco e una bicicletta
1. Il fratello salesiano Artemide Zatti, pieno di gratitudine per ciò che aveva ricevuto, ha voluto dire “grazie” facendosi carico delle ferite degli altri: guarito dalla tubercolosi, ha dedicato tutta la sua vita a prendersi cura dei malati con amore e tenerezza.
2. La fede cristiana ci chiede sempre di camminare insieme agli altri, di uscire da noi stessi verso Dio e i nostri fratelli e sorelle. E di saper ringraziare, superando l’insoddisfazione e l’indifferenza che imbruttiscono il nostro cuore.

Papa Francesco, parlando di Zatti, insiste sul “camminare insieme”, ossia condividere e unirsi attraverso l’amore per aiutare coloro che soffrono. Zatti ha dedicato tutta la sua vita a servire i più svantaggiati, utilizzando la sua bicicletta come mezzo di trasporto per recarsi nei quartieri poveri della città e aiutare i malati. La sua bicicletta divenne così un potente simbolo dei valori che condivideva: umiltà, generosità e semplicità.
Infatti, Zatti non mostrava particolare interesse nel possedere un’auto o persino un motorino quando i suoi amici volevano regalargliene uno. La bicicletta era tutto ciò di cui aveva bisogno per raggiungere il suo nobile obiettivo: aiutare le persone più bisognose di sostegno. La scelta del mezzo di trasporto rifletteva anche un’altra caratteristica intrinseca della sua personalità: l’amore incondizionato che distribuiva senza restrizioni o condizioni a coloro che non avevano la fortuna di ricevere altrettanto, semplicemente perché le loro circostanze sociali o finanziarie non glielo permettevano.
Ogni gesto di Zatti risuonava profondamente con tutti, invitando tutti a seguire il suo esempio. Camminare insieme significa essere disponibili psicologicamente e fisicamente, in modo che ogni persona possa sentirsi sostenuta da chi la circonda, ma soprattutto servire gli altri con gentilezza e compassione, come lui stesso si è preso cura di loro per tanti anni. Queste azioni sono un riflesso concreto del messaggio delineato da papa Francesco sul “camminare insieme”: raggiungere coloro che soffrono per prevedere collettivamente un miglioramento generale del benessere della comunità attraverso un atteggiamento generale di maggiore solidarietà e calore verso gli altri nella nostra vita quotidiana.

3. La nostra missione di accompagnamento e sinodalità

Questa storia tratta dal Libro di Tobith è un esempio eccellente dell’importanza e del ruolo cruciale che l’accompagnamento, la sinodalità e la solidarietà svolgono nella nostra missione comune di servizio agli altri.
Raffaele accompagnò Tobia durante tutto il suo viaggio, compresi gli incidenti, adattandosi a ogni situazione e prendendosi il tempo per rispondere alle sue domande, assistere i suoi compagni e aiutare coloro che stavano soffrendo. Il suo ruolo era quello di incoraggiare, incitare e spingere Tobia ad affrontare le sfide che gli si paravano davanti, affinché potesse raggiungere la sua destinazione. Ma ha fatto di più: gli ha anche fornito un aiuto pratico nelle situazioni in cui era impotente contro le forze invisibili che lo controllavano.

Inoltre, Raffaele non ha lavorato da solo durante il viaggio; ha lavorato fianco a fianco con Tobia per trovare soluzioni adatte alle circostanze. Ha capito che per essere efficace, doveva ascoltare le richieste del giovane, rispettare il suo stile di leadership personale e creare un sistema di cooperazione tra loro per raggiungere l’obiettivo finale che condividevano: sconfiggere Asmodeus e guarire suo padre.
Raffaele e Tobia ci insegnano che per fornire un coaching reale, utile, conveniente e soddisfacente, dobbiamo essere attenti alle esigenze degli altri, uscire dalla nostra zona di comfort se necessario, ascoltare attivamente ciò che hanno da dire, mostrare empatia, ma soprattutto lavorare insieme in modo che ognuno di noi possa contribuire, in base alle proprie capacità specifiche, al raggiungimento degli obiettivi comuni che tutti condividiamo. Questo apprendimento è più che mai attuale, perché senza la collaborazione tra persone con obiettivi comuni, la missione sarà compromessa.

4. Una vocazione “medica” e pastorale
Raffaele, che significa “Dio guarisce”, è conosciuto come uno degli arcangeli della Bibbia, spesso associato alla guarigione e alla protezione. Allo stesso modo, Zatti era considerato un guaritore e un protettore dei malati e dei poveri della sua comunità. Ma questa terapia si svolgeva su diversi livelli. L’amore di Zatti per la povertà, il suo distacco dalle cose materiali e la sua disponibilità ad accettare e persino a mendicare ciò che riteneva necessario per il benessere dei suoi pazienti, sono alcuni dei tratti che lo fanno assomigliare a Gesù, che in realtà era un rabbino e guaritore laico. Era sempre disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte e con qualsiasi tempo, e viaggiava sui vecchi carretti di legno dei contadini se lo incontravano mentre si recava a casa di un paziente. Era anche umile e aveva una bassa opinione di sé, nonostante gli sforzi dei suoi benefattori per elevarlo ai suoi stessi occhi e agli occhi del mondo. La forte vita interiore del Santo Coadiutore, piena di amore per Dio e di fiducia totale nella bontà della divina provvidenza, la sua confessione regolare e il suo amore per il Santissimo Sacramento lo rendevano simile a don Bosco. Spesso leggeva brani della vita dei santi ai malati e, alla fine della giornata, dava loro un piccolo biglietto per la sera. Il buon umore di Zatti si basava anche sulle solide fondamenta della sua vita spirituale e consacrata, e mostrava sempre allegria e buona volontà nell’adempimento dei suoi doveri verso i malati e gli sfortunati. Era anche un pacificatore, aiutando a risolvere i conflitti tra i membri del suo staff e i medici di Viedma e della Patagonia. Queste caratteristiche del nostro santo Coadiutore vengono qui evidenziate perché sono anche un potente antidoto contro i nemici dei nostri tre voti, contro l’indifferenza e la pigrizia pastorale, contro l’attuale allontanamento tra i destinatari e noi stessi, e la strada reale che ci porta lontano dal carrierismo, che si traveste da clericalismo nel mondo religioso.
Alla scuola dell’angelo Raffaele e Zatti, scopriamo che anche noi, salesiani di don Bosco, siamo portatori della Buona Novella, che spesso consiste, come Gesù annunciò nella sinagoga (Luca 4), nel guarire e restaurare. Questa funzione “medica” è una parte importante della nostra missione di servire i giovani e i poveri. E se la “malattia”, come la povertà, può assumere diversi volti, noi Salesiani in generale, e i Salesiani Coadiutori in particolare, siamo noti per le nostre varie lotte contro i mali e le varie forme di precarietà, da cui deriva il nostro immenso lavoro nelle scuole, negli orfanotrofi, negli ospedali, negli oratori e nelle officine e laboratori dei nostri centri di formazione professionale e istituti tecnici. Inoltre, nella nostra Regione, come nella Congregazione, diverse Ispettorie, opere e membri della Famiglia Salesiana sono coinvolti in attività direttamente collegate alla salute, tra cui ospedali, cliniche e centri di assistenza agli anziani. La salute è vista come un aspetto importante del benessere dei giovani e dei poveri, e cerchiamo, con don Variara, con Zatti e altri, di rispondere alle loro esigenze in modo totale e olistico.
Oggi, abbiamo bisogno di una generazione di Salesiani sufficientemente radicati nel cielo, come Raffaele, e profondamente legati alle sfide della terra, come Azarias (il soprannome dell’angelo Raffaele), per preoccuparsi di conciliare il bene temporale con quello dell’eternità, lottando contro tutte le forme di malattia e in difesa della salute, soprattutto quelle che colpiscono i più vulnerabili della nostra società. Abbiamo bisogno di angeli e compagni che possano alleviare le nostre malattie fisiche, mentali ed emotive, così come i problemi di salute legati alla povertà, come la malnutrizione e l’accesso limitato all’assistenza sanitaria. Continuiamo a lavorare per soddisfare queste esigenze in modo efficace e olistico, fornendo un’assistenza sanitaria di qualità e lavorando per migliorare la vita delle persone più vulnerabili.

5. Metafora del rapporto educativo e pastorale
Azarias illustra la perfetta relazione educativa tra il coadiutore salesiano e i Tobia o giovani di oggi. Soprattutto se sappiamo che il soprannome Azarias significa in realtà assistente, ausiliario, coadiutore. Quindi, nello stesso modo in cui un angelo accompagnava un ragazzo verso la maturità, il coadiutore può e deve incoraggiare i giovani a crescere e maturare nelle relazioni con i loro coetanei, nelle cosiddette relazioni paritarie, ma anche nelle relazioni e nei doveri verso la famiglia e i genitori, e il mondo degli adulti in generale, nelle cosiddette relazioni asimmetriche. Ci incoraggia a rileggere questa meravigliosa storia tratta dal Libro di Tobith e a fare nostri i saggi consigli dell’anziano Tobith al figlio e la lezione di vita e di religione che Azarias dà alla famiglia riconciliata, prima di tornare a Dio, cioè a colui che lo ha mandato. Questo è un dettaglio importante: andare e tornare da Dio, Colui che ci ha mandato, come quegli andirivieni sulla scala di Giacobbe, dove gli angeli fanno la spola tra cielo e terra, come per insegnare agli angeli di oggi l’unione con Dio e la predilezione per i poveri della terra.
Sant’Artemide Zatti ci mostra come possiamo assimilare perfettamente questo ruolo nella nostra vita quotidiana: dedicando la sua vita ad aiutare i più giovani e i più poveri, ha fatto molto di più che dispensare semplicemente insegnamenti morali. Ha guidato i giovani verso la crescita personale, riconoscendo le loro capacità interiori e mostrando loro come esprimerle. Ha anche dato l’esempio mostrando compassione per i malati e i poveri; dimostrando con le sue azioni che è possibile cambiare il mondo intorno a noi attraverso l’amore, il dono di sé e il sacrificio.
Il Fratello Salesiano può essere statisticamente una minoranza (in Africa il 9% nelle province più ricche). Eppure si trova in una posizione privilegiata per cogliere questo modello ammirevole, volando verso le periferie della missione con e come l’angelo custode, percorrendo i sentieri della dimensione terrena e secolare della vita, e “pedalando” con Zatti al capezzale dei bisognosi, in tutta umiltà e senza l’arroganza dei grandi mezzi e dell’arsenale di alcuni pastori di oggi. In questo modo, possono imitare la Guida celeste fornita da Dio nella storia di Tobia: motivare l’obbedienza gentile verso il padre anziano e cieco, avviarlo di fronte alle avversità del viaggio, nonché prendere coraggiosamente una decisione importante per il suo futuro, confidare in Dio nei momenti decisivi, in poche parole un coraggio impressionante e un’empatia profonda che permetteranno al ragazzo una crescita armoniosa che lo condurrà verso un’autonomia riflessiva, anche se i suoi genitori, anticipando nella loro ansia la parabola del figliol prodigo, lo aspettavano ogni giorno con preoccupazione. Ma il testo dice che il giovane Tobia conosceva il cuore di suo padre e la tenerezza preoccupata di sua madre.

Conclusione
“Io sono Raffaele, uno dei sette angeli presenti davanti alla gloria del Signore. Non abbiate paura! La pace sia con voi e benedite Dio per sempre. Non abbiate paura di ciò che avete visto, perché era solo un’apparenza. Benedite il Signore, festeggiatelo e scrivete ciò che vi è accaduto”.

Alla fine della storia, Raffaele si definisce come un sacramento della presenza di Dio con Tobia. Esattamente quello che fece e fu Gesù, quello che illustrò il nostro fondatore don Bosco e quello che ci raccomanda il Rettor Maggiore nella terza priorità di questo sessennio. Essere un segno dell’altrove, “come se anche noi potessimo vedere l’invisibile”. L’invisibile in ambienti che sono comunque molto visibili, nelle scuole, nella catechesi, nei laboratori o, come diceva don Rinaldi, nell’agricoltura, dove alcuni Confratelli sanno come coltivare e far fruttare la terra e la creazione. Il coadiutore salesiano è una delle due forme di vocazione consacrata salesiana, l’altra è il sacerdote salesiano. Secondo la CG21, non sono solo i singoli a diffondere il messaggio di don Bosco, ma le sue comunità composte da sacerdoti e laici, fraternamente e profondamente uniti tra loro, chiamati a “vivere e lavorare insieme” (C 49).

La presenza significativa e complementare di chierici e laici salesiani nella comunità è un elemento essenziale della sua fisionomia e della sua pienezza apostolica. Quest’anno, alla luce della Strenna del Rettor Maggiore, siamo nella posizione ideale per ribadire che il coadiutore salesiano non è un laico come gli altri fedeli laici della Chiesa. È un religioso consacrato. Naturalmente, la sua vocazione conserva fortunatamente un legame reale con il concetto di laicità e lo esalta solo nelle sue espressioni più belle. In questo senso, questo secondo Congresso Regionale può legittimamente considerare ciascuno dei nostri Confratelli salesiani come quell’angelo, quell’arcangelo descritto nel libro di Tobith, che sta incessantemente davanti al volto di Dio e che percorre le strade del mondo, volando in aiuto di coloro che sono nel bisogno o in cammino, e portandoli alla lode e al ringraziamento. Ogni Confratello è quindi invitato a contemplare Raffaele che, in una mirabile kenosi, rinuncia al suo rango angelico e scende a percorrere le strade polverose per accompagnare Tobia nel cammino di iniziazione all’età adulta. Questa metafora invita il Fratello salesiano ad accompagnare i giovani di oggi verso la piena cittadinanza come cittadini e credenti, come voleva il nostro fondatore: amore per i genitori (Raffaele esorta Tobia ad obbedire a suo padre), impegno sociale (Raffaele aiuta Tobia e supervisiona le operazioni miracolose per i malati, castità e amore per sposare Sara, e lealtà per diventare l’erede di suo padre e di suo suocero Raguel) e servizio divino (Raffaele si proclama inviato direttamente da Dio e dà consigli per onorare e lodare Dio e amare il prossimo).
Come i messaggeri biblici (angeli) e gli apostoli nella storia della Chiesa, i Confratelli salesiani sono chiamati a essere disponibili, a servire l’unità e l’identità salesiana e la pienezza apostolica, partecipando attivamente alla vita e al governo della Congregazione. Accanto ai loro confratelli diaconi e sacerdoti, accompagnano i giovani – e altri confratelli – nella loro consacrazione e nei loro impegni educativi, integrando e celebrando la diversità all’interno della comunità salesiana. I Confratelli, ben dotati, formati e identificati, sono dei pilastri per i giovani nei loro percorsi di vita, spesso complicati e difficili, proprio come l’Arcangelo Raffaele, alias Azarias, è stato un pilastro, un riferimento sociale e spirituale per Tobia, che ha potuto così compiere la sua missione di figlio e futuro padre. Il lungo cammino di iniziazione dei nostri giovani dall’Africa all’età adulta è già fruttuoso e lo sarà ancora di più se saranno accompagnati da figure significative e persone fidate come Azarias, veri angeli custodi, compagni di Emmaus, capaci – come nelle nostre case di formazione e nelle nostre istituzioni – di educare, formare e accompagnare. Oltre a servire l’unità, l’identità salesiana e la pienezza apostolica all’interno della Congregazione salesiana con tutti i loro talenti, i Confratelli salesiani svolgono un ruolo molto importante come guide e mentori per i giovani che stanno ancora cercando il loro posto nel mondo: una figura simile a Zatti o a Raffaele che può essere vista come un genitore spirituale.




Il Carisma della presenza e della speranza. Un anno viaggiando con don Angel

Il rallentamento della pandemia ha permesso a Rettor Maggiore di riprendere i viaggi per incontrare la Famiglia Salesiana nel mondo, per animare a vivere e a trasmettere il carisma del santo fondatore, Giovanni Bosco. Spagna, Zimbabwe, Zambia, Thailandia, Ungheria, Brasile, India, Italia, Croazia, Stati Uniti e Perù, hanno accolto con e ascoltato il successore di don Bosco. Presentiamo l’introduzione del libro che ambienta il racconto di questi viaggi.

Il globetrotter del carisma salesiano

Il libro che ho l’onore di presentare è del tutto particolare, è la cronaca del viaggio nel mondo compiuto dal Rettore Maggiore dei Salesiani negli ultimi quindici mesi (dall’inizio del 2022 sino a marzo del 2023), dedicato a visitare le case di una Congregazione presente da molto tempo in tutti i continenti e che costituisce la più grande “famiglia religiosa” della Chiesa cattolica. Si tratta di una famiglia che opera in 136 paesi del mondo, le cui dimensioni globali spingono chi la presiede (e i suoi più stretti collaboratori) a vivere di continuo con la valigia in mano, per incontrare i confratelli e le consorelle sparsi nelle varie nazioni, conoscere le specifiche situazioni, monitorare l’efficacia nelle diverse culture del carisma educativo di don Bosco, che è il marchio di fabbrica di questa singolare ‘multinazionale’ della fede.

Il libro, dunque, illustra uno dei compiti più importanti connesso al ruolo del Rettor Maggiore dei Salesiani, quello di guidare una Congregazione mondiale non solo da remoto (stando nella sede centrale a Roma), ma quanto più possibile ‘de visu’, dal momento che anche nell’era digitale i rapporti faccia a faccia, la conoscenza personale, la condivisione delle esperienze, “l’esserci” in alcuni momenti ‘topici’, rappresentano il valore aggiunto di ogni impresa umana e spirituale. Un valore, del resto, del tutto congeniale con i tratti umani di don Ángel Fernández Artime, il decimo successore di don Bosco, che da quando è alla guida della famiglia salesiana (dal 2014) ha già visitato circa 100 opere sparse per il mondo; in ciò allineandosi (su una scala ovviamente più limitata) allo stile da ‘globetrotter’ della cattolicità che ha caratterizzato gli ultimi pontefici, soprattutto Giovanni Paolo II e l’attuale Papa.
Il giro del mondo di don Artime, dopo aver subìto una forzata interruzione nel biennio 2020-2021 (causa l’esplosione in ogni dove della pandemia), ha ripreso il suo iter con nuovo vigore proprio nel 2022, con una serie di tappe che via via l’hanno portato in terra iberica, in due paesi africani (Zimbabwe e Zambia), sulle orme della missione salesiana in Thailandia, in Ungheria, in Francia, a Brasilia e a Belo Horizonte, in sei Ispettorie dell’India (in due periodi diversi), in Croazia, negli Stati Uniti e in Canada, in Perù, e in alcune regioni italiane.

Visite a tutto campo, non solo celebrazioni

Viedma, Argentina – marzo 2023

Le immagini della ‘toccata e fuga’ o della pura celebrazione di eventi importanti non si addicono alle visite del Rettor Maggiore. La sua presenza è spesso richiesta dalle case salesiane o dalle Ispettorie per festeggiare una tappa significativa della propria storia, come i 100 o i 50 anni dalla fondazione, l’inizio di una nuova opera, la professione dei voti o l’ordinazione sacerdotale di nuovi confratelli, la commemorazione di figure salesiane esemplari per le diverse terre e per la Chiesa intera. Tuttavia, l’intento celebrativo è sempre parte di un incontro ricco di contenuti e di confronti sullo stato di salute del carisma salesiano nella realtà locale.

Ecco dunque il carattere poliedrico di queste visite, scandite da momenti di festa e di sguardi verso l’Alto, di taglio di nastri e di discernimento, di coinvolgimento affettivo e di impegni reciproci, di resoconto della situazione e di messa a fuoco delle sfide educative; tutti momenti che coinvolgono i vari rami della grande famiglia (i salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice, gli ex-allievi ecc.), sovente anche Vescovi e clero della Chiesa locale; ma soprattutto i giovani, il cui ascolto e il cui protagonismo è nel DNA della pedagogia salesiana.
Il successore di don Bosco non è soltanto omaggiato (e, nelle zone più ‘calde’ del globo, “accolto come un Re”, insignito delle “vesti e dei simboli delle autorità locali”); ma è anche fatto oggetto di grandi attese, di un ‘verbo’ che al contempo rassicuri e allarghi gli orizzonti. Emerge qui uno dei tratti più preziosi di queste visite “ad gentes”: l’attitudine del Rettor Maggiore a fare da ‘vaso comunicante’, da ‘connettore’, tra ciò che la famiglia salesiana vive e progetta nelle diverse aree del mondo: dal passo maturo, riflessivo, talvolta stanco, che si osserva nel vecchio Continente, al dinamismo presente in Africa e in Oriente; dalle ‘buone prassi’ in atto in alcuni paesi alle difficoltà e ai problemi che si incontrano altrove. Altro confronto riguarda l’accoglienza nelle varie province salesiane delle indicazioni emerse dall’ultimo Capitolo Generale della Congregazione (il 28°), per far sì che tutti siano sintonizzati sugli obiettivi comuni.
Ed è nel fare da ponte tra le diverse aree e ‘anime’ salesiane nel mondo che il Rettor Maggiore parla dei ‘miracoli’ di cui egli è testimone. Quando ricorda a tutti che ciò che fa grande la Congregazione sono soprattutto le presenze ‘minime’, come quel missionario salesiano della Repubblica Ceca che vive in Siberia, in mezzo ai ghiacci, e ha una comunità a 1000 km di distanza, a cui riesce a unirsi non più di una volta al mese; un’occasione benedetta dai fedeli del luogo, che fa loro dire che “Dio non si è dimenticato di noi”.
O ancora quando porta a conoscenza di tutti il riscatto di una terra che nel dicembre 2004 è stata investita dal più grande disastro naturale dell’epoca moderna, lo tsunami che ha prodotto 230 mila morti, migliaia di dispersi e distrutto interi paesi. Proprio in una delle zone più colpite, è rinata una casa salesiana per accogliere molti orfani, che a distanza di anni rifioriscono: “il 12% di questi ragazzi/ragazze di don Bosco hanno frequentato l’università; il 15% ha proseguito gli studi tecnici nelle nostre scuole professionali; più del 50%, dopo aver terminato la scuola pubblica, ha trovato un lavoro con cui iniziare la propria vita in autonomia”.

Le parole chiave
C’è un leitmotiv in tutte queste visite: l’evocazione di alcune parole chiave che ribadiscono la particolare missione dei figli di don Bosco, chiamati a prendersi cura dei giovani, ma con un’attenzione e un metodo distintivi, con una pedagogia ‘salesiana’ appunto, fatta oggetto nel corso della storia di una lunga riflessione. Alcune di queste ‘icone’ sono gli aforismi introdotti dal santo fondatore per sintetizzare le sue intuizioni educative; altre sono più recenti, ma hanno la stessa natura, servono a riattualizzare il carisma salesiano nel corso degli anni, a fronte di nuove sfide impegnative.

I resoconti delle visite del Rettor Maggiore alle case salesiane sparse nel mondo, sono ricchi di questi appelli. Anzitutto “credere nei giovani”, “essere fedeli ai giovani”, aver fiducia nelle loro potenzialità, trasmettere fiducia; il che implica non avere pregiudizi nei loro confronti, accompagnarli con empatia nel loro cammino, sostenerli nei momenti accidentati, condividere valori e suscitare libertà.
Rientra nel richiamo alla fiducia l’impegno di “dar vita ai sogni dei giovani”, di far sì che essi tornino a pensare in grande, a non vivere con le ali tarpate; monito questo che sembra applicabile più alle nuove generazioni presenti nelle società mature (in Occidente) che a quelle dei paesi emergenti.

Australia – aprile 2023

Sono poi molti i richiami a due concetti (amore e cuore) di cui si fa grande abuso nella cultura contemporanea, ma che nella pedagogia di don Bosco rappresentano dei punti forza d’una prospettiva educativa: “amare i giovani”, far loro comprendere che “li si ama” (si dedica la vita per loro), e “farsi amare”; immagini queste che derivano direttamente dalla grande intuizione del Santo che “l’educazione è una cosa del cuore”.
Altre immagini feconde sono quelle dedicate alla perdurante “attualità del sistema preventivo” e al criterio che può renderlo efficace: quel “sacramento salesiano della presenza tra i giovani” (come viene definito dal Rettor Maggiore) che favorisce la conoscenza, produce condivisione, crea scambio e passione educativa.
L’icona più recente è l’invito accorato a tutte le comunità salesiane del mondo a “essere un’altra Valdocco”, a rimanere fedeli ai tratti essenziali di una missione nata nell’Ottocento a Torino, ma che ha un valore universale nel tempo e nello spazio. Essere “un’altra Valdocco” significa rinnovare a tutte le latitudini la scelta di campo dell’educazione popolare, spendere la vita per quella parte di società che ai tempi di don Bosco era la “gioventù povera e abbandonata”, e che oggi assume il profilo dei giovani svantaggiati, ‘a rischio’, sfruttati e scartati dalla società, di quanti cioè abitano le periferie urbane ed esistenziali. “Valdocco” è il simbolo del ‘quartiere umano’ mondiale a cui dare cittadinanza, che deve scoprire il suo protagonismo, per la piena inclusione/emancipazione nella società.

Ambienti sempre più multiculturali
Il giro del mondo del Rettor Maggiore rende poi evi-dente come stia cambiando la fisionomia della Cogregazione, a seguito dei recenti flussi migratori dal Sud e dall’Est del mondo (in parte dovuti a eventi/situazioni drammatiche) verso il vecchio Continente e il Nord America; di un’evoluzione demografica che affolla i paesi emergenti e appesantisce le nazioni più sviluppate; e più in generale, per la tendenza delle popolazioni a mescolarsi nel pianeta terra.

Zambia – aprile 2022

Anche l’ambiente salesiano (come tutta la cattolicità) è coinvolto in queste dinamiche e non cessa di modificarsi. L’Africa e l’Oriente sono oggi le aree più generose di vocazioni e con la più alta percentuale di salesiani in formazione; per cui da terre di missione sono via via destinate ad avere nel tempo un sempre maggior peso negli equilibri della Congregazione.

Ad ogni latitudine, le case salesiane ospitano giovani di culture diverse, sovente anche di religioni e di etnie differenti; perché il carisma di don Bosco (pur nato in un particolare contesto culturale e religioso) non conosce confini ‘confessionali’, contagia anche quanti vivono e credono altrimenti. Così questo imprinting multiculturale caratterizza ormai molti ambienti salesiani (oratori e scuole) in Europa e nel Nord America, ed è un tratto costitutivo delle opere dei figli di don Bosco in Asia, in Africa e in America Latina. In Asia, ad esempio, i salesiani sono presenti in zone in cui la popolazione è al 90% di cultura musulmana o buddhista, dentro un contesto quindi che da un lato li interpella nel profondo e dall’altro richiede dialogo e confronto. In queste terre contaminate da culture e da religioni diverse, in questi laboratori del confronto antropologico, c’è tutto un bagaglio di riflessioni e di esperienze che merita di essere raccolto e approfondito; anche per meglio collocare una Congregazione e una Chiesa chiamate a testimoniare un messaggio specifico in un mondo sempre più globale.

Nuove sfide educative
Da sempre la Congregazione, come s’è detto, considera l’educazione dei giovani come un suo compito irrinunciabile e come una sfida. Ma si tratta di una sfida che a seconda dei momenti storici assume tratti particolari. Oggi, stando ai dialoghi di don Artime con i giovani incontrati nel suo giro del mondo, emergono in questo campo alcune priorità degne di nota.
Da un lato, l’educare deve fare i conti con la cultura digitale, che ormai permea il vissuto delle nuove generazioni, le cui grandi potenzialità devono essere comprese nel quadro di un utilizzo armonico, per evitare squilibri o conseguenze penalizzanti. La proposta di dar vita ai “cortili digitali”, che sta circolando negli ambienti salesiani, risponde dunque a questa esigenza, non demonizza uno strumento ormai vitale, ma lo assume all’interno di un approccio costruttivo.

Dall’altro lato, il “preparare i giovani alla vita” passa – nell’epoca attuale – anche per l’attenzione che le nuove generazioni devono prestare alla questione ambientale, alla cura e alla salvaguardia di un creato messo a rischio da un sistema mondo dissennato, di cui gli adulti hanno grave responsabilità, ma i cui costi immani graveranno sui giovani. Ecco dunque un altro tassello che arricchisce e aggiorna il progetto educativo.
Si coglie poi, qua e là negli ambienti salesiani (e nei giovani che li frequentano), un maggior interesse per l’“impegno politico”, inteso in senso ampio, come contributo per realizzare una società più umana, meno diseguale, più inclusiva.

Thailandia – maggio 2022

È quel che è emerso in particolare nella visita del Rettore Maggiore in Perù e negli Stati Uniti, dove il discorso educativo e il volontariato sociale vengono certamente considerate dai giovani come attività ‘pre-politiche’, ma che devono sempre più essere intese come un impegno per la giustizia sociale, per ridurre le disparità, per permettere a tutti una vita dignitosa. Il motto di don Bosco di formare i giovani ad “essere buoni cristiani e onesti cittadini” assume qui un nuovo accento, più congruente con la sensibilità e le sfide dell’epoca attuale.

Le foto, infine
Infine, ci sono le fotografie disseminate in questa ampia cronaca, che parlano più delle parole, testimoniano il clima del lungo viaggio, danno spazio ai volti, alle posture, ai sentimenti. Dove il decimo Successore di don Bosco compare o nel presiedere l’Eucarestia o in maniche di camicia attorniato dai giovani o dai confratelli: le due icone di uno stile salesiano che vede nella presenza con i giovani un segno della benevolenza di Dio.

Franco GARELLI
Università di Torino




Servi di Dio Giovanni Świerc e otto Compagni di martirio. Pastori che diedero la vita

Le ideologie estremiste, cioè le idee alzate a rango di verità assolute, portano sempre sofferenza e morte quando vogliono imporsi ad ogni costo contro coloro che non le accettano. A volte basta appartenere ad una nazione o a un gruppo sociale per soffrire le conseguenze. È il caso dei martiri salesiani polacchi presentati in questo articolo.

Al numero delle vittime del nazismo appartengono anche nove Salesiani sacerdoti polacchi, i Servi di Dio don Jan Świerc e gli VIII Compagni: don Ignacy Antonowicz, don Karol Golda, don Włodzimierz Szembek, don Franciszek Harazim, don Ludwik Mroczek, don Ignacy Dobiasz, don Kazimierz Wojciechowski e don Franciszek Miśka, uccisi in odium fidei nei campi di sterminio nazisti negli anni 1941-1942. Come sacerdoti, tutti i Servi di Dio furono impegnati in Polonia in diverse attività pastorali e di governo e nell’insegnamento. Furono del tutto estranei rispetto alle tensioni politiche che agitarono la Polonia durante l’occupazione bellica. Ciononostante, furono arrestati e martirizzati in odium fidei per il fatto stesso di essere sacerdoti cattolici.
La fortezza e la serena perseveranza conservata dai Servi di Dio nell’espletamento del proprio ministero sacerdotale anche durante la prigionia rappresentarono un vero e proprio atto di sfida per i nazisti: seppur sfiniti da umiliazioni e torture, in sfregio a qualsiasi divieto, i Servi di Dio furono custodi fino alla fine delle anime loro affidate e si dimostrarono pronti, nonostante l’umana debolezza, ad accogliere con Dio e per Dio la morte.
Il campo di concentramento di Auschwitz, noto a tutti come il campo della morte, e quello di Dachau per don Miśka, divennero dunque il luogo dell’impegno sacerdotale di questi salesiani sacerdoti: alla negazione della dignità umana e della vita, don Jan Świerc e 8 compagni risposero offrendo, attraverso i sacramenti, la forza della grazia e la speranza dell’eternità. Essi accolsero, sostennero per mezzo dell’Eucaristia e della confessione e prepararono ad una morte serena moltissimi compagni di prigionia. Tale servizio, non di rado, fu reso nel nascondimento, approfittando del buio della notte e sotto la costante e pressante minaccia di severe punizioni o più spesso della morte.
I Servi di Dio, come veri discepoli di Gesù, non pronunciarono mai parole di sdegno o odio nei confronti dei persecutori. Arrestati, percossi, umiliati nella loro dignità umana e sacerdotale, offrirono a Dio la loro sofferenza e si mantennero fedeli fino alla fine, certi che non rimane deluso chi tutto ripone nella divina volontà. La loro serenità interiore ed il loro contegno, manifestati anche nell’ora della morte, furono talmente straordinari da lasciare stupiti, ed in alcuni casi indignare, gli stessi aguzzini.
Presentiamo i loro profili biografici.

Don Ignacy Antonowicz

Ignacy Antonowicz nacque nel 1890 a Więsławice, contea di Włocławek, nella Polonia centro-settentrionale. Nel 1901 entrò nel ginnasio salesiano di Oświęcim, dove rimase fino al 1905. Tra il 1905 e il 1906 completò il noviziato a Daszawa. Emise la professione perpetua nell’agosto 1909 in Italia, a Lanzo Torinese. Fu ordinato sacerdote il 22 aprile 1916 a Roma. Don Ignacy insegnò dogmatica presso lo Studentato teologico di Foglizzo (Torino) tra il 1916 e il 1917. Nel 1919, durante la guerra russo-polacca, fu cappellano militare nell’armata polacca. Tra il 1919 e il 1920 fu a Cracovia come professore nello Studentato teologico. Il 1° luglio 1934 venne nominato consigliere dell’Ispettoria Polacca San Giacinto di Cracovia fino a tutto il 1936. Nel 1936 assunse l’incarico di direttore dello Studentato Teologico Salesiano Immacolata Concezione di Cracovia che mantenne fino all’arresto, avvenuto il 23 maggio 1941. Fu detenuto per un mese nella prigione di Montelupich a Cracovia, poi venne condotto nel campo di concentramento di Oświęcim. Venne ucciso il 21 luglio 1941. Aveva 51 anni di età, 34 di professione religiosa e 25 di sacerdozio.

Don Karol Golda

Karol Golda nacque il 23 dicembre 1914 a Tychy, in Alta Slesia. Terminata la quarta elementare, si trasferì nel ginnasio “Boleslaw Chrobry” di Pszczyna. Frequentò invece la sesta classe nel ginnasio dei salesiani a Oświęcim. Nel giugno 1931 si recò nella Casa di Czerwińsk per cominciare il noviziato. Il 15 gennaio 1937 emise la professione religiosa perpetua a Roma. Il 18 dicembre 1938 venne ordinato sacerdote a Roma, dove si trattenne per altri sei mesi per conseguire la licenza in teologia. Nel luglio 1939 tornò in Polonia. Scoppiò la Seconda Guerra Mondiale e don Karol nell’ottobre 1939 si recò in Slesia e poi ad Oświęcim dove rimase, perché privo del necessario permesso di viaggiare verso l’Italia da parte delle autorità d’occupazione. A don Karol Golda fu affidato l’insegnamento della teologia nell’Istituto salesiano di Oświęcim e fu nominato consigliere scolastico. Fu arrestato dai funzionari della Gestapo il 31 dicembre 1941 ed ucciso il 14 maggio 1942, dopo appena tre anni e mezzo di sacerdozio.

Don Włodzimierz Szembek

Il Servo di Dio don Włodzimierz Szembek, figlio dei conti Zygmunt e Klementyna della famiglia Dzieduszycki, nacque il 22 aprile 1883 a Poręba Żegoty, vicino Cracovia. Nel 1907 conseguì la laurea in ingegneria agraria presso l’università Jagellonica di Cracovia. Per circa vent’anni si occupò dell’amministrazione dei poderi della madre e fu impegnato nell’apostolato laico. Compiuti i 40 anni, la vocazione religiosa del Servo di Dio giunse a maturazione. Il 4 febbraio 1928 entrò nell’aspirantato di Oświęcim. Sul finire del 1928 iniziò il noviziato a Czerwińsk. Emise la professione religiosa il 10 agosto 1929. Il 3 giugno 1934 ricevette l’ordinazione sacerdotale a Cracovia. Il 9 luglio 1942 viene arrestato dalla Gestapo e portato a Nowy Targ. Il successivo 19 agosto è condotto nel campo di concentramento di Auschwitz, dove muore il 7 settembre 1942 stremato dalle sofferenze e a seguito dei maltrattamenti subiti. Aveva 59 anni di età, 13 di professione e 9 di sacerdozio.

Don Franciszek Harazim

Franciszek Ludwik Harazim nacque il 22 agosto 1885 ad Osiny, distretto Rybnik in Slesia. Frequentò la scuola elementare dapprima a Baranowicze, in seguito a Osiny. Nel 1901 fece il suo ingresso nell’istituto salesiano di Oświęcim per frequentarvi il ginnasio. Completò il noviziato a Daszawa nel 1905/1906. Il 24 marzo 1910 emise i voti perpetui. Fu ordinato sacerdote a Ivrea il 29 maggio 1915.  Tra il 1915 e il 1916 insegnò nel ginnasio di Oświęcim, di cui fu nominato preside tra il 1916 e il 1918. Negli anni 1918-1920 insegnò filosofia nel seminario maggiore salesiano a Cracovia (Łosiówka). Negli anni 1922-1927 il Servo di Dio rivestì l’incarico di direttore del ginnasio salesiano ad Aleksandrów Kujawski. Nel 1927 tornò nuovamente al seminario maggiore di Cracovia come consigliere, insegnante ed educatore dei chierici. Nel luglio 1938 don Franciszek fu nominato professore presso la casa di Cracovia-Łosiówka. Venne arrestato dalla Gestapo a Cracovia il 23 maggio 1941. Fu trasportato dapprima in via Konfederacka e poi, insieme agli altri confratelli, nella prigione di Montelupich. Un mese dopo, il 26 giugno 1941, venne condotto nel campo di concentramento di Auschwitz. Venne ucciso il 27 giugno 1941 sul famoso Ghiaione. Non aveva ancora compiuto 56 anni: di questi 34 furono di professione religiosa e 26 di sacerdozio.

Don Ludwik Mroczek

Ludwik Mroczek nacque a Kęty (Cracovia) l’11 agosto 1905. Nel 1917, dopo aver frequentato la scuola a Kęty, venne ammesso nell’istituto salesiano di Oświęcim dove portò a termine gli studi ginnasiali. Svolse il noviziato a Klecza Dolna. Lo completò il 7 agosto del 1922. Emise i voti perpetui il 14 luglio 1928 a Oświęcim. A Przemyśl ricevette l’ordinazione sacerdotale il 25 giugno 1933. Ordinato sacerdote, lavorò a Oświęcim (nel 1933), a Leopoli (nel 1934), a Przemyśl (nel 1934 e nel 1938/39), a Skawa (nel 1936/37), a Częstochowa (nel 1939). Il 22 maggio 1941, appena terminata la celebrazione della messa, venne arrestato e trasferito insieme ad altri confratelli nel campo di concentramento di Oświęcim. Qui morì il 5 gennaio 1942: aveva 36 anni di età, 18 di professione religiosa e 8 di sacerdozio.

Don Jan Świerc

Jan Świerc nacque a Królewska Huta (oggi Chorzów, in Alta Slesia) il 29 aprile 1877. Completò gli studi ginnasiali a Torino Valsalice. Tra il 1897 e il 1898 svolse il noviziato ad Ivrea. Qui emise i voti perpetui il 3 ottobre 1899. Il 6 giugno 1903 fu ordinato sacerdote a Torino. Nel 1911 venne nominato direttore della casa di Cracovia dall’allora Rettor Maggiore don Paolo Albera. Dal settembre 1911 all’aprile 1918 ricoprì l’incarico di direttore dell’istituto Lubomirski a Cracovia. Nel 1924, per un periodo di sette mesi, fu impegnato come missionario in America. Dal novembre 1925 all’ottobre 1934 fu direttore e parroco a Przemyśl. Il 15 agosto 1934 venne nominato direttore della casa di Leopoli. Nel luglio 1938 assunse l’incarico di direttore e parroco della casa di via Konfederacka n. 6 a Cracovia per il triennio 1938-1941. Il 23 maggio 1941 venne arrestato dalla Gestapo insieme ad altri confratelli e condotto in carcere a Montelupich. Il 26 giugno 1941 fu trasferito nel campo di concentramento di Auschwitz e, dopo appena un giorno, venne ucciso: aveva 64 anni di età, 42 di professione religiosa e 38 di sacerdozio.

Don Ignacy Dobiasz

Ignacy Dobiasz nacque a Ciechowice (in Alta Slesia) il 14 gennaio 1880. Completata la scuola elementare, nel maggio 1894 si recò in Italia, a Torino Valsalice, per svolgervi gli studi ginnasiali. Il 16 agosto 1898 entrò nel noviziato salesiano di Ivrea. Emise i voti perpetui a San Benigno Canavese il 21 settembre 1903. Compì gli studi filosofici e teologici a San Benigno Canavese e a Foglizzo fra il 1904 e il 1908. Il 28 giugno 1908 venne ordinato sacerdote a Foglizzo. Tornò poi in Polonia: svolse la propria attività pedagogica e pastorale a Oświęcim (nel 1908, nel 1910, nel 1921 e nel 1923), a Daszawa (nel 1909), a Przemyśl (1912-1914) e a Cracovia (tra il 1916 e il 1920 e nel 1922). Nel 1931 fu a Varsavia come vicario. Nel novembre 1934 si recò invece a Cracovia dove rimase come confessore e collaboratore parrocchiale. Qui venne arrestato insieme ad altri confratelli salesiani il 23 maggio 1941. Dopo una breve detenzione nella prigione di Montelupich, fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Il 27 giugno 1941 morì a causa dei maltrattamenti e del lavoro disumano. Aveva 61 anni d’età, 40 di professione e 32 di sacerdozio.

Don Kazimierz Wojciechowski

Kazimierz Wojciechowsky nacque a Jasło (Galizia) il 16 agosto 1904. Rimasto orfano di padre a soli cinque anni, venne accolto nell’istituto del principe Lubomirski a Cracovia. Intraprese il ginnasio nel 1916 presso l’istituto salesiano di Oświęcim. Nel 1920 iniziò il noviziato a Klecza Dolna. Emise i voti perpetui il 2 maggio 1928 a Oświęcim. Fra il 1924 e il 1925 insegnò musica e matematica a Ląd. Il 19 maggio 1935 venne ordinato sacerdote a Cracovia. Nel 1935-1936 fu a Daszawa e a Cracovia, dove insegnò religione e venne nominato direttore dell’oratorio e dell’Associazione Cattolica giovanile. Il Servo di Dio venne arrestato a Cracovia il 23 maggio 1941 con altri confratelli salesiani. Il 26 giugno 1941 fu deportato nel campo di concentramento di Auschwitz dove, dopo appena un giorno, venne ucciso. Aveva 37 anni di età, 19 di professione e 6 di sacerdozio.

Don Franciszek Miśka

Franciszek Miśka nacque a Swierczyniec (Alta Slesia) il 5 dicembre 1898. Portò a termine il ginnasio nell’istituto salesiano di Oświęcim. Entrò nel noviziato di Pleszów nel 1916. Emise la professione perpetua ad Oświęcim il 25 luglio 1923. Compì gli studi teologici a Torino-Crocetta. Fu ordinato sacerdote il 10 luglio 1927 a Torino. Fece poi ritorno in Polonia. Nel 1929 fu nominato consigliere e catechista nell’orfanotrofio di Przemyśl. Nel 1931 e per i cinque anni successivi fu a Jaciążek come direttore. Nel 1936 venne nominato parroco della parrocchia di Ląd. Nel 1941 divenne direttore della casa dei Figli di Maria e parroco di Ląd.  Il 6 gennaio 1941 l’istituto salesiano di Ląd viene trasformato dalla Gestapo in prigione per i sacerdoti della diocesi di Włocławek e di Gniezno-Poznań. A don Franciszek viene affidato dalle autorità tedesche il compito di mantenere l’ordine e provvedere al sostentamento dei detenuti. Per non precisate ragioni fu trasferito più volte a Inowrocław e qui brutalmente torturato. Il 30 ottobre del 1941 il Servo di Dio venne trasportato nel campo di concentramento di Dachau (Germania). Qui, sottoposto ai lavori forzati e a condizioni di vita disumane, il 30 maggio 1942, giorno della Santissima Trinità, spirò nella baracca-ospedale del campo. Aveva 43 anni di età, quasi 25 di professione religiosa e quasi 15 di sacerdozio.

La fama di santità e di martirio dei Servi di Dio don Jan Świerc e VIII Compagni, sebbene ostacolata durante il periodo comunista, si diffuse già a partire dalla loro morte e si manifesta viva ancora oggi. Furono considerati sacerdoti esemplari, dediti alla pastorale ed alle opere di carità, affabili, sempre disponibili, in tutto interessati a rendere gloria solo a Dio, per amore del quale furono fedeli fino all’effusione del sangue.

Nel 28 marzo 2023, i Consultori storici del Dicastero delle Cause dei Santi hanno espresso voti affermativi in merito alla Positio super martyrio dei Servi di Dio Giovanni Świerc e VIII Compagni, Sacerdoti Professi della Società di San Francesco di Sales, uccisi in odium fidei nei campi di sterminio nazisti negli anni 1941-1942. Preghiamo che siano più presto elevati agli onori degli altari.

Mariafrancesca Oggianu
Collaboratrice Postulazione Generale Salesiana




La “Cronichetta” di don Giulio Barberis: giorno per giorno a Valdocco con don Bosco

Il 21 febbraio 1875 alcuni salesiani decisero di costituire una “commissione storica” per “raccogliere le memorie intorno alla vita di don Bosco”, impegnandosi a “scrivere e leggere insieme ciò che sarà scritto per ottenere la maggior precisione possibile” (così si legge nel verbale scritto da don Michele Rua). Tra essi c’era un giovane sacerdote di 28 anni, che da poco era stato incaricato da don Bosco di organizzare e dirigere il noviziato della congregazione salesiana, secondo le costituzioni ufficialmente approvate l’anno precedente. Il suo nome è don Giulio Barberis, conosciuto soprattutto per essere stato il primo maestro dei novizi dei Salesiani di don Bosco, ruolo che svolse per venticinque anni. In seguito fu ispettore e poi direttore spirituale della congregazione dal 1910 fino alla morte, avvenuta nel 1927.
Egli s’impegnò più degli altri nella “commissione storica”, conservando ricordi e testimonianze dell’attività di don Bosco e della vita dell’oratorio di Valdocco dal maggio 1875 al giugno 1879, quando lasciò Torino per trasferirsi nella nuova sede del noviziato a San Benigno Canavese. Ci ha lasciato una copiosa documentazione tuttora conservata nell’Archivio Salesiano Centrale, tra cui spiccano per significatività i quindici quaderni manoscritti da lui stesso intitolati Cronichetta: da essi molti studiosi e biografi di san Giovanni Bosco hanno attinto (a cominciare da don Lemoyne per le sue Memorie Biografiche), ma finora erano rimasti inediti. L’anno scorso ne è stata pubblicata l’edizione critica, rendendo così disponibile a tutti questa importante e diretta testimonianza su don Bosco e sugli inizi della congregazione da lui fondata.

Don Giulio Barberis, laureato all’università di Torino, era un uomo attento e preciso nel suo lavoro e leggendo le pagine della sua Cronichetta si nota con quanta passione e cura abbia cercato di portare a termine anche quest’opera. Purtroppo più volte egli con rammarico e dispiacere segnala che o per motivi di salute o per i numerosi altri impegni dovette sospendere la redazione dei quaderni o limitarsi a riassumere o soltanto accennare alcuni fatti. Ad un certo punto si trova a dover scrivere: “Che dolorosa sospensione. Perdonami, cara Cronichetta mia: se ti sospendo tante volte e con sospensioni così lunghe, non è che non ti ami sopra ogni altro lavoro, ma è per necessità, cioè per compir prima, almeno nel più grosso, i miei doveri” (quaderno XI, pag. 36). Perciò non ci meravigliamo se la forma delle sue registrazioni non è sempre curata, con alcuni periodi non ben costruiti o qualche imprecisione ortografica; questo non toglie infatti valore a quello che ci ha trasmesso.
I quaderni, infatti, sono una miniera di informazioni con il vantaggio dell’immediatezza rispetto ad altre narrazioni successive, letterariamente più curate, ma necessariamente rielaborate e reinterpretate. In essi troviamo testimonianza di eventi importanti, come la prima spedizione missionaria del 1875, di cui è raccontata dettagliatamente la preparazione, la partenza e gli effetti che produsse.

Vengono descritte le feste più importanti (ad es. Maria Ausiliatrice o la nascita di san Giovanni Battista, onomastico di don Bosco) e come venivano celebrate. Possiamo conoscere le attività ordinarie e straordinarie di Valdocco (la scuola, il teatro, la musica, visite di vari personaggi…): come erano preparate e gestite, cosa funzionava bene e quali aspetti erano da migliorare, in che modo i salesiani sotto la guida di don Bosco si organizzavano e lavoravano insieme, senza nascondere alcune criticità. Non mancano piccoli aspetti della quotidianità: la salute, il cibo, l’economia e molti altri particolari.
Da queste cronache, però, emerge anche lo spirito che animava tutta l’opera: la passione che sosteneva l’impegno spesso soverchiante, l’affetto per don Bosco sia dei salesiani che dei ragazzi, lo stile e le scelte educative, la cura per la crescita delle vocazioni e la formazione dei giovani salesiani. L’autore ad un certo punto annota: “Oh, così fosse davvero che potessimo consumare tutta la vita fino all’ultimo fiato in lavorare nella congregazione a maggior gloria di Dio, ma in modo che nemmanco un respiro nella vita nostra avesse scopo diverso” (quaderno VII, pag. 9).

La Cronichetta presenta inoltre un preciso ritratto di don Bosco negli anni della maturità. Al giorno 15 agosto 1878 don Barberis scrive: “Compleanno di don Bosco. Nato com’è del 1815, compie i 63 anni. Si fece festa. Servì questa circostanza per distribuire i premi agli artigiani. Erano stampate al solito poesie e molte se ne lessero” (quaderno XIII, pag. 82). Molte registrazioni si soffermano sulle caratteristiche della personalità del padre e maestro dei giovani, tra cui alcuni aspetti che nelle narrazioni biografiche successive sono andate perdute, come l’interesse per le scoperte archeologiche e scientifiche del suo tempo. Ma soprattutto appare la totale dedizione alla sua opera, in quegli anni in particolare l’impegno per consolidare la congregazione salesiana e per espandere sempre più il suo raggio d’azione con la fondazione di nuove case in Italia e all’estero.

Risulta comunque difficile riassumere il ricchissimo contenuto di questi quaderni. Si è tentato nell’introduzione al volume di individuare alcuni nuclei tematici che spaziano dalla storia della congregazione salesiana e dalla vita di don Bosco (diversi sono i passaggi in cui Barberis riporta “cose antiche dell’oratorio”) al modello formativo di Valdocco e agli aspetti gestionali ed organizzativi. Sempre nell’introduzione si affrontano altre questioni relative al documento: l’uso che ne è stato fatto, con speciale riferimento alle Memorie Biografiche, il valore storico da dare alle informazioni, lo scopo per cui è stato scritto, nonché la lingua e lo stile utilizzati. Circa quest’ultimo punto notiamo come l’autore, secondo quanto appreso da don Bosco stesso, ha arricchito la sua cronaca con dialoghi, episodi ameni, “buone notti” e sogni di don Bosco, rendendo così la lettura anche interessante e piacevole.

Il volume è anche testimonianza più generale del momento storico in cui è stato scritto, in particolare del travagliato periodo seguito all’unificazione italiana. Nel marzo del 1876 ci fu il cambio di governo per la prima volta guidato dal partito della Sinistra storica. Nell’ottavo quaderno della Cronichetta alla data 6 agosto 1876 troviamo memoria del ricevimento tenutosi al collegio salesiano di Lanzo in occasione dell’inaugurazione della nuova ferrovia, in cui intervennero vari ministri. L’interazione di don Bosco con i politici e il suo interesse per le vicende dell’Italia e di altri stati è ben documentata e le note storiche apposte alla fine di ogni quaderno forniscono le informazioni essenziali. Anche notizie di attualità più spicciola trovano posto nelle varie registrazioni, come la posa dei cavi sottomarini per il telegrafo elettrico o alcune credenze di tipo salutistico e medico dell’epoca.

Questa pubblicazione è un’edizione critica, rivolta quindi principalmente agli studiosi di storia salesiana, ma anche chi volesse approfondire alcuni aspetti della persona del santo fondatore dei salesiani e della sua opera troverà grande utilità dalla lettura, che, superato l’ostacolo dell’italiano ottocentesco, è spesso piacevole.

Per gli interessati, la “Cronichetta” di Giulio Barberis si può acquistare da QUI.

don Massimo SCHWARZEL, sdb




Un centro di protezione per ragazzi di strada a Lagos, Nigeria

A Lagos, in Nigeria, in una città sovrappopolata e in continua crescita, dove più del 40% della popolazione è composto da giovani sotto i 18 anni, i salesiani hanno aperto una casa per i ragazzi di strada.

Lagos è uno dei 36 stati della Nigeria federale. È praticamente una città-stato, capitale del paese fino al 1991, quando avvenne il riconoscimento ufficiale della nuova capitale, Abuja, nel centro del paese. Con i suoi 16 milioni di abitanti, è la seconda area urbana più popolosa dell’Africa dopo quella de Il Cairo, e con la sua area metropolitana di 21 milioni di abitanti, è una delle più popolose al mondo. Inoltre, è in continuo aumento, tanto che è diventata la prima città in Africa e settima nel mondo per velocità della crescita demografica.
Con un clima molto caldo, trovandosi appena 6° a nord dell’Equatore, è localizzata sulla terraferma, con apertura sul lago Lagoon e sull’Oceano Atlantico: grazie alla sua posizione, è sempre stata una città commerciale, tanto che, anche se la capitale è stata trasferita, rimane il centro commerciale ed economico dello Stato e uno dei più importanti porti dell’Africa occidentale.
Con 230 milioni di abitanti, la Nigeria è il Paese più popoloso dell’Africa e il sesto Paese più popoloso del mondo. La Nigeria ha la terza popolazione giovanile più numerosa del mondo, dopo India e Cina, con oltre 90 milioni di abitanti di età inferiore ai 18 anni.
La situazione giovanile in questa città è comparabile con Torino al tempo di don Bosco. Molti ragazzi poveri delle campagne e delle città affluiscono nella città di Lagos in cerca di lavoro e di una vita migliore, ma sono soggetti a sfruttamento, abbandono, povertà e privazioni. Sono a rischio di rimanere sulla strada, di essere maltrattati, di essere vittime della tratta di persone, di entrare in conflitto con la legge o di abusare delle droghe.

In aiuto di questi ragazzi e giovani sono venuti i salesiani, con una Casa Don Bosco, un centro di protezione per ragazzi di strada, approvato dal Ministero della Gioventù e dello Sviluppo Sociale dello Stato di Lagos, come casa di riabilitazione per ragazzi a rischio. È una Casa che si dedica a migliorare la vita dei ragazzi di strada, dei ragazzi vulnerabili, fornendo loro un ambiente familiare alternativo, un rifugio, istruzione, sostegno emotivo, protezione e potenziamento delle abilità di vita. Si parte dalla convinzione che ogni ragazzo abbia un potenziale positivo e che i giovani rappresentino il futuro del paese. Se l’ambiente è buono, se ricevono una buona formazione e vedono buoni esempi, possono crescere anche loro in modo da diventare una speranza per gli altri.

La Casa Don Bosco comprende ospiti residenziali e non residenziali.
I ragazzi residenti sono quelli che vivono nella casa di accoglienza, frequentano la scuola all’interno della casa e partecipano a tutte le attività che li porteranno a diventare persone migliori e a reintegrarsi nelle loro famiglie e comunità. Alcuni dei programmi gestiti nella casa, nell’ambito dell’acquisizione di competenze e dell’empowerment, sono rappresentati da percorsi di sartoria, taglio capelli, produzione di scarpe, mentre nell’area dello sviluppo dei talenti sono musica, teatro, danza e coreografia. I ragazzi sono anche impegnati in diversi percorsi terapeutici, sport e attività ricreative per favorire il loro sviluppo sociale e fisico.

Nel loro lavoro con questi ragazzi, i salesiani si sono resi conto della potenzialità della musica, specialmente nella riabilitazione dei più piccoli. Aiutandoli a conoscere e usare gli strumenti musicali, si offre sollievo dal peso del loro vissuto, favorendo il superamento di vari traumi, rafforzando anche un buon rapporto familiare fra loro. Lo stesso succede anche con la danza. I ragazzi sono molto attratti dalla coreografia, vogliono provare e non si scoraggiano quando si accorgono di aver sbagliato, ma ritentano con perseveranza fino quando riescono, imparando dagli errori. La danza incoraggia i ragazzi a sperimentare e a trovare percorsi diversi per dimenticare i loro problemi.

Ma la Casa Don Bosco non chiude le porte a quelli che non vogliono restare. Gli ospiti non residenziali sono quelli che vivono per strada e che, spesso, vengono a cercare un rifugio temporaneo. La casa serve loro come tappa per riposare, giocare, fare una doccia, cambiare i vestiti, ricevere farmaci e vitto. In queste occasioni, si offre loro anche la possibilità di attività di follow-up: consulenza e riabilitazione psicologica, rintracciamento e reinserimento familiare, continuità dell’istruzione, acquisizione di competenze, assistenza medica e sanitaria complessa e inserimento lavorativo.

È un aiuto prezioso, perché la maggior parte di questi giovani ha un’età compresa tra i 14 e i 24 anni: tanti di loro sono impegnati in qualche lavoro, che permette loro di guadagnare qualcosa per coprire le spese quotidiane di cibo, abbigliamento e altre necessità. Una buona parte di loro lavora nel settore non organizzato, aiutando nei matrimoni, nei cantieri edili, trasportando carichi nel parcheggio degli autobus, vendendo sacchetti d’acqua e bevande sulla strada, svolgendo i lavori più umili. Ed è bello costatare questo, perché vuol dire che hanno voglia di guadagnarsi onestamente la vita, ma non sempre trovano qualcuno che li aiuti.

Come si può intuire, le ragazze non si trovano in una situazione migliore e ciò rappresenta una sfida per i salesiani: pensare in qualche modo anche a loro. Anche per questo i salesiani chiedono sostegno per migliorare le capacità del loro personale e la gestione in generale e sono aperti a ricevere assistenza per migliorare la qualità del lavoro. Da soli possono fare poco, ma insieme con gli altri possono fare molto.

don Raphael AIROBOMAN, sdb
Direttore del “Don Bosco Home Child Protection Center”, Lagos, Nigeria




La carica dei 101. Casa salesiana Monterosa

“Che emozione… un anno fa era con noi don Angel!”.
Ecco come abbiamo iniziato la festa della nostra Comunità domenica 8 maggio 2022. Proprio un anno fa il nostro Rettor Maggiore era con noi a Torino, al Michele Rua per festeggiare i 100 anni dell’Opera. E con lui c’era anche il Sindaco della Città!
Già… 100 anni!

Era l’estate del 1922 quando un gruppo foltissimo di ragazzi, l’Unione Padri di Famiglia e il Comitato delle Patronesse, guidati da don Lunati inaugurarono l’Oratorio Michele Rua, con le sale, la chiesa, il cortile, l’Asilo infantile seguito dalle FMA e la scuola di cucito. La costruzione era stata resa possibile grazie all’aiuto di tanti volontari e anche al sostegno di molti benefattori, primo fra tanti, papa Benedetto XV con la sua generosa offerta di 10.000 Lire. Da allora, l’Opera non si è più fermata e si è ampliata subito dopo con il Teatro e nel 1949 con la Scuola per l’“Avviamento Industriale”, così da preparare i giovani al lavoro.
Nel 1958 la Comunità diventa Parrocchia, giusto riconoscimento dell’opera religiosa e sociale che, ormai da quarant’anni, i Salesiani stanno svolgendo nel Borgo Monterosa;  negli anni a seguire la Scuola professionale diventa Scuola Media.

Casa salesiana Monterosa, anni ’60. Fuori dalla sala giochi

Grazie a contributi vari, alla disponibilità e al sacrificio di giovani e volontari, negli anni Settanta è poi arrivata la Scuola Materna e nel 1991 la Palestra e i nuovi campi da calcio. Nel 2008, con la preziosa presenza delle FMA, si aggiunge la Scuola Primaria e si amplia il gruppo degli Amici del Presepe e il Laboratorio Mamma Margherita. Tante strade si sono aperte e hanno garantito ai ragazzi e ai giovani del quartiere di trovare un posto sicuro e accogliente, anche nei periodi più difficili a partire dalla guerra, dal fascismo… fino alla chiusura per pandemia nel 2020. E anche durante il lockdown, i nostri Salesiani e le nostre FMA hanno fatto sentire la loro presenza con incontri online, canti sui tetti e giochi organizzati su piattaforme digitali.

Rileggere la storia del nostro Oratorio ci fa venire i brividi… una tettoia, il cortile e un capannone messi a disposizione da un benefattore in una zona popolare, dove i bambini si ritrovavano per strada alla ricerca di qualcuno che si occupasse di loro e a loro volesse bene. Proprio lì i Salesiani decisero di fermarsi, di esserci in quella realtà così vicina a quella di don Bosco. E poi ancora: il Ricreatorio di Mamma Margherita, i ragazzi che aumentano e la tettoia che non basta più, la disponibilità di tanti papà e mamme che offrono le loro competenze e capacità.

Casa salesiana Monterosa. Squadra calcio della Bandina, 1952

Tutto è partito nel 1922 e così nel 2022 abbiamo festeggiato i primi 100 anni. È stato un anno prezioso sotto tanti punti di vista. Riprendere in mano la storia e vedere quante similitudini ci sono tra il passato e la nostra vita quotidiana ci ha dato una bellissima carica di entusiasmo. Oggi come allora i ragazzi cercano chi possa amarli, chi con la presenza quotidiana testimoni loro quanto sono importanti, quanto valgono. E così al Michele Rua abbiamo le scuole dell’Infanzia, Primaria e Secondaria; abbiamo il Teatro e la Polisportiva; abbiamo il Centro Diurno in collaborazione con i Servizi Sociali del Comune di Torino; abbiamo il Catechismo e i Gruppi Formativi. Tanto per i giovani e i ragazzi, ma anche tanto con e per le famiglie: Gruppo Famiglia, Baby Rua, Giovani Sposi, Gruppo Evergreen, Laboratorio Mamma Margherita e Amici del Michele Rua.

Una realtà così funziona perché chi ci passa la vive come Casa, come la propria Comunità. Ed è per questo che in occasione del Centenario, la Comunità Educativa Pastorale ha deciso di affrontare un cammino sinodale, di lettura del territorio e di analisi dei bisogni per provare insieme a dare risposte e offrire proposte ai tanti giovani che oggi varcano la soglia dei nostri cortili.

Un cammino, quello del Centenario, che, con i piedi saldi nel presente e la storia del passato chiara in mente, ci ha interrogato sul futuro. Abbiamo individuato le parole cardine del nostro essere in questo quartiere e abbiamo deciso di lasciarci guidare da: famiglia, accoglienza, lavoro, formazione, evangelizzazione e giovani. Attorno a questi punti fermi abbiamo posto le basi per ripartire e rimetterci tutti in cammino per il bene dei ragazzi che varcano la porta dell’Oratorio. Nel “nuovo” Michele Rua oggi c’è un Maker Lab di sartoria, falegnameria, robotica e videomaking dove i ragazzi e i giovani possono vivere un’esperienza laboratoriale, così da imparare, facendo. Nei laboratori allestiti al primo piano, adulti volontari esperti offrono il loro tempo per aiutare i ragazzi a esprimersi, cercando di lavorare insieme su un pezzo di legno, con il pirografo o il seghetto oppure su un pezzo di stoffa con ago e filo. Ma non solo: ci sono anche le classi all’aperto per le nostre scuole e un orto didattico che offre fagiolini e pomodori ai ragazzi che a turno si prendono cura delle loro piantine.
In un quartiere multietnico e variegato come il nostro, la priorità sono da sempre le famiglie più povere e così, con la nostra Parrocchia, oltre ai consueti servizi alla carità per pagare le bollette del gas o offrire una borsa della spesa, sono nati due importanti nuovi progetti: Amico Click, per offrire strumenti utili a chi fa fatica a entrare nel mondo digitale come creare una mail o prenotare il medico on line, e Amico Speak, perché tutti i nuovi arrivati possano conoscere e usare bene la lingua italiana.

E, con lo slancio del Centenario, non ci siamo fermati a reinventare l’oggi; siamo in moto per il prossimo futuro. Stiamo ripensando a come ristrutturare i locali della ex Bocciofila, da tempo in disuso, per essere sempre più presenza attiva sul territorio, rispondenti ai bisogni di oggi. Vorremmo riprendere l’idea del 1949 dell’“Avviamento industriale” e studiare un moderno Hub Lavoro per i ragazzi che non riescono a seguire percorsi strutturati e continuativi; vorremmo esserci per tutti i bambini che non riescono a “stare bene” a scuola, in particolare per gli effetti lasciati su di loro dai periodi di chiusura del lockdown e quindi creare un doposcuola professionale che offra metodo di studio, accompagnamento per le famiglie e servizi individualizzati. E, come voleva don Bosco, siamo decisi a rilanciare tutta l’attività legata al nostro Teatro: musica, danza, recitazione. Partiremo con inscenare un nuovo Musical che possa appassionare i ragazzi e far emergere i loro talenti.

Oggi nei nostri cortili ci sono quotidianamente più di 100 ragazzi che giocano, abbiamo più di 500 ragazzi iscritti alle attività sportive e 200 alle attività formative oratoriane. Abbiamo i gruppi dei bambini del Catechismo e almeno 50 utenti alla settimana che vengono per il doposcuola. Abbiamo più di 520 bambini iscritti nelle nostre scuole e 20 che ogni giorno frequentano il nostro Centro Diurno. Quando ci ritroviamo a mangiare insieme per la Festa della Comunità, prepariamo più di 500 piatti di polenta e spezzatino… e poi tanti iscritti all’Estate Ragazzi, ai campi estivi al mare e in montagna.

Tutto ciò si rende possibile grazie alla presenza di Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice che instancabilmente ci sono, ciascuno a servizio con la propria sfaccettatura e disponibilità. Grazie a innumerevoli animatori, volontari che gratuitamente vivono i nostri cortili come quelli di casa propria e non mancano mai per svolgere i più diversi servizi.

Casa salesiana Monterosa. Attività coi ragazzi, 2023

Grazie ai dipendenti che credono nella loro vocazione e non varcano la soglia solo per svolgere il loro lavoro. Grazie alle Istituzioni locali che consigliano, suggeriscono e fanno rete. Grazie ai tanti benefattori che non mancano di sostenere le molte spese da affrontare. Grazie alle famiglie che continuano a credere nell’alleanza educativa che si può creare tra adulti per il bene dei ragazzi. Grazie a chi ci ha lasciato ma che continua a vegliare su di noi e a custodire le nostre attività.
Soprattutto grazie a Maria Ausiliatrice, san Domenico Savio, don Bosco e Madre Mazzarello che ci guidano, ci benedicono e ci riempiono di grazie.

In occasione del Centenario, abbiamo chiesto a chi è passato di qui di raccontare un pezzo della loro vita al Michele Rua e sono arrivate 100 storie bellissime, ricche di emozioni e passione. Ebbene, in tutte c’è il ricordo di qualcuno, prete, suora, animatore, catechista… che ha offerto un pezzo di vita per gli altri nella nostra Opera. Ecco perché il Michele Rua è così, presenza viva nel Quartiere Barriera di Milano.

Ritornando alla prima frase del nostro racconto, domenica abbiamo festeggiato la festa della Comunità a 101 anni dalla fondazione dell’Opera e, come ha detto il nostro Ispettore, abbiamo di nuovo tanto per festeggiare… e come il dalmata nella storia di Walt Disney carichi ed entusiasti, partiamo per la CARICA dei 101!

Una volontaria.




Don Bosco in Albania. Un padre per tanti giovani

Il carisma salesiano è radicato in Albania, un Paese dove l’opera salesiana è viva e feconda: dagli inizi negli anni’90 allo sguardo verso il futuro, le esperienze raccontate da don Giuseppe Liano, missionario guatemalteco al servizio della gioventù albanese, nella comunità di Scutari.

Come nasce la presenza salesiana in Albania? Racconta don Oreste Valle che, guardando la drammatica situazione italiana dei porti di Bari e di Brindisi nel 1991, fu lo stesso papa san Giovanni Paolo II a chiedere all’allora Rettor Maggiore, don Egidio Viganò, l’immediata disponibilità dei salesiani ad andare in Albania. L’arrivo di quelle navi stracolme di persone alla ricerca di un futuro migliore straziava il suo cuore e gli aveva subito fatto intuire che non ci si poteva limitare all’accoglienza al porto: c’era bisogno urgente di percorrere anche la strada inversa e andare incontro a quei giovani poveri e abbandonati rimasti a casa.

La prima spedizione salesiana dall’Italia arrivò alla fine del 1991. Ufficialmente la presenza salesiana ebbe inizio il 25 settembre 1992, a Scutari (Shkodër), nel nord dell’Albania, destinata a costruire un avvenire promettente, iniziando da un presente pieno e gioioso. Il contesto era una città storicamente importante, di grande cultura e di fede, in mezzo ad una povertà spaventosa, una quantità inimmaginabile di giovani, con il ricordo di tanto sangue sparso, sangue di martiri cattolici e di altre religioni.

L’opera si sviluppò attorno ai bisogni dei ragazzi e delle loro famiglie: dall’oratorio, cuore e genesi della presenza salesiana, alla scuola professionale, poi il convitto, il tempio e la parrocchia. Uno sviluppo secondo il criterio oratoriano: cortile, scuola, casa e parrocchia, come voleva don Bosco. Dopo Scutari, gli orizzonti si aprirono nella capitale Tirana, poi in Kosovo, a Prishtina e Gjilan, e, da quasi tre anni, anche a Lushnje, nel sud dell’Albania.

La casa salesiana di Scutari si trova nel centro della città: nel convitto è presente un numero significativo di ragazzi iscritti e l’oratorio continua a essere un cortile affollato ogni pomeriggio. Dai piccoli che vengono ai loro allenamenti di calcio o alla scuola di danza popolare, fino ai ‘grandi’ che si divertono giocando a pallavolo, a pallacanestro o  semplicemente incontrandosi per parlare e trascorrere il tempo insieme in oratorio.

Ogni giorno, alle 18, si fermano tutte le attività per la buona notte e la preghiera, come è la tradizione salesiana. Tutti i fine settimana si incontrano i gruppi della catechesi (venerdì) e i gruppi formativi (sabato).

Questo nell’ordinarietà, perché poi sarebbero da aggiungere gli incontri vocazionali, le esperienze di apostolato, gli allenamenti dei diversi sport e le feste secondo il tempo liturgico. Tutto questo animato da una comunità credente abbastanza numerosa e da un consistente numero di ragazzi e giovani animatori.

Si potrebbe dire che la bellezza e l’originalità delle opere salesiane albanesi è che, nell’insieme, vengono accolti centinaia di ragazzi e di famiglie di credo diverso, offrendo un servizio di educazione e di comunione in un contesto interreligioso. Il nome e la tradizione di “Don Bosko” (con la k) sono riconosciuti come un modello di fiducia, di lavoro e di bene generoso per la società. Ogni comunità svolge la propria missione in un contesto totalmente diverso a livello di fede, di proposta pastorale e di dialogo con la città, ma si cerca di condividere, per quanto possibile, fra Salesiani e Figlie di Maria Ausiliatrice.
Per i ragazzi sembra che tutto sia un solo cortile in luoghi diversi. Quest’armonia e questa fiducia sono la carta vincente per poter proporre giochi, corsi, preghiere e itinerari di crescita senza essere giudicati come ‘propagandisti della fede’ o ‘interessati solo al proprio bene’.

Chi entra in un ambiente salesiano si sente accolto e capace di accogliere gli altri, senza distinzione. E per i cattolici, far parte del gruppo degli animatori e del cortile significa vivere la propria vocazione al servizio dei giovani, secondo lo stile salesiano, con la bellezza di vederli pregare, confessarsi e partecipare alla messa regolarmente.
Quello che attualmente interroga i salesiani è trovare le risposte giuste ai bisogni di questa generazione.

Il fenomeno della migrazione è straziante, gli indicatori della povertà aumentano e le possibilità di un futuro degno a Scutari si riducono in modo drammatico. Sia per studiare sia per trovare lavoro, bisogna avere tanta fortuna o altrimenti per forza si deve andare via. I salesiani sognano un centro diurno e un centro giovanile, con una scuola professionale degna e proficua e una scuola di lingue, di arti e di sport, che dia ai loro sogni una forma, un presente e un futuro. Purtroppo, senza il sostegno economico, questi sogni rimangono solo come inchiostro su fogli bianchi. E, nel frattempo, i giovani e le famiglie continuano ad andare via da qua.

Ma i salesiani non smettono di sognare vivendo il presente come un dono davvero prezioso di Dio. Don Giuseppe LIANO, salesiano missionario dal Guatemala, ci dice: “Io, personalmente, mi sento il salesiano più fortunato su questa terra: condividere la missione con salesiani di tutto il mondo (Vietnam, Congo, Italia, Zambia, India, Slovenia, Slovacchia, Guatemala, Albania e Kosovo), con giovani così fedeli e salesiani, in una città così bella, dedicandomi ad animare l’oratorio… non succede tutti i giorni!”. Tutto questo, con la consapevolezza che entrare nel contesto, conoscere la realtà e capire la lingua sono stati processi lenti e costosi, ma, a distanza di tempo, ci si accorge di quanto ogni cosa sia valsa la pena. Una missione così sfidante e così bella è uno stimolo alla fedeltà creativa e alla santità!

Per l’Albania oggi si preannuncia un futuro complesso. I problemi non mancano. Ultimamente i sostegni economici e i progetti che arrivavano in Albania hanno sono stati indirizzati verso destinatari più bisognosi, soprattutto in Ucraina e in Turchia; questo fa pensare che è anche tempo di cominciare non solo a ricevere ma anche a generare un sostegno, benché non sia ancora possibile coprire del tutto i costi. I giovani, fedeli e forti, ci sono, per grazia di Dio. Oggi la sfida è trovare il punto di slancio, il modo di trasformare insieme il contesto in una certezza, in un’‘oasi’ per le future generazioni e in una fonte di vocazioni, di santità e di bellezza.

Marco Fulgaro




Cinquanta anni di servizio. Don Rolando Fernandez

Don Rolando Fernandez, salesiano missionario nelle Filippine, attualmente nella comunità di Dili – Comoro appartenente alla Visitatoria Timor Est (TLS), ha compiuto 50 anni di servizio nella vita sacerdotale, 40 dei quali nel Timor Est.

I fedeli di Baucau hanno celebrato 50 anni di vita sacerdotale di don Rolando Fernandez, sdb, missionario di Pangasinan, Filippine, nel giorno della festa di san Domenico Savio. Si sono uniti nella concelebrazione della Messa di ringraziamento l’Ispettore TLS, don Anacleto Pires, sacerdoti della Diocesi di Baucau e sacerdoti salesiani. Hanno partecipato tante persone, tra cui alcune religiose e Figlie di Maria Ausiliatrice, membri della Famiglia Salesiana, novizi e pre-novizi, rappresentanti del governo, studenti e giovani, riuniti nella cattedrale di Baucau e animati da un gioioso spirito di ringraziamento, celebrando l’amore di Dio attraverso la persona di don Rolando Fernandez, nei suoi quarant’anni di vita e di servizio a favore del popolo timorese.

Amu Orlando, come viene chiamato dalla gente, ha trascorso i suoi dieci anni di vita missionaria in Papua Nuova Guinea, prima di unirsi ad altri missionari che lavoravano a Timor Est a metà degli anni ’80. Questa celebrazione si è svolta a Baucau, perché don Rolando ha operato lì come parroco (1992-1994) e direttore e fondatore della nota Escola Secundária Santo António (ESSA) Teulale-Baucau. Assieme a questa, don Rolando ha portato a termine molte altre opere a Baucau. Solo per citarne alcune, le traduzioni della Parola di Dio nella lingua nazionale, il Tetum e altre opere di stampa. Ha fatto un grande sforzo per offrire ai fedeli preghiere e testi di culto per le celebrazioni liturgiche. L’ultimo dei suoi lasciti, ma non meno importante, che rimarrà nei cuori dei giovani timoresi di tutto il Paese, è l’organizzazione dell’evento Cruz Jovens, per i giovani di Timor Est, iniziato da papa san Giovanni Paolo II a Roma nel 22 aprile 1984 (la prima Giornata Mondiale della Gioventù).

Nell’omelia don Rolando è andato al cuore del significato di assistenza. In primo luogo, ha parlato della indegnità dell’uomo a diventare sacerdote. Il sacerdozio non è un diritto, ma è un dono di Dio. È Dio che chiama, nel suo grande amore, e dona questa grazia per diventare sacerdoti. È una fiducia di Dio quella di scegliere ed elevare uomini per servire il suo popolo. Questo si riflette anche nella seconda Preghiera Eucaristica, nella quale il sacerdote dice: “… ti rendiamo grazie perché ci hai resi degni di stare alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Per questo grande dono, don Rolando ha ringraziato Dio per averlo chiamato e per avergli dato l’occasione di prestare il suo servizio.
Poi, guardando al passato, al suo percorso di vita, don Rolando ha visto come il dito di Dio gli ha indicato, mostrato e preparato la strada per questo dono del sacerdozio ordinato tramite le esperienze iniziate nella sua devota famiglia di genitori e fratelli, e tramite i missionari salesiani che ha conosciuto. Possiamo aggiungere che si conferma una volta in più il detto “il frutto non cade lontano dall’albero”.
Uno degli eventi memorabili che ha cambiato la sua vita, è che suo padre è rimasto impressionato dopo aver visitato una scuola tecnica di don Bosco. Lì, ha visto i ragazzi che fabbricavano scarpe, cucivano, svolgevano lavori di falegnameria, di meccanica e di elettricità. Suo padre comprò un paio di scarpe per lui e, in quella occasione, un sacerdote salesiano gli regalò un libretto con immagini di Maria Ausiliatrice, don Bosco e Domenico Savio. Una volta tornato a casa, suo padre gli disse: “L’anno prossimo, andrai alla scuola Don Bosco”. Infatti, ci andò. Lì ha visto la vita dei salesiani, ha imparato da loro, ha desiderato essere come loro e, alla fine, è diventato uno di loro, un fratello salesiano e poi un sacerdote salesiano per sempre. Infine, don Rolando ha sentito un grande desiderio di diventare un segno e un portatore dell’amore di Dio, soprattutto per i giovani. Per lui, l’amore dei confratelli e dei superiori che si sono fidati di lui, che hanno affidato alle sue cure alcune responsabilità al di là delle sue capacità, l’amore dei suoi exallievi, dei ragazzi e della gente, hanno arricchito di significato la sua vita. E non sono parole vuote: si potrebbero enumerare tanti eventi ed esperienze di amore da parte dei Salesiani e della gente. Ha potuto sentire profondamente il loro amore anche quando si è ammalato.
Poi, ricordando le parole di don Bosco che diceva: “Pane, lavoro e paradiso: ecco tre cose che ti posso offrire io in nome del Signore”, commentava che il pane, per lui, non è mai mancato, però se non c’era il lavoro, il rischio era di non avere neanche il paradiso. Il lavoro intenso consuma la vita rapidamente, ma non lui non ha paura della morte perché ha fiducia nelle parole che don Bosco ha lasciato come testamento: “Quando avverrà che un salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la nostra Congregazione ha riportato un gran trionfo e sopra di essa discenderanno copiose le benedizioni del Cielo”. E questa fiducia nelle parole di don Bosco continua, con dar credito alle Costituzioni salesiane che nell’articolo 54 recitano “Per il salesiano la morte è illuminata dalla speranza di entrare nella gioia del suo Signore”. E – diciamo noi – è giusta questa fiducia nelle Costituzioni, perché lo stesso don Bosco diceva: “Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in avvenire colla esatta osservanza delle nostre costituzioni”.

Dopo l’omelia, don Rolando ha rinnovato ancora una volta i suoi voti religiosi davanti all’ispettore, don Anacleto Pires, a don Manuel Ximenes, sdb, parroco di Baucau, e a don Agnelo Moreira, sdb, Rettore della comunità di Baucau. Ha dato una testimonianza vivente dell’amore di Dio per gli uomini, soprattutto per i giovani.
Dopo la benedizione finale, ci sono stati alcuni interventi da parte di diversi rappresentanti che hanno espresso la loro gratitudine a don Rolando per la sua presenza, la sua vita e il suo lavoro per la Chiesa a Timor Est, in particolare a Baucau. Grazie al suo esempio di vita, ci sono molte vocazioni alla vita religiosa, tante suore e sacerdoti. Don Rolando Fernandez, proprio come una goccia di miele, ha attirato tanti giovani, ragazzi e ragazze, ad abbracciare la vita religiosa o sacerdotale. Come segno di gratitudine a nome dei confratelli di Timor-Leste, don Anacleto ha consegnato a don Rolando una statua di don Bosco. E in ricordo di questo evento, a Baucau è stato piantato anche un albero da parte di don Anacleto e don Rolando.

don Julian Mota, sdb




La cicogna e i suoi doveri

La cicogna bianca (Ciconia ciconia) è un uccello grande, inconfondibile per il suo becco affusolato rosso, per il lungo collo, per le zampe lunghissime, per il candido piumaggio prevalentemente bianco, con penne nere sulle ali. È migratorio per natura, e il suo arrivo in primavera in molti paesi d’Europa è considerato di buon augurio.

Sin dall’arrivo, questi uccelli iniziano a farsi o rifarsi il nido, in posti alti, tantissime volte nello stesso posto.

Nel passato, quando non esistevano i pali di sostegno della rete elettrica, i posti più alti erano i camini coperti delle case, ed erano preferiti dalle cicogne quelli più caldi. E le case che si riscaldavano anche nella primavera erano quelle dove un neonato era bisognoso di un ambiente propizio. Di qui la leggenda della cicogna che porta i bambini, leggenda che è diventata un simbolo. Infatti anche oggi, sui biglietti di auguri alle neomamme, è presente una cicogna in volo, con un fagottino legato al becco.

Il Creatore ha dotato le cicogne di istinti superiori, facendo di loro nobili volatili. E sono così fedeli al compito assegnato loro per natura che meritano di essere messe tra le prime nel “libro della creazione”.

La prima cosa che colpisce è che sono tendenzialmente monogame: una volta formata la coppia, restano assieme per tutta la vita. Sicuramente ci saranno nella loro esistenza anche i battibecchi, però questi non portano mai alla separazione.

Quasi sempre tornano allo stesso nido, rifacendolo e arricchendolo. Non si stancano mai di ripararlo ogni anno e di migliorarlo, anche se questo richiede impegno e fatica. E il nido è sempre in alto, sui camini, sui pali elettrici o i campanili, perché vogliono proteggere la loro prole dagli animali selvatici.

Anche se nessuno ha insegnato loro, riescono a costruire stupendi nidi che possono superare due metri di diametro con rametti e anche con altri materiali che trovano alla loro portata di volo, perfino con materiali tessili e plastiche; non distruggono la natura, ma riciclano.

La femmina depone da tre fino a sei uova, non preoccupandosi di come potrà sostenere i suoi piccoli. Una volta deposte le uova, non trascura mai il suo dovere di covarle, anche se deve affrontare brutti periodi. Se i nidi sono vicini alle strade, il rumore continuo delle macchine, le vibrazioni provocate dai mezzi pesanti o le loro luci abbaglianti nella notte non le fa andare via. Quando fa un caldo torrido, quando il sole diventa scottante, la cicogna apre un po’ le sue ali o si muove ogni tanto per rinfrescarsi, ma non cerca di mettersi all’ombra. Quando fa freddo, specialmente di notte, fa di tutto per non lasciare troppo all’esterno le sue uova. Quando viene un forte vento non si lascia trascinare e fa di tutto per restare ferma. Quando piove, non si mette al riparo per difendersi dall’acqua. E quando viene anche una grandinata, resiste stoicamente correndo il rischio di perdere la vita, ma non smette di fare il suo dovere.

Ed è meraviglioso questo comportamento se ci ricordiamo gli istinti basici che il Creatore ha lasciato ad ogni essere vivente. Anche negli organismi più elementari, quelli unicellulari, troviamo quattro istinti fondamentali: nutrizione, escrezione, conservazione dell’individuo (autodifesa) e conservazione della specie (la riproduzione). E quando un organismo deve scegliere se dare priorità a uno di questi istinti, prevale sempre quello della conservazione dell’individuo, dell’autodifesa.

Nel caso della cicogna, il fatto che resti ferma a proteggere le uova anche nelle tempeste, anche quando si abbatte una grandinata che mette in pericolo la sua vita, mostra che l’istinto della conservazione della specie diventa più forte di quello della conservazione dell’individuo. È come se questo uccello avesse coscienza che il liquido di quelle uova non è un prodotto generato dal quale si può separare, ma che dentro l’uovo ci sia una vita che lei deve ad ogni costo proteggere.

La covata la porta avanti alternandosi con il maschio, che non disdegna di dare un cambio alla sua consorte per permetterle di procurarsi il cibo e fare un po’ di movimento. E questo per tutto il tempo, poco più di un mese, fino quando si schiudono le uova e le nuove creature vengono alla luce. Dopo questo periodo, i genitori continuano a darsi il cambio per assicurare ai piccoli un posto caldo, per nutrirli per altri due mesi fino a quando cominciano a lasciare il nido. E fino a tre settimane li nutrono con cibo rigurgitato perché i loro piccoli non sono in grado di nutrirsi diversamente. Si accontentano di quello che trovano: insetti, rane, pesci, roditori, lucertole, serpenti, crostacei, vermi ecc.; non hanno pretese per nutrirsi. E riuscendo a soddisfare questa necessità di alimentarsi, partecipano all’equilibrio naturale, riducendo i parassiti agricoli, come le cavallette.

Assicurano la sopravvivenza dei loro pulcini difendendoli dai passeri rapaci, come i falchi e le aquile, perché sanno che non sono capaci di riconoscere gli aggressori e neanche di difendere sé stessi, e lo fanno al loro posto.

I piccoli, una volta cresciute le ali, imparano a volare e a cercarsi il nutrimento, e a poco a poco abbandonano il loro nido, come se avessero consapevolezza che non c’è neanche spazio fisico per loro, avendo il nido dimensioni limitate. Non vivono pesando sui loro genitori, ma si danno da fare. Sono uccelli non possessivi; non marcano il loro territorio, ma convivono tranquillamente con gli altri.

In questo modo, le giovani cicogne cominciano a vivere come adulte, anche se non lo sono ancora, e non a fare le adulte. Infatti, per cominciare a riprodursi devono aspettare il loro tempo, fino ai 4 anni di età, quando unendosi in coppia con un altro uccello della stessa indole, ma dell’altro sesso, cominciano l’avventura della loro vita. Per questo dovranno imparare che per sopravvivere devono migrare anche per lunghissime distanze, facendo fatica, cercando le loro opportunità di vita in un luogo durante l’estate e in un altro durante l’inverno. E per farlo in sicurezza dovranno associarsi alle altre cicogne, che hanno la stessa natura e interesse.

Gli istinti di queste creature non sono sfuggiti all’osservazione umana. Fin dai tempi antichi la cicogna è stata il simbolo dell’amore tra i genitori e i figli. Ed è l’uccello che meglio rappresenta il legame antico tra l’uomo e la natura.

La cicogna bianca ha un carattere mite e per questo è amata dall’uomo ed è ben vista ovunque; l’Abbazia di Chiaravalle l’ha voluta perfino nel suo stemma accanto al baculo pastorale e la mitra.

Oggi è difficile vederla nella natura. Non capita spesso di vedere un nido di cicogne e ancor meno da vicino. Ma qualcuno ha avuto l’idea di usare la tecnologia per mostrare la vita di questi uccelli, posizionando una videocamera con trasmissione live accanto a un nido su una strada. Guardare per imparare. Il “libro della natura” ha tante cose da insegnarci…


cicogna




Padre Carlo Crespi apostolo dei poveri

Nel 23 marzo 2023, la Chiesa – dopo l’esame delle virtù teologali della Fede, Speranza e Carità verso Dio e verso il prossimo, e delle virtù cardinali della Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza e le altre virtù connesse, praticate in grado eroico – ha riconosciuto il Servo di Dio Carlo Crespi Croci, Sacerdote Professo della Società Salesiana di San Giovanni Bosco come Venerabile.

Come Giovannino Bosco un sogno gli segna la vita
Recandosi a Cuenca, nella piazza di fronte al santuario di Maria Ausiliatrice lo sguardo si sofferma immediatamente su un interessante quanto imponente gruppo scultoreo dedicato ad un italiano che i cuencani ancora oggi ricordano come «apóstol de los pobres». Si tratta più specificamente di un monumento raffigurante un sacerdote ed un bambino al suo fianco che lo guarda con affetto filiale. Quest’uomo straordinario che ha segnato la rinascita umana, spirituale e culturale di un popolo in precedenza messo in ginocchio da povertà, arretratezza e conflitti politici è padre Carlo Crespi, salesiano missionario. Originario di Legnano (Milano), nasce nel 1891 come terzo di tredici figli, da una famiglia benestante ed influente. Fin da piccolo manifesta intelligenza, curiosità e generosità particolari che mette anzitutto al servizio del padre, fattore in una tenuta locale e della madre Luigia, dalla quale impara molto presto a sgranare il rosario ed a tenere il nome di Maria sempre «a fior di labbra», come avrebbe testimoniato molti anni dopo un suo ex allievo. Come il fratello Delfino, anche lui futuro missionario, manifesta un particolare interesse per la bellezza del creato, inclinazione che gli tornerà utile molti anni più tardi quando si troverà nelle foreste inesplorate dell’Ecuador a classificare nuove specie di piante. Frequenta la scuola locale e all’età di dodici anni fa il suo primo incontro con la realtà salesiana all’interno dell’Istituto S. Ambrogio Opera don Bosco di Milano. Durante gli anni del collegio, seguendo l’insegnamento di san Giovanni Bosco, impara a mettere in pratica il binomio inseparabile della gioia e del lavoro. In questo stesso periodo un “sogno rivelatore” segna il primo importante punto di svolta nella sua vita. Scrive all’interno di alcuni quadernetti: «apparve in sogno la Vergine che mi mostrò una scena: da un lato, il demonio che voleva afferrarmi e trascinarmi; dall’altro, il Divin Redentore, con la croce, m’indicava un’altra via. Ero vestito da sacerdote e avevo la barba; stavo su un vecchio pulpito, attorno a me una moltitudine di persone desiderose di udire le mie parole. Il pulpito non si trovava in una chiesa, ma in una capanna». Sono i primi passi della chiamata alla vita salesiana che si fa sempre più forte. Nel 1903 completa gli studi al liceo salesiano di Valsalice. Al padre, preoccupato per il suo avvenire, risponde confermando la propria vocazione sacerdotale nella Società di san Giovanni Bosco: «Vedi, papà, la vocazione non te la impone nessuno; è Dio che chiama; io mi sento chiamato a diventare salesiano». L’8 settembre 1907 emette la prima professione religiosa, nel 1910 la professione perpetua. Nel 1917 viene ordinato sacerdote. Sono questi gli anni dedicati allo studio appassionato della filosofia, della teologia e all’insegnamento delle scienze naturali, della musica e della matematica. Presso l’Università di Padova si segnala per una importante scoperta in campo scientifico: l’esistenza di un microorganismo fino ad allora ignoto. Nel 1921 riceve il dottorato in scienze naturali, con specializzazione in botanica e poco dopo il diploma di musica.

Missionario in Ecuador
È il 1923 quando parte missionario e sbarca a Guayaquil, in Ecuador. Raggiunge Quito e infine si stabilisce definitivamente a Cuenca, dove rimarrà fino alla morte. «Mi benedica nel Signore e preghi per me affinché possa farmi santo, affinché possa immolare sull’altare del dolore e del sacrificio tutti gli istanti della mia vita» scrive nel 1925 all’allora Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi, manifestando la volontà di sacrificarsi completamente per la causa missionaria. Padre Crespi passa i primi sei mesi del 1925 nelle foreste della zona di Sucùa-Macas. Si propone di conoscere in modo approfondito la lingua, il territorio, la cultura, la spiritualità dell’etnia Shuar. Avvalendosi delle proprie conoscenze nei diversi ambiti della cultura, inizia un’opera di evangelizzazione rivoluzionaria ed innovativa, fatta di scambio ed arricchimento reciproco di culture molto diverse. Viene accolto con iniziale diffidenza, ma padre Carlo porta con sé oggetti interessanti come stoffa, munizioni, specchi, aghi e ha il modo di fare di chi vuol bene. Conosce i miti indigeni e li ripropone secondo una lettura nuova, trasformata ed arricchita alla luce della fede cattolica. Padre Carlo diventa presto un amico ed il messaggio cristiano, trasmesso con cura e rispetto, non è più la religione dello straniero, ma qualcosa che la popolazione riconosce come proprio. Padre Crespi intuisce che «solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse, si fa realmente padre» (Papa Francesco, Lettera Enciclica “Fratelli tutti”, 3 ottobre 2020).

Un bambino di cento anni!

La dimensione del sogno segna nuovamente la sua vita nel 1936 quando, ammalatosi di tifo e, nonostante le previsioni dei medici, si ristabilisce e racconta: «Verso le tre di notte si apre la porta ed entra santa Teresa e mi dice: puer centum annorum, infirmitas haec non est ad mortem, longa tibi restat vita (bambino di cento anni: queta malattia non è per la morte, ti resta una lunga vita)». Padre Carlo ha ora 45 anni, vivrà altri 46 anni. Ormai stabilitosi definitivamente a Cuenca, il Servo di Dio attua una vera e propria “Revoluciòn blanca”. Mette in piedi un lavoro di promozione umana senza precedenti, fondando diverse opere: l’oratorio festivo, il Normal Orientalista per la formazione dei missionari salesiani, la scuola elementare “Cornelio Merchán”, la scuola di arti e mestieri (poi Collegio tecnico salesiano), la Quinta Agronomica ovvero il primo istituto di agraria della regione, il Teatro salesiano, la Gran Casa della comunità, l’Orfanotrofio “Domenico Savio”, il museo “Carlo Crespi”, ancora oggi celebre per i suoi numerosi reperti scientifici. Dall’Italia fa arrivare mezzi e personale specializzato da investire nei suoi progetti. Sfruttando le proprie straordinarie conoscenze in campo scientifico e musicale, organizza conferenze e concerti in ambasciate, teatri e stringe amicizie con le principali famiglie di Guayaquil e della capitale. Crea un rapporto disteso con il governo locale, sebbene questo sia fortemente anticlericale. Ottiene lo sdoganamento gratuito e la copertura delle spese di trasporto fino a Cuenca di centinaia di casse di materiali. Le sue opere diventano in breve tempo il cuore pulsante di cambiamenti sociali e culturali epocali a tutto vantaggio della popolazione, specie quella più povera.

Padre Carlo crea nuove possibilità di vita e lo fa attraverso un progetto di evangelizzazione e sviluppo che dona alla popolazione cuencana anzitutto autonomia di crescita. Come avrebbe autorevolmente affermato san Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Centesimus annus del 1991, «non si tratta, infatti, solo di dare il superfluo, ma di aiutare interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, ad entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano». A Cuenca giunge il volto di una Chiesa capace di inserire l’insegnamento evangelico in un modello esperienziale: l’insegnamento della scrittura e delle attività lavorative fondamentali (agricoltura, allevamento e tessitura) è il canale di accesso per far conoscere Gesù a tutti. In perfetta aderenza all’insegnamento di san Giovanni Bosco, il Servo di Dio applica il “sistema preventivo”, offrendo soprattutto ai giovani una sorta di “grazia preventiva”, un anticipo di fiducia per donare possibilità di cambiamento, di conversione, di crescita. Guardando a don Bosco, sa armonizzare pedagogia e teologia, animando i giovani con giochi, pellicole, attività teatrali, feste e non da ultimo il catechismo. Per padre Carlo è già possibile intravedere dei futuri buoni padri di famiglia. La sua spiritualità squisitamente eucaristico-mariana lo guida in altre imprese eccezionali, come l’organizzazione del Primo Congresso Eucaristico Diocesano a Cuenca nel 1938, per celebrare il cinquantenario della morte di san Giovanni Bosco. In virtù della propria devozione al Santissimo Sacramento, in quegli anni Cuenca si conferma nuovamente Città Eucaristica. Immerso nelle fatiche apostoliche e negli affari ufficiali padre Carlo però non dimentica mai i suoi poveri. Generazioni di cuencani trovano in lui un cuore generoso, capace di accoglienza e di paternità. In una mano tiene una campanella per “risvegliare” con un colpetto sulla testa qualche giovane bisognoso di correzione; nell’altra stringe cibo e denaro da donare ai suoi poveri. L’abito talare vecchio e stinto, le scarpe consunte, l’alimentazione frugale, la dedizione speciale per i bambini e i poveri non passano inosservati agli occhi dei cuencani. Padre Crespi è povero tra i poveri. La gente lo accoglie come cuencano d’elezione e inizia a chiamarlo «san Carlo Crespi». Le autorità civili, conquistate dall’operato di padre Crespi, rispondono con numerose onorificenze: viene dichiarato “abitante più illustre di Cuenca nel XX secolo”. Riceve il dottorato Honoris Causa post mortem da parte dell’Università Politecnica Salesiana.

Mosso dalla speranza
Nel 1962, un incendio probabilmente di natura dolosa, distrugge l’Istituto “Cornelio Merchàn”, frutto del duro lavoro di molti anni. La certezza di padre Carlo Crespi che Maria Ausiliatrice lo aiuterà anche questa volta diventa contagiosa: gli abitanti di Cuenca riprendono fiducia e partecipano senza esitazione alla ricostruzione. Racconterà a distanza di anni un testimone: «il giorno dopo (l’incendio) padre Crespi fu visto con la sua campanella e il suo grande piattino raccogliere i contributi della città».
Ormai anziano e stanco è ancora nel santuario di Maria Ausiliatrice a divulgare con lo stesso entusiasmo di un tempo la devozione alla Vergine. Confessa e consiglia file interminabili di fedeli. Se si tratta di prestare loro ascolto, gli orari, i pasti e perfino il sonno non contano più. Non è infrequente nemmeno che padre Carlo si alzi nel cuore della notte per confessare un malato o un moribondo. La gente non ha dubbi: lui solo guarda il prossimo con gli occhi di Dio. Sa riconoscere il peccato e la debolezza, senza mai rimanerne scandalizzato o schiacciato. Non si fa giudice, ma comprende, rispetta, ama. Il suo confessionale diventa per i cuencani il luogo dove, riprendendo le parole di Papa Francesco, padre Carlo allevia le ferite dell’umanità «con l’olio della consolazione» e provvede «a fasciarle con la misericordia» (Misericordiae vultus, 2015). E mentre cura, viene a sua volta guarito dall’esperienza della misericordia accolta. Il programma preannunciato in gioventù con il “sogno rivelatore” dalla Vergine Maria ha finalmente trovato pieno compimento. Il 30 aprile 1982, all’età di 90 anni, padre Carlo Crespi, nel silenzio e nel nascondimento della Clinica Santa Inés di Cuenca, tiene il rosario tra le mani come sua madre gli aveva insegnato. È tempo di chiudere gli occhi a questo mondo per aprirli sull’eternità. Un fiume di persone commosse e addolorate partecipa alle esequie. Certi che a morire sia stato un santo, in molti si accalcano per toccare un’ultima volta il suo corpo con qualche oggetto; sperano di ricevere ancora la protezione di quel padre che li ha appena lasciati. Anche il suo confessionale viene preso d’assalto per conservarne qualche piccola parte.

Si chiude così la vita terrena di un uomo che, pur consapevole della vita notevolmente agiata che avrebbe potuto condurre in casa propria, accolse la chiamata salesiana e, come vero imitatore di don Bosco, si fece testimone di una Chiesa che esorta ad «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Papa Francesco, Evangelii gaudium, 2013). La vita di padre Carlo Crespi racconta ai cristiani di ieri e di oggi come la preghiera può e deve essere inserita nel concreto dell’azione quotidiana, incentivandola ed ispirandola. Egli, rimanendo totalmente salesiano e totalmente mariano, è testimone credibile di uno «stile evangelizzatore capace di incidere nella vita» (Papa Francesco, Discorso all’Azione Cattolica Italiana, 3 maggio 2014). Ad oggi la sua tomba e il suo monumento continuano ad essere perennemente abbelliti con fiori freschi e targhe di ringraziamento. Mentre la fama di santità di questo figlio illustre di Cuenca non accenna a diminuire, l’avvenuta stesura della Positio super virtutibus segna un importante passaggio per quel che riguarda la Causa di beatificazione. Non resta che attendere con fiducia il sapiente giudizio della Chiesa.

Mariafrancesca Oggianu
Collaboratrice della Postulazione Salesiana