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Nel luglio 1976, nel cuore del Mato Grosso brasiliano, un giovane missionario salesiano tedesco e un catechista indigeno bororo sigillarono con il sangue la loro fedeltà al Vangelo e l’alleanza con i più poveri. Padre Rodolfo Lunkenbein e Simão Bororo furono uccisi mentre difendevano le terre e i diritti del popolo bororo dalle violenze dei fazendeiros. Il loro sacrificio rappresenta una testimonianza luminosa di come l’annuncio cristiano si incarni nella promozione della giustizia, nel rispetto delle culture indigene e nella difesa degli oppressi. Questo saggio ripercorre il cammino spirituale e missionario di padre Rodolfo, dalla sua vocazione giovanile fino al martirio, evidenziando come la sua vita incarnasse pienamente il motto scelto per la prima Messa: «Sono venuto per servire e dare la vita».
1. Un pellegrinaggio
Vorrei iniziare questo mio intervento condividendo ciò che vissi nel maggio del 2016 quando venni invitato dall’Ispettore di Campogrande (Mato Grosso do Sul – Brasile), don Gildásio Mendes Dos Santos, a visitare i luoghi dove vissero e furono uccisi padre Rodolfo Lunkenbein e Simão Bororo e accompagnare il cammino di discernimento circa l’apertura della Causa di beatificazione. Un discernimento già avviato, preparato da tempo con ricerche, testimonianze, documenti, ma che necessitava di un passo orientatore e decisivo.
Dopo aver inaugurato il mese mariano a Cuiabá, città dove arrivarono i Salesiani nel 1894, visitai le terre indigene dei Bororo e Xavantes dove i Salesiani sono presenti dal 1904. Giunto a Meruri fui accolto dalla comunità bororo con riti di accoglienza propri di quella cultura (canti, danze, investitura, dipinti…). Seguì una sorta di percorso che sempre più si concretizzò come un pellegrinaggio con alcune tappe e stazioni:
– partenza dal cortile della missione, luogo dell’uccisione di padre Rodolfo e Simão il 15 luglio 1976, quasi a significare come il cortile salesiano è davvero luogo di martirio, sia nel senso della dedizione pastorale educativa alla missione ricevuta, sia nel senso della disponibilità a vivere con fedeltà la vocazione fino all’effusione del sangue;
– sosta al cimitero della comunità bororo, dove sono sepolti don Rodolfo e Simão e dove due indigeni commemorarono la vicenda e la figura dei due testimoni (come si faceva nei primi tempi della Chiesa), sottolineando il loro amore per i piccoli e i poveri. Parlarono con una vivacità di ricordi e con un coinvolgimento emozionale come se i fatti fossero avvenuti poco tempo prima. Sulla tomba di padre Rodolfo è scolpito il motto che scelse in occasione della Prima Messa: «Sono venuto per servire e dare la vita». I Bororo lo chiamavano “Pesce dorato”, quasi simbolicamente a ricordare come i primi cristiani esprimevano nel simbolo del pesce il mistero di Cristo;
– pellegrinaggio verso la chiesa parrocchiale della missione, Sagrado Coração de Jesus, passando per la Porta Santa. Infatti, essendo l’Anno della misericordia, il vescovo diocesano aveva stabilito che la chiesa di Meruri fosse chiesa giubilare, in memoria di padre Rodolfo e Simão. Essi hanno dimostrato con la vita e con la morte che la giustizia è essenzialmente un abbandonarsi fiducioso alla volontà di Dio e hanno difeso i poveri e gli oppressi, perdonando i propri uccisori, come fece Simão prima di morire, e come padre Rodolfo aveva espresso in occasione della sua prima omelia;
– celebrazione eucaristica, dove si fece memoria del sacrificio comune di padre Rodolfo e Simão in unione al sacrificio di Cristo. Meruri rappresenta l’alleanza nel sangue: un salesiano, padre Rodolfo, che dà la vita per i Bororo; un Bororo, Simão, che dà la vita per padre Rodolfo;
– incontro con alcuni testimoni: due donne raccontarono come per intercessione di padre Rodolfo avevano ricevuto delle grazie di guarigione: una per una figlia molto ammalata e in pericolo di vita; l’altra per un’altra bambina colpita da un’infezione a un orecchio e istantaneamente guarita. L’incontro con padre Gonzalo Ochoa, testimone diretto dell’uccisione del missionario e dell’indio Simão, e con padre Bartolomeo Giaccaria, che dal 1954 lavora tra gli Xavantes. Toccante la testimonianza di un giovane aspirante salesiano appartenente ai Bororo che parlò di padre Rodolfo con commozione dicendo che in famiglia gli avevano raccontato che grazie al sacrificio del missionario salesiano il suo popolo non si era estinto, anzi era cresciuto di numero e anche in fecondità vocazionale;
– visita al cimitero di Araguaya dove sono conservati i resti mortali dei missionari padre Giovanni Fuchs e padre Pedro Sacilotti uccisi dagli Xavantes il 1° novembre 1934, seme di speranza per la missione salesiana tra gli indios del Mato Grosso.
2. «Un’alleanza di cuori e di sogni in terre missionarie»
Rodolfo Lunkenbein nacque il 1° aprile 1939 a Döringstadt in Germania. Fin da adolescente la lettura delle pubblicazioni salesiane destò in lui il desiderio di essere missionario. Fu mandato in Brasile come missionario e fece il tirocinio pratico nella missione di Meruri, dove rimase fino al 1965. Venne ordinato sacerdote il 29 giugno 1969 in Germania, scegliendo come motto: «Sono venuto per servire e dare la vita». Quindi ritornò a Meruri, accolto con grande affetto dai Bororo, che gli diedero il nome di Koge Ekureu (Pesce dorato). Partecipò nel 1972 alla fondazione del Consiglio Missionario Indigeno (CIMI) e lottò per la difesa delle riserve indigene. Il 15 luglio 1976 venne ucciso nel cortile della missione salesiana. Nella sua ultima visita in Germania, nel 1974, sua madre lo pregava di fare attenzione, perché l’avevano informata dei rischi che correva suo figlio. Lui rispose: «Mamma, perché ti preoccupi? Se mi vogliono spaccare il dito tendo loro le mie due mani. Non c’è niente di più bello che morire per la causa di Dio. Questo sarebbe il mio sogno».
Simão Bororo, amico di don Lunkenbein, nacque a Meruri il 27 ottobre 1937 e fu battezzato il 7 novembre dello stesso anno. Era membro del gruppo di Bororo che accompagnarono i missionari don Pedro Sbardellotto e il Salesiano coadiutore Jorge Wörz nella prima residenza missionaria tra gli Xavantes, nella missione di Santa Teresina, negli anni 1957-58. Tra il 1962 e il 1964 partecipò alla costruzione delle prime case di mattoni per le famiglie bororo di Meruri, diventando un muratore esperto e dedicando il resto della sua vita a questo mestiere. Fu mortalmente ferito nel tentativo di difendere la vita di don Lunkenbein il 15 luglio 1976. Prima di morire perdonò ai suoi uccisori.
Con il loro sacrificio don Lunkenbein e Simão Bororo hanno testimoniato che c’è in mezzo a noi Qualcuno che è più forte del male, più forte di chi lucra sulla pelle dei disperati, di chi schiaccia gli altri con prepotenza… I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al Vangelo. Si rimane stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo.
Don Lunkenbein annunciava un Dio fraterno, promuoveva la giustizia e cercava una vita in pienezza per il popolo bororo, che viveva in un contesto di emarginazione, di disprezzo, minacciato da chi voleva occupare senza scrupoli la sua terra. Egli testimonia come l’annuncio del Vangelo si manifesta nel rispetto e nella promozione della cultura, delle tradizioni, di stili e ritmi di vita della popolazione indigena, sostenendone i processi di liberazione.
Padre Lunkenbein e Simão hanno vissuto un vero incontro con Gesù Cristo sigillando nel sangue un’alleanza profonda, attraverso il dono di sé: «un’alleanza di cuori e di sogni in terre missionarie».
3. Il 15 luglio 1976
La bufera che covava da tempo scoppiò alle nove di quel mattino, quando i fazendeiros arrivarono a Meruri. Non attaccarono subito la missione. Fermarono due agrimensori a quattro chilometri dal villaggio. Disarmarono i quattro indigeni che li accompagnavano, li minacciarono con le loro stesse armi, li fecero salire come prigionieri sulle auto e ripartirono. Raggiunsero alcune case coloniche dove si fermarono per mangiare un boccone e bere cachaça e rum. Eccitati, puntarono decisi sulla missione. Era in corso la lotta antica per la terra. Due organizzazioni collegate con il Ministero degli Interni, la Funai e l’Incra, tutelano gli interessi rispettivamente degli indigeni e dei coloni; ma nello svolgimento dei loro compiti incontrano non poche difficoltà. Centinaia di piccoli possidenti sloggiati dalle grandi fattorie dei ricchi latifondisti, invadevano i territori degli indigeni e lì si fissavano, in situazioni a volte di estrema indigenza. Era il caso di Meruri. La presenza degli agrimensori della Funai venuti a ripartire i terreni aveva d’improvviso rinfocolato il furore. Quando i fazendeiros arrivarono (in tutto erano 62, armati di pistole e coltelli) desiderosi di sfogare la loro rabbia, trovarono solo un piccolo missionario, padre Ochoa. Cominciarono a malmenarlo, gridando che i missionari erano tutti ladroni, che volevano per sé le terre degli indigeni. I guerrieri bororo erano partiti una settimana prima per la caccia all’arara (il grosso pappagallo iridato) e al pecari (una specie di cinghiale). Il piccolo missionario spintonato e insultato non sapeva come difendersi, quando arrivò padre Rodolfo.
Era accalorato per la fatica, e sorridente. Aveva le mani sudice di grasso, perché aveva dovuto riparare ancora una volta la jeep. Gli invasori erano uomini conosciuti nel villaggio. Il capo Eugenio, che aveva finito colazione e si stava avvicinando, riconobbe subito Joào, Preto, e molti altri. Joào e padre Rodolfo parlavano di terre e di misurazioni, e il missionario cercava di dare spiegazioni. «Non è così, queste misurazioni sono cose ufficiali, comandate dalla Funai…». I coloni invece si sentivano defraudati. Allora padre Rodolfo propose di fare l’elenco di tutti coloro che intendevano protestare: egli in persona avrebbe raccolto la loro protesta e l’avrebbe inoltrata alla Funai, l’organizzazione governativa che protegge gli indigeni. Così entrarono nella direzione, e padre Rodolfo si sedette. Scrisse su un grande foglio uno dopo l’altro 42 nomi. Quel foglio con la grafia evidentemente nervosa è rimasto sul tavolo.
Padre Rodolfo non immaginava che scriveva per l’ultima volta, e che vergava i nomi dei suoi uccisori. Sembrava tutto accomodato. Il cacico, i nove indigeni, gli agrimensori, i fazendeiros tornarono all’aperto e padre Rodolfo strinse a ciascuno la mano. Gli agrimensori scaricarono da un’auto le loro attrezzature, per ricuperarle. Vennero estratte anche le armi sequestrate agli indi bororo. Al vedere quella strana operazione, padre Rodolfo uscì in un’esclamazione di stupore e di rimprovero. Gli fu fatale. João Mineiro subito lo percosse con una manata. Gli indigeni accorsero al suo fianco. Joào estrasse di tasca una rivoltella Beretta. Stava prendendo la mira quando Gabriel, uno dei Bororo, gli afferrò il polso. Nello stesso istante Preto estrasse la sua pistola e fece fuoco sul missionario. Dalla veranda suor Rita vide padre Rodolfo portare le mani al petto, e la sua figura alta e robusta barcollare. Preto sparò altri quattro colpi sul missionario, che rovinò al suolo. L’indio Simão che aveva tentato di difendere il missionario fu colpito in pieno. La madre del giovane indio, Tereza, corse presso il figlio per soccorrerlo, e ricevette una pallottola al petto. E finalmente gli assalitori fuggirono. Saltarono sulle auto. Suor Rita corse dove padre Rodolfo giaceva nel sangue. Era vivo, ma agli estremi. Poté offrirgli solo una parola di conforto: «Padre diretor, vai para a casa do Pai» (Padre direttore, torni alla casa del Padre). Il missionario abbozzò un sorriso, poi il suo cuore si fermò. Il sacrificio era compiuto. La Messa di Rodolfo Lunkenbein era finita.
4. Storia della Causa
Il 7 settembre 2016 la Congregazione delle Cause dei Santi ha comunicato a mons. Protógenes José Luft, S.d.C., vescovo di Barra do Garças (Brasile), il nulla osta da parte della Santa Sede alla Causa di martirio dei servi di Dio, Rodolfo Lunkenbein, sacerdote salesiano, e Simão Bororo, laico, uccisi in odio alla fede il 15 luglio 1976 nella missione salesiana di Meruri (Mato Grosso – Brasile).
«Meruri Rodolfo! Meruri Simão! Meruri, martírio, missão!». Questa frase dal poema di mons. Casaldáliga, vescovo emerito della Prelatura di São Félix do Araguaia, non poteva essere più indovinata per descrivere quello che è successo a Meruri, il 31 gennaio 2018 quando Mons. Protógenes José Luft, vescovo di Barra do Garças, ha aperto ufficialmente l’Inchiesta diocesana sulla vita, sul martirio, nonché sulla fama di santità e di segni dei servi di Dio Rodolfo Lunkenbein, Sacerdote professo della Società di San Francesco di Sales, e dell’indigeno Simone Cristiano Koge Kudugodu, detto Simão Bororo, laico.
Non ci sarebbe potuto essere di meglio da presentare a Don Bosco nel giorno della sua festa: un figlio missionario di Don Bosco e un indigeno destinatario della sua missione, in cammino insieme sulla strada verso gli altari. Così continua il poema di mons. Pedro Casaldáliga: “Nella Messa e nella danza, nel sangue e nella terra, tessono l’alleanza Rodolfo e Simão! Meruri nella vita, Meruri nella morte, e l’amore più forte, è la missione compiuta”.
La Causa avanza velocemente: sono già stati ascoltati oltre 40 testimoni sia salesiani, suore, indios bororo, parenti di padre Rodolfo. Incredibile come questa Causa abbia colpito il cuore di tante persone nell’Ispettoria del Mato Grosso, nel Brasile salesiano e nella Chiesa. L’esempio di fede e di amore per il Regno di Dio di Rodolfo e Simão è veramente un segno e una chiamata al rinnovamento e all’ardore missionario. Don Rodolfo e Simão fanno parte di una lunga schiera di missionari cattolici e di indigeni assassinati che hanno accompagnato, evangelizzato gli indios e hanno lottato per i loro diritti. La lotta per la difesa della terra, dei popoli che la abitano e delle sue immense ricchezze naturali, culturali e spirituali, è stata ed è tuttora fecondata dal sangue di martiri.
Questa Causa si svolge nel contesto del 125° anniversario dell’avvio della presenza missionaria salesiana in Mato Grosso: ogni traguardo presuppone sempre un precedente contributo di santità. Inoltre la Causa si svolge nel cammino di preparazione e di celebrazione al Sinodo speciale per la regione Panamazzonica voluto da papa Francesco. Un Sinodo che ha come obiettivo quello di «identificare nuove vie per l’evangelizzazione del popolo di Dio nelle aree della grande Amazzonia, specialmente delle popolazioni indigene».
5. In ascolto di padre Rodolfo
Don Lunkenbein nelle sue lettere, nelle omelie e in altri interventi manifestava il suo cuore missionario e la forza profetica del Vangelo nella promozione della giustizia e della solidarietà. Nella prima omelia pronunciata nella Domenica quindicesima dopo Pentecoste, nella parrocchia di Aschau (Germania), il 15 settembre 1968, il novello sacerdote dopo aver ricordato come «i testi della Messa domenicale ci indicano in forma sempre nuova il senso e la finalità della vita», manifestando come la Parola di Dio sia sempre stata la lampada che ha rischiarato il suo cammino, prosegue commentando il capitolo 6° della lettera di san Paolo ai Galati. Innanzitutto contestualizza in forma davvero significativa la parola proclamata, risvegliando la dignità della persona umana come essere comunitario e figlio amato da Dio: «Siamo esseri razionali, non siamo animali. Viviamo insieme in comunità. Siamo figli di Dio, sia cristiani che non cristiani, e siamo tutti amati da Colui che ci ha creati ed è nostro Padre». Esorta poi a vivere con responsabilità con un’espressione davvero suggestiva: «Perciò ogni cristiano dovrebbe agire come una persona umana con una postura cristiana». Padre Rodolfo in tutte le foto appare come una persona alta, sempre sorridente, con un fisico forte e robusto, quasi a significare anche la sua robustezza interiore.
Chi lo avvicinava per la prima volta rimaneva impressionato dalla sua imponente altezza di 1 metro e 92, tuttavia, subito dopo l’impatto iniziale, chiunque si sentiva accolto dalla bontà contagiosa e dal sorriso allegro ed affettuoso di quel prete salesiano missionario.
E continuava nell’omelia: «Siamo umili, cioè, siamo modesti, poniamoci al nostro posto come creature di Dio che è nostro Padre, signore della creazione, della vita e della morte; questo è il nostro orientamento fondamentale. Essere umili non significa disprezzare la propria dignità, ma al contrario, essere umili è saper vivere alla presenza di Dio che dimora in noi». Il cristiano sull’esempio di Cristo e seguendo le sue orme è chiamato a rinunciare a sé stesso e a vivere secondo la vocazione ricevuta: «Il nostro invio è come il suo: essere qui per gli uomini, per i peccatori, per i malati, per gli anziani e per amarli. In questo modo siamo come Cristo Gesù. Il nostro compito come cristiani è seguire le sue orme. I suoi passi, tuttavia, sono la via dell’amore e del bene. “Non stancarci nel fare il bene”» (Gal 6,9).
Concludeva l’omelia con una preghiera che, alla luce della sua vita terminata nel sacrificio della vita, assume un valore profetico straordinario: «Signore, tu che ci hai detto di amare tutti gli uomini; Padre, tu che ci hai insegnato a pregare: perdonaci i nostri debiti, come noi perdoniamo ai nostri debitori. Ti chiediamo: Possa il tuo regno venire anche ai nostri nemici. Dà loro il pane quotidiano come lo dai a noi. Non posso escludere nessuno dalla mia preghiera e dal mio amore. E nessuno che fa il bene può essere escluso da Dio. Amiamo tutti gli uomini come il Signore ci ha amati. Amen». È una preghiera di perdono e di riconciliazione, che chiede il pane anche per i nemici e manifesta un orizzonte dell’amore che non esclude nessuno. È interessante notare che motivò questa preghiera ricordando la riconciliazione avvenuta tra Bororo e Xavantes, da sempre nemici dichiarati, e sigillata nel Natale del 1964 quando un Cacico xavante ricevette il battesimo avendo come padrino un Cacico bororo.
Nei suoi ultimi scritti appaiono spesso allusioni alla morte: «Anche oggi, un missionario deve essere disposto a morire per fare il suo dovere. L’aiuto che ci darete mostra che avete capito chiaramente cosa significa oggi essere cristiano: sacrificarsi con Cristo, soffrire con Cristo, morire con Cristo e vincere con Cristo per la salvezza di tutto il mondo, del nostro prossimo».
(Lettera ai suoi connazionali dell’11.08.1975).
La figura del catechista indigeno Simão rappresenta un modello di cristiano «che seppe assumere la vocazione con radicalità evangelica, fece l’esperienza dell’inculturazione del Vangelo nella propria vita, testimoniò la fede personale in Gesù Cristo, condividendo la gioia del Vangelo con il suo popolo e i missionari». La santità di don Rodolfo e Simão è testimonianza di una fede nel Risorto vissuta nel servizio quotidiano, nel contatto fraterno con le persone, nel lavoro, nella predicazione della Parola e nella catechesi, nella preghiera ordinaria, nell’amore per la Madonna, nella gioia e nell’impegno evangelico per la causa indigena.

