Mons. Giuseppe Malandrino e il Servo di Dio Nino Baglieri

È tornato alla Casa del Padre, lo scorso 3 agosto 2025, nel giorno in cui si celebra la festa della Patrona della Diocesi di Noto, Maria Scala del Paradiso, monsignor Giuseppe Malandrino, IX vescovo della diocesi netina. 94 anni di età, 70 anni di sacerdozio e 45 anni di consacrazione episcopale sono numeri di tutto rispetto per un uomo che ha servito la Chiesa da Pastore con “l’odore delle pecore” come sottolineava spesso Papa Francesco.

Parafulmine dell’umanità
Nell’esperienza di pastore della Diocesi di Noto (19.06.1998 – 15.07.2007) ha avuto modo di coltivare l’amicizia con il Servo di Dio Nino Baglieri. Non mancava quasi mai una “sosta” a casa di Nino quando i motivi pastorali lo portavano a Modica. In una sua testimonianza mons. Malandrino dice: “…trovandomi al capezzale di Nino, avevo la percezione viva che questo nostro amato fratello infermo fosse veramente “parafulmine dell’umanità”, secondo una concezione dei sofferenti a me tanto cara e che ho voluto proporre anche nella Lettera Pastorale sulla missione permanente Mi sarete testimoni” (2003). Scrive mons. Malandrino: “È necessario riconoscere nei malati e sofferenti il volto di Cristo sofferente e assisterli con la stessa premura e con lo stesso amore di Gesù nella sua passione, vissuta in spirito di ubbidienza al Padre e di solidarietà ai fratelli”. Ciò è stato, pienamente incarnato dalla carissima mamma di Nino, la signora Peppina. Lei tipica donna siciliana, con un carattere forte e tanta determinazione, risponde al medico che gli propone l’eutanasia per suo figlio (viste le gravi condizioni di salute e la prospettiva di una vita da paralitico): “se il Signore lo vuole lo prende, ma se me lo lascia così sono contenta di accudirlo per tutta la vita”. La mamma di Nino, in quel momento era consapevole di quello a cui andava incontro? Maria, la madre di Gesù era consapevole di quanto dolore avrebbe dovuto soffrire, per il Figlio di Dio? La risposta, a leggerla con gli occhi umani, sembra non facile, soprattutto nella nostra società del XXI secolo dove tutto è labile, fluttuante, si consuma in un “istante”. Il Fiat di mamma Peppina divenne, come quello di Maria, un Sì di Fede e di adesione a quella volontà di Dio che trova compimento nel saper portate la Croce, nel saper dare “anima e corpo” alla realizzazione del Piano di Dio.

Dalla sofferenza alla gioia
Il rapporto di amicizia tra Nino e mons. Malandrino era già avviato quando quest’ultimo era ancora vescovo di Acireale, infatti già nel lontano 1993, per il tramite di Padre Attilio Balbinot, un camilliano molto vicino a Nino, lo omaggia del suo primo libro: “Dalla sofferenza alla gioia”. Nell’esperienza di Nino il rapporto con il Vescovo della sua diocesi era un rapporto di filiazione totale. Sin dal momento della sua accettazione del Piano di Dio su di lui, egli faceva sentire la propria presenza “attiva” offrendo le sofferenze per la Chiesa, il Papa e i Vescovi (nonché i sacerdoti e i missionari). Questo rapporto di filiazione veniva annualmente rinnovato in occasione del 6 maggio, giorno della caduta visto poi come inizio misterioso d’una rinascita. L’8 maggio 2004, pochi giorni dopo aver festeggiato Nino il 36.mo anniversario di Croce, mons. Malandrino si reca a casa sua. Egli in ricordo di quell’incontro scrive nelle sue memorie: “è sempre una grande gioia ogni volta che la vedo e ricevo tanta carica e forza per portare la mia Croce e offrila con tanto Amore per i bisogni della Santa Chiesa e in particolare per il mio Vescovo e per la nostra Diocesi, il Signore gli dia sempre più santità per guidarci per tanti anni sempre con più ardore e amore…”. Ancora: “… la Croce è pesante ma il Signore mi dona tante Grazie che rendono la sofferenza meno amara e diventa leggera e soave, la Croce si fa Dono, offerta al Signore con tanto Amore per la salvezza delle anime e la Conversione dei Peccatori…”. Infine, è da sottolineare come, in queste occasioni di grazia, non mancasse mai la pressante e costante richiesta di “aiuto a farsi Santo con la Croce di ogni giorno”. Nino, infatti, vuole assolutamente farsi santo.

Una beatificazione anticipata
Momento di grande rilevanza hanno rappresentato, in tal senso, le esequie del Servo di Dio il 3 marzo 2007, quando proprio mons. Malandrino, all’inizio della Celebrazione Eucaristica, con devozione si china, anche se con difficoltà, a baciare la bara che conteneva le spoglie mortali di Nino. Era un ossequio a un uomo che aveva vissuto 39 anni della sua esistenza in un corpo che “non sentiva” ma che sprigionava gioia di vivere a 360 gradi. Mons. Malandrino sottolineò che la celebrazione della Messa, nel cortile dei Salesiani divenuto per l’occasione “cattedrale” a cielo aperto, era stata un’autentica apoteosi (hanno partecipato migliaia di persone in lacrime) e si percepiva chiaramente e comunitariamente di trovarsi dinanzi non a un funerale, ma a una vera “beatificazione”. Nino, con la sua testimonianza di vita, era infatti diventato un punto di riferimento per tanti, giovani o meno giovani, laici o consacrati, madri o padri di famiglia, che grazie alla sua preziosa testimonianza riuscivano a leggere la propria esistenza e trovare risposte che non riuscivano a trovare altrove. Anche mons. Malandrino ha più volte sottolineato questo aspetto: «in effetti, ogni incontro con il carissimo Nino è stato per me, come per tutti, una forte e viva esperienza di edificazione e un potente – nella sua dolcezza – sprone alla paziente e generosa donazione. La presenza del Vescovo conferiva a lui ogni volta immensa gioia perché, oltre l’affetto dell’amico che veniva a visitarlo, vi percepiva la comunione ecclesiale. È ovvio che quanto ricevevo da lui era sempre molto di più quel poco che potevo donargli». Il “chiodo” fisso di Nino, era “farsi santo”: l’aver vissuto e incarnato appieno l’evangelo della Gioia nella Sofferenza, con i suoi patimenti fisici e il suo dono totale per l’amata Chiesa, hanno fatto sì che tutto non finisse con la sua dipartita verso la Gerusalemme del Cielo, ma continuasse ancora, come sottolineò mons. Malandrino alle esequie: “… la missione di Nino continua ora anche attraverso i suoi scritti, Egli stesso lo aveva preannunciato nel suo Testamento spirituale”: “… i miei scritti continueranno la mia testimonianza, continuerò a dare Gioia a tutti e a parlare del Grande Amore di Dio e delle Meraviglie che ha fatto nella mia vita”. Questo ancora si sta avverando perché non può stare nascosta “una città posta sopra un monte e non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5,14-16). Metaforicamente si vuole sottolineare che la “luce” (intesa in senso lato) deve essere visibile, prima o poi: ciò che è importante verrà alla luce e sarà riconosciuto.
Riandare in questi giorni – segnati dalla morte di mons. Malandrino, dai suoi funerali ad Acireale (5 agosto, Madonna della Neve) e a Noto (7 agosto) con tumulazione a seguire nella cattedrale di cui egli stesso volle fortemente la ristrutturazione dopo il crollo del 13 marzo1996 e che fu riaperta nel marzo 2007 (mese in cui Nino Baglieri morì) – significa ripercorrere questo legame tra due grandi figure della Chiesa netina, fortemente intrecciate ed entrambe capaci di lasciare in essa un segno che non passa.

Roberto Chiaramonte




Santa Monica, madre di Sant’Agostino, testimone di speranza

Una donna dalla fede incrollabile, dalle lacrime feconde, esaudita da Dio dopo diciassette lunghi anni. Un modello di cristiana, sposa e madre per tutta la Chiesa. Una testimone di speranza che si è trasformata in potente intercessora nel Cielo. Lo stesso don Bosco raccomandava alle madri, afflitte per la vita poco cristiana dei loro figli, di affidarsi a lei nelle preghiere.

Nella grande galleria dei santi e delle sante che hanno segnato la storia della Chiesa, Santa Monica (331-387) occupa un posto singolare. Non per miracoli spettacolari, non per la fondazione di comunità religiose, non per imprese sociali o politiche di rilievo. Monica è ricordata e venerata anzitutto come madre, la madre di Agostino, il giovane inquieto che grazie alle sue preghiere, alle sue lacrime e alla sua testimonianza di fede divenne uno dei più grandi Padri della Chiesa e Dottori della fede cattolica.
Ma limitare la sua figura al ruolo materno sarebbe ingiusto e riduttivo. Monica è una donna che seppe vivere la sua vita ordinaria — moglie, madre, credente — in modo straordinario, trasfigurando la quotidianità attraverso la forza della fede. È un esempio di perseveranza nella preghiera, di pazienza nel matrimonio, di speranza incrollabile di fronte alle deviazioni del figlio.
Le notizie sulla sua vita ci giungono quasi esclusivamente dalle Confessioni di Agostino, un testo che non è una cronaca, ma una lettura teologica e spirituale dell’esistenza. Eppure, in quelle pagine Agostino traccia un ritratto indimenticabile della madre: non solo una donna buona e pia, ma un autentico modello di fede cristiana, una “madre delle lacrime” che diventano sorgente di grazia.

Le origini a Tagaste
Monica nacque nel 331 a Tagaste, città della Numidia, Souk Ahras nell’attuale Algeria. Era un centro vivace, segnato dalla presenza romana e da una comunità cristiana già radicata. Proveniva da una famiglia cristiana agiata: la fede era già parte del suo orizzonte culturale e spirituale.
La sua formazione fu segnata dall’influenza di una nutrice austera, che la educò alla sobrietà e alla temperanza. San Agostino scriverà di lei: “Non discorrerò per questo di doni suoi, ma di doni tuoi a lei, che non si era fatta da sé sola, né da sé sola educata. Tu la creasti senza che neppure il padre e la madre sapessero quale figlia avrebbero avuto; e l’ammaestrò nel tuo timore la verga del tuo Cristo, ossia la disciplina del tuo Unigenito, in una casa di credenti, membro sano della tua Chiesa.” (Confessioni IX, 8, 17).

Nelle stesse Confessioni Agostino racconta anche un episodio significativo: la giovane Monica aveva preso l’abitudine di bere piccoli sorsi di vino dalla cantina, finché una serva la rimproverò chiamandola “ubriacona”. Quel rimprovero le basto per correggersi definitivamente. Questo aneddoto, apparentemente minore, mostra la sua onestà di riconoscere i propri peccati, di lasciarsi correggere e di crescere in virtù.

A età di 23 anni Monica fu data in sposa a Patrizio, un funzionario municipale pagano, noto per il suo carattere collerico e la sua infedeltà coniugale. La vita matrimoniale non fu facile: la convivenza con un uomo impulsivo e distante dalla fede cristiana mise a dura prova la sua pazienza.
Eppure, Monica non cadde mai nello scoraggiamento. Con un atteggiamento fatto di mitezza e rispetto, seppe conquistare progressivamente il cuore del marito. Non rispondeva con durezza agli scatti d’ira, non alimentava conflitti inutili. Con il tempo, la sua costanza ottenne frutto: Patrizio si convertì e ricevette il battesimo poco prima di morire.
La testimonianza di Monica mostra come la santità non si esprima necessariamente in gesti clamorosi, ma nella fedeltà quotidiana, nell’amore che sa trasformare lentamente le situazioni difficili. In questo senso, è un modello per tante spose e madri che vivono matrimoni segnati da tensioni o differenze di fede.

Monica madre
Dal matrimonio nacquero tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui non conosciamo il nome. Monica riversò su di loro tutto il suo amore, ma soprattutto la sua fede. Navigio e la figlia seguirono un cammino cristiano lineare: Navigio divenne sacerdote; la figlia intraprese la via della verginità consacrata. Agostino invece divenne presto il centro delle sue preoccupazioni e delle sue lacrime.
Già da ragazzo, Agostino mostrava un’intelligenza straordinaria. Monica lo mandò a studiare retorica a Cartagine, desiderosa di assicurargli un futuro brillante. Ma insieme ai progressi intellettuali arrivarono anche le tentazioni: la sensualità, la mondanità, le compagnie sbagliate. Agostino abbracciò la dottrina manichea, convinto di trovarvi risposte razionali al problema del male. Inoltre cominciò a convivere senza sposarsi con una donna dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Le deviazioni del figlio indussero Monica a negargli l’accoglienza nella propria casa. Pero non per questo cesso di pregare per lui e di offrire sacrifici: “dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime”. (Confessioni V, 7,13) e “versava più lacrime di quante ne versino mai le madri alla morte fisica dei figli” (Confessioni III, 11,19).

Per Monica fu una ferita profonda: il figlio, che aveva consacrato a Cristo nel grembo, si stava smarrendo. Il dolore era indicibile, ma non smise mai di sperare. Agostino stesso scriverà: “Il cuore di mia madre, colpito da una tale ferita, non si sarebbe mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.” (Confessioni V, 9,16).

Viene spontanea la domanda: perché Monica non fece battezzare Agostino subito dopo la nascita?
In realtà, benché il battesimo dei bambini fosse già conosciuto e praticato, non era ancora una prassi universale. Molti genitori preferivano rimandarlo all’età adulta, considerandolo un “lavacro definitivo”: temevano che, se il battezzato avesse peccato gravemente, la salvezza sarebbe stata compromessa. Inoltre Patrizio, ancora pagano, non aveva alcun interesse a educare il figlio nella fede cristiana.
Oggi vediamo chiaramente che si trattò di una scelta infelice, poiché il battesimo non solo ci rende figli di Dio, ma ci dona la grazia di vincere le tentazioni e il peccato.
Una cosa però è certa: se fosse stato battezzato da bambino, Monica avrebbe risparmiato a sé e al figlio tante sofferenze.

L’immagine più forte di Monica è quella di una madre che prega e piange. Le Confessioni la descrivono come donna instancabile nell’intercedere presso Dio per il figlio.
Un giorno, un vescovo di Tagaste — secondo alcuni, lo stesso Ambrogio — la rassicurò con parole rimaste celebri: “Va’, non può andare perduto il figlio di tante lacrime”. Quella frase divenne la stella polare di Monica, la conferma che il suo dolore materno non era vano, ma parte di un misterioso disegno di grazia.

Tenacità di una madre
La vita di Monica fu anche un pellegrinaggio sulle orme di Agostino. Quando il figlio decise di partire di nascosto per Roma, Monica non risparmia nessuna fatica; non dà la causa come perduta, ma lo segue e lo cerca fino quando non lo trova. Lo raggiunse a Milano, dove Agostino aveva ottenuto una cattedra di retorica. Qui trovò una guida spirituale in sant’Ambrogio, vescovo della città. Tra Monica e Ambrogio nacque una profonda sintonia: ella riconosceva in lui il pastore capace di guidare il figlio, mentre Ambrogio ammirava la sua fede incrollabile.
A Milano, la predicazione di Ambrogio aprì nuove prospettive ad Agostino. Egli abbandonò progressivamente il manicheismo e iniziò a guardare al cristianesimo con occhi nuovi. Monica accompagnava silenziosamente questo processo: non forzava i tempi, non pretendeva conversioni immediate, ma pregava e sosteneva e li rimane a fianco fino alla sua conversione.

La conversione di Agostino
Dio sembrava non ascoltarla, ma Monica non smise mai di pregare e di offrire sacrifici per il figlio. Dopo diciassette anni, finalmente le sue suppliche furono esaudite — e come! Agostino non solo si fece cristiano, ma divenne sacerdote, vescovo, dottore e padre della Chiesa.
Egli stesso lo riconosce: “Tu però nella profondità dei tuoi disegni esaudisti il punto vitale del suo desiderio, senza curarti dell’oggetto momentaneo della sua richiesta, ma badando a fare di me ciò che sempre ti chiedeva di fare.” (Confessioni V, 8,15).

Il momento decisivo arrivò nel 386. Agostino, tormentato interiormente, lottava contro le passioni e le resistenze della sua volontà. Nel celebre episodio del giardino di Milano, al sentire la voce di un bambino che diceva “Tolle, lege” (“Prendi, leggi”), aprì la Lettera ai Romani e lesse le parole che gli cambiarono la vita: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,14).
Fu l’inizio della sua conversione. Insieme al figlio Adeodato e ad alcuni amici si ritirò a Cassiciaco per prepararsi al battesimo. Monica era con loro, partecipe della gioia di vedere finalmente esaudite le preghiere di tanti anni.
La notte di Pasqua del 387, nella cattedrale di Milano, Ambrogio battezzò Agostino, Adeodato e gli altri catecumeni. Le lacrime di dolore di Monica si trasformarono in lacrime di gioia. Continua a rimanere al suo servizio, tanto che a Cassiciaco Agostino dirà: “Ebbe cura come se di tutti fosse stata madre e ci servì come se di tutti fosse stata figlia.”.

Ostia: l’estasi e la morte
Dopo il battesimo, Monica e Agostino si prepararono a tornare in Africa. Fermatisi a Ostia, in attesa della nave, vissero un momento di intensissima spiritualità. Le Confessioni narrano l’estasi di Ostia: madre e figlio, affacciati a una finestra, contemplarono insieme la bellezza del creato e si elevarono verso Dio, pregustando la beatitudine del cielo.
Monica dirà: “Figlio, quanto a me non trovo ormai più alcuna attrattiva per questa vita. Non so che cosa io stia a fare ancora quaggiù e perché mi trovi qui. Questo mondo non è più oggetto di desideri per me. C’era un solo motivo per cui desideravo rimanere ancora un poco in questa vita: vederti cristiano cattolico, prima di morire. Dio mi ha esaudito oltre ogni mia aspettativa, mi ha concesso di vederti al suo servizio e affrancato dalle aspirazioni di felicità terrene. Che sto a fare qui?” (Confessioni IX, 10,11). Aveva raggiunto la sua meta terrena.
Alcuni giorni dopo Monica si ammalò gravemente. Sentendo vicina la fine, disse ai figli: “Figli miei, seppellirete qui vostra madre: non vi preoccupate di dove. Solo di questo vi prego: ricordatevi di me all’altare del Signore, dovunque sarete”. Era la sintesi della sua vita: non l’importava il luogo della sepoltura, ma il legame nella preghiera e nell’Eucaristia.
Morì a 56 anni, nel 12 novembre del 387, e fu sepolta a Ostia. Nel VI secolo, le sue reliquie furono trasferite in una cripta nascosta nella stessa chiesa di Sant’Aurea. Nel 1425, le reliquie furono traslatate a Roma, nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio, dove ancora oggi sono venerate.

Il profilo spirituale di Monica
Agostino descrive sua madre con parole ben misurate:
“[…] muliebre nell’aspetto, virile nella fede, vegliarda nella pacatezza, materna nell’amore, cristiana nella pietà […]”. (Confessioni IX, 4, 8).
E ancora:
“[…] vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue parole e farti udire le sue orazioni. Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare.” (Confessioni V, 9,17).

Da questa testimonianza agostiniana, emerge una figura di sorprendente attualità.
Fu una donna di preghiera: non smise mai di invocare Dio per la salvezza dei suoi cari. Le sue lacrime diventano modello di intercessione perseverante.
Fu una sposa fedele: in un matrimonio difficile, non rispose mai con risentimento alla durezza del marito. La sua pazienza e la sua mitezza furono strumenti di evangelizzazione.
Fu una madre coraggiosa: non abbandonò il figlio nelle sue deviazioni, ma lo accompagnò con amore tenace, capace di fidarsi dei tempi di Dio.
Fu una testimone di speranza: la sua vita mostra che nessuna situazione è disperata, se vissuta nella fede.
Il messaggio di Monica non appartiene solo al IV secolo. Parla ancora oggi, in un contesto in cui molte famiglie vivono tensioni, figli si allontanano dalla fede, genitori sperimentano la fatica dell’attesa.
Ai genitori, insegna a non arrendersi, a credere che la grazia opera in modi misteriosi.
Alle donne cristiane, mostra come la mitezza e la fedeltà possano trasformare relazioni difficili.
A chiunque si senta scoraggiato nella preghiera, testimonia che Dio ascolta, anche se i tempi non coincidono con i nostri.
Non è un caso che molte associazioni e movimenti abbiano scelto Monica come patrona delle madri cristiane e delle donne che pregano per i figli lontani dalla fede.

Una donna semplice e straordinaria
La vita di santa Monica è la storia di una donna semplice e straordinaria insieme. Semplice perché vissuta nel quotidiano di una famiglia, straordinaria perché trasfigurata dalla fede. Le sue lacrime e le sue preghiere hanno plasmato un santo e, attraverso di lui, hanno inciso profondamente nella storia della Chiesa.
La sua memoria, celebrata il 27 agosto, alla vigilia della festa di sant’Agostino, ci ricorda che la santità passa spesso attraverso la perseveranza nascosta, il sacrificio silenzioso, la speranza che non delude.
Nelle parole di Agostino, rivolte a Dio per la madre, troviamo la sintesi della sua eredità spirituale: “Non posso dire abbastanza di quanto la mia anima sia debitrice a lei, mio Dio; ma tu sai tutto. Ripagale con la tua misericordia quanto ti chiese con tante lacrime per me” (Conf., IX, 13).

Santa Monica attraverso le vicende della sua vita ha raggiunto la felicità eterna che lei stessa ha definito: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”. (La Felicità 4,35).




Diventare un segno di speranza in eSwatini – Lesotho – Sudafrica dopo 130 anni

Nel cuore dell’Africa australe, tra le bellezze naturali e le sfide sociali di eSwatini, Lesotho e Sudafrica, i Salesiani celebrano 130 anni di presenza missionaria. In questo tempo di Giubileo, di Capitolo Generale e di anniversari storici, l’Ispettoria Africa Meridionale condivide i suoi segni di speranza: la fedeltà al carisma di Don Bosco, l’impegno educativo e pastorale tra i giovani e la forza di una comunità internazionale che testimonia fraternità e resilienza. Nonostante le difficoltà, l’entusiasmo dei giovani, la ricchezza delle culture locali e la spiritualità dell’Ubuntu continuano a indicare strade di futuro e di comunione.

Saluti fraterni dai Salesiani della più piccola Visitatoria e della più antica presenza nella Regione Africa-Madagascar (dal 1896, i primi 5 confratelli furono inviati da Don Rua). Quest’anno ringraziamo i 130 SDB che hanno lavorato nei nostri 3 Paesi e che ora intercedono per noi dal cielo. “Piccolo è bello”!

Nel territorio dell’AFM vivono 65 milioni di persone che comunicano in 12 lingue ufficiali, tra tante meraviglie della natura e grandi risorse del sottosuolo. Siamo tra i pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana in cui i cattolici sono una piccola minoranza rispetto alle altre Chiese cristiane, con soli 5 milioni di fedeli.

Quali sono i segni di speranza che i nostri giovani e la società stanno cercando?
In primo luogo, stiamo cercando di superare i famigerati record mondiali del crescente divario tra ricchi e poveri (100.000 milionari contro 15 milioni di giovani disoccupati), della mancanza di sicurezza e della crescente violenza nella vita quotidiana, del collasso del sistema educativo, che ha prodotto una nuova generazione di milioni di analfabeti, alle prese con diverse dipendenze (alcool, droga…). Inoltre, a 30 anni dalla fine del regime di apartheid nel 1994, la società e la Chiesa sono ancora divise tra le varie comunità in termini di economia, opportunità e molte ferite non ancora rimarginate. In effetti, la comunità del “Paese dell’Arcobaleno” sta lottando con molte “lacune” che possono essere “riempite” solo con i valori del Vangelo.

Quali sono i segni di speranza che la Chiesa cattolica in Sudafrica sta cercando?
Partecipando all’incontro triennale “Joint Witness” dei superiori religiosi e dei vescovi nel 2024, ci siamo resi conto di molti segni di declino: meno fedeli, mancanza di vocazioni sacerdotali e religiose, invecchiamento e diminuzione del numero di religiosi, alcune diocesi in bancarotta, continua perdita/diminuzione di istituzioni cattoliche (assistenza medica, istruzione, opere sociali o media) a causa del forte calo di religiosi e laici impegnati. La Conferenza episcopale cattolica (SACBC – che comprende Botswana, eSwatini e Sudafrica) indica come priorità l’assistenza ai giovani dipendenti dall’alcool e da altre sostanze varie.

Quali sono i segni di speranza che i salesiani dell’Africa meridionale stanno cercando?
Preghiamo ogni giorno per nuove vocazioni salesiane, per poter accogliere nuovi missionari. È infatti finita l’epoca dell’Ispettoria anglo-irlandese (fino al 1988) e il Progetto Africa non comprendeva la punta meridionale del continente. Dopo 70 anni in eSwatini (Swaziland) e 45 anni in Lesotho, abbiamo solo 4 vocazioni locali da ciascun Regno. Oggi abbiamo solo 5 giovani confratelli e 4 novizi in formazione iniziale. Tuttavia, la Visitatoria più piccola dell’Africa-Madagascar, attraverso le sue 7 comunità locali, è incaricata dell’educazione e della cura pastorale in 6 grandi parrocchie, 18 scuole primarie e secondarie, 3 centri di formazione professionale (TVET) e diversi programmi di assistenza sociale. La nostra comunità ispettoriale, con 18 nazionalità diverse tra i 35 SDB che vivono nelle 7 comunità, è un grande dono e una sfida da accogliere.

Come comunità cattolica minoritaria e fragile dell’Africa australe
Crediamo che l’unica strada per il futuro sia quella di costruire più ponti e comunione tra i religiosi e le diocesi: più siamo deboli più ci sforziamo di lavorare insieme. Poiché tutta la Chiesa cattolica cerca di puntare sui giovani, Don Bosco è stato scelto dai vescovi come Patrono della Pastorale Giovanile e la sua Novena viene celebrata con fervore nella maggior parte delle diocesi e delle parrocchie all’inizio dell’anno pastorale.

Come Salesiani e Famiglia Salesiana, ci incoraggiamo costantemente a vicenda: “work in progress” (un lavoro costante)
Negli ultimi due anni, dopo l’invito del Rettor Maggiore, abbiamo cercato di rilanciare il nostro carisma salesiano, con la saggezza di una visione e direzione comune (a partire dall’assemblea annuale ispettoriale), con una serie di piccoli e semplici passi quotidiani nella giusta direzione e con la saggezza della conversione personale e comunitaria.

Siamo grati per l’incoraggiamento di don Pascual Chávez per il nostro recente Capitolo Ispettoriale del 2024: «Sapete bene che è più difficile, ma non impossibile, “rifondare” che fondare [il carisma], perché ci sono abitudini, atteggiamenti o comportamenti che non corrispondono allo spirito del nostro Santo Fondatore, don Bosco, e al suo Progetto di Vita, e hanno “diritto di cittadinanza” [nell’Ispettoria]. C’è davvero bisogno di una vera conversione di ogni confratello a Dio, tenendo il Vangelo come suprema regola di vita, e di tutta l’Ispettoria a Don Bosco, assumendo le Costituzioni come vero progetto di vita».

È stato votato il consiglio di don Pascual e l’impegno: “Diventare più appassionati di Gesù e dedicati ai giovani”, investendo nella conversione personale (creando uno spazio sacro nella nostra vita, per lasciare che Gesù la trasformi), nella conversione comunitaria (investendo nella formazione permanente sistematica mensile secondo un tema) e nella conversione ispettoriale (promuovendo la mentalità ispettoriale attraverso “One Heart One Soul” – frutto della nostra assemblea ispettoriale) e con incontri mensili online dei direttori.

Sull’immaginetta-ricordo della nostra Visitatoria del Beato Michele Rua, accanto ai volti di tutti i 46 confratelli e 4 novizi (35 vivono nelle nostre 7 comunità, 7 sono in formazione all’estero e 5 SDB sono in attesa del visto, con uno a San Callisto-catacombe e un missionario che sta facendo chemioterapia in Polonia). Siamo anche benedetti da un numero crescente di confratelli missionari che vengono inviati dal Rettor Maggiore o per un periodo specifico da altre Ispettorie africane per aiutarci (AFC, ACC, ANN, ATE, MDG e ZMB). Siamo molto grati a ciascuno di questi giovani confratelli. Crediamo che, con il loro aiuto, la nostra speranza di rilancio carismatico stia diventando tangibile. La nostra Visitatoria – la più piccola dell’Africa-Madagascar, dopo quasi 40 anni dalla fondazione, non ha ancora una vera e propria casa ispettoriale. La costruzione è iniziata, con l’aiuto del Rettor Maggiore, solo l’anno scorso. Anche qui diciamo: “lavori in corso”…

Vogliamo condividere anche i nostri umili segni di speranza con tutte le altre 92 Ispettorie in questo prezioso periodo del Capitolo Generale. L’AFM ha un’esperienza unica di 31 anni di volontari missionari locali (coinvolti nella Pastorale Giovanile del Centro Giovanile Bosco di Johannesburg dal 1994), il programma “Love Matters” per una sana crescita sessuale degli adolescenti dal 2001. I nostri volontari, infatti, coinvolti per un anno intero nella vita della nostra comunità, sono membri più preziosi della nostra Missione e dei nuovi gruppi della Famiglia Salesiana che stanno lentamente crescendo (VDB, Salesiani Cooperatori e Ex-allievi di Don Bosco).

La nostra casa madre di Città del Capo celebrerà già l’anno prossimo il suo cento trentesimo (130°) anniversario e, grazie al cento cinquantesimo (150°) anniversario delle Missioni Salesiane, abbiamo realizzato, con l’aiuto dell’Ispettoria della Cina, una speciale “Stanza della Memoria di San Luigi Versiglia”, dove il nostro Protomartire trascorse un giorno durante il suo ritorno dall’Italia in Cina-Macao nel maggio 1917.

Don Bosco ‘Ubuntu’ – cammino sinodale
 “Siamo qui grazie a voi!” – Ubuntu è uno dei contributi delle culture dell’Africa meridionale alla comunità globale. La parola in lingua Nguni significa “Io sono perché voi siete” (“I’m because you are!”. Altre possibili traduzioni: “Ci sono perché ci siete voi”). L’anno scorso abbiamo intrapreso il progetto “Eco Ubuntu” (progetto di sensibilizzazione ambientale della durata di 3 anni) che coinvolge circa 15.000 giovani delle nostre 7 comunità in eSwatini, Lesotho e Sudafrica. Oltre alla splendida celebrazione e alla condivisione del Sinodo dei Giovani 2024, i nostri 300 giovani [che hanno partecipato] conservano soprattutto Ubuntu nei loro ricordi. Il loro entusiasmo è una fonte di ispirazione. L’AFM ha bisogno di voi: Ci siamo grazie a voi!

Marco Fulgaro




Don José-Luis Carreño, missionario salesiano

Don José Luis Carreño (1905-1986) è stato descritto dallo storico Joseph Thekkedath come “il salesiano più amato dell’India del Sud” nella prima parte del ventesimo secolo. In ogni luogo in cui ha vissuto – sia in India britannica, nella colonia portoghese di Goa, nelle Filippine o in Spagna – troviamo salesiani che custodiscono con affetto la sua memoria. Stranamente, però, non disponiamo ancora di una biografia adeguata di questo grande salesiano, eccetto la corposa lettera mortuaria redatta da don José Antonio Rico: “José Luis Carreño Etxeandía, obrero de Dios”. Speriamo che presto si possa colmare questa lacuna. Don Carreño è stato uno degli artefici della regione dell’Asia Sud, e non possiamo permetterci di dimenticarlo.

            José-Luis Carreño Etxeandía nacque a Bilbao, in Spagna, il 23 ottobre 1905. Rimasto orfano di madre alla tenera età di otto anni, fu accolto nella casa salesiana di Santander. Nel 1917, all’età di dodici anni, entrò nell’aspirantato di Campello. Ricorda che a quei tempi “non si parlava molto di Don Bosco… Ma per noi un Don Binelli era un Don Bosco, per non parlare di Don Rinaldi, allora Prefetto Generale, le cui visite ci lasciavano una sensazione soprannaturale, come quando i messaggeri di Yahweh visitarono la tenda di Abramo”.
            Dopo il noviziato e postnoviziato, svolse il tirocinio come assistente dei novizi. Doveva essere un chierico brillante, perché di lui scrive don Pedro Escursell al Rettor Maggiore: “Sto parlando proprio in questo momento con uno dei chierici modello di questa casa. È un assistente nella formazione del personale di questa Ispettoria; mi dice che da tempo chiede di essere mandato nelle missioni e dice che ha rinunciato a chiederlo perché non riceve risposta. È un giovane di grande valore intellettuale e morale.”
            Alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, nel 1932, il giovane José-Luis scrisse direttamente al Rettor Maggiore, offrendosi per le missioni. L’offerta fu accettata, e fu inviato in India, dove sbarcò a Mumbai nel 1933. Appena un anno dopo, quando fu eretta l’Ispettoria dell’India del Sud, fu nominato maestro dei novizi a Tirupattur: aveva appena 28 anni. Con le sue straordinarie qualità di mente e di cuore, divenne rapidamente l’anima della casa e lasciò una profonda impressione nei suoi novizi. “Ci conquistò con il suo cuore paterno”, scrive uno di loro, l’arcivescovo Hubert D’Rosario di Shillong.
            Don Joseph Vaz, un altro novizio, raccontava spesso come Carreño si fosse accorto che lui tremava di freddo durante una conferenza. “Aspetta un momento, hombre,” disse il maestro dei novizi, e uscì. Poco dopo rientrò con un maglione blu che consegnò a Joe. Joe notò che il maglione era stranamente caldo. Poi si ricordò che sotto la talare il suo maestro indossava qualcosa di blu… che adesso non c’era più. Carreño gli aveva dato il suo stesso maglione.
            Nel 1942, quando il governo britannico in India internò tutti gli stranieri provenienti da paesi in guerra con la Gran Bretagna, Carreño, essendo cittadino di un paese neutrale, non fu disturbato. Nel 1943 ricevette un messaggio tramite la Radio Vaticana: doveva prendere il posto di don Eligio Cinato, ispettore dell’ispettoria dell’India del Sud, anche egli internato. Nello stesso periodo, arcivescovo salesiano Louis Mathias di Madras-Mylapore lo invitò a essere suo vicario generale.
            Nel 1945 fu ufficialmente nominato ispettore, incarico che ricoprì dal 1945 al 1951. Uno dei suoi primissimi atti fu consacrare l’Ispettoria al Sacro Cuore di Gesù. Molti salesiani erano convinti che la straordinaria crescita dell’Ispettoria del Sud fosse dovuta proprio a questo gesto. Sotto la guida di don Carreño, le opere salesiane raddoppiarono. Uno dei suoi atti più lungimiranti fu l’avvio di un college universitario nel remoto e povero villaggio di Tirupattur. Il Sacred Heart College avrebbe finito per trasformare l’intero distretto.
            Fu anche Carreño l’artefice principale della “indianizzazione” del volto salesiano in India, cercando fin da subito vocazioni locali, invece di fare affidamento esclusivo sui missionari stranieri. Una scelta che si rivelò provvidenziale: prima, perché il flusso di missionari stranieri cessò, si interruppe durante la Guerra; poi, perché l’India indipendente decise di non concedere più visti a nuovi missionari stranieri. “Se oggi i salesiani in India sono più di duemila, il merito di questa crescita va attribuito alle politiche avviate da don Carreño,” scrive don Thekkedath nella sua storia dei salesiani in India.
            Don Carreño, come abbiamo detto, non era solo ispettore, ma anche vicario di mons. Mathias. Questi due grandi uomini, che si stimavano profondamente, erano però molto diversi per temperamento. L’arcivescovo era fautore di misure disciplinari severe nei confronti dei confratelli in difficoltà, mentre don Carreño preferiva procedimenti più miti. Il visitatore straordinario, don Albino Fedrigotti, sembra aver dato ragione all’arcivescovo, definendo don Carreño “un eccellente religioso, un uomo dal cuore grande”, ma anche “un po’ troppo poeta”.
            Non mancò neppure l’accusa di essere un cattivo amministratore, ma è significativo che una figura come don Aurelio Maschio, grande procuratore e architetto delle opere salesiane di Mumbai, abbia respinto con decisione tale accusa. In realtà, don Carreño era un innovatore e un visionario. Alcune delle sue idee – come quella di coinvolgere volontari non salesiani per un servizio di qualche anno – erano, all’epoca, guardate con sospetto, ma oggi sono largamente accettate e attivamente promosse.
            Nel 1951, al termine del suo mandato ufficiale come ispettore, a Carreño fu chiesto di rientrare in Spagna per occuparsi dei Salesiani Cooperatori. Non era questo il vero motivo della sua partenza, dopo diciotto anni in India, ma Carreno accettò con serenità, anche se non senza dolore.
            Nel 1952 gli fu invece chiesto di andare a Goa, dove rimase fino al 1960. “Goa fu amore a prima vista,” scrisse in Urdimbre en el telar. Goa, da parte sua, lo accolse nel cuore. Proseguì la tradizione dei salesiani che prestavano servizio come direttori spirituali e confessori del clero diocesano, e fu persino patrono dell’associazione degli scrittori in lingua konkani. Soprattutto, governò la comunità di Don Bosco Panjim con amore, si prese cura con straordinaria paternità dei tanti ragazzi poveri e, ancora una volta, si dedicò attivamente alla ricerca di vocazioni alla vita salesiana. I primi salesiani di Goa – persone come Thomas Fernandes, Elias Diaz e Romulo Noronha – raccontavano con le lacrime agli occhi come Carreño e altri passassero dal Goa Medical College, proprio accanto alla casa salesiana, per donare il sangue e così ottenere qualche rupia con cui comprare viveri e altri beni per i ragazzi.
            Nel 1961 ebbero luogo l’azione militare indiana e l’annessione di Goa. In quel momento don Carreño si trovava in Spagna e non poté più fare ritorno all’amata terra. Nel 1962 fu inviato nelle Filippine come maestro dei novizi. Accompagnò solo tre gruppi di novizi, perché nel 1965 chiese di rientrare in Spagna. All’origine della sua decisione vi era una seria divergenza di visione tra lui e i missionari salesiani provenienti dalla Cina, e specialmente con don Carlo Braga, superiore della visitatoria. Carreño si oppose con forza alla politica di inviare i giovani Salesiani filippini appena professi a Hong Kong per gli studi di filosofia. Come accadde, alla fine i superiori accettarono la proposta di trattenere i giovani salesiani nelle Filippine, ma a quel punto la richiesta di Carreño di rientrare in patria era già stata accolta.

            Don Carreño trascorse solo quattro anni nelle Filippine, ma anche qui, come in India, lasciò un’impronta indelebile, “un contributo incommensurabile e cruciale alla presenza salesiana nelle Filippine”, secondo le parole dello storico salesiano Nestor Impelido.
            Rientrato in Spagna, ha collaborato con le Procure Missionarie di Madrid e di New Rochelle, e all’animazione delle ispettorie iberiche. Molti in Spagna ricordano ancora il vecchio missionario che visitava le case salesiane, contagiando i giovani con il suo entusiasmo missionario, le sue canzoni e la sua musica.
            Ma nella sua fantasia creativa stava prendendo forma un nuovo progetto. Carreño si dedicò con tutto il cuore al sogno di fondare un Pueblo Misionero con due obiettivi: preparare giovani missionari – per lo più provenienti dall’Europa dell’Est – per l’America Latina; e offrire un rifugio per missionari “pensionati” come lui, i quali avrebbero potuto servire anche come formatori. Dopo una lunga e sofferta corrispondenza con i superiori, il progetto prese finalmente forma nell’Hogar del Misionero ad Alzuza, a pochi chilometri da Pamplona. La componente vocazionale missionaria non decollò mai, e furono pochissimi i missionari anziani che si unirono effettivamente a Carreño. Il suo principale apostolato in questi ultimi anni rimase quello della penna. Lasciò più di trenta libri, tra i quali cinque dedicati alla Santa Sindone, alla quale era particolarmente devoto.
            Don José-Luis Carreño morì nel 1986 a Pamplona, all’età di 81 anni. Nonostante gli alti e bassi della sua vita, questo grande amante del Sacro Cuore di Gesù poté affermare, nel giubileo d’oro della sua ordinazione sacerdotale: “Se cinquant’anni fa il mio motto da giovane prete era ‘Cristo è tutto’, oggi, vecchio e sopraffatto dal suo amore, lo scriverei in lettere d’oro, perché in realtà CRISTO È TUTTO”.

don Ivo COELHO, sdb




Casa Salesiana di Castel Gandolfo

Tra le colline verdi dei Castelli Romani e le acque tranquille del Lago Albano, sorge un luogo dove storia, natura e spiritualità si incontrano in modo singolare: Castel Gandolfo. In questo contesto ricco di memoria imperiale, fede cristiana e bellezza paesaggistica, la presenza salesiana rappresenta un punto fermo di accoglienza, formazione e vita pastorale. La Casa Salesiana, con la sua attività parrocchiale, educativa e culturale, continua la missione di san Giovanni Bosco, offrendo ai fedeli e ai visitatori un’esperienza di Chiesa viva e aperta, immersa in un ambiente che invita alla contemplazione e alla fraternità. È una comunità che, da quasi un secolo, cammina al servizio del Vangelo nel cuore stesso della tradizione cattolica.

Un luogo benedetto dalla storia e dalla natura
Castel Gandolfo è un gioiello dei Castelli Romani, situato a circa 25 km da Roma, immerso nella bellezza naturale dei Colli Albani e affacciato sul suggestivo Lago Albano. A circa 426 metri di altitudine, questo luogo si distingue per il suo clima mite e accogliente, un microclima che sembra preparato dalla Provvidenza per accogliere chi cerca ristoro, bellezza e silenzio.

Già in epoca romana questo territorio era parte dell’Albanum Caesaris, un’antica tenuta imperiale frequentata dagli imperatori sin dai tempi di Augusto. Fu però l’imperatore Tiberio il primo a risiedervi stabilmente, mentre più tardi Domiziano vi fece costruire una splendida villa, i cui resti sono oggi visibili nei giardini pontifici. La storia cristiana del luogo ha inizio con la donazione di Costantino alla Chiesa di Albano: un gesto che segna simbolicamente il passaggio dalla gloria imperiale alla luce del Vangelo.

Il nome Castel Gandolfo deriva dal latino Castrum Gandulphi, il castello costruito dalla famiglia Gandolfi nel XII secolo. Quando nel 1596 il castello passò alla Santa Sede, diventò residenza estiva dei Pontefici, e il legame tra questo luogo e il ministero del Successore di Pietro si fece profondo e duraturo.

La Specola Vaticana: contemplare il cielo, lodare il Creatore
Di particolare rilievo spirituale è la Specola Vaticana, fondata da papa Leone XIII nel 1891 e trasferita negli anni ’30 a Castel Gandolfo a causa dell’inquinamento luminoso di Roma. Essa testimonia come anche la scienza, quando orientata al vero, conduca a lodare il Creatore.
Nel corso degli anni, la Specola ha contribuito a progetti astronomici di grande rilievo come la Carte du Ciel e alla scoperta di numerosi oggetti celesti.

Con l’ulteriore peggioramento delle condizioni di osservazione anche nei Castelli Romani, negli anni Ottanta l’attività scientifica si spostò principalmente presso il Mount Graham Observatory in Arizona (USA), dove il Vatican Observatory Research Group prosegue le ricerche astrofisiche. Castel Gandolfo resta però un importante centro di studi: dal 1986 ospita ogni due anni la Vatican Observatory Summer School, dedicata a studenti e laureati in astronomia di tutto il mondo. La Specola organizza anche convegni specialistici, eventi divulgativi, mostre di meteoriti e presentazioni di materiali storici e artistici a tema astronomico, tutto in uno spirito di ricerca, dialogo e contemplazione del mistero della creazione.

Una chiesa nel cuore della città e della fede
Nel XVII secolo, papa Alessandro VII affidò a Gian Lorenzo Bernini la costruzione di una cappella palatina per i dipendenti delle Ville Pontificie. Il progetto, concepito inizialmente in onore di san Nicola di Bari, fu dedicato infine a san Tommaso da Villanova, agostiniano canonizzato nel 1658. La chiesa fu consacrata nel 1661 e affidata agli Agostiniani, che la ressero fino al 1929. Con la firma dei Patti Lateranensi, papa Pio XI affidò agli stessi Agostiniani la cura pastorale della nuova Pontificia Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, mentre la chiesa di San Tommaso da Villanova venne successivamente affidata ai Salesiani.

La bellezza architettonica di questa chiesa, frutto del genio barocco, è al servizio della fede e dell’incontro tra Dio e l’uomo: vi si celebrano oggi numerosi matrimoni, battesimi e liturgie, richiamando fedeli da ogni parte del mondo.

La casa salesiana
I Salesiani sono presenti a Castel Gandolfo dal 1929. In quegli anni il borgo conobbe un notevole sviluppo, sia demografico che turistico, ulteriormente anche grazie all’inizio delle celebrazioni papali nella chiesa di San Tommaso da Villanova. Ogni anno, nella solennità dell’Assunta, il papa celebrava la Santa Messa nella parrocchia pontificia, una tradizione iniziata da san Giovanni XXIII il 15 agosto 1959, quando uscì a piedi dal Palazzo Pontificio per celebrare l’Eucaristia tra la gente. Questa consuetudine si è mantenuta fino al pontificato di papa Francesco, che ha interrotto i soggiorni estivi a Castel Gandolfo. Nel 2016, infatti, l’intero complesso delle Ville Pontificie è stato trasformato in museo e aperto al pubblico.

La casa salesiana ha fatto parte dell’Ispettoria Romana e, dal 2009 al 2021, della Circoscrizione Salesiana Italia Centrale. Dal 2021 è passata sotto la diretta responsabilità della Sede Centrale, con direttore e comunità nominati dal Rettor Maggiore. Attualmente i salesiani presenti provengono da diverse nazioni (Brasile, India, Italia, Polonia) e sono attivi nella parrocchia, nelle cappellanie e nell’oratorio.

Gli spazi pastorali, pur appartenendo allo Stato della Città del Vaticano e quindi considerati zone extraterritoriali, fanno parte della diocesi di Albano, alla cui vita pastorale i Salesiani partecipano attivamente. Sono coinvolti nella catechesi diocesana per adulti, nell’insegnamento presso la scuola teologica diocesana, e nel Consiglio Presbiterale come rappresentanti della vita consacrata.

Oltre alla parrocchia di San Tommaso da Villanova, i Salesiani gestiscono anche due altre chiese: Maria Ausiliatrice (detta anche “San Paolo”, dal nome del quartiere) e Madonna del Lago, voluta da san Paolo VI. Entrambe furono costruite tra gli anni Sessanta e Settanta per rispondere alle esigenze pastorali della crescente popolazione.

La chiesa parrocchiale progettata da Bernini è oggi meta di numerosi matrimoni e battesimi celebrati da fedeli provenienti da tutto il mondo. Ogni anno, con le dovute autorizzazioni, vi si tengono decine, talvolta centinaia, di celebrazioni.

Il parroco, oltre a guidare la comunità parrocchiale, è anche cappellano delle Ville Pontificie e accompagna spiritualmente i dipendenti vaticani che vi lavorano.

L’oratorio, attualmente gestito da laici, vede il coinvolgimento diretto dei Salesiani, specialmente nella catechesi. In occasione di fine settimana, feste e attività estive come l’Estate Ragazzi, vi collaborano anche studenti salesiani residenti a Roma, offrendo un prezioso supporto. Presso la chiesa di Maria Ausiliatrice esiste anche un teatro attivo, con gruppi parrocchiali che organizzano spettacoli, luogo di incontro, cultura e evangelizzazione.

Vita pastorale e tradizioni
La vita pastorale è scandita dalle principali feste dell’anno: san Giovanni Bosco a gennaio, Maria Ausiliatrice a maggio con una processione nel quartiere di San Paolo, la festa della Madonna del Lago – e quindi la festa del Lago – l’ultimo sabato di agosto, con la statua portata in processione su una barca sul lago. Quest’ultima celebrazione sta coinvolgendo sempre più anche le comunità dei dintorni, attirando numerosi partecipanti, tra cui molti motociclisti, con cui sono stati avviati momenti di incontro.

Il primo sabato di settembre si celebra la festa patronale di Castel Gandolfo in onore di san Sebastiano, con una grande processione cittadina. La devozione a san Sebastiano risale al 1867, quando la città fu risparmiata da un’epidemia che colpì duramente i paesi vicini. Sebbene la memoria liturgica cada il 20 gennaio, la festa locale viene celebrata a settembre, sia in ricordo della protezione ottenuta che per ragioni climatiche e pratiche.

L’8 settembre si celebra il patrono della chiesa, san Tommaso da Villanova, in coincidenza con la Natività della Beata Vergine Maria. In questa occasione si tiene anche la festa delle famiglie, rivolta alle coppie che si sono sposate nella chiesa di Bernini: sono invitate a tornare per una celebrazione comunitaria, una processione e un momento conviviale. L’iniziativa ha avuto ottimi riscontri e si sta consolidando nel tempo.

Una curiosità: la buca delle lettere
Accanto all’ingresso della casa salesiana si trova una casella postale, nota come “Buca delle corrispondenze”, considerata la più antica ancora in uso. Risale infatti al 1820, vent’anni prima dell’introduzione del primo francobollo al mondo, il famoso Penny Black (1840). È una cassetta ufficiale delle Poste Italiane tuttora attiva, ma anche un simbolo eloquente: un invito alla comunicazione, al dialogo, all’apertura del cuore. Il ritorno del papa Leone XIV alla sua sede estiva, sicuramente lo aumenterà.

Castel Gandolfo resta un luogo dove il Creatore parla attraverso la bellezza del creato, la Parola proclamata e la testimonianza di una comunità salesiana che, nella semplicità dello stile di Don Bosco, continua a offrire accoglienza, formazione, liturgia e fraternità, ricordando a coloro che si avvicinano a queste terre in cerca di pace e serenità che la vera pace e serenità si trova solo in Dio e nella sua grazia.




Il volontariato missionario cambia la vita dei giovani in Messico

Il volontariato missionario rappresenta un’esperienza che trasforma profondamente la vita dei giovani. In Messico, l’Ispettoria Salesiana di Guadalajara ha sviluppato da decenni un percorso organico di Volontariato Missionario Salesiano (VMS) che continua a incidere in modo duraturo nel cuore di molti ragazzi e ragazze. Grazie alle riflessioni di Margarita Aguilar, coordinatrice del volontariato missionario a Guadalajara, condivideremo il cammino riguardante le origini, l’evoluzione, le fasi di formazione e le motivazioni che spingono i giovani a mettersi in gioco per servire le comunità in Messico.

Origini
Il volontariato, inteso come impegno a favore degli altri nato dall’esigenza di aiutare il prossimo tanto sul piano sociale quanto su quello spirituale, si rafforzò nel tempo con il contributo di governi e ONG per sensibilizzare sui temi della salute, dell’istruzione, della religione, dell’ambiente e altro ancora. Nella Congregazione Salesiana, lo spirito volontario è presente fin dalle origini: Mamma Margherita, accanto a Don Bosco, fu tra i primi “volontari” nell’Oratorio, impegnandosi nell’assistenza ai giovani per compiere la volontà di Dio e contribuire alla salvezza delle loro anime. Già il Capitolo Generale XXII (1984) iniziò a parlare esplicitamente di volontariato, e i capitoli successivi insistettero su questo impegno come dimensione inscindibile della missione salesiana.

In Messico i Salesiani sono suddivisi in due Ispettorie: Città del Messico (MEM) e Guadalajara (MEG). È proprio in quest’ultima che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si è strutturato un progetto di volontariato giovanile. L’Ispettoria di Guadalajara, fondata 62 anni fa, offre da quasi 40 anni la possibilità a giovani desiderosi di sperimentare il carisma salesiano di dedicare un periodo di vita al servizio delle comunità, soprattutto nelle zone di frontiera.

Nel 24 ottobre 1987 l’ispettore inviò un gruppo di quattro giovani insieme a salesiani nella città di Tijuana, in una zona di confine in forte espansione salesiana. Fu l’avvio del Volontariato Giovanile Salesiano (VJS), che si sviluppò gradualmente e si organizzò in modo sempre più strutturato.

L’obiettivo iniziale era proposto ai giovani di circa 20 anni, disponibili a dedicare da uno a due anni per costruire i primi oratori nelle comunità di Tijuana, Ciudad Juárez, Los Mochis e altre località al nord. Molti ricordano i primi giorni: paletta e martello in mano, convivenza in case semplici con altri volontari, pomeriggi trascorsi con bambini, adolescenti e giovani del quartiere giocando nel terreno dove sarebbe sorto l’oratorio. Mancava talvolta il tetto, ma non mancavano la gioia, il senso di famiglia e l’incontro con l’Eucaristia.

Quelle prime comunità di salesiani e volontari portarono nei cuori l’amore per Dio, per Maria Ausiliatrice e per Don Bosco, manifestando spirito pionieristico, ardore missionario e cura totale per gli altri.

Evoluzione
Con il crescere dell’Ispettoria e della Pastorale Giovanile, emerse la necessità di itinerari formativi chiari per i volontari. L’organizzazione si rafforzò attraverso:
Questionario di candidatura: ogni aspirante volontario compilava una scheda e rispondeva a un questionario che delineava le sue caratteristiche umane, spirituali e salesiane, avviando il processo di crescita personale.

Corso di formazione iniziale: laboratori teatrali, giochi e dinamiche di gruppo, catechesi e strumenti pratici per le attività sul campo. Prima della partenza, i volontari si riunivano per concludere la formazione e ricevere l’invio nelle comunità salesiane.

Accompagnamento spirituale: si invitava il candidato a farsi accompagnare da un salesiano nella sua comunità di origine. Per un certo periodo, la preparazione fu svolta insieme agli aspiranti salesiani, rafforzando l’aspetto vocazionale, anche se poi questa prassi subì modifiche in base all’animazione vocazionale dell’Ispettoria.

Incontro ispettoriale annuale: ogni dicembre, in prossimità della Giornata Internazionale del Volontario (5 dicembre), i volontari si incontrano per valutare l’esperienza, riflettere sul cammino di ciascuno e consolidare i processi di accompagnamento.

Visite alle comunità: l’équipe di coordinamento visita regolarmente le comunità in cui operano i volontari, per sostenere non solo i giovani stessi, ma anche salesiani e laici della comunità educativa-pastorale, rafforzando le reti di sostegno.

Progetto di vita personale: ogni candidato elabora, con l’aiuto dell’accompagnatore spirituale, un progetto di vita che aiuti a integrare la dimensione umana, cristiana, salesiana, vocazionale e missionaria. È previsto un periodo minimo di sei mesi di preparazione, con momenti online dedicati alle varie dimensioni.

Coinvolgimento delle famiglie: incontri informativi con i genitori sui processi del VJS, per far comprendere il percorso e rafforzare il supporto familiare.

Formazione continua durante l’esperienza: ogni mese viene affrontata una dimensione (umana, spirituale, apostolica, ecc.) attraverso materiali di lettura, riflessione e lavoro di approfondimento in corso d’opera.

Post-volontariato: dopo la conclusione dell’esperienza, si organizza un incontro di chiusura per valutare l’esperienza, progettare i passi successivi e accompagnare il volontario nel reinserimento nella comunità di origine e nella famiglia, con fasi in presenza e online.

Nuove tappe e rinnovamenti
Recentemente, l’esperienza ha assunto il nome di Volontariato Missionario Salesiano (VMS), in linea con l’enfasi della Congregazione sulla dimensione spirituale e missionaria. Alcune novità introdotte:

Pre-volontariato breve: durante le vacanze scolastiche (dicembre-gennaio, Settimana Santa e Pasqua, e soprattutto estate) i giovani possono sperimentare per brevi periodi la vita in comunità e l’impegno di servizio, per farsi un primo “assaggio” dell’esperienza.

Formazione all’esperienza internazionale: si è istituito un processo specifico per preparare i volontari a vivere l’esperienza fuori dai confini nazionali.

Maggiore enfasi sull’accompagnamento spirituale: non più solo “inviare a lavorare”, ma porre al centro l’incontro con Dio, affinché il volontario scopra la propria vocazione e missione.

Come sottolinea Margarita Aguilar, coordinatrice del VMS a Guadalajara: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Motivazioni dei giovani
Alla base dell’esperienza VMS c’è sempre la domanda: “Qual è la tua motivazione per diventare volontario?”. Si possono individuare tre gruppi principali:

Motivazione operativa/pratica: chi crede di svolgere attività concrete legate alle proprie competenze (insegnare in una scuola, servire in mensa, animare un oratorio). Spesso scopre che il volontariato non è solo lavoro manuale o didattico e può restare deluso se si aspettava un’esperienza meramente strumentale.

Motivazione legata al carisma salesiano: ex-fruitori di opere salesiane che desiderano approfondire e vivere più a fondo il carisma, immaginando un’esperienza intensa come un lungo incontro festivo del Movimento Giovanile Salesiano, ma per un periodo prolungato.

Motivazione spirituale: chi intende condividere la propria esperienza di Dio e scoprirlo negli altri. Talvolta però questa “fedeltà” è condizionata da aspettative (es. “sì, ma solo in questa comunità” o “sì, ma se posso tornare per un evento familiare”), e serve aiutare il volontario a maturare il “sì” in modo libero e generoso.

Tre elementi chiave del VMS
L’esperienza di Volontariato Missionario Salesiano si articola su tre dimensioni fondamentali:

Vita spirituale: Dio è il centro. Senza preghiera, sacramenti e ascolto dello Spirito, l’esperienza rischia di ridursi a semplice impegno operativo, stancando il volontario fino all’abbandono.

Vita comunitaria: la comunione con i salesiani e con gli altri membri della comunità rafforza la presenza del volontario presso bambini, adolescenti e giovani. Senza comunità non c’è sostegno nei momenti di difficoltà né contesto per crescere insieme.

Vita apostolica: la testimonianza gioiosa e la presenza affettiva tra i giovani evangelizza più di qualsiasi attività formale. Non si tratta solo di “fare”, ma di “essere” sale e luce nel quotidiano.

Per vivere pienamente queste tre dimensioni, serve un percorso di formazione integrale che accompagni il volontario dall’inizio alla fine, abbracciando ogni aspetto della persona (umano, spirituale, vocazionale) secondo la pedagogia salesiana e il mandato missionario.

Il ruolo della comunità di accoglienza
Il volontario, per essere strumento autentico di evangelizzazione, ha bisogno di una comunità che lo sostenga, ne sia esempio e guida. Allo stesso modo, la comunità accoglie il volontario per integrarlo, sostenendolo nei momenti di fragilità e aiutandolo a liberarsi da legami che ostacolano la dedizione totale. Come evidenzia Margarita: “Dio ci ha chiamati ad essere sale e luce della Terra e molti dei nostri volontari hanno trovato il coraggio di prendere un aereo lasciandosi alle spalle la famiglia, gli amici, la cultura, il loro modo di vivere per scegliere questo stile di vita incentrato sull’essere missionari.”

La comunità offre spazi di confronto, preghiera comune, accompagnamento pratico ed emotivo, affinché il volontario possa restare saldo nella sua scelta e portare frutto nel servizio.

La storia del volontariato missionario salesiano a Guadalajara è un esempio di come un’esperienza possa crescere, strutturarsi e rinnovarsi imparando dagli errori e dai successi. Ponendo sempre al centro la motivazione profonda del giovane, la dimensione spirituale e comunitaria, si offre un percorso capace di trasformare non solo le realtà servite, ma anche la vita dei volontari stessi.
Ci dice Margarita Aguilar: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Ringraziamo Margarita per le sue preziose riflessioni: la sua testimonianza ci ricorda che il volontariato missionario non è un mero servizio, ma un cammino di fede e crescita che tocca la vita dei giovani e delle comunità, rinnovando la speranza e il desiderio di donarsi per amore di Dio e del prossimo.




Beatificazione di Camille Costa de Beauregard. E dopo…?

            La diocesi di Savoia e la città di Chambéry hanno vissuto tre giornate storiche, il 16, 17 e 18 maggio 2025. Un resoconto dei fatti e delle prospettive future.

            Le reliquie di Camille Costa de Beauregard sono state trasferite dal Bocage alla chiesa di Notre-Dame (luogo del battesimo di Camille), venerdì 16 maggio. Un magnifico corteo ha quindi percorso le vie della città a partire dalle ore venti. Dopo i corni delle Alpi, le cornamuse hanno preso il testimone per aprire la marcia, seguite da una carrozza fiorita che trasportava un ritratto gigante del “padre degli orfani”. Seguivano poi le reliquie, su una barella portata da giovani studenti del liceo del Bocage, vestiti con magnifiche felpe rosse su cui si poteva leggere questa frase di Camille: “Più la montagna è alta, meglio vediamo lontano“. Diverse centinaia di persone di tutte le età sfilavano poi, in un’atmosfera “bon enfant”. Lungo il percorso, i curiosi, rispettosi, si fermavano, sbalorditi, a vedere passare questo corteo insolito.
            All’arrivo alla chiesa di Notre-Dame, un sacerdote era lì per animare una veglia di preghiera sostenuta dai canti di un bel coro di giovani. La cerimonia si svolgeva quindi in un clima rilassato, ma raccolto. Tutti sfilavano, alla fine della veglia, per venerare le reliquie e affidare a Camille un’intenzione personale. Un momento molto bello!
            Sabato 17 maggio. Gran giorno! Da Pauline Marie Jaricot (beatificata nel maggio del 2022), la Francia non aveva conosciuto un nuovo “Beato”. Così tutta la Regione Apostolica si trovava rappresentata dai suoi vescovi: Lione, Annecy, Saint-Étienne, Valence ecc… A questi si erano aggiunti due ex arcivescovi di Chambéry: monsignor Laurent Ulrich, attualmente arcivescovo di Parigi e monsignor Philippe Ballot, vescovo di Metz. Due vescovi del Burkina Faso avevano fatto il viaggio per partecipare a questa festa. Numerosi sacerdoti diocesani erano venuti a concelebrare, così come diversi religiosi tra cui sette Salesiani di Don Bosco. Il nunzio apostolico in Francia, monsignor Celestino Migliore, aveva la missione di rappresentare il cardinale Semeraro (Prefetto del Dicastero per le cause dei santi) trattenuto a Roma per l’intronizzazione di papa Leone XIV. Inutile dire che la cattedrale era gremita, così come i capitelli e il sagrato e il Bocage: più di tremila persone in tutto.
            Che emozione, quando dopo la lettura del decreto pontificio (firmato solo il giorno prima da papa Leone XIV) letto da don Pierluigi Cameroni, postulatore della causa, il ritratto di Camille è stato svelato nella cattedrale! Che fervore in questo grande vascello! Che solennità sostenuta dai canti di un magnifico coro interdiocesano e dal grande organo meravigliosamente servito dal maestro Thibaut Duré! Insomma, una cerimonia grandiosa per questo umile sacerdote che diede tutta la sua vita al servizio dei più piccoli!
            Un reportage è stato assicurato da RCF Savoie (una stazione radio regionale francese che fa parte del network RCF, Radios Chrétiennes Francophones) con interviste a diverse personalità coinvolte nella difesa della causa di Camille, e d’altra parte, dal canale KTO (il canale televisivo cattolico di lingua francese) che trasmetteva in diretta questa magnifica celebrazione.
            Una terza giornata, Domenica 18 maggio, veniva a coronare questa festa. Si svolgeva al Bocage, sotto un grande tendone; era una messa di ringraziamento presieduta da monsignor Thibault Verny, arcivescovo di Chambéry, circondato dai due vescovi africani, il Provinciale dei Salesiani e alcuni sacerdoti, tra cui padre Jean François Chiron, (presidente, da tredici anni, del Comitato Camille creato da monsignor Philippe Ballot) che pronunciava un’omelia notevole. Una folla considerevole era venuta a partecipare e pregare. Alla fine della messa, una rosa “Camille Costa de Beauregard fondatore del Bocage” è stata benedetta da padre Daniel Féderspiel, Ispettore dei Salesiani della Francia (questa rosa, scelta dagli ex allievi, offerta alle personalità presenti, è in vendita nelle serre del Bocage).
            Dopo la cerimonia, i corni delle Alpi hanno dato un concerto fino al momento in cui papa Leone, durante il suo discorso, al momento del Regina Coeli, ha dichiarato di essere molto gioioso della prima beatificazione del suo pontificato, il sacerdote di Chambéry Camille Costa de Beauregard. Tuono di applausi sotto il tendone!
            Nel pomeriggio, diversi gruppi di giovani del Bocage, liceo e casa dei bambini, o scout, si sono succeduti sul podio per animare un momento ricreativo. Sì! Che festa!

            E adesso? Tutto è finito? O c’è un dopo, un seguito?
            La beatificazione di Camille è solo una tappa nel processo di canonizzazione. Il lavoro continua e siete chiamati a contribuire. Cosa resta da fare? Far conoscere sempre meglio la figura del nuovo beato intorno a noi, con molteplici mezzi, perché è necessario che molti lo preghino affinché la sua intercessione ci ottenga una nuova guarigione inspiegabile dalla scienza, il che permetterebbe di considerare un nuovo processo e una rapida canonizzazione. La santità di Camille sarebbe allora presentata al mondo intero. È possibile, bisogna crederci! Non fermiamoci a metà strada!

            Disponiamo di diversi mezzi, come:
            – il libro Il beato Camille Costa de Beauregard La nobiltà del cuore, di Françoise Bouchard, Edizioni Salvator;
            – il libro Pregare quindici giorni con Camille Costa de Beauregard, di padre Paul Ripaud, Edizioni Nouvelle Cité;
            – un fumetto: Beato Camille Costa de Beauregard, di Gaëtan Evrard, Edizioni Triomphe;
            – i video da scoprire sul sito di “Amis de Costa“, e quello della beatificazione;
            – le visite ai luoghi della memoria, al Bocage a Chambéry; sono possibili contattando sia l’accoglienza del Bocage, sia direttamente il signor Gabriel Tardy, direttore de la Maison des Enfants.

            A tutti, grazie per sostenere la causa del beato Camille, se lo merita!

don Paul Ripaud, sdb




Visita alla Basilica del Sacro Cuore di Gesù a Roma (anche in 3D)

La Basilica del Sacro Cuore di Gesù di Roma è una chiesa di rilievo per la città, situata nel rione Castro Pretorio, in via Marsala, dall’altra parte della strada della Stazione Termini. Essa è sede parrocchiale e anche titolo cardinalizio, avendo accanto la Sede Centrale della Congregazione Salesiana. Celebra la sua festa patronale proprio nella solennità del Sacro Cuore. La sua posizione nei pressi di Termini ne fa un punto visibile e riconoscibile per chi arriva in città, con la statua dorata sul campanile che si staglia nell’orizzonte come simbolo di benedizione per residenti e viaggiatori.

Origini e storia
L’idea di edificare una chiesa dedicata al Sacro Cuore di Gesù risale a papa Pio IX, che nel 1870 pose la prima pietra di un edificio, inizialmente voluto in onore di san Giuseppe: tuttavia, già nel 1871 il pontefice decise di dedicare la nuova chiesa al Sacro Cuore di Gesù. Fu la seconda grande chiesa dedicata al Sacro Cuore di Gesù dopo quella di Lisbona, Portogallo, iniziata nel 1779 e consacrata nel 1789 e prima della famosa Sacré-Cœur di Montmartre, Parigi, Francia, iniziata nel 1875 e consacrata nel 1919.
Il cantiere fu avviato in condizioni difficili: con l’annessione di Roma al Regno d’Italia (1870), i lavori si interrompono per mancanza di fondi. Fu solo grazie all’intervento di san Giovanni Bosco, su invito del pontefice, che la costruzione poté riprendere definitivamente nel 1880, grazie alla sua sacrificata fatica di raccogliere offerte in Europa e far convergere risorse per il completamento dell’edificio. L’architetto incaricato fu Francesco Vespignani, già “Architetto dei Sacri Palazzi” sotto Leone XIII, che portò a termine il progetto. La consacrazione avvenne il 14 maggio 1887, suggellando la fine della prima fase costruttiva.

La chiesa, fin dalla sua edificazione, ha assunto una funzione parrocchiale: la parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Castro Pretorio fu istituita il 2 febbraio 1879 con decreto vicariale “Postremis hisce temporibus”. Successivamente, papa Benedetto XV la elevò alla dignità di basilica minore l’11 febbraio 1921, con la lettera apostolica “Pia societas”. In epoca più recente, il 5 febbraio 1965 papa Paolo VI istituì il titolo cardinalizio del Sacro Cuore di Gesù a Castro Pretorio. Tra i cardinali titolari ricordiamo Maximilien de Fürstenberg (1967–1988), Giovanni Saldarini (1991–2011) e Giuseppe Versaldi (dal 2012 fino ad oggi). Il titolo cardinalizio rafforza il legame della basilica con la Curia papale, contribuendo a mantenere viva l’attenzione sull’importanza del culto al Sacro Cuore e sulla spiritualità salesiana.

Architettura
La facciata si presenta in stile neorinascimentale, con linee sobrie e proporzioni equilibrate, tipiche della ripresa rinascimentale nell’architettura ecclesiastica tardo-ottocentesca. Il campanile, concepito nel progetto originale di Vespignani, rimase incompleto fino al 1931, quando fu posta in cima l’imponente statua dorata del Sacro Cuore benedicente, donata dagli ex allievi salesiani in Argentina: visibile da larga distanza, essa costituisce un segno identificativo della basilica e un simbolo di accoglienza per chi arriva a Roma attraverso la stazione ferroviaria vicina.

L’interno si articola secondo una pianta a croce latina con tre navate, separate da otto colonne e due pilastri di granito grigio che reggono archi a tutto sesto, e comprendente transetto e cupola centrale. La navata centrale e le navate laterali sono coperte da soffitto a cassettoni, con lacunari decorati nel registro centrale. Le proporzioni interne sono armoniose: la larghezza della navata centrale di circa 14 metri e la lunghezza di 70 metri creano un effetto di ampiezza solenne, mentre le colonne in granito, dalle venature marcate, conferiscono un carattere di solida maestosità.
La cupola centrale, visibile dall’interno con i suoi affreschi e lacunari, richiama la luce naturale attraverso finestre alla base e conferisce verticalità allo spazio liturgico. Nelle cappelle laterali si conservano dipinti del pittore romano Andrea Cherubini, che ha realizzato scene devozionali in sintonia con la dedicazione al Sacro Cuore.
Oltre ai dipinti di Andrea Cherubini, la basilica conserva varie opere d’arte sacra: statue lignee o in marmo che raffigurano la Vergine, i Santi patroni della Congregazione Salesiana e figure carismatiche come san Giovanni Bosco.

Gli ambienti di san Giovanni Bosco a Roma
Un elemento di grande valore storico e devozionale è costituito dalle “Camerette di Don Bosco” sul retro della basilica, ambiente dove san Giovanni Bosco soggiornò le nove delle venti volte che fu presente a Roma. Originariamente due stanze separate – studio e camera da letto con altare portatile –, furono poi unite per ospitare pellegrini e gruppi in preghiera, costituendo luogo di memoria viva della presenza del fondatore dei Salesiani. Qui sono conservati oggetti personali e reliquie che richiamano miracoli attribuiti al santo in quel periodo. Questo spazio è stato rinnovato recentemente e continua ad attirare pellegrini, stimolando riflessioni sulla spiritualità e la dedizione di Bosco verso i giovani.
La basilica e gli edifici annessi sono di proprietà della Congregazione Salesiana, che ne ha fatto uno dei centri nevralgici per la propria presenza romana: fin dal soggiorno di don Bosco, l’edificio accanto alla chiesa ospitava la casa dei Salesiani e successivamente divenne sede di scuole, oratori, e servizi per i giovani. Oggi la struttura accoglie, oltre alle attività liturgiche, un significativo lavoro rivolto a migranti e giovani in difficoltà. Dal 2017, il complesso è anche la Sede Centrale del governo della Congregazione Salesiana.

Devozione al Sacro Cuore e celebrazioni liturgiche
La dedicazione al Sacro Cuore di Gesù si traduce in pratiche devozionali specifiche: la festa liturgica del Sacro Cuore, celebrata il venerdì successivo alla ottava di Corpus Domini, viene vissuta con solennità nella basilica, con novene, celebrazioni eucaristiche, adorazione eucaristica e processione. La pietà popolare attorno al Sacro Cuore – diffusa soprattutto dal XIX secolo con l’approvazione della devozione da parte di Pio IX e Leone XIII – trova in questo luogo un punto di riferimento a Roma, attirando fedeli per preghiere di riparazione, affidamento e ringraziamento.

Per il Giubileo del 2025, alla Basilica del Sacro Cuore di Gesù gli è stato conferito il privilegio dell’indulgenza plenare, come a tutte le altre chiese dell’Iter Europaeum.
Ricordiamo che per celebrare il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra l’Unione Europea e la Santa Sede (1970-2020), è stato realizzato un progetto della Delegazione dell’Unione Europea presso la Santa Sede e le 28 Ambasciate dei singoli Stati membri accreditate presso la Santa Sede. Questo progetto consisteva in un percorso liturgico e culturale in cui ogni Paese indicasse una chiesa o basilica di Roma a cui è particolarmente legato per motivi storici, artistici o di tradizione di accoglienza dei pellegrini provenienti da quel Paese. L’obiettivo primario era duplice: da un lato, favorire la conoscenza reciproca tra cittadini europei e stimolare una riflessione sulle radici cristiane comuni; dall’altro, offrire a pellegrini e visitatori uno strumento di scoperta di spazi religiosi meno noti o con significati particolari, facendo emergere le connessioni della Chiesa con l’intera Europa. Allargando la prospettiva, l’iniziativa è stata poi riproposta nell’ambito dei cammini giubilari legati al Giubileo di Roma 2025, con il nome latino “Iter Europaeum”, inserendo il percorso tra i cammini ufficiali della Città Santa.
L’Iter Europaeum prevede fermate presso le 28 chiese e basiliche di Roma, ciascuna “adottata” da uno Stato membro dell’Unione Europea. La Basilica del Sacro Cuore di Gesù è stata “adottata” da Lussemburgo. Le chiese dell’Iter Europaeum si possono vedere QUI.

Visita alla Basilica
La Basilica si può visitare fisicamente, ma anche virtualmente.

Per una visita virtuale in 3D fatte click QUI.

Per una visita virtuale guidata potete seguire i seguenti collegamenti:

1. Introduzione
2. La storia
3. Facciata
4. Campanile
5. Navata centrale
6. Parete interna della facciata
7. Pavimento
8. Colonne
9. Pareti della navata centrale
10. Soffitto 1
11. Soffitto 2
12. Transetto
13. Vetrate del transetto
14. Altare maggiore
15. Presbiterio
16. Cupola
17. Coro Don Bosco
18. Navate laterali
19. Confessionali
20. Altari della navata laterale destra
21. Affreschi delle navate laterali
22. Cupolini della navata sinistra
23. Battistero
24. Altari della navata laterale sinistra
25. Affreschi cupolini della navata sinistra
26. Sacrestia
27. “Camerette” di Don Bosco (versione precedente)
28. Museo di Don Bosco (versione precedente)

La Basilica del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio è un esempio di architettura neorinascimentale legata a vicende storiche segnate da crisi e rinascite. La combinazione di elementi artistici, architettonici e storici – dalle colonne di granito alle decorazioni pittoriche, dalla celebre statua sul campanile alle Camerette di don Bosco – rende questo luogo una meta di pellegrinaggio spirituale e culturale. La sua collocazione nei pressi della Stazione Termini lo rende un segno di accoglienza per chi giunge a Roma, mentre le attività pastorali rivolte ai giovani continuano a incarnare lo spirito di san Giovanni Bosco: un cuore aperto al servizio, alla formazione e alla spiritualità incarnata. Da visitare.




Intervista al Rettor Maggiore, don Fabio Attard

Abbiamo preso un’intervista in esclusiva al Rettor Maggiore dei Salesiani, don Fabio Attard, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua vocazione e del suo percorso umano e spirituale. La sua vocazione è nata nell’oratorio e si è consolidata attraverso un percorso formativo ricco che lo ha portato dall’Irlanda alla Tunisia, da Malta a Roma. Dal 2008 al 2020 è stato Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, ruolo che ha svolto con una visione multiculturale acquisita attraverso esperienze in diversi contesti. Il suo messaggio centrale è la santità come fondamento dell’azione educativa salesiana: “Vorrei vedere una Congregazione più santa”, afferma, sottolineando che l’efficienza professionale deve radicarsi nell’identità consacrata.

Qual è la tua storia della vocazione?

Sono nato a Gozo, Malta, il 23 marzo 1959, quinto di sette figli. Al tempo della mia nascita, mio padre aveva il compito di farmacista in ospedale, mentre mia madre aveva avviato un piccolo negozio di tessuti e sartoria, che con il tempo è cresciuto fino a diventare una piccola catena di cinque negozi. Era una donna molto laboriosa, ma l’attività restava sempre a conduzione familiare.

Ho frequentato le scuole primarie e secondarie locali. Un elemento molto bello e particolare della mia infanzia è che mio padre era catechista laico presso l’oratorio, che fino al 1965 era stato diretto dai salesiani. Lui, da giovane, aveva frequentato quell’oratorio e vi era poi rimasto come unico catechista laico. Quando io iniziai a frequentarlo, a sei anni, i salesiani avevano appena lasciato l’opera. Subentrò un giovane sacerdote (che è ancora in vita) che proseguì le attività dell’oratorio nello stesso spirito salesiano, avendovi lui stesso vissuto da seminarista.
Si continuava con il catechismo, la benedizione eucaristica quotidiana, il calcio, il teatro, il coro, le gite, le feste… tutto quello che normalmente si vive in un oratorio. C’erano tanti bambini e ragazzi, ed io sono cresciuto in quell’ambiente. In pratica, la mia vita si svolgeva tra la famiglia e l’oratorio. Ero anche chierichetto nella mia parrocchia. Così, finita la scuola superiore, mi sono orientato verso il sacerdozio, perché fin da bambino avevo questo desiderio nel cuore.

Oggi mi rendo conto di quanto fossi stato influenzato da quel giovane sacerdote, che guardavo con ammirazione: era sempre presente con noi nel cortile, nelle attività dell’oratorio. Tuttavia, in quel tempo i salesiani non erano più presenti lì. Sono così entrato in seminario, dove all’epoca si facevano due anni di propedeutica come interni. Durante il terzo anno – che corrispondeva al primo anno di filosofia – conobbi un amico di famiglia di circa 35 anni, una vocazione adulta, che era entrato come salesiano aspirante (oggi è ancora in vita, ed è coadiutore). Quando fece questo passo, dentro di me si accese un fuoco. E con l’aiuto del mio direttore spirituale iniziai un discernimento vocazionale.
Fu un cammino importante ma anche impegnativo: avevo 19 anni, ma quella guida spirituale mi aiutò a cercare la volontà di Dio, e non semplicemente la mia. Così, l’ultimo anno – il quarto di filosofia – invece di seguirlo in seminario, lo vissi come aspirante salesiano, completando i due anni di filosofia richiesti.

In famiglia, l’ambiente era fortemente segnato dalla fede. Partecipavamo ogni giorno alla Messa, recitavamo il Rosario in casa, eravamo molto uniti. Anche oggi, benché i nostri genitori siano in Paradiso, manteniamo quella stessa unità tra fratelli e sorelle.

Un’altra esperienza familiare mi ha segnato profondamente, anche se me ne sono accorto solo col tempo. Mio fratello, il secondo della famiglia, è morto a 25 anni per insufficienza renale. Oggi, con i progressi della medicina, sarebbe ancora vivo grazie alla dialisi e ai trapianti, ma allora non c’erano tante possibilità. Gli sono stato accanto negli ultimi tre anni della sua vita: condividevamo la stessa stanza e spesso lo aiutavo di notte. Lui era un giovane sereno, allegro, che ha vissuto la sua fragilità con una gioia straordinaria.
Avevo 16 anni quando è morto. Sono passati cinquant’anni, ma quando ripenso a quel tempo a quell’esperienza quotidiana di vicinanza, fatta di piccoli gesti, riconosco quanto abbia segnato la mia vita.

Sono nato in una famiglia dove c’era fede, senso del lavoro, responsabilità condivisa. I miei genitori sono per me due esempi straordinari: hanno vissuto con grande fede e serenità la croce, senza mai far pesare nulla su nessuno, e al tempo stesso hanno saputo trasmettere la gioia della vita familiare. Posso dire di aver vissuto un’infanzia molto bella. Non eravamo ricchi, né poveri, ma sempre sobri, discreti. Ci hanno insegnato a lavorare, a gestire bene le risorse, a non sprecare, a vivere con dignità, con eleganza e, soprattutto, con attenzione verso i poveri e gli ammalati.

Come ha reagito la tua famiglia quando hai preso la decisione di seguire la vocazione consacrata?

Era arrivato il momento in cui, insieme al mio direttore spirituale, avevamo chiarito che la mia strada era quella dei salesiani. Dovevo anche comunicarlo ai miei genitori. Ricordo che era una sera tranquilla, stavamo mangiando insieme, solo noi tre. A un certo punto dissi: “Voglio dirvi qualcosa: ho fatto il mio discernimento e ho deciso di entrare tra i salesiani.”
Mio padre fu felicissimo. Mi rispose subito: “Che il Signore ti benedica.”. Mia madre invece iniziò a piangere, un po’ come fanno tutte le mamme. Mi chiese: “Allora ti allontani?” Ma mio padre intervenne con dolcezza e fermezza: “Che si allontani o no, questa è la sua strada.”
Mi benedirono e mi incoraggiarono. Sono momenti che restano impressi per sempre.

Ricordo in particolare quello che accadde verso la fine della vita dei miei genitori. Mio padre morì nel 1997, e sei mesi dopo a mia madre hanno scoperto un tumore inguaribile.
In quel periodo, i superiori mi avevano chiesto di andare come docente all’Università Pontificia Salesiana (UPS), ma non sapevo che decisione prendere. Mia madre non stava bene, era ormai prossima alla morte. Parlando con i miei fratelli, mi dissero: “Tu fai quello che ti chiedono i superiori.”
Mi trovavo a casa e ne parlai con lei: “Mamma, i superiori mi chiedono di andare a Roma.”
Lei, con la lucidità di una vera madre, mi rispose: “Senti figlio mio, se dipendesse da me, ti chiederei di restare qui, perché non ho nessun altro e non vorrei pesare sui tuoi fratelli. Ma…” – e qui disse una frase che mi porto nel cuore – “Tu non sei mio, tu appartieni a Dio. Fai quello che ti dicono i superiori.”
Quella frase, pronunciata un anno prima della sua morte, per me è un tesoro, un’eredità preziosa. Mia madre era una donna intelligente, sapiente, perspicace: sapeva che la malattia l’avrebbe portata alla fine, ma in quel momento seppe essere libera interiormente. Libera di dire parole che confermavano ancora una volta il dono che lei stessa aveva fatto a Dio: offrire un figlio alla vita consacrata.

La reazione della mia famiglia, all’inizio e fino alla fine, è stata sempre segnata da un profondo rispetto e da un grande sostegno. E anche oggi, i miei fratelli e sorelle continuano a portare avanti questo spirito.

Qual è stato il tuo percorso formativo dal noviziato fino ad oggi?

È stato un percorso molto ricco e variegato. Ho iniziato il prenoviziato a Malta, poi ho fatto il noviziato a Dublino, in Irlanda. Un’esperienza davvero bella.

Dopo il noviziato, i miei compagni si sono trasferiti a Maynooth per studiare filosofia all’università, ma io l’avevo già completata in precedenza. Per questo i superiori mi hanno chiesto di rimanere ancora al noviziato per un anno, dove ho insegnato italiano e latino. In seguito, sono tornato a Malta per svolgere due anni di tirocinio, che sono stati molto belli e arricchenti.

Successivamente, sono stato inviato a Roma per studiare teologia all’Università Pontificia Salesiana, dove ho trascorso tre anni straordinari. Quegli anni mi hanno dato una grande apertura mentale. Vivevamo nello studentato con quaranta confratelli provenienti da venti nazioni diverse: Asia, Europa, America Latina… anche il corpo docente era internazionale. Era la metà degli anni ’80, circa vent’anni dopo il Concilio Vaticano II, e si respirava ancora molto entusiasmo: c’erano vivaci confronti teologici, la teologia della liberazione, l’interesse per il metodo e la prassi. Quegli studi mi hanno insegnato a leggere la fede non solo come contenuto intellettuale, ma come una scelta di vita.

Dopo quei tre anni, ho proseguito con altri due di specializzazione in teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana, con i padri redentoristi. Anche lì ho incontrato figure significative, come il celebre Bernhard Häring, con cui ho stretto un’amicizia personale e andavo regolarmente ogni mese a dialogare con lui. Sono stati cinque anni complessivi – tra baccalaureato e licenza – che mi hanno formato profondamente dal punto di vista teologico.

In seguito, mi sono offerto per le missioni, e i superiori mi hanno inviato in Tunisia, insieme a un altro salesiano, per ristabilire la presenza salesiana nel paese. Abbiamo rilevato una scuola gestita da una congregazione femminile che, non avendo più vocazioni, stava per chiudere. Era una scuola con 700 studenti, per cui abbiamo dovuto imparare il francese e anche l’arabo. Per prepararci, abbiamo trascorso alcuni mesi a Lione, in Francia, e poi ci siamo dedicati allo studio dell’arabo.
Sono rimasto lì tre anni. È stata un’altra grande esperienza, perché ci siamo trovati a vivere la fede e il carisma salesiano in un contesto dove non si poteva parlare esplicitamente di Gesù. Tuttavia, era possibile costruire percorsi educativi fondati sui valori umani: rispetto, disponibilità, verità. La nostra testimonianza era silenziosa ma eloquente. In quell’ambiente ho imparato a conoscere e ad amare il mondo musulmano. Tutti – studenti, docenti e famiglie – erano musulmani, e ci hanno accolti con grande calore. Ci hanno fatto sentire parte della loro famiglia. Sono tornato più volte in Tunisia e ho sempre riscontrato lo stesso rispetto e apprezzamento, al di là della nostra appartenenza religiosa.

Dopo quell’esperienza, sono rientrato a Malta e ho lavorato per cinque anni nel campo sociale. In particolare, in una casa salesiana che accoglie ragazzi bisognosi di un accompagnamento educativo più attento, anche in forma residenziale.

Dopo questi otto anni complessivi di pastorale (tra Tunisia e Malta), mi è stata offerta la possibilità di completare il dottorato. Ho scelto di tornare in Irlanda, perché il tema era legato alla coscienza secondo il pensiero del cardinale John Henry Newman, oggi santo. Completato il dottorato, il Rettor Maggiore dell’epoca, don Juan Edmundo Vecchi – di grata memoria – mi chiese di entrare come docente di teologia morale all’Università Pontificia Salesiana.

Guardando a tutto il mio cammino, dall’aspirantato fino al dottorato, posso dire che è stato un insieme di esperienze non solo di contenuti, ma anche di contesti culturali molto diversi. Ringrazio il Signore e la Congregazione, perché mi hanno offerto la possibilità di vivere una formazione così varia e ricca.

Allora conosci il maltese perché è la tua lingua madre, l’inglese perché è la seconda idioma a Malta, il latino perché lo hai insegnato, l’italiano perché hai studiato in Italia, il francese e l’arabo perché sei stato a Manouba, in Tunisia… Quante lingue conosci?

Cinque, sei lingue, più o meno. Però, quando mi chiedono delle lingue, io dico sempre che sono un po’ coincidenze storiche.
A Malta cresciamo già con due idiomi: il maltese e l’inglese, e a scuola si studia una terza lingua. Ai miei tempi si insegnava anche l’italiano. Poi, io ero naturalmente portato per le lingue, e scelsi anche il latino. In seguito, andando in Tunisia, è stato necessario imparare il francese e anche l’arabo.
A Roma, vivendo con tanti studenti di lingua spagnola, l’orecchio si abitua, e quando sono stato eletto come Consigliere per la Pastorale Giovanile, ho approfondito un po’ anche lo spagnolo, che è una lingua molto bella.

Tutte le lingue sono belle. Certo, impararle richiede impegno, studio, esercizio. C’è chi è più portato, chi meno: fa parte della disposizione personale. Ma non è un merito, né una colpa. È semplicemente un dono, una predisposizione naturale.

Dal 2008- al 2020 sei stato per due mandati Consigliere Generale della Pastorale Giovanile. Come ti ha aiutato la tua esperienza in questa missione?

Quando il Signore ci affida una missione, portiamo con noi tutto il bagaglio di esperienze che abbiamo accumulato nel tempo.
Avendo vissuto in contesti culturali diversi, non correvo il rischio di vedere tutto attraverso il filtro di una sola cultura. Sono europeo, vengo dal Mediterraneo, da un paese che è stato colonia inglese, ma ho avuto la grazia di vivere in comunità internazionali, multiculturali.

Mi hanno aiutato molto anche gli anni di studio all’UPS. Avevamo professori che non si limitavano a trasmettere contenuti, ma ci educavano a fare sintesi, a costruire un metodo. Per esempio, se si studiava storia della Chiesa, si capiva quanto fosse essenziale per comprendere la patristica. Se si affrontava la teologia biblica, si imparava a collegarla con la teologia sacramentale, con la morale, con la storia della spiritualità. Insomma, ci insegnavano a pensare in modo organico.
Questa capacità di sintesi, questa architettura del pensiero, diventa poi parte della tua formazione personale. Quando fai teologia, impari a individuare punti fermi e a collegarli. E lo stesso vale per una proposta pastorale, pedagogica o filosofica. Quando incontri persone con grande spessore, assorbi non solo quello che dicono, ma anche come lo dicono, e questo forma il tuo stile.

Un altro elemento importante è che, al momento della mia elezione, avevo già vissuto esperienze in ambienti missionari, dove la religione cattolica era praticamente assente, e avevo lavorato con persone emarginate e vulnerabili. Avevo anche maturato una certa esperienza nel mondo universitario, e, parallelamente, mi ero molto dedicato all’accompagnamento spirituale.

Inoltre, tra il 2005 e il 2008 – proprio dopo l’esperienza all’UPS – l’Arcidiocesi di Malta mi aveva chiesto di fondare un Istituto di Formazione Pastorale, a seguito di un Sinodo diocesano che ne aveva riconosciuto la necessità. L’arcivescovo mi affidò il compito di avviarlo da zero. La prima cosa che feci fu costruire un’équipe con sacerdoti, religiosi, laici – uomini e donne. Abbiamo dato vita a un nuovo metodo formativo, che viene ancora utilizzato oggi. L’istituto continua a funzionare molto bene, e in qualche modo quell’esperienza ha rappresentato una preparazione preziosa per il lavoro che ho svolto successivamente nella pastorale giovanile.
Fin dall’inizio ho sempre creduto nel lavoro di équipe e nella collaborazione con i laici. La mia prima esperienza come direttore fu proprio in questo stile: un’équipe educativa stabile, oggi diremmo una CEP (Comunità Educativo-Pastorale), con incontri sistematici, non occasionali. Ci vedevamo ogni settimana con gli educatori e i professionisti. E questo approccio, che nel tempo è diventato un metodo, è rimasto per me un riferimento.

A tutto questo si aggiunge anche l’esperienza accademica: sei anni come docente all’Università Pontificia Salesiana, dove arrivavano studenti da oltre cento nazioni, e poi come esaminatore e direttore di tesi di dottorato all’Accademia Alfonsiana.

Credo che tutto ciò mi abbia preparato a vivere quella responsabilità con lucidità e visione.

Così, quando la Congregazione, durante il Capitolo Generale del 2008, mi ha chiesto di assumere questo incarico, portavo già con me una visione ampia, multiculturale. E questo mi ha aiutato, perché mettere insieme diversità non mi risultava faticoso: era parte della normalità. Certo, non si trattava semplicemente di fare una “macedonia” di esperienze: bisognava trovare i fili portanti, dare coerenza e unità.

Quello che ho potuto vivere come Consigliere Generale non è stato un merito personale. Credo che qualsiasi salesiano, se avesse avuto le stesse opportunità e il sostegno della Congregazione, avrebbe potuto vivere esperienze analoghe e dare il proprio contributo con generosità.

C’è una preghiera, una buonanotte salesiana, un’abitudine che non manchi mai da fare?

La devozione a Maria. In casa siamo cresciuti con il Rosario quotidiano, recitato in famiglia. Non era un obbligo, era qualcosa di naturale: lo facevamo prima di mangiare, perché mangiavamo sempre insieme. Allora era possibile. Oggi forse lo è meno, ma allora si viveva così: la famiglia riunita, la preghiera condivisa, la mensa comune.

All’inizio forse non mi rendevo conto di quanto fosse profonda quella devozione mariana. Ma col passare degli anni, quando si comincia a distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario, ho capito quanto quella presenza materna abbia accompagnato la mia vita.
La devozione a Maria si esprime in forme diverse: il Rosario quotidiano, quando possibile; un momento di sosta davanti a un’immagine o a una statua della Madonna; una preghiera semplice, ma fatta con il cuore. Sono gesti che accompagnano il cammino di fede.

Naturalmente ci sono alcuni punti fermi: l’Eucaristia quotidiana e la meditazione quotidiana. Sono pilastri che non si discutono, si vivono. Non solo perché siamo consacrati, ma perché siamo credenti. E la fede la si vive solo nutrendola.
Quando la nutriamo, cresce in noi. E solo se cresce in noi, possiamo aiutare perché cresca anche negli altri. Per noi, che siamo educatori, è evidente: se la nostra fede non si traduce in vita concreta, tutto il resto diventa facciata.

Queste pratiche – la preghiera, la meditazione, la devozione – non sono riservate ai santi. Sono espressione di onestà. Se ho fatto una scelta di fede, ho anche la responsabilità di coltivarla. Altrimenti, tutto si riduce a qualcosa di esteriore, di apparente. E questo, nel tempo, non regge.

Se potessi tornare indietro, faresti le stesse scelte?

Assolutamente sì. Nella mia vita ci sono stati momenti molto difficili, come succede a tutti. Non voglio passare per la “vittima di turno”. Credo che ogni persona, per crescere, debba attraversare fasi di oscurità, momenti di desolazione, di solitudine, di sentirsi tradita o accusata ingiustamente. E io questi momenti li ho vissuti. Ma ho avuto la grazia di avere accanto un direttore spirituale.

Quando si vivono certe fatiche accompagnati da qualcuno, si riesce a intuire che tutto ciò che Dio permette ha un senso, ha uno scopo. E quando si esce da quel “tunnel”, si scopre di essere una persona diversa, più matura. È come se, attraverso quella prova, siamo trasformati.

Se fossi rimasto solo, avrei rischiato di prendere decisioni sbagliate, senza visione, accecato dalla fatica del momento. Quando si è arrabbiati, quando ci si sente soli, non è il momento di decidere. È il momento di camminare, di chiedere aiuto, di farsi accompagnare.

Vivere certi passaggi con l’aiuto di qualcuno è come essere una pasta messa nel forno: il fuoco la cuoce, la rende matura. Perciò, alla domanda se cambierei qualcosa, la mia risposta è: no. Perché anche i momenti più difficili, anche quelli che non capivo, mi hanno aiutato a diventare la persona che sono oggi.

Mi sento una persona perfetta? No. Ma sento di essere in cammino, ogni giorno, cercando di vivere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio.

E oggi, mentre rilascio questa intervista, posso dire con sincerità che mi sento felice. Forse non ho ancora compreso pienamente cosa significhi essere Rettor Maggiore – ci vuole del tempo – ma so che è una missione, non una passeggiata. Porta con sé le sue difficoltà. Tuttavia, mi sento amato, stimato dai miei collaboratori e da tutta la Congregazione.

E tutto quello che sono oggi, lo sono grazie a ciò che ho vissuto, anche nei passaggi più faticosi. Non li cambierei. Mi hanno reso ciò che sono.

Hai qualche progetto che ti sta particolarmente a cuore?

Sì. Se chiudo gli occhi e immagino qualcosa che davvero desidero, vorrei vedere una Congregazione più santa. Più santa. Più santa.

Mi ha ispirato profondamente la prima lettera di don Pascual Chávez del 2002, intitolata “Siate santi”. Quella lettera mi ha toccato dentro, mi ha lasciato un segno.
I progetti sono molti, e tutti validi, ben strutturati, con visioni ampie e profonde. Ma che valore hanno, se vengono portati avanti da persone che non sono sante? Possiamo fare un lavoro eccellente, possiamo anche essere apprezzati – e questo, di per sé, non è negativo –, ma noi non lavoriamo per ottenere successo. Il nostro punto di partenza è un’identità: siamo persone consacrate.

Ciò che proponiamo ha senso solo se nasce da lì. È chiaro che desideriamo che i nostri progetti abbiano successo, ma ancora di più desideriamo che portino grazia, che tocchino le persone nel profondo. Non basta essere efficienti. Dobbiamo essere efficaci, nel senso più profondo: efficaci nella testimonianza, nell’identità, nella fede.
L’efficienza può esistere anche senza alcun riferimento religioso. Possiamo essere ottimi professionisti, ma non basta. La nostra consacrazione non è un dettaglio: è il fondamento. Se diventa marginale, se la mettiamo da parte per fare spazio all’efficienza, allora perdiamo la nostra identità.

E la gente ci osserva. Nelle scuole salesiane, si riconosce che i risultati sono buoni – ed è un bene. Ma ci riconoscono anche come uomini di Dio? Questa è la domanda.
Se ci vedono solo come bravi professionisti, allora siamo solo efficienti. Ma la nostra vita deve nutrirsi di Lui – Via, Verità e Vita – non di ciò che “io penso” o che “io voglio” o di “quello che mi sembra”.

Quindi, più che parlare di un progetto mio personale, preferisco parlare di un desiderio profondo: diventare santi. E parlarne in modo concreto, non idealizzato.
Quando don Bosco parlava ai suoi ragazzi di studio, sanità e santità, non si riferiva a una santità fatta solo di preghiera in cappella. Pensava a una santità vissuta nella relazione con Dio e alimentata dalla relazione con Dio. La santità cristiana è il riflesso di questa relazione viva e quotidiana.

Che consigli daresti a un giovane che si interroga sulla vocazione?

Gli direi di scoprire, passo dopo passo, qual è il progetto di Dio per lui.
Il cammino vocazionale non è una domanda che si fa, aspettando poi una risposta pronta da parte della Chiesa. È un pellegrinaggio. Quando un ragazzo mi dice: “Non so se farmi salesiano o no”, cerco di allontanarlo da quella formulazione. Perché non si tratta semplicemente di decidere: “Mi faccio salesiano”. La vocazione non è un’opzione in relazione a ina “cosa”.

Anche nella mia propria esperienza, quando dissi al mio direttore spirituale: “Voglio diventare salesiano, devo esserlo”, lui, con molta calma, mi fece riflettere: “È davvero la volontà di Dio? Oppure è solo un tuo desiderio?”

Ed è giusto che un giovane cerchi ciò che desidera, è una cosa sana. Ma chi accompagna ha il compito di educare quella ricerca, di trasformarla da entusiasmo iniziale in cammino di maturazione interiore.
“Vuoi fare del bene? Bene. Allora conosci te stesso, riconosci di essere amato da Dio.”
È solo a partire da quella relazione profonda con Dio che può emergere la vera domanda: “Qual è il progetto di Dio per me?”
Perché ciò che oggi desidero, domani potrebbe non bastarmi più. Se la vocazione si riduce a ciò che “mi piace”, allora sarà qualcosa di fragile. La vocazione è invece una voce interiore che interpella, che chiede di entrare in dialogo con Dio, e di rispondere.

Quando un giovane arriva a questo punto, quando viene accompagnato a scoprire quello spazio interiore dove abita Dio, allora inizia davvero a camminare.
E per questo, chi accompagna deve essere molto attento, profondo, paziente. Mai superficiale.

Il Vangelo di Emmaus è un’immagine perfetta: Gesù si avvicina ai due discepoli, li ascolta anche se sa che stanno parlando con confusione. Poi, dopo averli ascoltati, comincia a parlare. E loro, alla fine, lo invitano: “Resta con noi, perché si fa sera.”
E lo riconoscono nel gesto di spezzare il pane. Poi si dicono: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli parlava lungo la via?”

Oggi molti giovani sono in ricerca. Il nostro compito, come educatori, è non essere frettolosi. Ma aiutarli, con calma e gradualità, a scoprire la grandezza che è già nel loro cuore. Perché lì, in quella profondità, incontrano Cristo. Come dice sant’Agostino: “Tu eri dentro di me, e io fuori. E lì ti cercavo.”


Avresti un messaggio da trasmettere oggi alla Famiglia Salesiana?

È lo stesso messaggio che ho condiviso anche in questi giorni, durante l’incontro della Consulta della Famiglia Salesiana: La fede. Radicarci sempre di più nella persona di Cristo.

È da questo radicamento che nasce una conoscenza autentica di don Bosco. I primi salesiani, quando vollero scrivere un libro sul vero don Bosco, non lo intitolarono “Don Bosco apostolo dei giovani”, ma “Don Bosco con Dio” – un testo scritto da don Eugenio Ceria nel 1929.
E questo ci fa riflettere. Perché loro, che lo avevano visto in azione ogni giorno, non scelsero di sottolineare il don Bosco instancabile, organizzatore, educatore. No, vollero raccontare il don Bosco profondamente unito a Dio.
Chi lo ha conosciuto bene non si è fermato alle apparenze, ma è andato alla radice: don Bosco era un uomo immerso in Dio.

Alla Famiglia Salesiana dico: abbiamo ricevuto un tesoro. Un dono immenso. Ma ogni dono comporta una responsabilità.
Nel mio discorso finale ho detto: “Non basta amare don Bosco, bisogna conoscerlo.”
E possiamo conoscerlo davvero solo se siamo persone di fede.

Dobbiamo guardarlo con lo sguardo della fede. Solo così possiamo incontrare il credente che fu don Bosco, in cui lo Spirito Santo ha agito con forza: con dýnamis, con cháris, con carisma, con grazia.
Non possiamo limitarci a ripetere certe sue massime o a raccontare i suoi miracoli. Perché corriamo il rischio di fermarci sulle storielle di Don Bosco, invece di fermarci sulla storia di Don Bosco, perché Don Bosco è più grande di Don Bosco.
Questo significa studio, riflessione, profondità. Significa evitare ogni superficialità.

E allora potremo dire con verità: “Questa è la mia fede, questo è il mio carisma: radicati in Cristo, sui passi di Don Bosco.”




Don Bosco e il Sacro Cuore. Custodire, riparare, amare

Nel 1886, alle soglie della consacrazione della nuova Basilica del Sacro Cuore al centro di Roma, il “Bollettino Salesiano” volle preparare i suoi lettori – cooperatori, benefattori, giovani, famiglie – a un incontro vitale con «il Cuore trafitto che continua ad amare». Per un anno intero, la rivista fece scorrere davanti agli occhi del mondo salesiano un vero “rosario” di meditazioni: ciascun numero legava un aspetto della devozione a un’urgenza pastorale, educativa o sociale che don Bosco – già stremato ma lucidissimo – considerava strategica per il futuro della Chiesa e della società italiana. A quasi centoquarant’anni di distanza quella serie resta un piccolo trattato di spiritualità del cuore, scritto con toni semplici ma pieni d’ardore, capace di coniugare contemplazione e prassi. Presentiamo qui, una lettura unitaria di quel percorso mensile, mostrando come l’intuizione salesiana sappia ancora parlare all’oggi.

Febbraio – La guardia d’onore: vegliare sull’Amore ferito
Il nuovo anno liturgico si apre, nel Bollettino, con un invito sorprendente: non solo adorare Gesù presente nel tabernacolo, ma “fargli la guardia” – un turno di un’ora scelta liberamente in cui ogni cristiano, senza interrompere le attività quotidiane, si fa sentinella amorosa che consola il Cuore trafitto dalle indifferenze del carnevale. L’idea, nata a Paray-le-Monial e fiorita in molte diocesi, diventa programma educativo: trasformare il tempo in spazio di riparazione, insegnare ai giovani che la fedeltà nasce da piccoli atti costanti, fare della giornata una liturgia diffusa. Il voto collegato – destinare il ricavato del Manuale della Guardia d’Onore alla costruzione della Basilica romana – rivela la logica salesiana: contemplazione che subito si traduce in mattoni, perché la preghiera vera edifica (letteralmente) la casa di Dio.

Marzo – Carità creativa: il timbro salesiano
Nella grande conferenza dell’8 maggio 1884, il cardinale Parocchi sintetizzò la missione salesiana in una parola: “carità”. Il Bollettino riprende quel discorso per ricordare che la Chiesa conquista il mondo più con gesti d’amore che con dispute teoriche. Don Bosco non fonda scuole d’elite ma ospizi popolari; non toglie i ragazzi dall’ambiente solo per proteggerli, bensì per restituirli alla società come cittadini solidi. È la carità “secondo le esigenze del secolo”: risposta al materialismo non con polemiche, bensì con opere che mostrano la forza del Vangelo. Da qui l’urgenza di un grande santuario dedicato al Cuore di Gesù: far svettare nel cuore di Roma un segno visibile di quell’amore che educa e trasforma.

Aprile – Eucaristia: “capolavoro del Cuore di Gesù”
Nulla, per don Bosco, è più urgente che riportare i cristiani alla Comunione frequente. Il Bollettino ricorda che «non v’è cattolicismo senza Madonna e senza Eucaristia». La mensa eucaristica è “genesi della società cristiana”: da lì nascono fraternità, giustizia, purezza. Se la fede languisce, bisogna riaccendere il desiderio del Pane vivo. Non a caso san Francesco di Sales consegnò alle Visitandine la missione di custodire il Cuore eucaristico: la devozione al Sacro Cuore non è sentimento astratto, ma strada concreta che conduce al tabernacolo e da lì si riversa nelle strade. Ed è ancora il cantiere romano a fare da verifica: ogni lira offerta per la basilica diventa “mattone spirituale” che consacra l’Italia al Cuore che si dona.

Maggio – Il Cuore di Gesù risplende nel Cuore di Maria
Il mese mariano porta il Bollettino a intrecciare le due grandi devozioni: tra i due Cuori esiste una comunione profonda, simboleggiata dall’immagine biblica dello “specchio”. Il Cuore immacolato di Maria riflette la luce del Cuore divino, rendendola sopportabile agli occhi umani: chi non osa fissare il Sole guarda il suo chiarore riflesso nella Madre. Culto di latria per il Cuore di Gesù, di “iperdulia” per quello di Maria: distinzione che evita gli equivoci dei polemisti giansenisti di ieri e di oggi. Il Bollettino smonta le accuse di idolatria e invita i fedeli a un amore equilibrato, dove contemplazione e missione si alimentano a vicenda: Maria introduce al Figlio e il Figlio conduce alla Madre. In vista della consacrazione del nuovo tempio, si chiede di unire le due invocazioni che campeggiano sulle colline di Roma e Torino: Sacro Cuore di Gesù e Maria Ausiliatrice.

Giugno – Consolazioni soprannaturali: l’amore operante nella storia
Duecento anni dopo la prima consacrazione pubblica al Sacro Cuore (Paray-le-Monial, 1686), il Bollettino afferma che la devozione risponde alla malattia del tempo: «raffreddamento della carità per sovrabbondanza d’iniquità». Il Cuore di Gesù – Creatore, Redentore, Glorificatore – viene presentato come centro di tutta la storia: dalla creazione alla Chiesa, dall’Eucaristia all’escatologia. Chi adora quel Cuore entra in un dinamismo che trasforma la cultura e la politica. Per questo il Papa Leone XIII ha chiesto a tutti di concorrere al santuario romano: monumento di riparazione ma anche “argine” contro la «fiumana immonda» dell’errore moderno. È un appello che suona attuale: senza carità ardente, la società si sfilaccia.

Luglio – Umiltà: la fisionomia di Cristo e del cristiano
La meditazione estiva sceglie la virtù più trascurata: l’umiltà, «gemma trapiantata dalla mano di Dio nel giardino della Chiesa». Don Bosco, figlio spirituale di san Francesco di Sales, sa che l’umiltà è la porta delle altre virtù e il sigillo di ogni vero apostolato: chi serve i giovani senza cercare visibilità rende presente «il nascondimento di Gesù per trent’anni». Il Bollettino smaschera la superbia mascherata da falsa modestia e invita a coltivare una doppia umiltà: dell’intelletto, che si apre al mistero, e della volontà, che obbedisce alla verità riconosciuta. La devozione al Sacro Cuore non è sentimentalismo: è scuola di pensiero umile e di azione concreta, capace di costruire pace sociale perché toglie dal cuore il veleno dell’orgoglio.

Agosto – Mansuetudine: la forza che disarma
Dopo l’umiltà, la mansuetudine: virtù che non è debolezza ma dominio di sé, «il leone che genera miele», dice il testo rimandando all’enigma di Sansone. Il Cuore di Gesù appare mite nell’accogliere i peccatori, fermo nel difendere il tempio. I lettori sono invitati a imitare quel duplice movimento: dolcezza verso le persone, fermezza contro l’errore. San Francesco di Sales torna modello: con un tono pacato riversò fiumi di carità nella turbolenta Ginevra, convertendo più cuori di quanti ne avrebbero vinti le polemiche aspre. In un secolo che «pecca di essere senza cuore», edificare il santuario del Sacro Cuore significa erigere una palestra di mansuetudine sociale – una risposta evangelica al disprezzo e alla violenza verbale che già allora avvelenavano il dibattito pubblico.

Settembre – Povertà e questione sociale: il Cuore che riconcilia ricchi e poveri
Il rombo del conflitto sociale, avverte il Bollettino, minaccia di «scagliare in rottami l’edificio civile». Siamo in piena “questione operaia”: i socialisti agitano le masse, i capitali si concentrano. Don Bosco non nega la legittimità della ricchezza onesta, ma ricorda che la vera rivoluzione comincia dal cuore: il Cuore di Gesù proclamò beati i poveri e vissuta in prima persona la povertà. Il rimedio passa per una solidarietà evangelica alimentata dalla preghiera e dalla generosità. Finché il tempio romano non sarà terminato – scrive il giornale – il segno visibile della riconciliazione mancherà. Nei decenni seguenti la dottrina sociale della Chiesa svilupperà queste intuizioni; ma il germe è già qui: la carità non è elemosina, è giustizia che nasce da un cuore trasformato.

Ottobre – Fanciullezza: sacramento della speranza
«Guai a chi scandalizza uno di questi piccoli»: sulle labbra di Gesù, l’invito diventa ammonimento. Il Bollettino ricorda gli orrori del mondo pagano contro i bambini e mostra come il Cristianesimo abbia cambiato la storia affidando ai piccoli un posto centrale. Per don Bosco, l’educazione è atto religioso: nella scuola e nell’oratorio si custodisce il tesoro della Chiesa futura. La benedizione di Gesù ai bimbi, riprodotta sulle prime pagine del giornale, è manifestazione del Cuore che «si stringe come un padre» e annuncia la vocazione salesiana: fare della gioventù un “sacramento” che rende presente Dio nella città. Scuole, collegi, laboratori non sono un optional: sono il modo concreto di onorare il Cuore di Gesù vivo nei ragazzi.

Novembre – Trionfi della Chiesa: umiltà che vince la morte
La liturgia ricorda i santi e i defunti; il Bollettino medita sul “trionfo mite” di Gesù che entra a Gerusalemme. L’immagine diventa chiave di lettura della storia ecclesiale: successi e persecuzioni si alternano, ma la Chiesa, come il Maestro, risorge sempre. I lettori sono invitati a non lasciarsi paralizzare dal pessimismo: le ombre del momento (leggi anticlericali, riduzione degli ordini, propaganda massonica) non cancellano il dinamismo del Vangelo. Il tempio del Sacro Cuore, sorto fra ostilità e povertà, sarà il segno tangibile che «la pietra con i suggelli viene ribaltata». Collaborare alla sua costruzione significa scommettere sul futuro di Dio.

Dicembre – Beatitudine del dolore: la Croce accolta dal cuore
L’anno si chiude con la più paradossale delle beatitudini: «Beati quelli che piangono». Il dolore, scandalo per la ragione pagana, diventa nel Cuore di Gesù via di redenzione e di fecondità. Il Bollettino vede in questa logica la chiave per leggere la crisi contemporanea: società fondate sul divertimento a tutti i costi producono ingiustizia e disperazione. Accettato in unione con Cristo, invece, il dolore trasforma i cuori, rende forte il carattere, stimola la solidarietà, libera dalla paura. Anche le pietre del santuario sono “lacrime trasformate in speranza”: offerte piccole, a volte frutto di sacrifici nascosti, che costruiranno un luogo da cui pioveranno, promette il giornale, «torrenti di caste delizie».

Un lascito profetico
Nel montare mensile del Bollettino Salesiano 1886 colpisce la pedagogia del crescendo: si parte dalla piccola ora di guardia e si approda alla consacrazione del dolore; dal singolo fedele al cantiere nazionale; dal tabernacolo turrito dell’oratorio ai bastioni dell’Esquilino. È un itinerario che intreccia tre assi portanti:
Contemplazione – Il Cuore di Gesù è prima di tutto mistero da adorare: veglia, Eucaristia, riparazione.
Formazione – Ogni virtù (umiltà, mansuetudine, povertà) viene proposta come medicina sociale, in grado di guarire le ferite collettive.
Costruzione – La spiritualità diventa architettura: la basilica non è ornamento, ma laboratorio di cittadinanza cristiana.
Senza forzare, possiamo riconoscere qui la pre-annunciazione di temi che la Chiesa svilupperà lungo il XX secolo: l’apostolato dei laici, la dottrina sociale, la centralità dell’Eucaristia nella missione, la tutela dei minori, la pastorale della sofferenza. Don Bosco e i suoi collaboratori colgono i segni dei tempi e rispondono con la lingua del cuore.

Il 14 maggio 1887, quando Leone XIII consacrò la Basilica del Sacro Cuore, tramite il suo vicario Cardinale Lucido Maria Parocchi, don Bosco – troppo debole per salire l’altare – assistette nascosto tra i fedeli. In quel momento, tutte le parole del Bollettino 1886 divennero pietra viva: la guardia d’onore, la carità educativa, l’Eucaristia centro del mondo, la tenerezza di Maria, la povertà riconciliatrice, la beatitudine del dolore. Oggi quelle pagine chiedono nuovo fiato: tocca a noi, consacrati o laici, giovani o anziani, continuare la veglia, erigere cantieri di speranza, imparare la geografia del cuore. Il programma resta lo stesso, semplice e audace: custodire, riparare, amare.

Nella foto: Dipinto del Sacro Cuore, collocato sull’altare maggiore della Basilica del Sacro Cuore di Roma. L’opera fu voluta da Don Bosco e affidata al pittore Francesco de Rohden (Roma, 15 febbraio 1817 – 28 dicembre 1903).