Don Bosco e la chiesa del Santo Sudario

La Santa Sindone di Torino, reliquia tra le più venerate della cristianità, ha una storia millenaria intrecciata con quella dei Savoia e della città sabauda. Giunta a Torino nel 1578, divenne oggetto di profonda devozione, con ostensioni solenni legate a eventi storici e dinastici. Nell’Ottocento, figure come san Giovanni Bosco e altri santi torinesi ne promossero il culto, contribuendo alla sua diffusione. Oggi custodita nella Cappella del Guarini, la Sindone è al centro di studi scientifici e teologici. Parallelamente, la chiesa del Santo Sudario a Roma, legata ai Savoia e alla comunità piemontese, rappresenta un altro luogo significativo, dove don Bosco tentò di stabilire una presenza salesiana.

            La Santa Sindone di Torino, detta impropriamente «Santo Sudario» dall’uso francese di chiamarla «Le Saint Suaire», fu proprietà di Casa Savoia sin dal 1463, e venne trasferita da Chambery nella nuova capitale sabauda nel 1578.
            In quello stesso anno se ne celebrò la prima Ostensione, voluta da Emanuele Filiberto in omaggio al card. Carlo Borromeo che veniva a Torino in pellegrinaggio per venerarla.

Ostensioni nel secolo XIX e culto della Sindone
            Nel secolo XIX si ricordano in particolare le Ostensioni del 1815, 1842, 1868 e 1898: la prima per il rientro dei Savoia nei loro Stati, la seconda per le nozze di Vittorio Emanuele II con Maria Adelaide di Asburgo-Lorena, la terza per le nozze di Umberto I con Margherita di Savoia-Genova, e la quarta in occasione dell’Esposizione Universale.
            I Santi dell’800 torinese, il Cottolengo, il Cafasso e don Bosco, furono devotissimi della Santa Sindone, emuli sull’esempio del Beato Sebastiano Valfré, l’apostolo di Torino nell’assedio del 1706.
            Le Memorie Biografiche ci assicurano che don Bosco la venerò in particolare all’Ostensione del 1842 e a quella del ’68, quando portò anche i ragazzi dell’oratorio a vederla (MB II, 117; IX, 137).
            Oggi la tela senza prezzo, donata da Umberto II di Savoia alla Santa Sede, è affidata all’Arcivescovo di Torino «Custode Pontificio» e conservata nella sontuosa Cappella del Guarini, retrostante il Duomo.
            A Torino vi è pure, in via Piave angolo via San Domenico, la Chiesa del Santo Sudario, eretta dalla Confraternita omonima e rifatta nel 1761. Adiacente alla chiesa vi è il «Museo Sindonologico» e la sede del Sodalizio «Cultores Sanctae Sindonis», centro di studi sindonologici ai quali hanno dato preziosi contributi studiosi salesiani come don Natale Noguier de Malijay, don Antonio Tonelli, don Alberto Caviglia, don Pietro Scotti e, più recentemente, don Pietro Rinaldi e don Luigi Fossati, per nominare solo i principali.

La chiesa del Santo Sudario a Roma
            Una chiesa del Santo Sudario esiste anche a Roma lungo la via omonima che parte dal Largo Argentina parallelamente a Corso Vittorio. Eretta nel 1604 su disegno di Carlo di Castellamonte, fu la Chiesa dei Piemontesi, Savoiardi e Nizzardi, fatta costruire dalla Confraternita del Santo Sudario sorta in quel tempo a Roma. Dopo il 1870 divenne la chiesa particolare di Casa Savoia.
            Don Bosco nei suoi soggiorni romani celebrò varie volte la Santa Messa in quella chiesa e formulò su di essa e sulla casa adiacente un progetto in linea con lo scopo dell’allora estinta Confraternita, dedita ad opere caritative verso la gioventù abbandonata, gli infermi ed i carcerati.
            La Confraternita aveva cessato di operare agli inizi del secolo e la proprietà ed amministrazione della chiesa erano passate alla Legazione Sarda presso la Santa Sede. Negli anni ’60 la chiesa esigeva ormai grossi restauri tanto che nel 1868 venne temporaneamente chiusa.
            Ma già nel 1867 don Bosco era giunto all’idea di proporre al Governo Sabaudo di cedergliene l’uso e l’amministrazione, offrendo la propria collaborazione in denaro per condurre a termine i restauri. Forse egli presentiva non lontana l’entrata delle truppe piemontesi in Roma e, desiderando di aprirvi una casa, pensò di farlo prima che la situazione precipitasse rendendo più difficile ottenere il beneplacito della Santa Sede ed il rispetto degli accordi da parte dello Stato (MB IX, 415-416).
            Presentò quindi la richiesta al Governo. Nel 1869, in una sosta a Firenze, preparò un progetto di convenzione che, giunto a Roma, fece conoscere a Pio IX. Ottenuto il suo assenso, passò alla richiesta ufficiale al Ministero degli Affari Esteri, ma, purtroppo, l’occupazione di Roma venne poi a pregiudicare tutto l’affare. Don Bosco stesso vide l’inopportunità di insistere. L’assumere, infatti, in quel momento, l’ufficiatura di una chiesa romana appartenente ai Savoia da parte di una Congregazione religiosa con Casa Madre a Torino, sarebbe potuto apparire un atto di opportunismo e di servilismo verso il nuovo Governo.
            Dopo la breccia di Porta Pia, con verbale del 2 dicembre 1871, la Chiesa del SS. Sudario fu annessa alla Casa Reale e designata come sede ufficiale del Cappellano maggiore palatino. In seguito all’interdetto di Pio IX sulle Cappelle dell’ex palazzo apostolico del Quirinale, fu proprio nella Chiesa del Sudario che si svolgevano tutti i riti sacri della Famiglia Reale.
            Nel 1874 don Bosco tastò nuovamente il terreno presso il Governo. Ma, sfortunatamente, notizie intempestive trapelate dai giornali, mandarono definitivamente a monte il progetto (MB X, 1233-1235).
            Con la fine della monarchia, nel 2 di giugno del 1946, l’intero complesso del Sudario passò sotto la gestione della Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica. Nel 1984, a seguito del nuovo Concordato che sancì l’abolizione delle Cappelle palatine, la Chiesa del Sudario fu affidata all’Ordinariato Militare e così è rimasta fino ad oggi.
            A noi, tuttavia, piace ricordare il fatto che don Bosco, nel cercare l’occasione propizia per aprire una casa in Roma, abbia posto lo sguardo sulla Chiesa del Santo Sudario.




La decima collina (1864)

Il sogno della “Decima Collina”, narrato da don Bosco nell’ottobre 1864, è una delle pagine più suggestive della tradizione salesiana. In esso il santo si ritrova in una sterminata valle colma di giovani: alcuni già all’Oratorio, altri ancora da incontrare. Guidato da una voce misteriosa, deve condurli oltre una ripida scarpata e poi attraverso dieci colline, simbolo dei dieci comandamenti, verso una luce che prefigura il Paradiso. Il carro dell’Innocenza, le schiere penitenziali e la musica celestiale disegnano un affresco educativo: mostrano la fatica di preservare la purezza, il valore del pentimento e il ruolo insostituibile degli educatori. Con questa visione profetica don Bosco anticipa l’espansione mondiale della sua opera e l’impegno di accompagnare ogni giovane sul cammino della salvezza.

                D. Bosco aveva sognato nella notte precedente. Nello stesso tempo un giovane di nome C… E… di Casal Monferrato, fece egli pure lo stesso sogno, parendogli di trovarsi con D. Bosco e di parlargli. Levatosi ne era rimasto tanto colpito che andò a raccontare le cose sognate al suo professore, il quale lo esortò di recarsi a narrarle a D. Bosco. Il giovane andò subito e s’imbatté con lui stesso che scendeva le scale, per cercarlo e narrargli la stessa cosa.
                Parve adunque a D. Bosco di trovarsi in una grandissima valle tutta piena di migliaia e migliaia di giovanetti, ma così numerosi che esso non credeva potersene trovare tanti in tutto il mondo. Fra questi giovani egli distingueva tutti quelli che furono, e quelli che sono nella casa. Tutti gli altri erano coloro che forse verranno poi. Frammisti ai giovani si vedevano i preti ed i chierici della casa.
                Una ripa altissima chiudeva da un lato quella valle. Mentre D. Bosco pensava che cosa avrebbe dovuto fare di tanti giovani, una voce gli disse:
                – Vedi quella ripa? Ebbene; bisogna che tu e i tuoi giovani ne guadagniate la cima.
                Allora D. Bosco diede ordine a tutte quelle, turbe di giovani di muoversi verso il punto indicato. I giovani si mossero e a gran corsa si slanciarono arrampicandosi su per la ripa. I preti della casa correvano anche essi all’insù spingendo avanti i giovani, rialzavano quelli che cadevano e portavano sulle spalle coloro che stanchi non potevano camminare. D. Rua colle maniche della veste rivoltate lavorava più di tutti e, prendendo i giovani a due per due, addirittura gli slanciava per aria sulla ripa, sulla quale cadendo essi restavano in piedi e poi scorrazzavano allegramente qua e là. D. Cagliero e D. Francesia correvano su e giù per le file gridando:
                – Coraggio, avanti; avanti, coraggio.
                In poco d’ora quelle schiere giovanili raggiunsero la cima della ripa; D. Bosco pure era salito e disse:
                – Ed ora che cosa faremo?
                E la voce soggiunse:
                – Tu devi valicare coi tuoi giovani queste dieci colline che vedi distendersi innanzi a te l’una dopo l’altra.
                – Ma come faranno a reggere ad un viaggio così lungo tanti giovanetti che sono così piccoli e delicati?
                – Chi non potrà andare coi suoi piedi, sarà portato; – gli fu risposto.
                Ed ecco infatti spuntare ad una estremità del colle e salire un magnifico carro. Impossibile ne è la descrizione tanto era bello, ma pure qualche cosa si può dire. Era triangolare e aveva tre ruote che si movevano per tutti i versi. Dai tre angoli partivano tre aste che venivano a congiungersi in un punto solo sopra il carro stesso, formando come un pinnacolo di pergolato. Su questo punto di congiunzione si innalzava un magnifico stendardo sul quale era scritto a caratteri cubitali: Innocentia. Una fascia poi che correva tutto intorno al carro, formava sponda e portava l’iscrizione: Adjutorio Dei Altissimi Patris et Filii et Spiritus Sancti (al riparo di Dio Altissimo, Padre e Figlio e Spirito Santo).
                Il carro, che splendeva tutto per oro e pietre preziose, si avanzò e venne a collocarsi in mezzo ai giovani. Dato il comando, molti fanciulletti vi salirono sopra. Il numero era di 500. Cinquecento appena in mezzo a tante migliaia di giovani erano ancora innocenti.
                Collocati questi sul carro D. Bosco pensava per quale via avrebbe dovuto incamminarsi, quando vide aprirsi innanzi a lui una strada larga e comoda, ma tutta sparsa di spine. Apparvero quindi all’improvviso sei giovani, già morti nell’Oratorio, vestiti di bianco, i quali inalberavano un’altra bellissima bandiera sulla quale era scritto: Poenitentia. Costoro si andarono a posare alla testa di tutte quelle falangi di giovani che dovevano mettersi in viaggio pedestri. Allora fu dato il segnale della partenza. Molti preti si slanciano al timone del carro, il quale tratto da essi incomincia a muoversi. I sei vestiti di bianco lo seguono. Dietro a loro tutto il resto della moltitudine. Con magnifica ed inesprimibile musica si intona dai giovanetti che erano sul carro il Laudate pueri Dominum (Lodate Dio voi piccoli, Ps 113,1).
                D. Bosco camminava inebbriato da quella musica celeste, quando si ricordò di voltarsi indietro, per vedere se tutti i giovani lo avevano seguito. Ma oh doloroso spettacolo! Molti erano rimasti nella valle, molti erano ritornati indietro. Don Bosco agitato da inesprimibile dolore decise di rifare il cammino già fatto per tentar di persuadere quei giovani sconsigliati, e di aiutarli a seguirlo. Ma gli venne assolutamente vietato.
                – Ma quei poverini si perdono: – esclamò egli.
                E gli venne, risposto:
                – Peggio per loro: essi furono chiamati come gli altri e non vollero seguirti. La strada da farsi l’hanno veduta e ciò basta.
                D. Bosco voleva replicare; pregò, scongiurò: tutto fa inutile:
                – L’obbedienza è anche per te! – gli fu detto. E dovette continuare il cammino.
                Non erasi ancor lenito questo dolore, quando un altro tristo accidente sopravvenne. Molti giovanetti di quelli che si trovavano sul carro a poco a poco erano caduti per terra. Di 500 appena 150 rimanevano sotto il vessillo dell’innocenza.
                Il cuore di D. Bosco scoppiava per l’insopportabile affanno. Esso sperava fosse quello un sogno, faceva tutti gli sforzi per svegliarsi, ma pur troppo si accorgeva che era una terribile realtà. Batteva le mani ed udiva il suono di esse: gemeva, ed udiva che il suo gemito risuonare per la stanza; voleva dissipare quel terribile fantasma, ma non poteva.
                – Ah miei cari giovani! egli esclamava a questo punto, narrando il sogno. Io ho conosciuto e veduto coloro che rimasero nella valle, quelli che tornarono indietro o caddero dal carro! Vi ho conosciuti tutti. Ma non dubitate; io farò ogni sforzo possibile per salvarvi. Molti di voi invitati da me a confessarsi non risposero alla chiamata! Per carità salvate le anime vostre.
                Molti dei giovanetti caduti dal carro si erano di mano in mano andati a porre tra le file di coloro che camminavano dietro la seconda bandiera. Intanto la musica del carro continuava così dolce che a poco a poco vinse il dolore di D. Bosco. Sette colline erano già valicate e giunte quelle schiere sulla ottava, entrarono in un meraviglioso paese, dove si fermarono a prendere un po’ di riposo. Le case erano di una ricchezza e bellezza indescrivibile.
                D. Bosco parlando ai giovani di questa regione soggiunse:
                – Vi dirò con Santa Teresa ciò che essa affermò delle cose del paradiso: sono cose che col parlarne si avviliscono, perché sono così belle che è inutile sforzarsi a descriverle. Quindi osserverò solamente che gli stipiti di quelle case parevano di oro, di cristallo, di diamante tutt’insieme, sicché sorprendevano, appagavano la vista infondevano allegrezza. I campi erano ripieni d’alberi sui quali si vedevano contemporaneamente fiori, bottoni, frutta matura e frutta verde. Era un incanto magnifico.
                I giovani si sparsero pel paese chi di qua e chi di là, chi per una cosa, chi per l’altra, poiché grande era la loro curiosità e il desiderio di avere di quella frutta.
                È in questo villaggio che quel giovane di Casale si imbatté in D. Bosco e tenne con lui un lungo dialogo. D. Bosco e il giovane si ricordavano perfettamente le domande fatte e le risposte avute. Singolare combinazione di due sogni.
                D. Bosco ebbe qui un’altra strana sorpresa. I suoi giovani gli apparvero ad un tratto come divenuti vecchi; senza denti, pieni di rughe in volto, coi capelli bianchi, curvi, zoppicanti, appoggiati al bastone. D. Bosco si meravigliava di questa metamorfosi, ma la voce gli disse:
                – Tu ti meravigli; ma hai da sapere che non sono già poche ore dacché sei partito dalla valle, ma sono anni ed anni. È quella musica che ti ha fatto parer corto il cammino. In prova, guarda la tua fisionomia e ti persuaderai se io dico il vero. – E a D. Bosco venne presentato uno specchio. Egli si specchiò e vide che il suo aspetto era d’uomo attempato, col volto rugoso, e coi denti guasti e pochi.
                La comitiva frattanto si rimise in cammino e i giovani a quando a quando chiedevano di fermarsi per vedere quelle nuove cose. Ma D. Bosco diceva loro:
                – Avanti, avanti: noi non abbisogniamo di nulla; non abbiamo fame, noti abbiam sete, dunque avanti.
                (In fondo lontano, sulla decima collina spuntava una luce che andava sempre crescendo come se uscisse da una stupenda porta). Ricominciò allora il canto, ma così bello che solo in Paradiso si può udire l’eguale e gustarlo. Non era musica di istrumenti, né pareva di voci umane. Era una musica impossibile a descriversi; e tanta fu la piena del giubilo che inondò l’anima di D. Bosco che svegliatosi si trovò nel suo letto.
                D. Bosco così spiegò il suo sogno:
                – La valle è il mondo. La ripa gli ostacoli per staccarsi da esso. – Il carro lo capite. – Le squadre dei giovani a piedi sono i giovani che perduta l’innocenza, si pentirono dei loro falli.
                D. Bosco aggiunse ancora che le 10 colline raffiguravano i 10 comandamenti della legge di Dio, l’osservanza dei quali conduce alla vita eterna.
                Quindi annunziò che, se facesse di bisogno era pronto a dire confidenzialmente a certi giovani che cosa facevano in quel sogno; se restarono nella valle o se caddero dal carro.
                Disceso dalla bigoncia, l’alunno Ferraris Antonio si avvicinò a lui, e gli raccontò, essendo noi presenti che intendemmo perfettamente le sue parole, come la sera precedente avesse egli sognato di trovarsi in compagnia di sua madre, la quale gli aveva domandato se a Pasqua sarebbe tornato a casa per passarvi i giorni di vacanza: esso averle risposto che prima di Pasqua sarebbe andato in paradiso. Quindi in confidenza sottovoce disse alcune altre parole nell’orecchio a D. Bosco. Ferraris Antonio morì il 16 marzo 1865.
                Noi abbiamo subito scritto il sogno, e la stessa sera 22 ottobre 1864 sul fine aggiungevamo la seguente postilla. “Io tengo per certo che D. Bosco colle sue spiegazioni cercò di coprire ciò che il sogno ha di più sorprendente, almeno per qualche circostanza. Quella dei dieci comandamenti non mi appaga. L’ottava collina sulla quale D. Bosco fa una sosta, ed egli si vede nello specchio così attempato, io credo che indichi il fine della sua vita dover succedere oltre i settanta anni. Vedremo l’avvenire”.
                Questo avvenire è dunque ora tempo passato, e noi ci siamo confermati nella nostra opinione. Il sogno indicava a Don Bosco la durata del suo vivere. Confrontiamo con questo, quello della Ruota, che noi non potemmo conoscere se non qualche anno dopo. I giri della Ruota procedono per decenni: e così pure sembra che’ abbracci simile spazio di tempo il procedere di collina in collina. Ognuna della dieci colline rappresenta dieci anni, sicché vengono a significare cento anni il massimo della vita di un uomo. Ora noi vediamo D. Bosco ancor fanciullo, nel primo decennio, incominciare la sua missione tra i compagni dei Becchi e così dar principio al suo viaggio; percorre interamente le sette colline cioè sette decenni quindi la sua età giunge a settant’anni: sale l’ottava collina e qui fa una sosta: vede case e campi meravigliosamente belli, ovvero la sua Pia Società resa grande e fruttifera dalla bontà infinita di Dio. È ancor lunga la via da percorrere sulla ottava collina e si rimette in viaggio; ma non giunge alla nona, perché si risveglia. Così egli non campò l’ottavo decennio, morendo a 72 anni e 5 mesi.
                Che ne dice il lettore? Aggiungeremo che la sera dopo Don Bosco avendo interrogato noi stessi qual fosse il nostro pensiero intorno al sogno, gli abbiamo risposto, che non riguardava solamente i giovani, ma sebbene indicava la dilatazione della Pia Società in tutto il mondo.
                – Ma che? replicò uno dei nostri confratelli; abbiamo già i collegi di Mirabello e di Lanzo e se ne aprirà qualche altro in Piemonte. Che cosa vuoi di più?
                – No; sono ben altri i destini che ci annunzia il sogno.
                E D. Bosco approvava, sorridendo, la nostra persuasione.
(MB VII, 796-802)




L’educazione al femminile con san Francesco di Sales

Il pensiero educativo di san Francesco di Sales rivela una visione profonda e innovativa del ruolo femminile nella Chiesa e nella società del suo tempo. Convinto che la formazione delle donne fosse fondamentale per la crescita morale e spirituale dell’intera comunità, il santo vescovo di Ginevra promosse un’educazione equilibrata, rispettosa della dignità femminile ma anche attenta alle fragilità. Con uno sguardo paterno e realista, seppe cogliere e valorizzare le qualità delle donne, incoraggiandole a coltivare virtù, cultura e devozione. Fondatore della Visitazione con Giovanna di Chantal, difese con vigore la vocazione femminile anche contro critiche e pregiudizi. Il suo insegnamento continua a offrire spunti attuali sull’educazione, l’amore e la libertà nella scelta della propria vita.

            In occasione del suo viaggio a Parigi nel 1619, Francesco di Sales incontrò Adrien Bourdoise, un prete riformatore del clero, che gli rimproverò di occuparsi troppo delle donne. Il vescovo gli avrebbe risposto con calma che le donne erano la metà del genere umano e che, formando buone cristiane, si avrebbero avuti giovani buoni, e con giovani buoni, buoni preti. D’altronde, san Girolamo non ha consacrato loro parecchio tempo e vari scritti? La lettura delle sue lettere è raccomandata da Francesco di Sales alla signora di Chantal, la quale vi troverà, tra l’altro, numerose indicazioni «per educare le sue figlie». Se ne dedurrà che il ruolo delle donne in ambito educativo giustificava, ai suoi occhi, il tempo e la sollecitudine ad esse dedicati.

Francesco di Sales e le donne del suo tempo
            “Bisogna aiutare il sesso femminile, disprezzato”, aveva detto un giorno il vescovo di Ginevra a Jean-François de Blonay. Per comprendere le preoccupazioni e il pensiero di Francesco di Sales conviene situarlo nella sua epoca. Occorre dire che un certo numero di sue affermazioni sembrano ancora molto legate alla mentalità corrente. Nella donna del suo tempo deplorava «questa femminile tenerezza con sé stesse», la facilità «nel compatirsi e nel desiderare di essere compatite», una maggiore propensione rispetto agli uomini «a dar credito ai sogni, ad aver paura degli spiriti e ad essere credulone e superstiziose», e soprattutto, gli «attorcigliamenti dei loro vanitosi pensieri». Tra i consigli dati alla signora di Chantal attinenti all’educazione delle figlie, scriveva senza esitazione: “Togliete loro la vanità dall’anima: nasce quasi assieme al sesso”.
            Tuttavia, le donne sono dotate di grandi qualità. Scriveva a proposito della signora di La Fléchère che aveva appena perso il marito: “Se avessi soltanto questa perfetta pecorella nel mio ovile, non mi sarei angustiato d’essere pastore di questa afflitta diocesi. Dopo la signora di Chantal, non so se ho mai incontrato un’anima più forte in un corpo femminile, uno spirito più ragionevole e un’umiltà più sincera”. Le donne non sono affatto le ultime nella pratica delle virtù: “Non abbiamo forse visto molti grandi teologi che hanno detto cose meravigliose sulle virtù, non però per praticarle, mentre, al contrario, ci sono tante sante donne che non sanno parlare di virtù, ma che tuttavia conoscono molto bene come praticarle?”.
            Sono le donne sposate quelle più degne di ammirazione: «Oh mio Dio! Come sono gradite a Dio le virtù di una donna sposata; infatti devono essere forti ed eccellenti per poter durare in tale vocazione!». Nella lotta per conservare la castità, riteneva che «le donne sovente hanno combattuto in maniera più coraggiosa rispetto agli uomini».
            Fondatore di una congregazione di donne assieme a Giovanna di Chantal, fu in costante relazione con le prime religiose. Accanto a lodi, incominciarono a piovere le critiche. Spinto in queste trincee, il fondatore dovette difendersi e difenderle, non soltanto in quanto religiose, ma anche in quanto donne. In un documento che doveva servire come prefazione delle Costituzioni delle visitandine, troviamo la vena polemica di cui sapeva dar prova, dirigendosi non più contro «eresiarchi», ma contro «censori» malevoli e ignoranti:

La presunzione e inopportuna arroganza di parecchi figli di questo secolo, che biasimano ostentatamente tutto ciò che non è secondo il loro spirito […], mi offre l’occasione, meglio mi costringe a stendere questa Prefazione, mie carissime Suore, per armare e difendere la vostra santa vocazione contro le punte dello loro lingue pestifere; affinché le anime buone e pie, che senza dubbio sono legate al vostro  amabile e onorato Istituto, trovino qui come respingere le frecce scagliate dalla temerità di questi bizzarri e insolenti censori.

            Prevedendo forse che un tale preambolo rischiava di danneggiare la causa, il fondatore della Visitazione scrisse una seconda edizione addolcita, allo scopo di mettere in luce la fondamentale uguaglianza dei sessi. Dopo aver citato la Genesi, questa volta ne faceva il seguente commento: “La donna, dunque, non meno dell’uomo, ha la grazia di essere stata fatta a immagine di Dio; pari onore nell’uno e nell’altro sesso; le loro virtù sono uguali”.

L’educazione delle figlie
            Il nemico del vero amore è la “vanità”. Questo era il difetto che Francesco di Sales, come peraltro i moralisti e i pedagoghi del suo tempo, temeva di più nell’educazione delle giovani. Ne rileva parecchie manifestazioni. Guardate «queste signorine di mondo, che essendosi ben sistemate, vanno in giro gonfie d’orgoglio e di vanità, con la testa alta, gli occhi aperti, ansiose d’essere notate dai mondani».
            Il vescovo di Ginevra si diverte un poco nel prendere in giro queste «ragazze di società», che «portano cappelli sparsi e incipriati», con la testa «ferrata come si ferrano gli zoccoli dei cavalli», tutte «impennacchiate e infiorate quanto non è possibile dire» e «cariche di fronzoli». Ci sono di quelle che «indossano vesti che stringono e danno loro molto fastidio, e questo per far vedere che sono snelle»; ecco una vera “pazzia che per lo più le rende incapaci di fare alcunché”.
            Che pensare allora di certune bellezze artificiali trasformate in «boutiques di vanità?». Francesco di Sales preferisce una «faccia limpida e pulita», desidera «che non ci sia nulla di affettato, perché tutto ciò che è imbellettato dispiace». Occorre allora condannare ogni «artificio»? Ammette volentieri che «nel caso di qualche difetto di natura, bisogna correggerlo in modo da vederne la correzione, ma spoglia d’ogni artificio».
            E il profumo? si chiedeva il predicatore parlando della Maddalena. «È una cosa eccellente – risponde –; anche colui che è profumato ne percepisce qualcosa di eccellente»; aggiungendo, da buon conoscitore, che «il muschio della Spagna gode di grande stima nel mondo». Nel capitolo sulla «decenza degli abiti», permette che le giovani abbiano vestiti con ornamenti vari, «perché possono liberamente desiderare di essere gradevoli a molti, ma con l’unico scopo di guadagnarsi un giovane in vista di un santo matrimonio». Chiudeva con questa indulgente osservazione: «Che volete? È pur conveniente che le signorine siano un po’ carine».
            È opportuno aggiungere che la lettura della Bibbia l’aveva preparato a non fare il muso duro davanti alla bellezza femminile. Nell’amante del Cantico dei cantici, ammirava «la notevole bellezza del suo viso simile a un bouquet di fiori». Descrive Giacobbe che, incontrando Rachele presso il pozzo, «versava lacrime di gioia scorgendo una vergine che gli piaceva e l’incantava per la grazia del volto». Amava anche raccontare la storia di santa Brigida, nata in Scozia, un paese dove si ammirano «le più belle creature che uno possa vedere»; era «una giovane oltremodo avvenente», ma la sua bellezza era «naturale», precisa il nostro autore.
            L’ideale della bellezza salesiana si chiama «buona grazia», che designa non soltanto «la perfetta armonia delle parti che fa essere bello», ma anche la «grazia dei movimenti, dei gesti e delle azioni, che è come l’anima della vita e della bellezza», ossia la bontà di cuore. La grazia esige «semplicità e modestia». Ora, la grazia è una perfezione che deriva dall’intimo della persona. È la bellezza unita alla grazia che fa di Rebecca l’ideale femminile della Bibbia: ella era «così bella e graziosa presso il pozzo dove attingeva l’acqua per abbeverare il gregge», e la sua «familiare bontà» le ispirava, inoltre, di dar da bere non soltanto ai servi di Abramo, ma anche ai suoi cammelli.

Istruzione e preparazione alla vita
            Ai tempi di san Francesco di Sales, le donne avevano poche possibilità di accedere a studi superiori. Le ragazze imparavano ciò che udivano da parte dei loro fratelli e, quando la famiglia ne aveva la possibilità, frequentavano un monastero. La lettura era certamente più frequente della scrittura. I collegi erano riservati ai ragazzi, di conseguenza, imparare il latino, lingua della cultura, era praticamente interdetto alle ragazze.
            Bisogna credere che Francesco di Sales non era contrario al fatto che le donne potessero diventare persone colte, ma a condizione che non cadessero nella pedanteria e nella vanità. Ammirava santa Caterina che era «molto erudita, ma umile in tanta scienza». Tra le interlocutrici del vescovo di Ginevra, la signora di La Fléchère aveva studiato latino, italiano, spagnolo e le belle arti, ma era un’eccezione.
            Per trovare loro un posto nella vita, sia in ambito sociale che in quello religioso, a un certo momento le giovani avevano spesso bisogno di un aiuto particolare. Georges Rolland riferisce che il vescovo si occupò personalmente di parecchi casi difficili. Una donna di Ginevra, con tre figlie, fu assistita generosamente dal vescovo, «con denaro e crediti»; «collocò una di dette figlie come apprendista presso un’onesta signora della città, pagandole la pensione per sei anni, in grano e in denaro». Donò pure 500 fiorini per il matrimonio della figlia di uno stampatore di Ginevra.
            L’intolleranza religiosa del tempo talvolta provocava dei drammi, ai quali Francesco di Sales cercava di porre rimedio. Marie-Judith Gilbert, educata a Parigi dai genitori negli «errori di Calvino», scoprì a diciannove anni il libro della Filotea, che osava leggere soltanto in segreto. Ne prese in simpatia l’autore, di cui aveva sentito parlare. Sorvegliata strettamente dal padre e dalla madre, riuscì a farsi prelevare in carrozza, si fece istruire nella religione cattolica ed entrò tra le suore della Visitazione.
            Il ruolo sociale delle donne rimaneva ancora piuttosto limitato. Francesco di Sales non del tutto contrario all’intervento delle donne nella vita pubblica. Scriveva in questi termini, ad esempio, a una donna portata a intervenire in ambito pubblico, a proposito e a sproposito:

Il vostro sesso e la vostra vocazione vi consentono di reprimere il male esterno a voi, ma solo se ciò è ispirato dal bene e compiuto con rimostranze semplici, umili e caritatevoli nei confronti dei trasgressori e avvertendone i superiori nei limiti del possibile.

            D’altra parte, è significativo che una contemporanea di Francesco di Sales, la signorina di Gournay, una prima femminista ante litteram, una intellettuale e autrice di testi polemici come il suo trattato L’uguaglianza degli uomini e delle donne e La lagnanza delle donne, gli abbia manifestato grande ammirazione. Costei si accanì durante tutta la sua vita a dimostrare questa uguaglianza, raccogliendo tutte le testimonianze possibili in merito, senza dimenticare quella del «buono e santo vescovo di Ginevra».

Educazione all’amore
            Francesco di Sales ha parlato molto dell’amore di Dio, ma è stato anche assai attento alle manifestazioni dell’amore umano. Per lui, infatti, l’amore è uno, anche se il suo «oggetto» è diverso e disuguale. Per spiegare l’amore di Dio non ha saputo fare meglio se non partendo dall’amore umano.
            L’amore nasce dalla contemplazione del bello, e il bello si lascia percepire dai sensi, soprattutto dagli occhi. Si stabilisce un fenomeno interattivo tra lo sguardo e la bellezza: «Il contemplare la bellezza ce la fa amare, e l’amore ce la fa contemplare». L’odorato reagisce allo stesso modo; infatti, «i profumi esercitano l’unico loro potere di attrazione con la loro soavità».
            Dopo l’intervento dei sensi esterni subentra quello dei sensi interni, la fantasia, l’immaginazione, che esaltano e trasfigurano il reale: «In forza di questo reciproco movimento dell’amore verso la vista e della vista verso l’amore, allo stesso modo che l’amore rende più splendente la bellezza della cosa amata, così la vista della cosa amata rende l’amore più innamorato e piacevole”. Si comprende allora perché «coloro che hanno dipinto Cupido ne hanno bendato gli occhi, affermando che l’amore è ceco». A questo punto sopraggiunge l’amore-passione: esso fa «ricercare il dialogo, e il dialogo spesso nutre ed accresce l’amore»; inoltre «desidera il segreto, e quando gli innamorati non hanno nessun segreto da dirsi, si compiacciono talvolta a dirselo segretamente»; e infine induce a «proferire delle parole che, certo, sarebbero ridicole se non sgorgassero da un cuore appassionato».
            Ora, questo amore-passione che forse si riduce soltanto ad «amorucci», a «galanterie», è esposto a varie peripezie, a tal punto da indurre l’autore della Filotea a intervenire con una serie di considerazioni e di avvertimenti a proposito di «amicizie frivole che si allacciano fra persone di diverso sesso e senza intenzione di matrimonio». Spesso non sono altro che «aborti o, meglio, parvenze di amicizia».
            Francesco di Sales si è espresso anche in tema di baci, chiedendosi per esempio con gli antichi commentatori, come mai Rachele aveva permesso a Giacobbe di abbracciarla. Egli spiega che ci sono due specie di bacio: cattivo l’uno, buono l’altro. I baci che si scambiano facilmente fra loro i giovani e che all’inizio non sono cattivi, lo possono diventare in seguito a causa della fragilità umana. Ma il bacio però può essere anche buono. In determinati luoghi è voluto dal costume. «Il nostro Giacobbe abbraccia molto innocentemente la sua Rachele; Rachele accetta questo bacio di cortesia da parte di quest’uomo dal carattere buono e dal viso pulito». «Oh! – concludeva Francesco di Sales – datemi persone che abbiano l’innocenza di Giacobbe e di Rachele e permetterò loro di baciarsi».
            Nella questione della danza e del ballo, anch’essa all’ordine del giorno, il vescovo di Ginevra evitava i comandi assoluti, come facevano i rigoristi del tempo, tanto cattolici che protestanti, mostrandosi comunque molto prudente. Gli si è perfino rinfacciato aspramente di aver scritto che «le danze e i balli di per sé sono cose indifferenti». Come per certi giochi, anch’essi diventano pericolosi quando vi ci si affeziona talmente da non potersene più distaccare: il ballo «bisogna farlo per ricreazione e non per passione; per poco tempo e non fino a stancarsi e a stordirsi». Ciò che è più pericoloso sta nel fatto che questi passatempi diventano spesso occasioni che provocano «dispute, invidie, beffe, amorazzi».

La scelta della forma di vita
            Quando la figlioletta è diventata grande, arriva «il giorno in cui bisognerà parlarle, intendo riferirmi a una parola decisiva, quella in cui si dice alle giovani di volerle maritare». Uomo del suo tempo, Francesco di Sales condivideva in larga misura l’idea che attribuiva ai genitori un rilevante compito nel determinare la vocazione dei figli, sia al matrimonio che alla vita religiosa. «D’ordinario non si sceglie il proprio principe o il proprio vescovo, il proprio padre o la propria madre, e neppure spesse volte il proprio marito», costatava l’autore della Filotea. Tuttavia, afferma chiaramente che «le figlie non possono essere date in sposa, fintantoché esse dicono di no».
            La prassi corrente è spiegata bene in questo passo della Filotea: «Perché un matrimonio si faccia veramente, tre cose sono necessarie nei riguardi della giovane che si vuole dare in sposa: anzitutto che le si faccia la proposta; poi, che lei la gradisca; in terzo luogo che acconsenta». Siccome le ragazze si sposavano molto sovente assai giovani, non ci si può meravigliare della loro immaturità affettiva.  «Le ragazze sposate molto giovani amano realmente i loro sposi, se ne hanno, ma non cessano di amare anche gli anelli, i monili, le amiche con le quali si divertono un mondo a giocare, a ballare e a fare pazzie».
            Il problema della libertà di scegliere si poneva ugualmente per i fanciulli che si voleva destinare alla vita religiosa. La Franceschetta, figlia della baronessa di Chantal, doveva essere collocata in un monastero dalla madre desiderosa di vederla religiosa, ma il vescovo intervenne: «Se Franceschetta vuole di buon grado essere religiosa, bene; in caso contrario, non approvo che se ne anticipi il volere con decisioni non sue». Non converrebbe d’altronde che la lettura delle lettere di san Girolamo orienti troppo la madre nella via della severità e della costrizione. Perciò le consiglia di «usare moderazione» e di procedere con «inspirazioni soavi».
            Certe giovani esitano di fronte alla vita religiosa e al matrimonio, senza mai giungere a decidersi. Francesco di Sales incoraggiò la futura signora de Longecombe a fare il passo del matrimonio, che volle celebrare egli stesso. Fece quest’opera buona, dirà in seguito il marito, alla domanda della moglie «che desiderava sposarsi per le mani del vescovo, e senza tale presenza, non avrebbe mai potuto fare questo passo, a causa della grande avversione che nutriva nei confronti del matrimonio».

Le donne e la «devozione»
            Estraneo a ogni femminismo ante litteram, Francesco di Sales era consapevole dell’eccezionale apporto della femminilità sul piano spirituale. Si è fatto notare che favorendo la devozione nelle donne, l’autore della Filotea ne ha favorito, congiuntamente, la possibilità di una maggiore autonomia, una «vita privata al femminile».
            Non meraviglia che le donne abbiano disposizioni particolari per la «devozione». Dopo aver enumerato un certo numero di dottori ed esperti, poteva scrivere nella prefazione del Teotimo: «Ma affinché si sapesse che questo tipo di scritti si redigono meglio con la devozione degli innamorati che con la dottrina dei sapienti, lo Spirito santo ha fatto sì che numerose donne compissero meraviglie al riguardo. Chi ha mai manifestato meglio le celestiali passioni dell’amore divino di santa Caterina da Genova, di sant’Angela da Foligno, di santa Caterina da Siena, di santa Matilde?». È noto l’influsso della madre di Chantal nella redazione del Teotimo, e in particolare del libro nono, «il vostro libro nono dell’Amore di Dio», secondo l’espressione dell’autore.
            Le donne potevano immischiarsi in problemi concernenti la religione? «Ecco dunque questa donna che fa la teologhessa», dice Francesco di Sales parlando della Samaritana del Vangelo. Si deve necessariamente scorgervi una disapprovazione nei confronti delle teologhe? Non è certo. Tanto più che afferma con forza: «Vi dico che una donna semplice e povera può amare Dio quanto un dottore in teologia». La superiorità non abita sempre là dove uno pensa.
            Ci sono donne superiori agli uomini, incominciando dalla Santa Vergine. Francesco di Sales rispetta sempre il principio dell’ordine stabilito dalle leggi religiose e civili del suo tempo, verso le quali predica l’obbedienza, ma la sua prassi testimonia una grande libertà di spirito. Così, per il governo dei monasteri femminili, riteneva che era meglio per loro essere sotto la giurisdizione del vescovo piuttosto dipendere dai loro fratelli religiosi, i quali rischiavano di pesare su di loro in maniera eccessiva.
            Le visitandine, da parte loro, non dipenderanno da alcun ordine maschile e non avranno nessun governo centrale, essendo ogni monastero sotto la giurisdizione del vescovo del luogo. Egli osò qualificare col titolo inatteso di «apostole» le suore della Visitazione in partenza per una nuova fondazione.
            Se interpretiamo correttamente il pensiero del vescovo di Ginevra, la missione ecclesiale delle donne consiste nell’annunciare non la parola di Dio, ma «la gloria di Dio» con la bellezza della loro testimonianza. I cieli, prega il salmista, narrano la gloria di Dio soltanto con il loro splendore. «La bellezza del cielo e del firmamento invita gli uomini ad ammirare la grandezza del Creatore e ad annunciare le sue meraviglie»; e «non è forse una meraviglia più grande vedere un’anima ornata di molte virtù, rispetto a un cielo trapuntato di stelle?».




Giuseppe Augusto Arribat: un Giusto tra le Nazioni

1. Profilo biografico
            Il venerabile Giuseppe Augusto Arribat nacque il 17 dicembre 1879 a Trédou (Rouergue – Francia). La povertà della famiglia costrinse il giovane Augusto ad iniziare la scuola media presso l’oratorio salesiano di Marsiglia solamente all’età di 18 anni. Per la situazione politica di inizio secolo, egli cominciò la vita salesiana in Italia e ricevette la veste talare dalle mani del beato Michele Rua. Tornato in Francia cominciò, come tutti i suoi confratelli, la vita salesiana in una condizione di semi clandestinità, prima a Marsiglia e poi a La Navarre, fondata da Don Bosco nel 1878.
            Ordinato sacerdote nel 1912, venne chiamato alle armi durante la Prima guerra mondiale e fece l’infermiere barelliere. Terminata la guerra don Arribat continuò a lavorare intensamente a La Navarre fino al 1926, dopo di che andò a Nizza dove stette fino al 1931. Ritornò a La Navarre come direttore e contemporaneamente incaricato della parrocchia Sant`Isidoro nella valle di Sauvebonne. I suoi parrocchiani lo chiameranno “Il santo della valle”.
            Al termine del terzo anno fu mandato a Morges, nel cantone di Vaud, in Svizzera. Ricevette poi tre mandati successivi di sei anni ciascuno, prima a Millau, poi a Villemur e infine a Thonon nella diocesi di Annecy. Il periodo più carico di pericoli e di grazie fu probabilmente quello del suo incarico a Villemur durante la Seconda guerra mondiale. Tornato a La Navarre nel 1953, don Arribat vi resterà sino alla sua morte avvenuta il 19 marzo 1963.

2. Profondamente uomo di Dio
            Uomo del dovere quotidiano, nulla per lui era secondario, e tutti sapevano che si alzava per primo molto presto per pulire i bagni degli allievi e il cortile. Fatto direttore della casa salesiana, e volendo fare il suo dovere fino alla fine e alla perfezione, per rispetto e amore agli altri, spesso finiva le sue giornate molto tardi, abbreviando le sue ore di riposo. D’altra parte, era sempre disponibile, accogliente verso tutti, sapendo adattarsi a tutti, sia ai benefattori e grandi proprietari terrieri, sia ai servitori di casa, mantenendo una preoccupazione permanente per i novizi e i confratelli, e soprattutto per i giovani a lui affidati.
            Questo dono totale di sé si manifestò fino all’eroismo. Durante la Seconda guerra mondiale egli non esitò a ospitare famiglie e giovani ebrei, esponendosi al grave rischio di un’indiscrezione o di una denuncia. Trentatré anni dopo la sua morte, coloro che erano stati testimoni diretti del suo eroismo, fecero riconoscere il valore del suo coraggio e del sacrificio della sua vita. Il suo nome è iscritto a Gerusalemme, dove è stato ufficialmente riconosciuto come un «Giusto tra le Nazioni».
            Fu riconosciuto da tutti come un vero uomo di Dio, che faceva «tutto per amore, e nulla per forza», come diceva san Francesco di Sales. Ecco il segreto di un’irradiazione, di cui forse lui stesso non intuiva tutta la portata.
            Tutti i testimoni hanno rilevato la fede viva di questo servo di Dio, uomo di preghiera, senza ostentazione. La sua fede era la fede irradiante di un uomo sempre unito a Dio, un vero uomo di Dio, e in particolare un uomo dell’Eucaristia.
            Nel celebrare la Messa o quando pregava, emanava dalla sua persona una sorta di fervore che non poteva passare inosservato. Un confratello ha dichiarato che: «vedendolo tracciare su di sé il suo gran segno della croce, ognuno sentiva un opportuno richiamo alla presenza di Dio. Il suo raccoglimento all’altare era impressionante». Un altro salesiano ricorda che «s’imponeva di fare alla perfezione le sue genuflessioni con un coraggio, un’espressione di adorazione che mi portavano alla devozione». Lo stesso aggiunge: «Egli ha rafforzato la mia fede».
            La sua visione di fede traspariva in confessionale e nelle conversazioni spirituali. Egli comunicava la sua fede. Uomo della speranza, contava in ogni momento su Dio e la sua Provvidenza, mantenendo la calma nella tempesta e diffondendo ovunque un senso di pace.
            Questa profonda fede si è ulteriormente perfezionata in lui durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Non aveva più alcuna responsabilità e non poteva più leggere facilmente. Viveva soltanto dell’essenziale e lo testimoniava con semplicità accogliendo tutti quelli che sapevano bene che la sua semicecità non gli impediva di vedere chiaro nei loro cuori. In fondo alla cappella, il suo confessionale era un luogo assediato dai giovani e dai vicini della valle.

3. «Non sono venuto per essere servito…»
            L’immagine che i testimoni hanno conservato di don Augusto è quella del servitore del Vangelo, ma nel senso più umile. Spazzare il cortile, pulire i bagni degli allievi, lavare i piatti, curare e vegliare i malati, vangare il giardino, rastrellare il parco, decorare la cappella, allacciare le scarpe dei piccoli, pettinare i loro capelli, niente gli ripugnava ed era impossibile distoglierlo da questi umili esercizi di carità. Il “buon padre” Arribat, è stato più generoso con le azioni concrete che con le parole: dava volentieri la sua stanza al visitatore occasionale, che rischiava di essere alloggiato meno comodamente di lui. La sua disponibilità era permanente, di ogni momento. La sua preoccupazione per la pulizia e la dignitosa povertà non lo lasciavano in pace, perché la casa doveva essere accogliente. Come uomo dal contatto facile, approfittava delle sue lunghe marce per salutare tutti e avviare un dialogo, anche con i “mangia preti”.
            Don Arribat è vissuto oltre trent’anni alla Navarre, nella casa che Don Bosco stesso volle mettere sotto la protezione di san Giuseppe, capo e servitore della Sacra Famiglia, modello di fede nel nascondimento e nella discrezione. Nella sua sollecitudine per i bisogni materiali della casa e attraverso la sua vicinanza a tutte le persone dedite ai lavori manuali, contadini, giardinieri, operai, impiegati, uomini tuttofare, persone di cucina o di lavanderia, questo sacerdote faceva pensare a san Giuseppe, di cui portava anche il nome. E poi non è forse morto il 19 marzo, festa di san Giuseppe?

4. Un autentico educatore salesiano
            «La Provvidenza mi ha assegnato in modo speciale la cura dell’infanzia», ha detto per riassumere la sua specifica vocazione di salesiano, discepolo di Don Bosco, al servizio dei giovani, specialmente dei più bisognosi.
            Don Arribat non aveva esteriormente nessuna delle qualità particolari che s’impongono facilmente alla gioventù. Non era un grande sportivo, né un brillante intellettuale, né un parlatore che trascina le folle, né un musicista, né un uomo di teatro o di cinema, niente di tutto questo! Come spiegare l’influenza che esercitò sui giovani? Il suo segreto non è altro che quello che aveva imparato da Don Bosco, che conquistò il suo piccolo mondo con tre cose ritenute fondamentali nell’educazione della gioventù: la ragione, la religione e l’amorevolezza. Come il “padre e maestro della gioventù” egli ha saputo parlare con i giovani il linguaggio della ragione, per motivare, spiegare, persuadere, convincere i suoi allievi, evitando i moti della passione e dell’ira. Ha messo al centro della sua vita e della sua azione la religione, non nel senso dell’imposizione forzata, ma della testimonianza luminosa del suo rapporto con Dio, con Gesù e con Maria. Quanto all’amorevolezza, con la quale si guadagna il cuore dei giovani, vale la pena richiamare alla memoria a proposito del servo di Dio ciò che diceva san Francesco di Sales: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto».
            Particolarmente autorevole la testimonianza di don Pietro Ricaldone, futuro successore di Don Bosco, che scriveva dopo la sua visita canonica del 1923-1924: «Don Arribat Augusto è catechista, confessore e legge i voti di condotta! Si tratta di un santo confratello. Solo la sua bontà può rendere meno incompatibili tra di loro le sue diverse mansioni». Poi ripete l’elogio: «È un ottimo confratello, non troppa salute. Per le sue belle maniere gode della confidenza dei giovani più grandi che vanno quasi tutti da lui».
            Una cosa che colpiva era il rispetto quasi cerimonioso che manifestava verso tutti, ma soprattutto per i fanciulli. A un ometto di otto anni dava del “voi” chiamandolo “Monsieur”. Una signora ha testimoniato: «Lui rispettava talmente l’altro che l’altro era quasi costretto a innalzarsi alla dignità che gli era testimoniata in quanto figlio di Dio, e tutto ciò senza nemmeno parlare di religione».
            Viso aperto e sorridente, questo figlio di san Francesco di Sales e di Don Bosco non dava fastidio a nessuno. Se la magrezza della persona e l’ascetismo richiamavano il santo curato d’Ars e don Rua, il suo sorriso e la sua dolcezza erano di marca tipicamente salesiana. Come dichiara un testimone: «Era l’uomo più naturale del mondo, pieno di umorismo, spontaneo nelle sue reazioni, giovane di cuore».
            Le sue parole, che non erano quelle di un grande oratore, risultavano efficaci perché promanavano dalla semplicità e dal fervore della sua anima.
            Uno dei suoi exallievi testimoniò: «Nelle nostre teste di bambini, nelle nostre conversazioni infantili, dopo aver sentito le storie della vita di Giovanni Maria Vianney, ci rappresentavamo don Arribat come se fosse il Santo curato d’Ars per noi. Le ore di catechismo, presentato in linguaggio semplice ma vero, erano seguite con grande attenzione. Durante la Messa, le panche sul retro della cappella erano sempre piene. Avevamo l’impressione di incontrare Dio nella sua bontà e ciò ha segnato la nostra gioventù».

5. Don Arribat ecologista?
            Ecco un tratto originale per completare il quadro di questa figura che sembra del tutto ordinaria. È stato ritenuto quasi come un ecologista prima che questo termine fosse molto diffuso. Piccolo contadino, aveva imparato ad amare e rispettare profondamente la natura. Le sue composizioni giovanili sono piene di freschezza e di osservazioni molto fini, con un tocco di poesia. Ha condiviso spontaneamente il lavorare di questo mondo rurale, dove ha vissuto gran parte della sua lunga esistenza.
            A proposito del suo amore per gli animali, quante volte venne visto «il buon padre, con una scatola sotto il braccio, piena di briciole di pane, facendo faticosamente a piccoli passi molto dolorosi il percorso dal refettorio fino alle sue colombe». Fatto incredibile per chi non ha visto, narra la persona che ha assistito alla scena, le colombe appena lo vedevano si sono fatte avanti verso la grata come per accoglierlo. Lui ha aperto la gabbia e subito sono venute da lui, alcune si sono poste sulle sue spalle. «Egli parlava loro con espressioni che non posso ricordare, era come se le conoscesse tutte». Quando un ragazzino gli portava un passerotto che aveva preso dal nido, gli diceva: «Tu devi rendergli la libertà». Si racconta anche la storia di un cane lupo abbastanza feroce, che solo lui fu in grado di ammansire, e che venne a coricarsi accanto alla sua bara dopo la sua morte.
            Il rapido profilo spirituale di don Augusto Arribat ci ha riproposto alcuni lineamenti spirituali del volto di santi cui si sentiva vicino: l’amorevolezza di Don Bosco, l’ascesi di don Rua, la dolcezza di san Francesco di Sales, la pietà sacerdotale del santo curato d’Ars, l’amore della natura di san Francesco d’Assisi e il lavoro costante e fedele di san Giuseppe.




Il saggio

All’imperatore Ciro il Grande piaceva moltissimo conversare amabilmente con un amico molto saggio di nome Akkad.
Un giorno, appena tornato stanchissimo da una campagna di guerra contro i Medi, Ciro si fermò dal suo vecchio amico per passare qualche giorno con lui.
«Sono spossato, caro Akkad. Tutte queste battaglie mi stanno consumando. Come vorrei fermarmi a passare il tempo con te, chiacchierando sulle rive dell’Eufrate…».
«Ma, caro sire, ormai hai sconfitto i Medi, che cosa farai?».
«Voglio impadronirmi di Babilonia e sottometterla».
«E dopo Babilonia?».
«Sottometterò la Grecia».
«E dopo la Grecia?».
«Conquisterò Roma».
«E dopo?».
«Mi fermerò. Tornerò qui e passeremo giorni felici a conversare amabilmente sulle rive dell’Eufrate…».
«E perché, sire, amico mio, non incominciamo subito?».

Ci sarà sempre un altro giorno per dire «Ti voglio bene».
Ricordati dei tuoi cari oggi, e sussurra loro nell’orecchio, di’ loro quanto li ami. Prenditi il tempo per dire «Mi dispiace», «Ti prego ascoltami», «Grazie».
Domani non ti pentirai di quello che hai fatto oggi.




Venerabile Ottavio Ortiz Arrieta Coya, vescovo

Ottavio Ortiz Arrieta Coya, nato a Lima, in Perù, il 19 aprile 1878, è stato il primo salesiano peruviano. Da giovane si formò come falegname, ma il Signore lo chiamò a una missione più alta. Emise la sua prima professione salesiana il 29 gennaio 1900 e fu ordinato sacerdote nel 1908. Nel 1922 fu consacrato vescovo della diocesi di Chachapoyas, incarico che mantenne con dedizione fino alla morte, avvenuta il 1º marzo 1958. Due volte rifiutò la nomina alla più prestigiosa sede di Lima, preferendo restare vicino al suo popolo. Instancabile pastore, percorse tutta la diocesi per conoscere personalmente i fedeli e promosse numerose iniziative pastorali per l’evangelizzazione. Il 12 novembre 1990, sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, fu aperta la sua causa di canonizzazione, e gli fu attribuito il titolo di Servo di Dio. Il 27 febbraio 2017, papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche, dichiarandolo Venerabile.


            Il venerabile Mons. Ottavio Ortiz Arrieta Coya trascorse la prima parte della vita quale oratoriano, studente e quindi diventò egli stesso Salesiano, impegnato nelle opere dei Figli di Don Bosco in Perù. Fu il primo Salesiano formatosi nella prima casa salesiana del Perù, fondata nel Rimac, un quartiere povero, dove imparò a vivere una vita austera di sacrificio. Tra i primi Salesiani che arrivarono in Perù nel 1891, conobbe lo spirito di Don Bosco e il Sistema Preventivo. Come Salesiano della prima generazione apprese che il servizio e il dono di sé sarebbero stati l’orizzonte della sua vita; per questo fin da giovane salesiano assunse importanti responsabilità, come l’apertura di nuove opere e la direzione di altre, con semplicità, sacrificio e totale dedizione ai poveri.
            Visse la seconda parte della vita, dall’inizio degli anni venti, come vescovo di Chachapoyas, diocesi immensa, vacante da anni, in cui le proibitive condizioni del territorio si sommavano a una certa chiusura, soprattutto nei villaggi più sperduti. Qui il campo e le sfide dell’apostolato erano immensi. Ortiz Arrieta era di temperamento vivace, abituato alla vita comunitaria; inoltre delicatissimo d’animo, al punto da venire chiamato “pecadito” nei suoi giovani anni, per la sua esattezza nel rilevare le mancanze e aiutare sé stesso e gli altri a emendarsene. Disponeva inoltre di un innato senso del rigore e del dovere morale. Le condizioni in cui dovette svolgere il ministero episcopale gli si prospettano invece diametralmente opposte: solitudine e sostanziale impossibilità a condividere una vita salesiana e sacerdotale, nonostante le reiterate e quasi supplicanti richieste alla propria Congregazione; necessità di contemperare il proprio rigore morale con una fermezza sempre più docile e quasi disarmata; fine coscienza morale continuamente messa alla prova da grossolanità di scelte e tiepidezza nella sequela, da parte di alcuni collaboratori meno eroici di lui, e di un popolo di Dio che sapeva opporsi al vescovo quando la sua parola diveniva denuncia di ingiustizia e diagnosi dei mali spirituali. Il cammino del venerabile verso la pienezza della santità, nell’esercizio delle virtù, fu pertanto segnato da fatiche, difficoltà e dalla continua necessità di convertire il proprio sguardo e il proprio cuore, sotto l’azione dello Spirito.
            Se senz’altro troviamo nella sua vita episodi definibili come eroici in senso stretto, occorre però evidenziare nel suo cammino virtuoso anche e forse soprattutto quei momenti in cui egli avrebbe potuto agire diversamente, ma non lo fece; cedere all’umana disperazione, mentre rinnovò la speranza; accontentarsi di una carità grande, senza però dare piena disponibilità all’esercizio di quella carità eroica che invece praticò con esemplare fedeltà per diversi decenni. Quando, per due volte, gli venne proposto di cambiare sede, e nel secondo caso gli fu offerta la sede primaziale di Lima, decise di restare tra i suoi poveri, quelli che nessuno voleva, davvero alla periferia del mondo, rimanendo nella diocesi che aveva per sempre sposato e amato così come essa era, impegnandosi con tutto sé stesso a renderla anche solo un poco migliore. Fu pastore “moderno” nel suo stile di presenza e nel ricorso a mezzi di azione come l’associazionismo e la stampa. Uomo di temperamento deciso e di salde convinzioni di fede, Mons. Ortiz Arrieta usò certamente di questo “don de gobierno” nella sua guida, sempre unita però al rispetto e alla carità, espressi con coerenza straordinaria.
            Benché sia vissuto prima del Concilio Vaticano II, tuttavia è attuale il modo in cui egli pianificò e svolse gli incarichi pastorali a lui affidati: dalla pastorale vocazionale al concreto appoggio ai suoi seminaristi e sacerdoti; dalla formazione catechetica e umana dei più giovani a quella pastorale familiare attraverso cui incontra coppie di sposi in crisi o coppie di conviventi restii nel regolarizzare la loro unione. Mons. Ortiz Arrieta del resto non educa solo con la sua concreta azione pastorale, ma con il suo stesso comportamento: con la capacità di discernere per sé stesso, prima di tutto, che cosa significhi e che cosa comporti rinnovare la fedeltà alla strada intrapresa. Egli davvero ha perseverato nella povertà eroica, nella fortezza attraverso le numerose prove della vita e nella radicale fedeltà alla diocesi cui era stato assegnato. Umile, semplice, sempre sereno; tra il serio e il gentile; la dolcezza del suo sguardo faceva trasparire tutta la tranquillità del suo spirito: questo fu il cammino della santità che percorse.
            Le belle caratteristiche che i suoi superiori salesiani riscontrarono in lui prima dell’ordinazione sacerdotale – quando lo definiscono una “perla di salesiano” e ne valorizzano lo spirito di sacrificio – ritornano come una costante in tutta la sua vita, anche episcopale. Davvero si può dire che Ortiz Arrieta si sia «fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22): autorevole con le autorità, semplice con i bambini, povero tra i poveri; mite con chi lo insultava o tentava per rancore di delegittimarlo; sempre pronto a non restituire male per male, ma a vincere il male con il bene (cf Rm 12,21). Tutta la sua vita fu dominata dal primato della salvezza delle anime: una salvezza cui vorrebbe fattivamente dedicati anche i suoi sacerdoti, dei quali prova a contrastare la tentazione di rinserrarsi entro facili sicurezze o trincerarsi dietro incarichi di maggior prestigio, per impegnarli invece nel servizio pastorale. Si può davvero dire che si sia situato in quella misura “alta” della vita cristiana, che ne fa un pastore che incarnò in modo originale la carità pastorale, cercando la comunione nel popolo di Dio, andando verso i più bisognosi e testimoniando una vita evangelica povera.




Il volontariato missionario cambia la vita dei giovani in Messico

Il volontariato missionario rappresenta un’esperienza che trasforma profondamente la vita dei giovani. In Messico, l’Ispettoria Salesiana di Guadalajara ha sviluppato da decenni un percorso organico di Volontariato Missionario Salesiano (VMS) che continua a incidere in modo duraturo nel cuore di molti ragazzi e ragazze. Grazie alle riflessioni di Margarita Aguilar, coordinatrice del volontariato missionario a Guadalajara, condivideremo il cammino riguardante le origini, l’evoluzione, le fasi di formazione e le motivazioni che spingono i giovani a mettersi in gioco per servire le comunità in Messico.

Origini
Il volontariato, inteso come impegno a favore degli altri nato dall’esigenza di aiutare il prossimo tanto sul piano sociale quanto su quello spirituale, si rafforzò nel tempo con il contributo di governi e ONG per sensibilizzare sui temi della salute, dell’istruzione, della religione, dell’ambiente e altro ancora. Nella Congregazione Salesiana, lo spirito volontario è presente fin dalle origini: Mamma Margherita, accanto a Don Bosco, fu tra i primi “volontari” nell’Oratorio, impegnandosi nell’assistenza ai giovani per compiere la volontà di Dio e contribuire alla salvezza delle loro anime. Già il Capitolo Generale XXII (1984) iniziò a parlare esplicitamente di volontariato, e i capitoli successivi insistettero su questo impegno come dimensione inscindibile della missione salesiana.

In Messico i Salesiani sono suddivisi in due Ispettorie: Città del Messico (MEM) e Guadalajara (MEG). È proprio in quest’ultima che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si è strutturato un progetto di volontariato giovanile. L’Ispettoria di Guadalajara, fondata 62 anni fa, offre da quasi 40 anni la possibilità a giovani desiderosi di sperimentare il carisma salesiano di dedicare un periodo di vita al servizio delle comunità, soprattutto nelle zone di frontiera.

Nel 24 ottobre 1987 l’ispettore inviò un gruppo di quattro giovani insieme a salesiani nella città di Tijuana, in una zona di confine in forte espansione salesiana. Fu l’avvio del Volontariato Giovanile Salesiano (VJS), che si sviluppò gradualmente e si organizzò in modo sempre più strutturato.

L’obiettivo iniziale era proposto ai giovani di circa 20 anni, disponibili a dedicare da uno a due anni per costruire i primi oratori nelle comunità di Tijuana, Ciudad Juárez, Los Mochis e altre località al nord. Molti ricordano i primi giorni: paletta e martello in mano, convivenza in case semplici con altri volontari, pomeriggi trascorsi con bambini, adolescenti e giovani del quartiere giocando nel terreno dove sarebbe sorto l’oratorio. Mancava talvolta il tetto, ma non mancavano la gioia, il senso di famiglia e l’incontro con l’Eucaristia.

Quelle prime comunità di salesiani e volontari portarono nei cuori l’amore per Dio, per Maria Ausiliatrice e per Don Bosco, manifestando spirito pionieristico, ardore missionario e cura totale per gli altri.

Evoluzione
Con il crescere dell’Ispettoria e della Pastorale Giovanile, emerse la necessità di itinerari formativi chiari per i volontari. L’organizzazione si rafforzò attraverso:
Questionario di candidatura: ogni aspirante volontario compilava una scheda e rispondeva a un questionario che delineava le sue caratteristiche umane, spirituali e salesiane, avviando il processo di crescita personale.

Corso di formazione iniziale: laboratori teatrali, giochi e dinamiche di gruppo, catechesi e strumenti pratici per le attività sul campo. Prima della partenza, i volontari si riunivano per concludere la formazione e ricevere l’invio nelle comunità salesiane.

Accompagnamento spirituale: si invitava il candidato a farsi accompagnare da un salesiano nella sua comunità di origine. Per un certo periodo, la preparazione fu svolta insieme agli aspiranti salesiani, rafforzando l’aspetto vocazionale, anche se poi questa prassi subì modifiche in base all’animazione vocazionale dell’Ispettoria.

Incontro ispettoriale annuale: ogni dicembre, in prossimità della Giornata Internazionale del Volontario (5 dicembre), i volontari si incontrano per valutare l’esperienza, riflettere sul cammino di ciascuno e consolidare i processi di accompagnamento.

Visite alle comunità: l’équipe di coordinamento visita regolarmente le comunità in cui operano i volontari, per sostenere non solo i giovani stessi, ma anche salesiani e laici della comunità educativa-pastorale, rafforzando le reti di sostegno.

Progetto di vita personale: ogni candidato elabora, con l’aiuto dell’accompagnatore spirituale, un progetto di vita che aiuti a integrare la dimensione umana, cristiana, salesiana, vocazionale e missionaria. È previsto un periodo minimo di sei mesi di preparazione, con momenti online dedicati alle varie dimensioni.

Coinvolgimento delle famiglie: incontri informativi con i genitori sui processi del VJS, per far comprendere il percorso e rafforzare il supporto familiare.

Formazione continua durante l’esperienza: ogni mese viene affrontata una dimensione (umana, spirituale, apostolica, ecc.) attraverso materiali di lettura, riflessione e lavoro di approfondimento in corso d’opera.

Post-volontariato: dopo la conclusione dell’esperienza, si organizza un incontro di chiusura per valutare l’esperienza, progettare i passi successivi e accompagnare il volontario nel reinserimento nella comunità di origine e nella famiglia, con fasi in presenza e online.

Nuove tappe e rinnovamenti
Recentemente, l’esperienza ha assunto il nome di Volontariato Missionario Salesiano (VMS), in linea con l’enfasi della Congregazione sulla dimensione spirituale e missionaria. Alcune novità introdotte:

Pre-volontariato breve: durante le vacanze scolastiche (dicembre-gennaio, Settimana Santa e Pasqua, e soprattutto estate) i giovani possono sperimentare per brevi periodi la vita in comunità e l’impegno di servizio, per farsi un primo “assaggio” dell’esperienza.

Formazione all’esperienza internazionale: si è istituito un processo specifico per preparare i volontari a vivere l’esperienza fuori dai confini nazionali.

Maggiore enfasi sull’accompagnamento spirituale: non più solo “inviare a lavorare”, ma porre al centro l’incontro con Dio, affinché il volontario scopra la propria vocazione e missione.

Come sottolinea Margarita Aguilar, coordinatrice del VMS a Guadalajara: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Motivazioni dei giovani
Alla base dell’esperienza VMS c’è sempre la domanda: “Qual è la tua motivazione per diventare volontario?”. Si possono individuare tre gruppi principali:

Motivazione operativa/pratica: chi crede di svolgere attività concrete legate alle proprie competenze (insegnare in una scuola, servire in mensa, animare un oratorio). Spesso scopre che il volontariato non è solo lavoro manuale o didattico e può restare deluso se si aspettava un’esperienza meramente strumentale.

Motivazione legata al carisma salesiano: ex-fruitori di opere salesiane che desiderano approfondire e vivere più a fondo il carisma, immaginando un’esperienza intensa come un lungo incontro festivo del Movimento Giovanile Salesiano, ma per un periodo prolungato.

Motivazione spirituale: chi intende condividere la propria esperienza di Dio e scoprirlo negli altri. Talvolta però questa “fedeltà” è condizionata da aspettative (es. “sì, ma solo in questa comunità” o “sì, ma se posso tornare per un evento familiare”), e serve aiutare il volontario a maturare il “sì” in modo libero e generoso.

Tre elementi chiave del VMS
L’esperienza di Volontariato Missionario Salesiano si articola su tre dimensioni fondamentali:

Vita spirituale: Dio è il centro. Senza preghiera, sacramenti e ascolto dello Spirito, l’esperienza rischia di ridursi a semplice impegno operativo, stancando il volontario fino all’abbandono.

Vita comunitaria: la comunione con i salesiani e con gli altri membri della comunità rafforza la presenza del volontario presso bambini, adolescenti e giovani. Senza comunità non c’è sostegno nei momenti di difficoltà né contesto per crescere insieme.

Vita apostolica: la testimonianza gioiosa e la presenza affettiva tra i giovani evangelizza più di qualsiasi attività formale. Non si tratta solo di “fare”, ma di “essere” sale e luce nel quotidiano.

Per vivere pienamente queste tre dimensioni, serve un percorso di formazione integrale che accompagni il volontario dall’inizio alla fine, abbracciando ogni aspetto della persona (umano, spirituale, vocazionale) secondo la pedagogia salesiana e il mandato missionario.

Il ruolo della comunità di accoglienza
Il volontario, per essere strumento autentico di evangelizzazione, ha bisogno di una comunità che lo sostenga, ne sia esempio e guida. Allo stesso modo, la comunità accoglie il volontario per integrarlo, sostenendolo nei momenti di fragilità e aiutandolo a liberarsi da legami che ostacolano la dedizione totale. Come evidenzia Margarita: “Dio ci ha chiamati ad essere sale e luce della Terra e molti dei nostri volontari hanno trovato il coraggio di prendere un aereo lasciandosi alle spalle la famiglia, gli amici, la cultura, il loro modo di vivere per scegliere questo stile di vita incentrato sull’essere missionari.”

La comunità offre spazi di confronto, preghiera comune, accompagnamento pratico ed emotivo, affinché il volontario possa restare saldo nella sua scelta e portare frutto nel servizio.

La storia del volontariato missionario salesiano a Guadalajara è un esempio di come un’esperienza possa crescere, strutturarsi e rinnovarsi imparando dagli errori e dai successi. Ponendo sempre al centro la motivazione profonda del giovane, la dimensione spirituale e comunitaria, si offre un percorso capace di trasformare non solo le realtà servite, ma anche la vita dei volontari stessi.
Ci dice Margarita Aguilar: “Un volontario ha bisogno di avere le mani vuote per poter abbracciare la sua missione con fede e speranza in Dio.”

Ringraziamo Margarita per le sue preziose riflessioni: la sua testimonianza ci ricorda che il volontariato missionario non è un mero servizio, ma un cammino di fede e crescita che tocca la vita dei giovani e delle comunità, rinnovando la speranza e il desiderio di donarsi per amore di Dio e del prossimo.




Gli agnellini e la tempesta estiva (1878)

Il racconto onirico che segue, narrato da Don Bosco la sera del 24 ottobre 1878, è molto più di un semplice divertimento serale per i giovani dell’Oratorio. Attraverso la delicata immagine degli agnellini sorpresi da una violenta tempesta estiva, il santo educatore disegna un’allegoria vivace delle vacanze scolastiche: tempo apparentemente spensierato, ma carico di pericoli spirituali. Il prato invitante rappresenta il mondo esterno, la grandine simboleggia le tentazioni, mentre il giardino protetto allude alla sicurezza offerta dalla vita di grazia, dai sacramenti e dalla comunità educativa. In questo sogno, che si fa catechesi, Don Bosco ricorda ai suoi ragazzi — e a noi — l’urgenza di vigilare, ricorrere all’aiuto divino e sostenersi vicendevolmente per tornare integri alla vita quotidiana.

                Della partenza per le vacanze e del ritorno, nessuna notizia quest’anno, se non fosse un sogno intorno agli effetti che le vacanze sogliono produrre. Don Bosco lo raccontò la sera del 24 ottobre. Appena, esordendo, ne diede l’annunzio, si videro manifestazioni universali di contentezza.

                Io sono contento di rivedere il mio esercito di armati contra diabolum (contro il diavolo). Questa espressione, quantunque latina, è capita anche da Cottino. Tante cose avrei a dirvi, essendo la prima volta che vi parlo dopo le vacanze; ma per ora vi voglio raccontare un sogno. Voi sapete che i sogni si fanno dormendo e che non bisogna prestarvi fede; ma se non c’è nessun male a non credere, talvolta non vi è male neppure a credere e possono anzi servirci di istruzione, come, per esempio, questo.
                Io era a Lanzo alla prima muta d’esercizi e dormiva, quando, come dissi, feci un sogno. Io mi trovava in un luogo ove non potei conoscere quale regione fosse, ma era vicino ad un paese nel quale si estendeva un giardino, e vicino a questo giardino un vastissimo prato. Era in compagnia di alcuni amici che mi invitarono ad entrare nel giardino. Entro e vedo una gran quantità di agnellini che saltavano, correvano, facevano capriole secondo il loro costume. Quando ecco si apre una porta che mette nel prato e quegli agnellini corrono fuori per andare a pascolare.
                Molti però non si curano di uscire, ma si fermano nel giardino; e andavano qua e là brucando qualche filo d’erba e così si pascevano, quantunque non vi fosse erba in quell’abbondanza come fuori nel prato, ov’era accorso il più gran numero. – Voglio vedere che cosa fanno questi agnellini di fuori, – io dissi. Andammo nel prato e li vedemmo pascolare tranquillamente. Ed ecco quasi subito s’oscura il cielo, seguono lampi e tuoni e si approssima un temporale.
                – Che cosa sarà di questi agnellini, se prendono la tempesta? andava io dicendo. Ritiriamoli in salvo. – E li andava chiamando. Poi io da una parte e quei miei compagni sparsi in diversi punti, cercavamo di spingerli verso l’uscio del giardino. Sennonché essi non volevano saperne di entrare; caccia di qua, scappa di là, eh sì! gli agnellini avevano le gambe migliori delle nostre. Frattanto incominciarono a cadere spesse gocciole, poi veniva la pioggia ed io non riusciva a poter raccogliere quel gregge. Una o due pecorelle entrarono bensì nel giardino, ma tutte le altre, ed erano in gran quantità, continuarono a star nel prato. – Ebbene, io dissi, se non vogliono venire, peggio per loro! Intanto noi ritiriamoci – E andammo nel giardino.
                Colà vi era una fontana su cui stava scritto a caratteri cubitali: Fons signatus, fontana sigillata. Essa era coperta, ed ecco che si apre; l’acqua sale in alto e si divide e forma un arcobaleno, ma a guisa di volta come questo porticato.
                Frattanto si vedevano più frequenti i lampi, seguivano più rumorosi i tuoni e si mise a cader la grandine. Noi con tutti gli agnellini che erano nel giardino, ci ricoverammo e ci stringemmo là sotto quella volta meravigliosa e non vi penetrava l’acqua e la grandine.
                – Ma che cosa è questo? io andava chiedendo agli amici. Che cosa sarà mai dei poveretti che stanno fuori?
                – Vedrai! mi rispondevano. Osserva sulla fronte di questi agnelli; che cosa vi trovi? – Osservai e vidi che sulla fronte di ciascheduno di quegli animali stava scritto il nome di un giovane dell’Oratorio.
                – Che cosa è questo? – chiesi.
                – Vedrai, vedrai!
                Intanto io non poteva più trattenermi e volli uscire per vedere che cosa facessero quei poveri agnelli che erano rimasti fuori. – Raccoglierò quelli che furono uccisi e li spedirò all’Oratorio, – pensava io. Uscito di sotto a quell’arco, anch’io prendeva la pioggia; ed ho vedute quelle povere bestiole, stramazzate a terra, che muovendo le zampe cercavano di alzarsi e venire verso il giardino: ma non potevano camminare. Apersi l’uscio, alzai la voce; ma i loro sforzi erano inutili. La pioggia e la grandine le aveva così malconce e continuava a maltrattarle, che facevano pietà: una veniva percossa sulla testa, un’altra sulla mascella, questa in un occhio, quella in una zampa, altre in altre parti del corpo.
                Dopo alcun tempo era cessata la tempesta.
                – Osserva, mi disse quegli che mi stava a fianco; osserva sulla fronte di questi agnelli.
                Osservai e lessi in ciascuna fronte il nome di un giovane dell’Oratorio. – Mah! diss’io; conosco il giovane che ha questo nome e non mi pare un agnellino.
                – Vedrai, vedrai, mi fu risposto. – Quindi mi venne presentato un vaso d’oro con un coperchio d’argento, dicendomi:
                – Tocca con la tua mano intinta di questo unguento, le ferite di queste bestiole e subito subito guariranno.
                Io mi metto a chiamarle:
                – Brrr, brrr! – Ed esse non si muovono. Ripeto la chiamata; niente: cerco di avvicinarmi a una ed essa si strascina via. – Non vuole? Peggio per lei! esclamo. Vado ad un’altra. E vado, ma anche questa mi scappa. A quante io mi avvicinava per ungerle e guarirle, altrettante mi fuggivano. Io le seguiva, ma ripeteva inutilmente questo giuoco. Alfine ne raggiunsi una che, poverina, aveva gli occhi fuori delle orbite, e così malconci che metteva compassione. Io glieli toccai colla mano ed essa guarì e saltellando se ne andò nel giardino.
                Allora molte altre pecorelle, visto ciò, non ebbero più ripugnanza e si lasciarono toccare e guarire ed entrarono nel giardino. Ma ne restavano fuori molte e generalmente le più piagate, né mi fu possibile avvicinarle.
                – Se non vogliono guarire, peggio per loro! Ma non so come potrò farle rientrare in giardino.
                – Lascia fare, mi disse uno degli amici che erano con me; verranno, verranno.
                – Vedremo! – io dissi; e riposi l’aureo vaso là dove prima era e ritornai al giardino. Questo erasi tutto mutato e vi lessi sull’ingresso: Oratorio. Appena entrato, ecco che quegli agnelli che non volevano venire, si avvicinano, entrano di soppiatto e corrono a rimpiattarsi qua e là; e neppur allora potei avvicinarmi ad alcuno. Vi furono anche parecchi che non ricevendo volentieri l’unguento, questo si convertì per loro in veleno e invece di guarirli inaspriva le loro piaghe.
                – Guarda! Vedi quello stendardo? – mi disse un amico.
                Mi volsi e vidi sventolare un grande stendardo e vi si leggeva sopra a grossi caratteri questa parola: Vacanze.
                – Sì, lo vedo, risposi.
                – Ecco, questo è l’effetto delle vacanze, mi spiegò uno che mi accompagnava, essendo io fuori di me pel dolore di quello spettacolo. I tuoi giovani escono dall’Oratorio per andare in vacanza, con buona volontà di pascolarsi della parola di Dio e di conservarsi buoni: ma poi sopravviene il temporale, che sono le tentazioni; poi la pioggia, che sono gli assalti del demonio; quindi cade la grandine ed è quando i miseri cadono nella colpa. Alcuni risanano ancora con la confessione, ma altri non usano bene di questo sacramento, o non ne usano punto. Abbilo a mente e non stancarti mai di ripeterlo ai tuoi giovani, che le vacanze sono una gran tempesta per le loro anime.
                Osservava io quegli agnelli e scorgeva in alcuni ferite mortali; andava cercando modo di guarirli, quando D. Scappini, che aveva fatto rumore alzandosi nella camera vicina, mi svegliò.
                Questo è il sogno e quantunque sogno ha tuttavia un significato che non farà male a chi vi presterà fede. Posso anche dire che io notai alcuni nomi fra i molti degli agnelli del sogno, e confrontandoli coi giovani, vidi che questi si regolavano appunto come accadde nel sogno. Comunque sia la cosa, noi dobbiamo in questa novena dei Santi corrispondere alla bontà di Dio che ci vuole usar misericordia e con una buona confessione purgare le ferite della nostra coscienza. Dobbiamo poi metterci tutti d’accordo per combattere il demonio e coll’aiuto di Dio usciremo vincitori da questa pugna e andremo a ricevere il premio della vittoria in Paradiso.

                Questo sogno dovette influire non poco sul buon avviamento del nuovo anno scolastico; infatti nella novena dell’Immacolata le cose procedevano già così bene, che Don Bosco manifestò la propria soddisfazione dicendo:
                – I giovani sono ora al punto, dove negli anni scorsi arrivavano appena in febbraio. – Nella festa dell’Immacolata essi videro rinnovarsi la bella funzione di congedo alla quarta spedizione di Missionari.
(MB XIII 761-764)




Visitare Roma con don Bosco. Cronaca del suo primo viaggio a Roma

La prima volta che Don Bosco si recò a Roma fu nel 1858, dal 18 febbraio al 16 aprile, accompagnato dal ventunenne chierico Michele Rua. Quattro anni prima, la Chiesa aveva celebrato un Giubileo straordinario di sei mesi, indetto in occasione della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854). Don Bosco colse l’opportunità di questa grande festa spirituale per pubblicare il volume “Il Giubileo e Pratiche divote per la visita delle chiese”.
Durante quella che sarebbe stata la sua prima di ben venti visite alla Città Eterna, Don Bosco si comportò come un vero pellegrino giubilare, dedicandosi con fervore alle visite e alle devozioni previste, fino a partecipare ai solenni riti pasquali officiati dal Pontefice. Fu un’esperienza intensa, che lui stesso non tenne per sé, ma condivise con i suoi giovani con l’entusiasmo e la passione educativa che lo contraddistinguevano.
Nel descrivere minuziosamente il viaggio, le tappe e i luoghi sacri, Don Bosco aveva un chiaro intento apostolico ed educativo: far rivivere a chi lo ascoltava o leggeva la stessa profonda esperienza di fede, trasmettendo loro l’amore per la Chiesa e per la tradizione cristiana.
Invitiamo ora anche voi lettori a unirvi spiritualmente a Don Bosco, ripercorrendo idealmente le strade della Roma cristiana, per lasciarvi affascinare dal suo slancio e dal suo zelo e, insieme, rinnovare la vostra fede.

A Genova in ferrovia
La partenza per Roma era fissata per il giorno 18 del mese di febbraio 1858. In quella notte cadde quasi un palmo di neve sopra i due che coprivano già il terreno. Alle 8 e mezzo, mentre ancora nevicava, con la commozione che prova un padre che lascia i suoi figli, salutavo i giovani per iniziare il viaggio verso Roma. Benché avessimo una certa fretta per poter arrivare in tempo al treno, ci trattenemmo ancora un po’ per fare testamento: non volevo infatti lasciare pendenze di nessun genere all’Oratorio qualora la Provvidenza avesse voluto darci in pasto ai pesci del mediterraneo […] Poi di corsa ci recammo allo scalo ferroviario e, assieme a don Mentasti […], partimmo col treno alle dieci del mattino.
Avvenne qui uno spiacevole incidente: le carrozze erano quasi complete per cui dovetti lasciare Rua e don Mentasti in uno scompartimento e trovare posto in un altro […]

Il fanciullo ebreo
Capitai per caso vicino a un ragazzino di dieci anni. Notandone l’aspetto semplice e il viso buono, mi misi a conversare con lui e […] mi accorsi che era ebreo. Il padre, che gli sedeva accanto, mi assicurava che il figlio frequentava la quarta elementare, ma la sua istruzione mi pareva non arrivasse alla seconda. Però era d’ingegno pronto. Il padre aveva piacere che lo interrogassi anzi, m’invitò a farlo parlare della Bibbia. Così cominciai a interrogarlo sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul Paradiso terrestre, sulla caduta dei progenitori. Rispondeva abbastanza bene, ma rimasi meravigliato quando capii che non aveva alcuna idea del peccato originale e della promessa di un Redentore.
– Non c’è nella tua Bibbia la promessa di Dio ad Adamo quando lo cacciò dal Paradiso?
– No, me lo dica lei, rispose.
– Subito. Dio disse al serpente: poiché hai ingannato la donna, sarai maledetto fra tutti gli animali, e Uno che nascerà da una donna ti schiaccerà il capo.
– Chi è quest’Uno di cui si parla?
– È il Salvatore che avrebbe liberato il genere umano dalla schiavitù del demonio.
– Quando verrà?
– È già venuto ed è quello che noi chiamiamo…
Qui il padre ci interruppe dicendo:
– Queste cose noi non le studiamo perché non riguardano la nostra legge.
– Fareste bene a studiarle, perché sono nei libri di Mosè e dei profeti cui voi credete.
– Va bene, disse l’altro, ci penserò. Ora gli chieda qualcosa di aritmetica.
Vedendo che non desiderava che gli parlassi di religione, conversammo di cose piacevoli, cosicché il padre, il figlio e anche gli altri viaggiatori cominciarono a divertirsi e a ridere di gusto. Alla stazione di Asti il ragazzino doveva scendere, ma non si decideva a lasciarmi. Aveva le lacrime agli occhi, mi teneva la mano e commosso riuscì solo a dirmi:
– Mi chiamo Sacerdote Leone di Moncalvo; si ricordi di me. Venendo a Torino spero di poterle far visita. Il padre per allentare la commozione disse che aveva cercato a Torino la “Storia d’Italia” [da me scritta]. Non avendola trovata mi pregava di mandargliene copia. Promisi di inviare quella stampata appositamente per la gioventù, poi scesi anch’io per cercare i miei compagni per vedere se c’era posto nel loro scompartimento. Trovai Rua che aveva le mandibole stanche a forza di sbadigliare, giacché da Torino ad Asti si era annoiato molto, non sapendo con chi attaccare discorso: i suoi compagni di viaggio non parlavano che di balli, teatro e altre cose di poco gusto […]

Verso Genova
Giungemmo agli Appennini. Si alzavano davanti a noi altissimi e ripidissimi. Poiché il treno viaggiava a gran velocità, avevamo l’impressione di andare a urtare contro le rocce, finché sul treno si fece improvvisamente buio. Eravamo entrati nelle gallerie. Queste sono “fori” che passando sotto le montagne fanno risparmiare parecchie decine di miglia […] Senza gallerie sarebbe impossibile valicarle, e siccome ci sono molte montagne, esistono parecchi trafori. Uno di essi è lungo quanto la distanza tra Torino e Moncalieri; qui il convoglio rimase al buio per otto minuti, tempo necessario a percorrere il tratto di galleria.

Ci stupì constatare che la neve diminuiva man mano che ci avvicinavamo alla riviera di Genova. Ma quale non fu la nostra meraviglia quando scorgemmo le campagne senza un filo di bianco, le rive verdeggianti, i giardini pieni di colori, le piante di mandorlo fiorite e gli alberi di pesco coi boccioli in procinto di schiudersi al sole! Allora, facendo un confronto tra Torino e Genova, ci siamo detti che in questa stagione Genova è la primavera e Torino il più crudo inverno.

I due montanari
Mi dimenticavo di parlare di due montanari che salirono nel nostro scompartimento alla stazione di Busalla. Uno era pallido e infermiccio da far compassione, l’altro invece aveva un’aria sana e vivace, e, sebbene toccasse i settant’anni, mostrava la vigoria di un venticinquenne. Aveva le brache corte e le ghette quasi sbottonate, tanto che mostrava le gambe nude fino al ginocchio sferzate dal freddo. Era in maniche di camicia con la sola maglia e una giubba di panno grossolano buttata sulle spalle. Dopo averlo fatto parlare di vari argomenti, gli dissi:
– Perché non vi aggiustate questi abiti in modo da difendervi dal freddo? Rispose:
– Vede, caro signore, noi siamo montanari, e siamo abituati al vento, alla pioggia, alla neve e al ghiaccio. Quasi nemmeno ci accorgiamo della stagione invernale. I nostri ragazzi camminano a piedi nudi in mezzo alla neve, anzi ci si divertono senza badare al freddo. Da ciò ho potuto capire che l’uomo vive di abitudini, e il corpo è capace di sopportare a seconda dei casi il freddo o il caldo, e quelli che vorrebbero porre riparo a ogni piccolo incomodo rischiano di indebolire la loro condizione invece di rafforzarla.

La sosta genovese
Ma ecco Genova, ecco il mare! Rua si agita per vederlo, allunga il collo: qua nota un bastimento, là alcune navi, più in giù la lanterna che è un altissimo fanale. Giungiamo intanto alla stazione e scendiamo dal treno. Il cognato dell’abate Montebruno ci attendeva con alcuni giovani, e appena a terra ci accolsero con gioia, e portando i nostri bagagli ci condussero presso l’opera degli artigianelli che è una casa simile al nostro Oratorio. I complimenti furono brevi giacché tutti avevamo una gran fame: erano le tre e mezza del pomeriggio e io avevo preso solo una tazza di caffè. A tavola sembrava che nulla ci potesse saziare, tuttavia a forza di mandar giù il sacco si riempì.
Subito dopo abbiamo visitato la casa: scuole, dormitori, laboratori: mi sembrava di vedere l’Oratorio di dieci anni fa. I convittori erano venti; altri venti, pur mangiando e lavorando qui, dormivano altrove. Qual è il loro vitto? A pranzo un buon piatto di minestra, poi… niente altro. A cena una pagnottella che si mangia in piedi quindi a letto!
Al termine siamo usciti per un giro in città che a dire il vero è poco attraente, sebbene abbia magnifici palazzi e grandi negozi. Le vie sono strette, tortuose e ripide. Ma la cosa più seccante era un vento molesto che, spirando quasi senza interruzione, toglieva il piacere di ammirare qualsiasi cosa anche la più bella […]

A Genova insomma andarono deluse le nostre aspettative. Come se non bastasse il vento contrario impedì l’attracco del bastimento su cui dovevamo imbarcarci, perciò, nostro malgrado, dovemmo attendere fino al giorno seguente […] Al mattino ho detto messa nella chiesa dei Padri Predicatori sull’altare del Beato Sebastiano Maggi, un frate vissuto circa trecento anni fa. Il suo corpo è un prodigio continuato, perché si conserva intero, flessibile e con un colore che lo diresti morto da pochi giorni […] Poi andammo a vidimare, cioè firmare il passaporto. Il console pontificio ci accolse con molta cortesia […] Cercò anche di farci avere qualche sconto sul battello, ma non fu possibile.

A Civitavecchia via mare. L’imbarco
Alle sei e mezza di sera, prima di avviarci verso il battello a vapore chiamato Aventino, salutammo parecchi ecclesiastici venuti dagli Artigianelli per augurarci buon viaggio. Anche i ragazzi, attratti dalle buone parole, ma soprattutto da alcune portate in più nel pranzo di quel giorno, ci erano divenuti amici e sembrava provassero dispiacere a vederci partire. Parecchi di loro ci accompagnarono fino al mare, quindi saltando agilmente su una barchetta, vollero scortarci fino al battello. Il vento era assai forte: non avvezzo a viaggiare per mare, ad ogni agitarsi della barca temevamo di capovolgerci e affondare e i nostri accompagnatori ridevano di gusto. Dopo venti minuti giungemmo finalmente alla nave.

A prima vista ci sembrava un palazzo circondato dalle onde. Salimmo a bordo, e portato il nostro bagaglio in un alloggiamento alquanto spazioso, ci sedemmo per riposarci e pensare: ciascuno provava particolari sensazioni che non sapeva come esprimere. Rua osservava tutto e tutti in silenzio. Ed ecco il primo intoppo: essendo arrivati all’ora di pranzo, non siamo andati subito a mangiare; quando l’abbiamo richiesto, era tutto finito. Rua dovette cenare con una mela, una pagnottella e un bicchiere di vino Bordò, io mi accontentai di un pezzetto di pane e un po’ di quell’eccellente vino. Da notare che quando si viaggia in nave, nel biglietto sono compresi anche i pasti, per cui che si mangi o no si paga ugualmente.

Dopo siamo saliti in coperta per renderci conto di come fosse questo “Aventino”. Abbiamo così saputo che i bastimenti prendono nome dai luoghi più famosi delle zone verso cui sono diretti. Uno si chiama Vaticano, un altro Quirinale, un altro Aventino, come il nostro, per ricordare i sette famosi colli di Roma. Questa nostra nave parte da Marsiglia, tocca Genova, Livorno, Civitavecchia, poi continua per Napoli, Messina e Malta. Al ritorno ripete lo stesso percorso fino a Marsiglia. Si chiama anche battello postale perché porta lettere, pieghi, ecc. Che faccia bello o brutto tempo parte comunque.

Il mal di mare
Ci avevano assegnato la cuccetta che è una specie di armadio a ripiani dove i passeggeri si coricano sopra un materasso in ciascun ripiano. Alle dieci salparono le ancore e il battello, spinto dal vapore e da un vento favorevole, cominciò a correre a gran velocità alla volta di Livorno. Quando fummo al largo fui assalito dal mal di mare che mi tormentò per due giorni. Questo fastidio consiste in un vomito frequente, e quando non si ha più nulla da rigettare gli sforzi diventano più violenti, sicché la persona diviene così sfinita che rifiuta qualsiasi alimento. L’unica cosa che può recare qualche sollievo è il mettersi a letto e stare, quando il vomito lo permette, col corpo interamente disteso.

Livorno
Quella del 20 febbraio fu una brutta notte. Non correvamo pericolo per il mare agitato, ma il mal di mare mi aveva talmente prostrato che non riuscivo a stare né coricato, né in piedi. Mi gettai giù dalla cuccetta e andai a vedere se Rua fosse vivo o morto. Egli però non aveva che un po’ di spossatezza, nient’altro. Si alzò subito mettendosi a mia disposizione per alleviarmi i disagi della traversata. Quando Dio volle giungemmo al porto di Livorno. Per porto s’intende un seno del mare riparato dalla furia dei venti da barriere naturali o da bastioni costruiti dall’uomo. Qui le navi sono al riparo da ogni pericolo, qui scaricano le loro merci e ne caricano altre per altre destinazioni, qui si fanno i rifornimenti. I passeggeri che lo desiderano possono anche scendere a terra per qualche giro in città purché tornino in orario […]

Sebbene io desiderassi scendere per visitare la città, dire messa e salutare qualche amico, non potei farlo, anzi fui costretto a tornare nella mia cuccetta e starmene lì buono buono a digiuno. Un cameriere di nome Charles mi guardava con occhio di compassione e ogni tanto mi veniva vicino offrendomi i suoi servizi. Vedendolo così buono e cortese cominciai a conversare con lui, e fra le altre cose gli domandai se non temesse di essere deriso assistendo un prete sotto l’occhio di tante persone.
No, mi disse in francese, come vede nessuno fa le meraviglie, anzi tutti la guardano con bontà, mostrando desiderio di aiutarla. D’altronde mia madre mi ha insegnato ad avere grande rispetto per i sacerdoti per guadagnare la benedizione del Signore. Charles, andò poi a chiamare un dottore: ogni bastimento ha il suo medico e i principali rimedi per qualsiasi bisogno. Il medico venne e le sue maniere affabili mi sollevarono alquanto.
Comprendete il francese? Mi disse. Risposi:
– Comprendo tutti i linguaggi del mondo, anche quelli che non sono scritti, perfino il linguaggio dei sordomuti. Scherzavo per svegliarmi dalla sonnolenza che mi aveva preso. L’altro comprese e si mise a ridere.
Peut être, può darsi! Diceva mentre mi visitava. Alla fine mi annunciò che al mal di mare si era aggiunta la febbre e che una bibita di tè mi avrebbe fatto bene. Lo ringraziai e gli chiesi il suo nome.
Il mio nome, disse, è Jobert di Marsiglia, dottore in medicina e chirurgia. Charles attento agli ordini del dottore in breve tempo mi preparò una tazza di tè, di lì a poco un’altra, poi un’altra ancora. E mi fece bene, tanto che riuscii a prendere sonno.
Alle cinque [pomeridiane] il battello levò le ancore. Quando fummo in alto mare di nuovo ebbi conati di vomito ancor più violenti, rimanendo agitato per circa quattro ore, poi per lo sfinimento – non avevo ormai più nulla nello stomaco – coadiuvato dal rollio della nave mi addormentai e riposai di un sonno tranquillo fino all’arrivo a Civitavecchia.

Pagare, pagare, pagare
Il riposo della notte mi aveva fatto tornare le forze. Sebbene sfinito per il lungo digiuno, mi alzai e preparai i bagagli. Stavamo per scendere quando ci avvisarono di un debito che non sapevamo di aver contratto. Il caffè non era compreso col vitto ma si doveva pagare a parte, e noi che ne avevamo prese quattro tazze pagammo un supplemento di due franchi, vale a dire cinquanta centesimi a tazza.
Il capitano, fatti vidimare i passaporti, ci consegnò il permesso di sbarco; e qui cominciò la teoria delle mance: un franco ciascuno ai barcaioli, mezzo franco per il bagaglio (che portavamo noi), mezzo franco alla dogana, mezzo franco a chi ci invitava in vettura, mezzo al facchino che sistemava i bagagli, due franchi per il visto sul passaporto, un franco e mezzo al console pontificio. Non si faceva in tempo ad aprire bocca che subito bisognava pagare. Con l’aggiunta che, variando le monete di nome e di valore, dovevamo fidarci di chi ci faceva il cambio […] Alla Dogana rispettarono un pacco indirizzato al cardinale Antonelli col bollo pontificio, entro cui avevamo messo le cose più importanti […]

Terminate le operazioni mi recai dal barbiere a farmi radere una barba di dieci giorni. Tutto andò bene, ma in bottega non riuscii a distogliere lo sguardo da due corna su un tavolino. Erano lunghe circa un metro e ornate di anelli luccicanti e nastri. Pensavo fossero destinate a qualche uso particolare, ma mi dissero che erano di giovenca, che noi chiamiamo bue, poste là solo per ornamento […]

Verso Roma in carrozza
Intanto don Mentasti era su tutte le furie perché non ci vedeva arrivare, mentre la vettura già ci attendeva. Noi ci eravamo messi a correre per arrivare in tempo. Saliti in vettura partimmo per Roma. La distanza da percorrere era di 47 miglia italiane che corrispondono a 36 miglia piemontesi; la strada era molto bella. Avevamo preso posto sul coupé da dove potevamo contemplare i prati verdeggianti e le siepi fiorite. Una curiosità ci divertì non poco. Ci accorgemmo che tutto andava a tre a tre: i cavalli della nostra vettura erano aggiogati a tre a tre; incontrammo pattuglie di soldati che andavano a tre a tre; perfino alcuni contadini camminavano a tre a tre, come pure alcune vacche e alcuni asini pascolavano a tre a tre. Noi ridevamo su queste strane coincidenze […]

Una tappa per i cavalli
A Palo il vetturino concesse ai viaggiatori un’ora di libertà per avere il tempo di ristorare i cavalli. Noi ce ne servimmo per correre nella vicina locanda a levarci la fame. Le faccende ci avevano quasi fatto dimenticare il mangiare; da mezzogiorno del venerdì non avevo preso che una tazza di caffelatte. Ci siamo messi intorno alle pagnottelle e abbiamo mangiato, o meglio, divorato tutto. Nel vedere poi il cameriere tutto sfinito e pallido gli chiesi che cosa avesse.
– Ho le febbri che da molti mesi mi affliggono, rispose. Io allora feci il buon medico:
– Lasciate fare a me, vi prescrivo una ricetta che caccerà per sempre la febbre. Abbiate solo fiducia in Dio e in san Luigi. Preso quindi un pezzo di carta con la matita scrissi la mia ricetta, raccomandandogli di portarla da qualche farmacista. Era fuori di sé dalla gioia, e, non sapendo come meglio dimostrare la sua gratitudine, baciava e ribaciava la mia mano, e voleva baciarla anche a Rua, che per modestia non glielo permise.

Fu pure simpatico l’incontro con un carabiniere pontificio. Egli pensava di conoscermi, ed io credevo di conoscere lui, così ci siamo salutati tutti e due con gran festa. E quando ci siamo accorti dell’equivoco, l’amicizia e le espressioni di benevolenza e di rispetto continuarono: per fargli piacere ho dovuto permettere che mi pagasse una tazza di caffè, da parte mia gli offrii un bicchierino di rhum. Avendomi poi chiesto di lasciargli qualche ricordo, gli regalai la medaglia di san Luigi Gonzaga. Il nome di quel buon carabiniere era Pedrocchi.

Nella città dei papi
Montati nuovamente in vettura e volando più veloci col desiderio che con le zampe dei cavalli, ci sembrava ogni momento di essere a Roma. Calata la notte, ogni volta che si scorgeva lontano un arbusto od una pianta Rua subito esclamava:
– Ecco la cupola di S. Pietro. Ma prima di arrivare abbiamo dovuto procedere fino alle dieci e mezza della sera, ed essendo ormai notte fonda, non riuscivamo a scorgere più nessun particolare. Un certo brivido tuttavia ci prese al pensiero che stavamo entrando nella città santa. […] Arrivati finalmente al punto di fermata, non avendo alcuna conoscenza del luogo, abbiamo cercato una guida che per dodici baiocchi ci accompagnò a casa De Maistre, in via del Quirinale 49, alle Quattro Fontane. Erano già le undici. Fummo accolti con bontà dal conte e dalla contessa; gli altri erano già a letto. Preso un po’ di ristoro ci siamo dati la buona notte e siamo andati a dormire.

San Carlino
La parte del Quirinale da noi abitata viene chiamata Quattro Fontane perché zampillano quattro fonti perenni da quattro angoli di quattro contrade che qui si uniscono. Di fronte alla casa dove avevamo preso dimora vi era la chiesa dei carmelitani. Costoro, tutti spagnoli, appartenevano all’ordine detto della Redenzione degli Schiavi. La chiesa fu costruita nel 1640 e intitolata a san Carlo; ma per distinguerla da altre dedicate al medesimo santo fu chiamata S. Carlino. Recatici in sacrestia, abbiamo mostrato il Celebret, (il documento per celebrare n.d.r.) e così abbiamo potuto dire messa. […] Il giorno lo passammo quasi interamente ad ordinare le nostre carte, fare commissioni, portar lettere […]

Il Pantheon
Approfittando di un’ora che rimaneva ancora prima di notte, ci recammo al Pantheon che è uno dei più antichi e celebri monumenti di Roma. Venne fatto costruire da Marco Agrippa, genero di Cesare Augusto, venticinque anni prima dell’era volgare (della nascita di Cristo n.d.r.). Si crede che questo edificio sia stato chiamato Pantheon, che vuol dire tutti gli dei, perché di fatto era dedicato a tutte le divinità. La facciata è veramente superba. Otto grosse colonne reggono un elegante cornicione. Subito dopo ecco un porticato formato da sedici colonne fatte di un sol blocco di granito, poi il pronao, o avantempio, costituito da quattro pilastri scanalati, entro cui sono ricavate nicchie anticamente occupate dalle statue di Augusto e di Agrippa.
All’interno si presenta un’alta cupola aperta in mezzo, dalla quale penetra la luce, ma anche il vento, la pioggia, e la neve, quando ne cade da queste parti. Qui i più preziosi marmi servono da pavimento o da ornamento tutto intorno. Il diametro è di centotrentatre piedi, corrispondenti a diciotto trabucchi (c.ca 55 mt.). Questo tempio servì al culto degli dei fino al 608 dopo Cristo, quando papa Bonifacio IV, per impedire i disordini che si commettevano durante i sacrifici, lo dedicò al culto del vero Dio, cioè a tutti i santi.

Questa chiesa andò soggetta a molte vicende. Quando Bonifacio IV ottenne questo luogo dall’imperatore Foca e lo dedicò al culto di Dio e della Madonna, fece trasportare da vari cimiteri ventotto carri di reliquie che collocò sotto l’altare maggiore. Da allora cominciò ad essere chiamato Santa Maria ad Martyres. Fra le cose che gradimmo molto fu visitare la tomba del grande Raffaello […] Ora questa chiesa porta anche il nome di Rotonda, dalla forma della sua costruzione. Davanti si estende una piazza il cui centro è occupato da una grande fontana di marmo, sormontata da quattro delfini che gettano continuamente acqua.

San Pietro in Vincoli
Il 23 febbraio […] siamo rimasti molto contenti della visita a S. Pietro in Vincoli, chiesa a sud di Roma sul confine della città. Fu una giornata memorabile perché coincideva con una delle rare volte in cui venivano messe in mostra le catene di san Pietro, le cui chiavi sono custodite dallo stesso Santo Padre.
Una tradizione ritiene che fu lo stesso Pietro a erigere qui la prima chiesa, dedicandola al Salvatore. Distrutta dall’incendio di Nerone, venne da san Leone Magno ricostruita nel 442 e dedicata al primo Papa. Fu chiamata S. Pietro in Vincoli, perché il Pontefice vi collocò la catena con cui il Principe degli Apostoli a Gerusalemme era stato, per ordine di Erode, incatenato. Il patriarca Giovenale l’aveva regalata all’imperatrice Eudossia, che a sua volta l’inviò a Roma alla figlia Eudossia junior, moglie di Valentiniano III. A Roma si conservava anche la catena cui era incatenato san Pietro nel carcere Mamertino. Quando san Leone volle fare il confronto di questa con quella di Gerusalemme, in modo prodigioso le due catene si unirono, cosicché oggi ne formano una sola, che si conserva in un altare apposito a lato della sacrestia. Noi abbiamo avuto la consolazione di toccare quelle catene colle nostre mani, baciarle, mettercele al collo e accostarle alla fronte. Abbiamo anche attentamente controllato per riuscire a scorgere il punto di unione delle due, ma non ci fu possibile. Abbiamo solo potuto constatare che la catena di Roma è più piccola di quella di Gerusalemme.

A S. Pietro in Vincoli si trova il magnifico sepolcro di Giulio II […] È uno dei capolavori del celebre Michelangelo Buonarroti, che è ritenuto uno dei massimi artisti del marmo, specialmente per la statua del Mosè posta vicino all’urna. Il patriarca è rappresentato con le tavole della legge piegate sotto al braccio destro, in atto di parlare al popolo che egli guarda fieramente, perché si era ribellato. La chiesa è a tre navate, separate da venti colonne di marmo pario, e due di granito ben conservato.

S. Luigi dei Francesi
Verso le nove ci portammo a Santa Maria sopra Minerva, ove fummo ricevuti in udienza privata dal cardinale Gaude per circa un’ora e mezza. Egli parlò con noi in dialetto piemontese, interessandosi ai nostri oratori […] Dopo mezzogiorno ci recammo a fare visita al marchese Giovanni Patrizi […] In faccia al suo palazzo c’è la chiesa di S. Luigi dei Francesi che dà il nome alla piazza e alla contrada vicina. È una chiesa ben tenuta e arricchita di molti marmi preziosi. La sua singolarità consiste nei sepolcri degli uomini illustri francesi morti a Roma. Infatti il pavimento e le mura sono coperte di epitaffi e lapidi. […]

S. Maria Maggiore all’Esquilino
Dal Quirinale si apre una via che porta all’Esquilino, così detto per i molti elci di cui era ammantato. Nella parte più elevata s’innalza S. Maria Maggiore, la cui origine è narrata così da tutti gli storici sacri. Un certo Giovanni, patrizio romano, non avendo figli, desiderava impiegare le sue sostanze in qualche opera di pietà […] La notte del 4 agosto del 352 gli apparve in sogno la Madonna che gli comandò di innalzarle un tempio nel luogo dove la mattina dopo avrebbe trovato neve fresca. La stessa visione ebbe il papa di allora Liberio. Il giorno seguente si sparse voce che sul colle Esquilino era caduta abbondante neve, perciò Liberio e Giovanni vi si recarono, e, constatato il prodigio, si attivarono per mettere in pratica il comando avuto nella visione. Il Papa segnò il tracciato del nuovo tempio, che in breve fu portato a termine con i denari di Giovanni: pochi anni dopo Liberio poté procedere alla consacrazione […]

Davanti alla chiesa si estende una vasta piazza al centro della quale è posta l’antica colonna di marmo bianco, tolta dal tempio della pace. Il pontefice Paolo V l’anno 1614 la dotò di una base e un capitello, sopra cui collocò la statua della Madonna col Bambino. L’architettura della facciata è maestosa ed è sostenuta da grosse colonne di marmo che formano uno spazioso vestibolo. In fondo ad esso è stata posta la statua di Filippo IV, re di Spagna, che fece molte donazioni a favore di questa chiesa e volle egli stesso essere iscritto fra i canonici. Il pavimento è in mosaico prezioso lavorato con marmi di vario genere, tutti di incalcolabile valore.

La cappella a destra dell’altare maggiore conserva la tomba di san Girolamo, la culla del Salvatore e l’altare di papa Liberio. L’altare papale è ricoperto da preziosi marmi di porfido, e sostenuto da quattro putti di bronzo dorato. Sotto di esso si apre la Confessione, che è una cappella dedicata a san Mattia. Siamo andati a visitarla nel giorno della stazione quaresimale, così abbiamo avuto la fortuna di trovare esposto sopra un ricco altare il capo di san Mattia. L’abbiamo osservato attentamente, e abbiamo notato la pelle attaccata alla testa, anzi, appaiono ancora alcuni capelli attaccati al venerato teschio.

La Vergine e la peste
Nella cappella a sinistra dell’altare si può osservare un dipinto della Vergine attribuito a san Luca, molto venerato dal popolo. L’immagine fu tenuta in grande considerazione dai papi. San Gregorio Magno nella terribile pestilenza del 590 la portò in processione fino al Vaticano. Era il 25 aprile. Giunto il corteo nei pressi della mole Adriana, fu visto un angelo che riponeva la spada nel fodero, indicando così la cessazione della peste. In memoria di questo prodigio la Mole Adriana fu denominata Castel Sant’Angelo, e da allora la processione si ripete ogni anno nel giorno di san Marco Evangelista. In S. Maria Maggiore tutto è maestoso e grande; ma il parlarne o scriverne sono insufficienti per arrivare a descriverla con verità. Chi la vede coi propri occhi ferma lo sguardo meravigliato in ogni angolo.

Oggi mercoledì di quaresima qui a Roma si digiuna e questo vuol dire che sono proibiti non solo i cibi di carne, ma anche ogni minestra o pietanza a base di uova, burro o latte. Olio, acqua e sale sono i condimenti che si usano in questi mercoledì. La pratica è rigorosamente osservata da ogni classe di persone tanto che nei mercati e nelle botteghe quel giorno non si trova né carne, né uova, né burro.

La leggenda di san Galgano
A sera la signora De Maistre ci raccontò una storia degna di essere ricordata. Disse:
L’anno scorso venne a trovarci il vicario generale di Siena. Fra le tante cose di cui era solito parlarci, ci narrò la storia di san Galgano soldato. Questo santo è morto da secoli, e il suo capo si conserva intatto; ma la meraviglia più grande è che ogni anno gli tagliano i capelli, che crescono insensibilmente e tornano della medesima lunghezza l’anno seguente. Un protestante dopo che ebbe ascoltato questo prodigio si mise a ridere dicendo: lascino sigillare da me l’urna dove è conservato il capo, e se i capelli cresceranno ugualmente riconoscerò il miracolo e diventerò cattolico. La cosa fu riferita al vescovo che rispose: io metterò i sigilli vescovili per l’autenticità della reliquia, egli metta i suoi per assicurarsi del fatto. Così fu fatto; ma quel signore, impaziente di vedere se il prodigio cominciava ad operarsi, dopo alcuni mesi chiese di aprire l’urna. Immaginate la sua meraviglia quando vide che i capelli di san Galgano erano già cresciuti come avrebbero fatto se fosse stato vivo! Allora è vero! Esclamò. Diventerò cattolico. Infatti l’anno seguente nel giorno della festa del Santo egli con la sua famiglia rinunziò al luteranesimo e abbracciò la religione cattolica, che oggi professa con esemplarità.

S. Pudenziana al Viminale
Dalle Quattro Fontane si sale al Viminale, chiamato così per i molti vimini, cioè i giunchi, che un tempo lo ricoprivano. Ai piedi di questo colle nella casa di Pudente, senatore romano, alloggiò san Pietro quando venne a Roma. Il santo apostolo convertì alla fede il suo ospite e trasformò la sua casa in chiesa. San Pio I verso il 160, su istanza delle vergini Pudenziana e Prassede, figlie del nipote del senatore Pudente, consacrò questa chiesa, che […] in seguito venne dedicata a S. Pudenziana perché vi aveva abitato e vi era morta. Molti pontefici misero mano alla ristrutturazione di questo luogo che contiene preziose testimonianze cristiane. Merita speciale attenzione il pozzo di santa Pudenziana. Si crede che in esso ella seppellisse i corpi dei martiri. Sul fondo si possono notare una grande quantità di reliquie: la storia dice che contiene le reliquie di tremila martiri.

Accanto all’altare maggiore c’è una cappella di forma oblunga sul cui altare si ammira un gruppo marmoreo di Gesù nell’atto di consegnare le chiavi a san Pietro. Si crede che l’altare sia quello stesso su cui ha celebrato messa san Pietro, e sul quale con grande consolazione ho potuto celebrare io stesso. Vi sono conservati vari pezzi di spugna, gli stessi di cui si serviva Pudenziana per raccogliere il sangue dalle piaghe dei martiri, oppure dalla terra che ne era impregnata.
Continuando verso sinistra si giunge a una cappella dove si conserva la testimonianza di un grande miracolo. Mentre celebrava messa un sacerdote cadde in dubbio sulla possibilità della presenza reale di Gesù nell’ostia santa. Dopo la consacrazione l’ostia gli sfuggì dalle mani e cadendo sul pavimento rimbalzò prima su un gradino poi su un altro. Là dove batté la prima volta il marmo rimase quasi forato, anche nel secondo scalino si formò una cavità assai profonda a forma di ostia. Questi due gradini di marmo sono conservati in quello stesso luogo, custoditi da appositi cancelli.

Santa Prassede
Da S. Pudenziana salendo verso l’Esquilino, a poca distanza da S. Maria Maggiore s’incontra la chiesa di S. Prassede. Verso l’anno 162 d. C., sopra il luogo dove erano le terme, ossia i bagni di Novato, san Pio I eresse una chiesa in onore di questa vergine, sorella di Novato, Pudenziana e Teotilo. Il luogo servì di rifugio agli antichi cristiani in tempo di persecuzione. La Santa, che si adoperava per fornire quanto occorreva ai cristiani perseguitati, provvedeva anche a raccogliere i corpi dei martiri che poi seppelliva, versando il loro sangue nel pozzo che sta in mezzo alla chiesa. Essa è ricchissima di ornamenti e marmi preziosi, come lo sono quasi tutte le chiese di Roma.

C’è anche la cappella dei martiri Zenone e Valentino, i cui corpi, fatti trasportare da san Pasquale I l’anno 899, riposano sotto l’altare. Qui si conserva anche una colonna di diaspro, alta circa tre palmi, che un cardinale di nome Colonna l’anno 1223 fece trasportare dalla Terrasanta. Si ritiene che sia quella a cui fu legato il Salvatore durante la flagellazione.

Il Celio
Dall’Esquilino guardando a ovest si vede il colle Celio. Anticamente veniva chiamato Querchetulano dalle querce che lo ricoprivano. Più tardi fu denominato Celio da Cele Vilenna, capitano degli Etruschi venuti in soccorso di Roma, e che Tarquinio Prisco fece alloggiare su detto colle. La prima cosa che si nota è l’obelisco più grande che si conosca. Ramsete, faraone d’Egitto, lo fece innalzare a Tebe dedicandolo al sole. Costantino il Grande lo fece trasportare attraverso il Nilo fino ad Alessandria, ma, colto dalla morte, toccò al figlio Costanzo trasportarlo a Roma. Per il viaggio si usò un vascello di trecento remi, e attraverso il Tevere fu condotto nell’Urbe e posto in un luogo detto Circo Massimo. Qui cadde spezzandosi in tre parti. Papa Sisto V lo fece restaurare e innalzare nella piazza del Laterano l’anno 1588. L’obelisco giunge all’altezza di 153 piedi romani. È tutto ornato di geroglifici e sormontato da un’alta croce.

A destra della piazza c’è il battistero di Costantino con la chiesa di S. Giovanni in Fonte. Si dice sia stata costruita da Costantino in occasione del battesimo che ricevette dal pontefice san Silvestro l’anno 324. Dalle due cappelle annesse dedicate una a san Giovanni Battista, l’altra a san Giovanni Evangelista ha preso il nome di chiesa di S. Giovanni in Fonte. Il battistero, che è una vasca di grande larghezza rivestita di marmi preziosi, è nel mezzo. La cappelletta annessa dedicata a san Giovanni Battista si crede sia una camera di Costantino, cambiata in oratorio e dedicata al santo Precursore dal papa sant’Ilario.

S. Giovanni in Laterano
Uscendo dal battistero e attraversando la vasta piazza, s’incontra la basilica di S. Giovanni in Laterano. Questa celeberrima costruzione è la prima e principale chiesa del mondo cattolico. Sulla facciata è scritto: Ecclesiarum Urbis et Orbis Mater et Caput (madre e capo di tutte le chiese di Roma e del mondo). È la sede del Sommo Pontefice come vescovo di Roma; dopo la sua incoronazione egli va a prenderne solennemente possesso. Fu chiamata anche Basilica Costantiniana, perché fondata da Costantino il Grande. Fu detta poi Basilica Lateranense perché innalzata dove era il palazzo di un certo Plauzio Laterano, fatto uccidere da Nerone; e anche Basilica del Salvatore a seguito di una apparizione del Salvatore avvenuta durante la costruzione. La chiamano ancora Basilica Aurea per i preziosi doni di cui fu arricchita, e Basilica di S. Giovanni perché dedicata ai santi Giovanni Battista ed Evangelista.

Fu Costantino il Grande a farla costruire presso il suo palazzo, attorno all’anno 324. Ampliata poi con nuovi corpi di fabbrica, fu ceduta al santo Pontefice. Qui abitarono i Papi fino al tempo di Gregorio XI. Quando costui riportò la Santa Sede da Avignone a Roma trasferì la sua abitazione in Vaticano.
L’anno 1308 scoppiò un terribile incendio che la distrusse, ma Clemente V, che allora era in Avignone, mandò subito i suoi agenti con grandi somme di danaro, e in breve fu ricostruita. Il portico è retto da ventiquattro grossi pilastri; in fondo vi è la statua di Costantino trovata nelle sue terme al Quirinale. La porta grande di bronzo è di straordinaria altezza. Essa fu tolta dalla chiesa di S. Adriano in Campo Vaccino e fatta trasportare qui. Costituisce un raro esempio di porte antiche dette Quadrifores, cioè costruite in modo che si potessero aprire in quattro parti, una per volta senza che alcuna mettesse in pericolo la stabilità dell’altra. Sulla destra c’è una porta murata che si apre solo nell’anno del giubileo e perciò è detta Porta Santa.

L’interno è a cinque navate. La lunghezza, l’altezza, la preziosità dei pavimenti, delle sculture e delle pitture sono cose che incantano a vederle. Bisognerebbe farne grossi volumi a parlarne degnamente. Le reliquie più insigni di questa chiesa sono il capo dei due principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Essi sono custoditi sotto l’altare maggiore e incassati in un altro capo d’oro. Vi è pure una reliquia insigne di san Pancrazio martire, e vi si custodisce una tavola che si pensa sia quella medesima sopra la quale Gesù celebrò la sacra cena coi suoi Apostoli.

Uscendo dalla chiesa per la porta principale e attraversando la piazza si trova la Scala Santa, un edificio che papa Sisto V fece innalzare per custodirvi la scala, che prima si trovava a pezzi nel vecchio palazzo papale del Laterano. Essa è formata da ventotto gradini di marmo bianco del pretorio di Pilato a Gerusalemme che Gesù salì e discese più volte durante la sua passione. Sant’Elena, madre di Costantino, li inviò a Roma insieme con molte altre cose santificate dal sangue di Gesù Cristo. Questa celebre scalinata è tenuta in grande venerazione e perciò si sale in ginocchio; e si ridiscende per una delle quattro scale laterali. Questi gradini si sono incavati per il grande afflusso di cristiani che li hanno saliti, per cui sono stati coperti con tavoloni di legno. Lo stesso Sisto V fece collocare nell’alto della scala la celebre cappella domestica dei papi, che è piena delle più insigni reliquie, e che perciò viene chiamata Sancta Sanctorum.

Città del Vaticano. La costruzione
Il colle Vaticano contiene quanto esiste di più eccellente nelle arti, e di memorabile nella religione; perciò ne daremo un ragguaglio un po’ più preciso. Fu chiamato Vaticano da Vagitanus, una divinità che pensavano sovrintendesse al vagito dei fanciulli. Infatti la prima sillaba Uà (va n.d.r.) di cui è composta la parola è anche il primo grido dei bambini. Il colle acquistò rinomanza quando Caligola vi costruì il circo che fu poi detto di Nerone. Caligola per passare dalla sinistra alla sponda destra del Tevere costruì il ponte Vaticano, detto anche Trionfale che ora però non esiste più. Il circo di Nerone incominciava dov’è oggi la chiesa di S. Marta e si estendeva fino alle scale dell’antica basilica Vaticana. In questo circo fu seppellito il corpo del Principe degli Apostoli […]

Lì vennero anche sotterrate le ossa di altri papi tra cui Lino, Cleto, Anacleto, Evaristo ed altri ancora. La Memoria di S. Pietro, ossia il tempietto costruito sulla sua tomba, durò fino ai tempi di Costantino che, per desiderio di san Silvestro, verso il 319 mise mano alla costruzione di una chiesa in onore dell’Apostolo. Essa fu eretta proprio intorno a quel tempietto, servendosi di materiale tolto da edifici pubblici. La costruzione fu chiamata Basilica Costantiniana, e a quei tempi era reputata fra le più celebri della cristianità. Nel mezzo di quella chiesa, fatta a forma di croce latina, vi era l’altare dedicato a san Pietro sotto il quale era sepolto, protetto da cancelli, il suo corpo; quel vano fin da allora si usava chiamare Confessione di san Pietro. Terminato il tempio e dotatolo di ricchi arredi papa Silvestro lo consacrò il 18 novembre del 324 […] I pontefici che vennero in seguito lo abbellirono e ampliarono. Per undici secoli fu l’oggetto della devozione e dell’ammirazione dei cristiani che si recavano a Roma.

Nel secolo XV cominciava ad andare in rovina, perciò Nicolò V pensò di rinnovarlo, ma ebbe solo il merito di iniziare i lavori, perché la morte gli fece sospendere ogni cosa. Giulio II riprese la costruzione alla quale cambiò nome, da Basilica Costantiniana a S. Pietro in Vaticano, e pose la prima pietra il 18 aprile 1506. Gli architetti furono Bramante, in seguito fra Giocondo Domenico e Raffaello Sanzio. Dopo costoro lavorarono i più celebri architetti, e i più sublimi ingegni del tempo.

La grande piazza
 […] Dinanzi alla basilica si apre una vasta piazza la cui lunghezza supera il mezzo chilometro. Essa è formata da 284 colonne e da 64 pilastri che, disposti in semicerchio da ambo i lati in quattro file, formano tre vie di cui la più ampia quella centrale può permettere il transito di due carrozze. Sopra al colonnato sono poste 96 statue di santi, in marmo, dell’altezza di circa 10 piedi. Al centro invece s’innalza l’obelisco egizio. Esso è formato da un sol pezzo, ed è il solo che sia restato intero. Misura 126 piedi di altezza compresa la croce e il piedistallo. Non ha geroglifici. Nuccoreo re d’Egitto l’aveva innalzato a Eliopoli, da dove venne prelevato e fatto trasportare a Roma da Caligola l’anno 3° del suo impero. Fu collocato nel circo costruito ai piedi del colle Vaticano, come dimostrano le iscrizioni che vi si leggono. Questo circo fu chiamato di Nerone perché da lui molto frequentato; qui quel crudele imperatore fece strage di cristiani, calunniandoli di essere autori dell’incendio di Roma che lui stesso aveva appiccato.

Nel 1818 sulla piazza venne costruita una meridiana. Per terra si disegnarono i dodici segni dello zodiaco. L’obelisco faceva da gnomone (asta), e con la sua ombra indicava le stazioni del sole. Tutto intorno furono scritti i nomi dei venti nella direzione in cui spira ciascuno di essi. Ai lati due fontane uguali gettano perennemente acqua da un gruppo di zampilli che s’innalzano anche fino a sessanta piedi. La regina di Scozia accolta con pompa in questo luogo guardò con meraviglia le due fontane pensando che fossero state fatte apposta per la sua accoglienza. No, disse un signore che le stava a fianco, questi zampilli sono perenni.

Visita a San Pietro
Camminando verso la facciata della basilica si arriva a una magnifica gradinata fiancheggiata da due statue una di san Pietro l’altra di san Paolo, fatte collocare dal regnante Pio IX. Salite le scale si è davanti alla facciata che ha questa iscrizione: In onore del Principe degli Apostoli Paolo V Pontefice Massimo l’anno 1612 7° del suo pontificato. Sopra al porticato si estende la grande Loggia delle benedizioni. La facciata è maestosa e imponente. Il porticato è tutto adorno di marmi, pitture in mosaico e altri eleganti lavori. In fondo al vestibolo a destra si può osservare la bellissima statua equestre di Costantino in atto di mirare la prodigiosa croce apparsagli in cielo prima della battaglia finale con Massenzio.

Dal portico si entra in basilica attraverso quattro porte, di cui l’ultima a destra non si apre che per l’anno santo. La porta maggiore è in bronzo, di grande altezza, e occorrono molte e forti braccia per aprirla. L’interno si presenta a cinque navate oltre la crociera che termina con la tribuna. La curiosità e la sorpresa ci portò nel mezzo della navata maggiore. Qui ci siamo fermati ad ammirare e riflettere senza dire parola. Ci parve di vedere la celeste Gerusalemme. La lunghezza della basilica è di palmi 837, la sua larghezza di 607. È il maggior tempio di tutta la cristianità. Dopo S. Pietro il più vasto è quello di S. Paolo a Londra. Se alla chiesa di S. Paolo aggiungiamo quella del nostro Oratorio si forma la precisa lunghezza di S. Pietro.

Dopo di essere stati per qualche tempo immobili abbiamo cercato il catino dell’acqua santa. Abbiamo scorto due putti, a prima vista molto piccoli, che reggevano una specie di conchiglia nel primo pilastro della basilica. Ci recò meraviglia che una chiesa tanto vasta avesse un’acquasantiera così piccola. Ma la meraviglia si cambiò in sorpresa quando vedemmo i putti farsi sempre più grandi man mano che ci avvicinavamo. La conchiglia divenne un vaso di circa sei piedi di circonferenza, e i putti ai lati ci facevano vedere le loro mani con le dita grandi come un nostro braccio. Ciò dimostra che le proporzioni di questo meraviglioso edificio sono così ben regolate da renderne meno sensibile l’ampiezza, la quale però si nota sempre meglio esaminando ciascun dettaglio. Intorno ai pilastri della navata maggiore si vedono scolpite in marmo le statue dei fondatori degli ordini religiosi.

Nell’ultimo pilone a destra è collocata la statua in bronzo di san Pietro tenuta in grande venerazione. Fu fatta fondere da san Leone Magno col bronzo di quella di Giove Capitolino. Essa ricorda la pace che quel Pontefice ottenne da Attila che infuriava contro l’Italia. Il piede destro che sporge fuori del piedistallo è consumato dalle labbra dei fedeli che non passano mai davanti senza baciarlo con rispetto. Mentre stavamo rimirando la statua, passò l’ambasciatore austriaco a Roma che s’inchinò dinanzi al principe degli Apostoli e gli baciò il piede.

Navate e cappelle
Passiamo ora a dire qualche cosa delle navate minori e delle cappelle che vi si trovano. In quella di destra si incontra per prima la cappella della Pietà. Oltre a magnifici mosaici e alle statue che la adornano, si ammira sopra l’altare il celebrato gruppo scolpito da Michelangelo Buonarroti in marmo bianco, quando non aveva che ventiquattro anni di età. È forse la più bella scultura del mondo. Il medesimo Buonarroti se ne compiacque, tanto che lo firmò sulla cintola del petto di Maria.

A sinistra della cappella della Pietà c’è quella interna dedicata al Crocifisso e a S. Nicola. Da qui si entra nella così detta Cappellina della Colonna Santa, dove si conserva, protetta da una cancellata in ferro, una delle colonne a vite che stavano anticamente davanti all’altare della Confessione di san Pietro. È questa la colonna a cui si appoggiò Gesù Cristo allorché predicò nel tempio di Salomone. Si ammira con meraviglia in questa colonna che la parte toccata dalle sacre spalle del Salvatore non è mai imbrattata di polvere, e perciò non occorre che sia spolverata come il resto.

Dopo la cappella della Pietà s’incontra il monumento sepolcrale di Leone XII, fatto erigere da Gregorio XVI. Il Pontefice è ritratto mentre benedice il popolo dalla Loggia sopra il portico; attorno si vedono le teste dei cardinali assistenti alla cerimonia. Di fronte a questo sepolcro è il cenotafio di Cristina Alessandra, regina di Svezia, morta a Roma il 19 aprile 1689. Costei, protestante, convintasi della poca consistenza della sua religione, si fece istruire nel cattolicesimo e fece la solenne abiura a Ispruch il 3 novembre 1655. Vari bassorilievi che adornano il sepolcro rappresentano l’avvenimento.

Segue la cappella di san Sebastiano anch’essa ricca di pitture e marmi. Uscendo a destra si trova il deposito sepolcrale di Innocenzo XII dei Pignatelli di Napoli. Di fronte c’è il sepolcro della famosa contessa Matilde, insigne benefattrice della Chiesa, e sostenitrice della autorità pontificia. Urbano VIII fece trasferire qui le sue ceneri togliendole dal monastero di san Benedetto a Mantova. Essa fu la prima delle illustri donne che meritarono un sepolcro nella basilica Vaticana. La contessa è rappresentata in piedi; il sepolcro è ornato da un bassorilievo che raffigura l’assoluzione impartita da Gregorio VII ad Enrico IV imperatore di Germania, su istanza di Matilde e di altri personaggi, il 25 gennaio 1077 nella fortezza di Canossa.

Si giunge così alla cappella del Sacramento, ricca di marmi e mosaici. Accanto all’altare una scala porta al palazzo pontificio. Questo altare è dedicato a san Maurizio e compagni martiri, patroni principali del Piemonte. Le due colonne a vite di un sol pezzo che ornano l’altare sono due delle dodici che si credono portate a Roma dall’antico tempio di Salomone. Sul pavimento davanti all’altare si ammira il sepolcro in bronzo di Sisto IV Della Rovere. Esso fu eseguito per ordine di Giulio II suo nipote, e rappresenta le virtù e la scienza proprie del defunto. In esso sono contenute le ceneri dei due papi.

All’uscire dalla cappella ecco a destra il sepolcro di Gregorio XIII Buoncompagni. Lo ornano due statue: la Religione e la Fortezza, al centro un grande bassorilievo rappresenta la riforma del calendario, detta perciò Gregoriana. Qui sono ritratti una quantità di personaggi illustri che ebbero parte in quell’opera, tutti in atto di venerare il Pontefice. Di fronte, entro un’urna di stucco, riposano le ossa di Gregorio XIV della famiglia Sfrondato. Qui termina la navata minore e si entra nella croce greca secondo il disegno del Buonarroti.

Uscendo dalla navata, a destra si trova la Cappella Gregoriana. Sopra l’altare è venerata un’antica immagine della Madonna dei tempi di Pasquale II. Sotto riposa il corpo di san Gregorio Nazianzeno, fatto trasferire per ordine di Gregorio XIII dalla chiesa delle monache di campo Marzio. Proseguendo il cammino si giunge al monumento sepolcrale di Benedetto XIV Lambertini, fatto erigere dai cardinali da lui creati. Ai due lati del sepolcro s’innalzano due magnifiche statue che rappresentano il Disinteresse e la Sapienza, le due virtù maggiormente luminose di questo papa. La statua del Pontefice, in piedi, benedice il popolo con gesto maestoso. Questo lavoro è tanto ben eseguito che il semplice rimirare il Papa ci fa riconoscere in lui la grandezza e la elevatezza del suo animo. Di fronte si riconosce l’altare di san Basilio Magno con sopra un prezioso quadro in mosaico dell’imperatore Valente svenuto alla presenza del Santo, mentre lo guardava celebrare la messa.

Si giunge quindi alla tribuna. Il primo altare a destra è dedicato a san Venceslao martire, re di Boemia; quello di mezzo è consacrato ai santi Processo e Martiniano, guardie del carcere Mamertino, convertite alla fede da san Pietro, quando l’Apostolo vi era rinchiuso. Da questi santi prende nome il complesso; i loro corpi riposano sotto l’altare. Tre preziosi bassorilievi rappresentano san Pietro in prigione liberato dall’Angelo (quello di mezzo), san Paolo che predica nell’Areopago (quello a destra), il terzo i santi Paolo e Barnaba, presi per divinità dagli abitanti di Listri.
S’incontra poi il sepolcro di Clemente XIII Rezzonico, scultura di Antonio Canova. È un capolavoro. Il quadro dell’altare che rimane in faccia al monumento, raffigura san Pietro in pericolo di annegare, sostenuto dal Redentore. Più avanti ecco l’altare di san Michele, poi quello di santa Petronilla, figlia di san Pietro. Questa santa è rappresentata in un mosaico che narra il dissotterramento del cadavere di lei per mostrarlo a Flacco, nobile Romano, che l’aveva chiesta in sposa. Nella parte superiore è raffigurata l’anima di lei che con preghiere ottenne di morire vergine ed è accolta da Gesù Cristo. Più avanti si vede il sarcofago di Clemente X, Altieri: il bassorilievo rappresenta l’apertura della porta santa per il Giubileo del 1675. L’altare è sormontato dal quadro di san Pietro che alle preghiere di una turba di mendicanti risuscita la vedova Tabita.

Attraverso due gradini di porfido che facevano parte dell’altare maggiore dell’antica basilica si ascende all’Altare della Cattedra. Un sorprendente gruppo di quattro statue di metallo reggono la sede pontificale. Le due davanti rappresentano due padri latini Ambrogio e Agostino; le due di dietro i padri Greci, Atanasio e Giovanni Crisostomo. Il peso di questi gruppi ammonta a 219.161 libbre di metallo. La sedia in bronzo riveste, come preziosa reliquia, quella di legno intarsiata con vari bassorilievi d’avorio. Questa sedia è quella del senatore Pudente che servì l’Apostolo Pietro e molti altri papi dopo di lui.

Sopra l’altare della Cattedra come sfondo è effigiato su tela lo Spirito Santo tra vetri colorati e raggianti di modo che, a chi lo guarda, sembra di vedere una stella d’oro risplendente. Sotto invece, a sinistra di chi guarda, c’è il magnifico sepolcro di Paolo III Farnese, monumento molto pregiato per le sue sculture. La statua del Pontefice assiso sull’urna è di bronzo, le altre due statue, di marmo, rappresentano la Prudenza e la Giustizia. Di fronte è posto il sepolcro di papa Urbano VIII la cui statua è di bronzo. La Giustizia e la Carità sono ai suoi lati, scolpite in marmo bianco. Sull’urna si scorge l’immagine della morte in atto di scrivere in un libro il nome del Pontefice. Qui interrompemmo la visita: eravamo stanchi, la visita era durata dalle undici del mattino alle cinque pomeridiane.

Roma. S. Maria della Vittoria
Dal Quirinale guardando verso mezzogiorno si vede la via di Porta Pia, così chiamata dal pontefice Pio IV che per abbellirla eseguì non pochi lavori. Lungo questa strada, presso la fontana dell’Acqua Felice, s’innalza a sinistra la chiesa di S. Maria della Vittoria, edificata da Paolo V nel 1605, e chiamata così per una immagine miracolosa della Madonna trasportatavi dal padre Domenico dei Carmelitani Scalzi. A questa immagine, o meglio alla protezione di Maria, Massimiliano duca di Baviera dovette la grande vittoria riportata in pochi giorni contro i protestanti, che con un esercito numerosissimo avevano messo sottosopra il regno d’Austria. La prodigiosa immagine si conserva sull’altare maggiore. Ai cornicioni sono appese le bandiere tolte ai nemici: glorioso monumento alla protezione di Maria.

In memoria della liberazione di Vienna fu istituita la festa del Nome di Maria che si celebra da tutta la cristianità la domenica tra l’ottava della nascita di Maria. La cosa accadde il 12 settembre 1683 sotto il pontificato di Innocenzo XI. In questa stessa chiesa si celebra una speciale solennità nella seconda domenica di novembre in ricordo della famosa vittoria riportata dai cristiani contro i Turchi a Lepanto il 7 ottobre 1571, sotto Pio V. Anche alcune bandiere tolte ai Turchi sono appese come trofei al cornicione di questa chiesa.
Davanti a S. Maria della Vittoria si trova la fontana di Termini, chiamata fontana del Mosè, perché in una nicchia vi è scolpita la statua di Mosè che con la verga in mano fa scaturire l’acqua dalla pietra. È anche chiamata Acqua Felice da fra’ Felice, che è il nome di Sisto V quando era in convento.

L’isola Tiberina
Nel pomeriggio abbiamo deciso di andare col conte De Maistre a visitare la grande opera di San Michele al di là del Tevere. Dovemmo perciò attraversare il fiume all’altezza di un’isoletta detta Tìberina o anche Lycaonia, da un tempio dedicato a Giove Lycaonio. Quest’isola ebbe origine così. Quando fu espulso Tarquinio da Roma il Tevere era quasi privo d’acqua, e lasciava scoperti alcuni banchi di sabbia. I Romani, mossi da odio contro questo re, andarono nei suoi campi, tagliarono le biade e il farro che era vicino a maturare e gettarono tutto nel Tevere. La paglia andò ad arrestarsi sopra quella sabbia, e depositandosi la fanghiglia di arena che l’acqua faceva scorrere, giunse a consolidarsi a tal punto da potersi coltivare e abitare. In quest’isola i pagani innalzarono un tempio in onore di Esculapio; ma nel 973 vi fu trasferito il corpo di san Bartolomeo che riposa nell’urna sotto l’altare maggiore.

Passato il Tevere e continuando verso il S. Michele s’incontra a destra la chiesa di S. Cecilia, edificata nel luogo dov’era la sua casa. Urbano I, verso la metà del terzo secolo, la consacrò, e san Gregorio Magno la arricchì di molti oggetti preziosi. Entrando a destra c’è la cappella ove era il bagno di santa Cecilia, in cui si dice abbia ricevuto il colpo mortale. L’altare maggiore protetto da una cancellata di ferro, custodisce il corpo della santa. Sopra l’urna è scolpito un commovente lavoro in marmo che la rappresenta distesa e vestita come fu rinvenuta nel sepolcro.

Giunti all’ospizio S. Michele abbiamo avuto udienza dal Cardinale Tosti che ci raccontò vari episodi a lui accaduti al tempo della repubblica. Anch’egli fu costretto a vivere per un po’ lontano dall’ospizio per non rimanere vittima di qualche attentato. Fra le varie cose derubate in quella triste circostanza a questo pio porporato vi furono tre tabacchiere assai preziose specialmente per l’antichità e la provenienza. Portate ai componenti del triumvirato, Mazzini pensò di trattenerne una per sé e regalare le altre due a suoi compagni. Ma essi non osarono prenderle. Mazzini aggiustò tutto, e graziosamente se le pose tutte tre in tasca!

Il Campidoglio
Lungo il tragitto di ritorno, a metà strada si alza il colle più alto di Roma, il Campidoglio così chiamato da caput Toli, capo di Tolo, che fu ritrovato mentre Tarquinio il Superbo ne faceva appianare la sommità per erigerlo in fortezza. Noi salimmo una lunga gradinata alla cui estremità si alzano due statue colossali rappresentanti Castore e Polluce. Il piano che forma la piazza si chiamava anticamente inter duos lucos, perché restava tra i boschetti che ricoprivano le due cime. Qui Romolo aveva creato un riparo per i popoli vicini che avessero voluto rifugiarvisi. Il Campidoglio d’oggi non ha più imponenza guerresca, ma è una piazza maestosa contornata da palazzi che ospitano musei, e dove si trattano gli affari municipali. In una parte di questa piazza esisteva il tempio di Giove Feretrio, così detto dalle armi dei vinti che i vincitori andavano ad appendere all’altare di quel tempio.

In mezzo alla piazza s’innalza la famosa statua equestre di Marco Aurelio in atto di pacificatore. Essa è la più bella fra le più antiche statue di bronzo che si siano conservate intatte. Una parte dei grandi edifici che circondano la piazza costituiscono il palazzo senatorio, fondato da Bonifacio IX nel 1390 sopra il medesimo terreno ove era l’antico senato dei Romani. A lato si trova la fonte dell’Acqua Felice, cui fanno ornamento due statue giacenti del Nilo e del Tevere. Da qui, attraverso una piccola scala, si arriva alla torre del Campidoglio, eretta in forma di campanile sul medesimo luogo ove anticamente montavano gli osservatori per ammirare Roma e controllare i nemici che tentassero di avvicinarsi alla città […]
Nella parte più elevata verso oriente vi era il tempio di Giove Capitolino che veniva chiamato di Giove Ottimo, Massimo, ed era stato eretto da Tarquinio il Superbo sopra le fondamenta preparate da Tarquinio Prisco che ne aveva fatto voto durante la guerra contro i Sabini. Proprio mentre si faceva lo scavo fu rinvenuto il caput Toli.

S. Maria in Aracoeli
Dove era il tempio di Giove Capitolino, ora c’è la maestosa chiesa di Santa Maria in Aracoeli, edificata nel VI secolo dell’era volgare. Per qualche tempo si chiamò Santa Maria in Campidoglio, dal luogo dove sorgeva. Fu poi detta Aracoeli dal fatto seguente. Avendo un fulmine colpito il Campidoglio, Ottaviano Augusto per timore di qualche sventura mandò ad interrogare l’oracolo di Delfi […] Per questo fatto, e per alcuni detti delle Sibille che riguardavano la nascita del Salvatore, Augusto fece innalzare un’ara intitolata: Ara primogeniti Dei, altare del primogenito di Dio. Donde ne derivò il nome di Santa Maria in Aracoeli, dopo che sul posto fu innalzata una chiesa in onore della Madre di Dio. L’interno è a tre navate divise da 22 colonne di marmo già appartenenti al tempio di Giove Feretrio. L’altare maggiore è degno di speciale osservazione, perché sopra di esso si venera un’immagine di Maria, che si pensa sia di san Luca. Questa ai tempi di san Gregorio Magno venne portata processionalmente per Roma per ottenere la liberazione dalla peste. Il fatto è rappresentato in un dipinto sul pilastro a lato dell’altare. Nel mezzo della crociera è collocata la cappella di sant’Elena, dove venne innalzata l’Ara Primogeniti. La mensa dell’altare è una grande urna di porfido, entro cui sono stati riposti i corpi di sant’Elena madre di Costantino, e dei santi Abbondio e Abbondanzio.

In una stanza vicina alla sacrestia si conserva un’effigie miracolosa di Gesù Bambino. Le fasce che lo rivestono sono arricchite di pietre preziose. Essa viene esposta in venerazione durante le feste di Natale, in un bel presepio che si rappresenta in chiesa dentro una cappella. Insieme col Bambino si pongono anche le figure di Augusto e della Sibilla a ricordo di una tradizione che afferma che la Sibilla Cumana predicesse la nascita del Salvatore e perciò Augusto vi eresse un’ara.

Uscendo da Aracoeli e andando verso la parte occidentale del Campidoglio s’incontra la rupe Tarpea che occupava la parte verso il Tevere, e si chiamava così dalla Vergine Tarpea, che vi fu uccisa a tradimento nella guerra dei Sabini. Dall’alto di questa rupe venivano precipitati i traditori della patria. Qui furono martirizzati molti cristiani che, in odio alla fede, furono gettati in basso. Là vicino si trovava la Curia, e la capanna di Romolo, dove, si dice, abbia atteso il responso degli avvoltoi […]

Scendendo verso il basso ecco il tempio della Concordia, fatto costruire da Camillo l’anno 387 di Roma. […] Presso questo tempio nella parte sinistra di chi scende era situato quello di Giove Tonante di cui restano tre colonne di marmo. Fu eretto da Augusto sul clivo capitolino e dedicato a Giove in ringraziamento di essere scampato al fulmine che uccise il servo che lo precedeva.

Il Carcere Mamertino
Il mattino del 2 marzo insieme con la famiglia De Maistre siamo andati a visitare il carcere Mamertino, che è ai piedi del Campidoglio nella parte occidentale. Questo carcere è chiamato così da Mamerto, o Anco Marzio, 4° re di Roma che lo fece costruire per spargere terrore nella plebe, e così impedire i furti e gli assassini. Servio Tullio 6° Re di Roma aggiunse sotto a questo un altro carcere che fu chiamato Tulliano. Esso ha due sotterranei, che nella volta presentano un’apertura capace di far passare un uomo. Attraverso questa si calavano con una corda i condannati […]

Qui sgorga una sorgente d’acqua che si dice sia stata fatta miracolosamente scaturire da san Pietro quando con san Paolo vi era tenuto in prigione. Il principe degli Apostoli si servì di quest’acqua per battezzare i santi Processo e Martiniano, custodi del carcere, assieme ad altri 47 compagni morti tutti martiri. Quest’acqua presenta aspetti miracolosi. Il suo gusto è naturale. Non cresce mai, né mai diminuisce di volume qualsiasi quantità se ne attinga. Due signori inglesi quasi per burlare i cattolici vollero provare a svuotare la piccola fossa dell’acqua che assomiglia a un vaso di piccole dimensioni. Si stancarono essi e i loro amici, ma l’acqua rimase sempre allo stesso livello. Si raccontano molte guarigioni miracolose ottenute dal suo uso. Accanto alla fonte è posta una colonna di pietra a cui furono legati i due principi degli Apostoli. A fianco della colonna è ubicato un piccolo e basso altare ove con grande consolazione ho celebrato la messa, cui hanno partecipato la famiglia De Maistre e altre pie persone. Sopra l’altare un bassorilievo rappresenta Paolo che predica e Pietro che battezza le guardie […]

In un angolo del 1° piano del carcere si nota sul muro l’impronta di un volto umano. Si dice che san Pietro abbia ricevuto un forte schiaffo da uno sgherro, sicché battendo con la faccia nel muro vi abbia lasciato impresso il suo volto che in modo miracoloso si è conservato. Al disopra di questa figura è scolpita questa antica iscrizione: “In questo sasso Pietro batté la testa spinto da sgherro ed il prodigio resta”. Sopra questo carcere venne edificata una chiesa, e sopra questa un’altra ancora dedicata a san Giuseppe. Ha sede qui la confraternita dei falegnami. I membri si radunano nei giorni festivi, assistono alle funzioni sacre e provvedono a quanto è necessario per la manutenzione della chiesa e a quanto occorre per la pulizia del carcere. Anticamente per arrivare all’ingresso della prigione si scendeva attraverso una scala in fondo alla quale era l’apertura da cui venivano precipitati i condannati. Quelle scale furono chiamate Gemonie, dai gemiti dei condannati […]

Città del Vaticano. Devozioni giubilari
Il 3 marzo era destinato alla visita a san Pietro. Partiti alle sei e mezzo da casa con un fresco che allietava la vita e rendeva celeri i nostri passi, prendemmo la direzione del colle Vaticano. Giunti al Ponte Elio, o Ponte Sant’Angelo, sopra cui si passa traversando il Tevere, recitammo il credo. I Pontefici concedono cinquanta giorni d’indulgenza a quelli che recitano il simbolo degli Apostoli mentre passano sopra questo ponte. Viene chiamato Elio da Elio Adriano che lo ha costruito. Ma si chiama anche ponte Sant’Angelo da Castel Sant’Angelo, che è il primo edificio che s’incontra sulla sponda opposta.

Diremo qualche cosa di questo castello. L’imperatore Adriano volle erigere un grande sepolcro sulla riva destra del Tevere. Per la sua larghezza, lunghezza e altezza lo chiamarono Mole Adriana. Allorché Teodosio imperatore fece prelevare le colonne dal mausoleo di Adriano per dotarne la basilica di san Paolo, questa costruzione restò priva della metà superiore e senza colonne. L’anno 537 le truppe di Belisario diedero l’assalto ai Goti per allontanarli da Roma, e allora quasi tutti gli avanzi di quel mausoleo vennero ridotti in pezzi. Nel secolo X fu chiamato Castro e Torre di Crescenzio da un certo Cescenzo Nomentano che se ne impadronì e lo fortificò. Poco dopo la storia gli diede il nome di Castel Sant’Angelo, derivandolo forse da una chiesa dedicata all’angelo Michele […] Ma l’opinione più probabile resta quella che narra di una processione di san Gregorio Magno per ottenere dalla Vergine la liberazione dalla peste: in quell’occasione apparve sull’alta cima della Mole un angelo che rimetteva nel fodero la spada, segno che il flagello stava per cessare. Ora Castel Sant’Angelo è ridotto ad una fortezza ed è l’unica di Roma.

Continuando il nostro cammino siamo arrivati nella grande piazza S. Pietro. Passando davanti all’obelisco, ci siamo tolti il cappello, perché i papi hanno concesso cinquanta giorni d’indulgenza a chi fa riverenza o si scopre il capo passando vicino a quell’obelisco, sopra cui è stata applicata una croce che contiene un pezzo del Santo Legno della croce di Gesù.
Eccoci dunque di nuovo nella Basilica Vaticana. Ne avevamo già visitata la metà più la tribuna, che forma come il coro dell’altare papale, ubicata in mezzo alla crociera, dirimpetto alla cattedra di Pietro. Detto coro fu fatto erigere da Clemente VIII e da lui consacrato l’anno 1594: racchiude l’altare già edificato da san Silvestro. Essendo l’altare papale, vi celebra solo il Papa, e quando qualche altro vuole usarlo occorre un “Breve” apostolico. Ai quattro lati s’innalzano quattro grandi colonne a vite che sorreggono un baldacchino ornato di fregi tutto di bronzo. L’altezza di questo baldacchino dal piano del pavimento eguaglia quella dei più alti palazzi di Torino.

La tomba di Pietro: curiosità di un santo
Davanti all’altare papale attraverso una doppia scala di marmo si discende nel piano della Confessione. All’estremità delle scale sono poste due colonne di alabastro d’Orte, materiale assai raro, trasparente come diamante. Centododici lampade ardono continuamente intorno al venerando luogo. Nel fondo si apre una nicchia formata sull’antico oratorio eretto da san Silvestro, dove sant’Anacleto “eresse una memoria a san Pietro”. Qui riposa il corpo del Principe degli Apostoli. Nelle pareti laterali si aprono due porte munite di un cancello di ferro da dove si passa alle sacre grotte. Proprio di fronte alla nicchia il 28 Novembre 1822 venne collocata la statua in marmo di Pio VI che, in ginocchio, sta in fervorosa preghiera. È questa una delle più belle opere di Antonio Canova. Pio VI era solito di giorno e talvolta anche di notte recarsi presso la tomba di san Pietro per pregare. In vita mostrò il vivo desiderio di essere sepolto lì e alla sua morte si volle esaudirlo. Ma fatto uno scavo di poca profondità fu scoperta una tomba sopra cui era scritto: Linus episcopus. Immediatamente fu rimessa ogni cosa a posto, e il Pontefice fu sepolto in altro angolo della chiesa. In quello prescelto invece del corpo fu collocata la statua di cui abbiamo parlato. Noi abbiamo visto e toccato con mano quanto c’è qui di prezioso, ma non abbiamo potuto vedere il corpo del primo papa, perché da secoli il sepolcro non è stato più aperto per timore che qualcuno tenti di spezzarne qualche reliquia.

Sopra questa tomba è stato innalzato un ricco altare: qui ho avuto la consolazione di celebrare la santa messa. Questo altare con una cappelletta annessa riceve luce da alcuni oblò ricoperti di grate di metallo. Durante la costruzione della basilica, avvenne un fatto prodigioso, riferito da un testimone oculare. Prima che il tetto fosse terminato, caddero piogge così impetuose che le acque inondarono il pavimento della basilica fino a un palmo di altezza. Malgrado tanta abbondanza, l’acqua non osò accostarsi all’altare della Confessione, e neppure discese nell’oratorio inferiore attraverso i tre oblò suddetti, perché, giunta nelle vicinanze, si fermò rimanendo sospesa di modo che neppure una goccia giunse a bagnare quel santuario. Dopo aver osservato ogni oggetto, guardato ogni angolo, le mura, le volte, il pavimento, chiedemmo se non ci fosse più nulla da vedere.
Più nulla, ci fu risposto.
– Ma la tomba del santo apostolo, dov’è?
– Qui sotto. È situata nello stesso luogo che occupava quando era in piedi l’antica basilica
[…]
– Ma noi vorremmo vedere fin là.
– Non è possibile […]
– Ma il papa ha detto che avremmo potuto vedere tutto. Se tornando da lui ci dicesse se abbiamo visto tutto, mi rincrescerebbe di non poter rispondere affermativamente.
Il monsignore [che ci accompagnava] mandò a prendere alcune chiavi e aprì una specie di armadio. Qui si apriva una cavità che scendeva sotterra. Era tutto buio.
È soddisfatto? Mi disse il monsignore.
– Non ancora, vorrei vedere.
– E come vuol fare?
Mandi a prendere una canna e un cerino. Portarono canna e cerino che applicato sulla punta di quella venne calato giù, ma si spense subito nell’aria senza ossigeno. La canna non giungeva fino in fondo. Allora fu fatta venire un’altra canna che aveva all’estremità un uncino di ferro. Così si giunse a toccare il coperchio della tomba di san Pietro. Era a sette/otto metri di profondità. Battendo leggermente, il suono che veniva su indicava che l’uncino stava urtando ora nel ferro ora nel marmo. Ciò confermava quello che avevano scritto gli storici antichi.

Ci vorrebbe un volume per descrivere le cose viste. Quanto esisteva nella basilica costantiniana si conserva in lapidi laterali, o sui pavimenti o nelle volte dei sotterranei. Metto in risalto solo una cosa, l’immagine di Santa Maria della Bocciata, molto antica, posta in un altare sotterraneo. Il nome deriva dal fatto seguente. Un giovane per disprezzo o, forse, inavvertitamente con una boccia colpì in un occhio la figura di Maria. Avvenne un gran prodigio. Grondò sangue dalla fronte e dall’occhio che ancora rosso si vede sopra le gote dell’immagine. Due gocce schizzarono lateralmente sopra il sasso che si conserva gelosamente riparato dietro due cancelli di ferro.

Altari, cappelle, sepolcri
Sopra l’altare papale e la tomba di san Pietro si alza la sterminata cupola che fa restare incantato chi la osserva. Quattro grandi piloni la sostengono: ciascuno di essi ha cento cinquanta passi, circa venticinque trabucchi, di circuito. Tutto intorno a quell’alta cupola ci sono eleganti lavori in mosaico eseguiti dai più celebri autori. Sui pilastri sono incavate quattro nicchie dette Logge delle Reliquie, che sono il Volto Santo della Veronica, la Santa Croce, la Sacra Lancia, e Sant’Andrea. Tra esse è celebre quella del Sacro Volto che si crede essere quel pannolino di cui si servì il Salvatore per asciugarsi la faccia grondante di sangue. Egli vi lasciò impressa la sua effigie che regalò a Veronica che piangente l’accompagnava al Calvario. Persone degne di fede raccontano che questo Sacro Volto l’anno 1849 trasudò sangue più volte, anzi cambiò colore tanto da variarne i lineamenti. Queste cose furono scritte, e i canonici di S. Pietro ne danno testimonianza.

Partendo dall’altare papale e proseguendo verso la parte meridionale si incontra il sepolcro di Alessandro VIII degli Ottobuoni. Fu fatto erigere dal nipote cardinale Pietro Ottobuoni. La statua del Papa assiso in trono è di metallo. Due statue in marmo sono ai due lati, e rappresentano la Religione e la Prudenza. L’urna è coperta dal bassorilievo della canonizzazione di Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capistrano, Giovanni da san Facondo, Giovanni di Dio e Pasquale Bajlon, fatta da Alessandro VIII nel 1690. A fianco si erge l’altare di san Leone Magno su cui si ammira il sorprendente bassorilievo del Pontefice che va incontro al feroce Attila. In alto sono effigiati Pietro e Paolo, accanto al Papa Attila, spaventato dalla comparsa dei due e in atto di ossequiare il Pontefice. In un’urna sotto l’altare riposa il corpo del santo papa e dottore della Chiesa. Davanti è posta la tomba di Leone XII, morto nel 1829, il quale aveva tanta venerazione per questo suo glorioso antecessore, da voler essere sepolto accanto a lui. […]

L’altare che segue è dedicato alla Vergine della Colonna, così detta perché vi si venera l’immagine di Maria dipinta sopra una colonna dell’antica basilica costantiniana. Vi fu collocata nel 1607. L’altare custodisce i corpi di Leone II, III e IV. Continuando il giro sulla linea meridionale incontriamo a destra il sepolcro di Alessandro VII Ghigi con quattro statue: Giustizia, Prudenza, Carità e Verità. Siccome questo pontefice aveva sempre presente il pensiero della morte, lo scultore ha steso una coltre in rilievo, sotto a cui la figura della morte mostra una clessidra, cioè un orologio a polvere, che sta per terminare la sua carica. Il Papa sta pregando a mani giunte in ginocchio. L’altare sulla sinistra è dedicato agli apostoli Pietro e Paolo. Vi è rappresentata la caduta di Simon Mago. Di fronte è collocato l’altare dei santi Simone e Giuda che qui riposano. L’altare a destra invece è dedicato a san Tommaso e custodisce il corpo di Bonifacio IV, mentre quello a sinistra conserva le spoglie di Leone IX. Di fronte alla porta della sacrestia l’altare dei santi Pietro e Andrea rappresenta in prezioso mosaico la morte di Anania e Saffira.

Si giunge così alla cappella Clementina, il cui altare, dedicato a san Gregorio Magno, è sormontato da un bel mosaico del santo in atto di convincere gli increduli. Sotto l’altare se ne venera il corpo. Sopra la porta che conduce all’organo è posto il monumento sepolcrale di Pio VII. Il Pontefice, seduto sopra una ricca sedia e vestito degli abiti pontificali, è in atto di benedire. Le statue poste ai lati rappresentano la Sapienza e la Fortezza. Prima di arrivare alla navata laterale si incontra l’altare della Trasfigurazione il cui mosaico presenta la trasfigurazione del Salvatore sul monte Tabor.

La navata minore sinistra
Entrati nella navata minore si incontrano ai due lati due sepolcri, a destra quello di Leone XI dei Medici. Un bassorilievo descrive il Pontefice che assolve Enrico IV re di Francia […] Più in basso vi sono rose scolpite col motto: Sic floruit, per indicare la caducità della vita e simboleggiare la brevità del pontificato di Leone XI, che fu di soli 21 giorni.
Il sarcofago di sinistra è di Innocenzo XI Odescalchi. Il bassorilievo sovrapposto ritrae la liberazione di Vienna dai Turchi, avvenuta sotto il suo pontificato. Inoltrandosi lungo la navata, si giunge alla cappella del coro, arricchita di mosaici e dipinti. Sotto l’altare riposa il corpo di san Giovanni Crisostomo. Questa cappella ha un sotterraneo ove si conservano le ceneri di Clemente XI. Viene chiamata Cappella Sistina da Sisto IV che ne aveva eretta un’altra nel luogo medesimo dell’antica basilica. A destra si accede alla cantoria del coro, e alla Cappella Giulia, così detta da Giulio II che ne fu l’istitutore. Sopra questa porta esiste un’urna di stucco che racchiude le ceneri di Gregorio XVI, morto nel 1846. Quest’urna viene riservata per accogliere il cadavere dell’ultimo pontefice sino a che gli venga eretta una sepoltura.

Il sepolcro d’Innocenzo VIII della famiglia Cibo è di fronte. Due sono le figure di quel Papa: una seduta col ferro della lancia in mano, per alludere a quella con cui venne trafitto Gesù, mandatagli in dono da Bajasetto II, imperatore dei Turchi; l’altra distesa, sotto la prima […] Prospiciente alla porticina che immette alla scala della cupola c’è il cenotafio di Giacomo III, re d’Inghilterra, della famiglia Stuart, morto a Roma il 1° di gennaio 1766, e dei due suoi figli Carlo III ed Enrico IX, cardinale, duca di York. I tre busti in bassorilievo, sono di Antonio Canova.
L’ultima cappella è quella del Battistero. La conca battesimale è di porfido e formava il coperchio dell’urna di Ottone II imperatore che fu qui trasportata quando le sue ceneri vennero poste nelle grotte Vaticane […]

Roma. S. Andrea al Quirinale
Il permesso di visita terminava a mezzogiorno e mezzo, sicché il signor Carlo, che ci guidava e noi pure guidati da buon appetito, abbiamo rimandato ad altra volta la salita sulla cupola e la visita al palazzo Vaticano. Dopo il pranzo, e qualche ora di riposo abbiamo dato un’occhiata al Quirinale e alle cose più importanti vicine alla nostra dimora. Il Quirinale è uno dei sette colli di Roma antica, così chiamato dai Quiriti che vennero qui ad abitare, e da un tempio dedicato a Romolo, venerato sotto il nome di Quirino. Alla nostra sinistra procedendo verso piazza Monte Cavallo, s’incontra la chiesa di Sant’Andrea, dov’è oggi il noviziato dei Gesuiti. Essa custodisce, in una cappella dedicata a san Stanislao Kostka, dentro un’urna di lapislazzuli ornata di marmi preziosi, il corpo del santo. Accanto a questa chiesa c’è il monastero delle Domenicane. Si vuole che queste due costruzioni siano sorte sulle rovine del tempio di Quirino. A destra della via s’innalza il maestoso palazzo del Quirinale, iniziato da Paolo III circa 300 anni or sono, e terminato dai suoi successori. Lo ornano architetture, sculture, pitture e mosaici di gran pregio. Il Papa vi abita per una parte dell’anno. Il palazzo ha uno spazioso giardino di un miglio circa di perimetro. Fra le altre meraviglie vi si ammira un organo che suona alimentato dalla forza dell’acqua che qui scorre.

Davanti al Quirinale si apre la piazza di Monte Cavallo, così chiamata per via di due cavalli colossali in bronzo che rappresentano Castore e Polluce. Pio VI fece innalzare un obelisco in mezzo a questa piazza. Esso è lavoro eseguito per ordine di Smarre ed Efre, principi dell’Egitto, e trasportato a Roma dall’imperatore Claudio. Non ha geroglifici. A sud domina il magnifico palazzo Rospigliosi, innalzato dove anticamente erano le terme di Costantino. Gli amanti delle belle arti possono qui visitare molti capolavori di pittura e scultura.

Santa Croce in Gerusalemme
Il 4 marzo era dedicato alla basilica di S. Croce in Gerusalemme. Il tempo era nuvoloso, e fatta appena un po’ di strada fummo sorpresi dalla pioggia. Non essendo provvisti di ombrella giungemmo bagnati come due sorci; ma la consolazione provata nella visita ci compensò sia dell’acqua che del disagio patito. È questa una delle sette basiliche che si visitano per guadagnare le indulgenze. Fondata da Costantino il Grande, dove sorgeva il palazzo detto Sassorio, fu chiamata Basilica Sassoriana e venne eretta in memoria del ritrovamento della santa Croce fatto da sant’Elena, madre dell’imperatore, a Gerusalemme. Quella principessa vi fece trasportare molta terra del Calvario, prelevata dal luogo dove fu rinvenuta la Croce di Cristo. L’edificio prese il nome Santa Croce dalla parte considerevole del santo Legno che vi si conserva, e fu aggiunto in Gerusalemme perché questa santa reliquia, assieme a molte altre, fu qui trasportata da quella città. La chiesa venne consacrata da san Silvestro papa. Sotto l’altare maggiore riposano i corpi di san Cesario e sant’Anastasio martiri […]

Di fronte all’altare vi è la cappella Gregoriana, privilegiata perché si può lucrare l’indulgenza plenaria applicabile alle anime del purgatorio, sia per quelli che celebrano la messa, che per quelli che l’ascoltano. A questo altare con gran consolazione ho celebrato anch’io. Accanto alla chiesa sorge il convento dei Cistercensi. Il padre Abbate è un certo Marchini, piemontese, il quale ci usò molta cortesia. Fra le altre cose ci ha fatto visitare la biblioteca, ricca di pergamene antiche e di altre opere […]

Un giorno di pioggia
Il 5 marzo fu un giorno piovoso, perciò l’abbiamo impiegato quasi interamente a scrivere. C’è questo di singolare a Roma, che piove e c’è sole contemporaneamente, sicché in certe epoche dell’anno bisogna essere continuamente muniti di ombrello per difendersi o dal sole o dalla pioggia. Alle dieci di questo giorno passava a miglior vita il padre Lolli, rettore del noviziato dei Gesuiti, nella chiesa di Sant’Andrea a Monte Cavallo, un piemontese che dimorò per lungo tempo a Torino ove si rese celebre per la predicazione e la sollecitudine nell’apostolato del confessionale. La regina di Sardegna Maria Teresa lo aveva scelto come suo confessore […]

In questo giorno siamo venuti a sapere che le malattie a Roma si erano moltiplicate, e che la mortalità attuale è quattro volte superiore alla media. Nei soli mesi di gennaio e febbraio morirono circa 6600 persone; un numero assai grande, tenuto conto della popolazione che ammonta a circa 130 mila abitanti. Verso sera sono uscito per farmi radere la barba. Andai in una bottega e fui servito abbastanza bene; ma feci il proposito di non andarci mai più, perché tanti furono gli urti e gli scrolloni che mi diede colle sue manacce il barbiere che mi avrebbe spostato denti e mandibole, se non avessero avuto radici ben salde.

L’Ospizo s. Michele
Secondo l’invito fattoci dal cardinale Tosti, il 6 marzo siamo andati colla famiglia De Maistre a visitare l’Ospizio S. Michele. Oltre a quanto dissi la volta scorsa, posso aggiungere quanto segue. Il primo tratto di cortesia usatoci fu una sontuosa colazione, cui però non abbiamo potuto partecipare, perché l’avevamo fatta prima di partire, ed essendo giorno di digiuno non potevamo più mangiare fino al pranzo. Così ci siamo limitati ad una piccola tazza di cioccolata, che sua Eminenza ci disse essere compatibile col digiuno. Ci fu data anche una bibita di ottimo sapore al mandarino, una specie di vino fatto con frutti disseccati e posti in fusione con acqua e zucchero. Soltanto Rua non essendo obbligato al digiuno mangiò qualche cosa di più solido.

Poi abbiamo iniziato la visita di quello spazioso ospizio dove sono ricoverate oltre ottocento persone. Il cardinale Tosti ci accompagnò ovunque. Ci siamo fermati specialmente a considerare il lavoro dei giovani. Qui imparano gli stessi mestieri che imparano da noi: la maggior parte si occupa nel disegno, nella pittura, nella scultura; e molti lavorano in una tipografia interna. Il Santo Padre per aiutare l’Ospizio gli ha concesso il privilegio di stampare in esclusiva i libri di scuola che si usano negli Stati Pontifici. Sopra l’edificio vi è un terrazzo con una magnifica vista: guardando a ponente si scorge l’accampamento dei francesi venuti a liberare Roma […] Alle dodici e mezzo, quando ormai i ragazzi erano a pranzo, essendo anche il cardinale molto stanco, abbiamo preso congedo […]

S. Maria in Cosmedin e la Bocca della Verità
Secondo il solito pioveva a meraviglia, e tra me e Rua, avendo una sola ombrella assai piccola, abbiamo trovato il modo di bagnarci tutti e due. Abbiamo passato il Tevere sopra un ponte chiamato Ponte Rotto perché, si era rovinato, e fu sostituito con un ponte di ferro molto simile a quello che abbiamo sul Po a Torino. Anticamente si chiamava ponte Coclite, perché è quello stesso, in cui Orazio Coclite oppose un’eroica resistenza all’esercito di Porsenna, finché il ponte fu tagliato, ed egli si gettò nel Tevere passando a nuoto all’altra sponda fra i dardi dei nemici meravigliati.

S’incontra qui una via detta Bocca della Verità, perché in fondo alla medesima c’era il luogo dove si conducevano coloro che dovevano fare un giuramento. Adesso c’è una chiesa chiamata S. Maria in Cosmedin, parola che vuol dire ornamento, perché fu con magnificenza ornata dal pontefice Adriano I. Al suo interno si conserva la cattedra di cui si servì Sant’Agostino quando insegnava Retorica. Sotto al vestibolo ci siamo ritirati per attendere che smettesse l’acquazzone che stava inondando tutte le vie. Mentre stavamo là abbiamo dato uno sguardo alla piazza chiamata anch’essa Bocca della Verità.

I vaccari
Vi erano molti buoi aggiogati che bivaccavano, esposti alla pioggia al fango e al vento. I bovari si erano riparati sotto il medesimo vestibolo mettendosi a pranzare con invidiabile appetito. Al posto della minestra e della pietanza avevano un pezzo di merluzzo crudo, da cui ciascuno strappava un pezzo. Alcune pagnottelle di meliga e segala era il loro pane. Acqua la bevanda. Scorgendo in loro un’aria di semplicità e di bontà mi avvicinai e feci questa conversazione.
– Avete buon appetito?
Molto, rispose uno di essi.
– Vi basta quel cibo a togliervi la fame e sostentarvi?
– Ci basta, grazie a Dio, quando possiamo averne, giacché, essendo poveri, non possiamo pretendere di più.
– Perché non conducete quei buoi nelle stalle?
– Perché non ne abbiamo.
– Li lasciate sempre esposti al vento, alla pioggia, alla grandine giorno e notte?
– Sempre, sempre.
– Fate lo stesso ai vostri paesi?
– Si, facciamo lo stesso, perché nemmeno là abbiamo stalla, perciò o piova, o faccia vento, o nevichi, giorno e notte stanno sempre all’aperto.
– E le vacche e i vitelli piccoli sono anch’essi esposti a tali intemperie?
– Certamente. Tra di noi si usa che gli animali, quelli di stalla stanno sempre in stalla e quelli che cominciano a stare fuori se ne stanno sempre fuori.
– Abitate molto lontano di qui?
– Quaranta miglia.
– Nei giorni festivi potete assistere alle sacre funzioni?
– Oh! chi ne dubita? Abbiamo la nostra cappella, il prete che ci dice messa, fa la predica ed il catechismo, e tutti, comunque lontani, si danno premura d’intervenire.
– Andate anche qualche volta a confessarvi?
– Oh! Senza dubbio. Ci sono forse cristiani che non adempiono questi santi doveri? Adesso ci è il giubileo e noi tutti ci daremo sollecitudine di farlo bene.
Da questo ragionamento appare la buona indole di questi paesani, i quali nella loro semplicità vivono contenti della loro povertà e lieti del loro stato, purché possano adempiere i doveri di buon cristiano e disimpegnare ciò che riguarda al basso loro commercio.

S. Maria del Popolo
Domenica 7 marzo era destinata alla visita di S. Maria del Popolo. Alcune pie e nobili persone desideravano che andassimo là a celebrare la messa, per poter fare la comunione. Era questa una pia devozione. Alle nove il signor Foccardi, persona servizievole e piena di fede, ci venne a prendere con la propria vettura per trasportarci al luogo indicato. Questa chiesa fu costruita sul luogo dove erano stati sepolti Nerone e la famiglia Domizia. La tradizione dice che vi apparissero continuamente spettri che atterrivano i cittadini tanto che nessuno voleva abitare nei dintorni. Il pontefice Pasquale II l’anno 1099 vi fece innalzare una chiesa, e per allontanare l’infestazione diabolica la dedicò a Maria Santissima. L’anno 1227 l’antica chiesa minacciava di cadere e il popolo romano concorse con generosità alle spese di ricostruzione. Proprio per questo fu chiamata S. Maria del Popolo. Una chiesa grandiosa, ricca di marmi e pitture. Nell’altare maggiore si venera un’immagine miracolosa della Madonna fatta prelevare per ordine di Gregorio IX dalla cappella del Salvatore in Laterano. Vicino c’è il convento dei padri Agostiniani.

Porta del Popolo anticamente si chiamava Porta Flaminia, perché era all’inizio della via Flaminia […]. Fuori di questa porta, voltando a destra, si trova Villa Borghese, un maestoso edificio degno di essere visitato dai turisti a motivo dei molti oggetti d’arte che vi sono conservati. Porta del Popolo delimita una gran piazza chiamata Piazza del Popolo, e abbellita da copiose fontane, e da obelischi, i quali come ognuno sa, sono monumenti di una remota antichità fatti innalzare dai re dell’Egitto per rendere immortale la memoria delle loro azioni. Il superbo obelisco che si eleva in mezzo alla piazza fu costruito a Eliopoli per ordine di Ramesse, re di Egitto, che regnò nel 522 a. C. L’imperatore Augusto lo fece trasportare a Roma; ma per sventura si rovesciò, spezzandosi e fu coperto di terra. Papa Sisto V nel 1589 lo fece dissotterrare innalzandolo nella piazza, dopo averne dotato il culmine di un’alta croce di metallo. Le sue quattro facce sono coperte di geroglifici, cioè di simboli misteriosi dei quali si servivano gli Egiziani per esprimere le cose sacre ed i misteri della loro teologia.

Nel fondo della piazza s’innalza la chiesa di S. Maria dei Miracoli, costruita da Alessandro VII, e chiamata così a causa di un’immagine miracolosa della Madonna che prima era dipinta sotto un arco nei pressi del Tevere. A sinistra c’è un’altra chiesa, S. Maria di Monte Santo, perché edificata sopra un’altra chiesa che apparteneva ai carmelitani della provincia di Monte Santo. Fu inaugurata nel 1662. Appagata così devozione e curiosità, siamo di nuovo saliti in vettura che ci portò a casa della principessa Potosca, dei conti e principi Sobieschi, antichi sovrani di Polonia. La colazione apparecchiata per noi era sontuosa, ma troppo signorile, quindi poco adatta al nostro appetito. Ci siamo aggiustati alla meglio. Siamo tuttavia rimasti molto soddisfatti dalla conversazione veramente cristiana, che quelle signore tennero per il tempo che ci trattenemmo a casa loro.
Una cosa suscitò la nostra meraviglia. Terminato di mangiare, la padrona di casa si fece portare un mazzetto di sigari e si mise a fumare. Malgrado una conversazione assai animata ella continuò con grande avidità a fumare un sigaro dopo l’altro, e questo mi mise a disagio, essendo costretto a sopportare l’odore di fumo che impregnava tutta la casa. Mi provocava la nausea risultandomi insopportabile […]

Città del Vaticano. La salita al Cupolone
Riservammo l’8 marzo per visitare la famosa cupola di S. Pietro. Il canonico Lantieri ci aveva procurato il biglietto necessario per appagare questa curiosità. L’orario in cui è permessa la salita va dalle 7 alle 11 ½ del mattino. Il tempo era sereno e perciò propizio. Dopo aver celebrato l’eucarestia nella Chiesa del Gesù, dove stanno i Gesuiti, sull’altare di san Francesco Saverio, giungemmo in Vaticano alle 9 in compagnia del signor Carlo De Maistre. Consegnato il biglietto, ci fu aperta la porticina e cominciammo a salire su per una scala assai comoda fatta come un ripido terrazzo. Salendo s’incontrano varie iscrizioni che ricordano il nome e l’anno di tutti i pontefici che aprirono e chiusero gli anni giubilari. Vicino al ripiano del terrazzo sono scritti i più celebri personaggi, re o principi, che salirono fino alla palla della cupola. Abbiamo letto con piacere anche il nome di vari dei nostri sovrani e della famiglia reale.

Abbiamo dato un’occhiata al terrazzo della basilica. Si presenta come una vasta piazza selciata dove si può giocare a palla, a bocce, e simili. Qui abitano alcune persone cui è affidata la cura della parte superiore del tempio: falegnami, ferrai, lavoratori dell’asfalto. Quasi nel mezzo del terrazzo è posta una fontana sempre aperta, dove Rua andò a bere.
Dalla piazza sottostante avevamo osservato le statue dei dodici apostoli che ornano l’alto cornicione della basilica. Da laggiù apparivano piccole, ma da vicino ci accorgemmo che il solo dito pollice del piede aveva la grossezza del corpo d’un uomo. Da ciò si può capire a quale altezza eravamo. Abbiamo anche visitato la campana maggiore che ha un diametro di oltre tre metri che significano tre trabucchi di circonferenza (c.ca 9 metri n.d.r.).

Una veduta per noi assai curiosa fu il giardino vaticano dove il papa suole andare a passeggiare a piedi. Si calcola che esso abbia la lunghezza che vi è da Porta Susa al principio di Via Po. A Sud si scorgevano vaste campagne. La nostra guida ci disse:
Tutto quel piano era coperto di soldati francesi quando vennero a liberare la nostra città dai ribelli. E ci indicava la basilica di S. Sebastiano, S. Pietro in Montorio, Villa Panfili, Villa Corsini, tutti edifici che soffrirono gravissimi danni per essere stati fatti campi di battaglia.
Una scaletta a chiocciola ai fianchi della cupola ci condusse su fino alla prima ringhiera. Da questo ripiano ci pareva di volare in alto e allontanarci da terra. La guida ci aprì una porticina la quale immetteva su una ringhiera interna che faceva il giro della cupola. L’ho voluta misurare, e camminando da buon viaggiatore ho contato 230 passi prima di completare il giro. Una curiosità: in qualsiasi punto della ringhiera ti trovi, parlando anche sottovoce con la faccia rivolta al muro, il più piccolo suono si comunica nitidamente da una parete all’altra. Abbiamo anche notato che i mosaici della chiesa che da sotto apparivano molto piccoli, da lì prendevano una forma gigantesca.
Coraggio, ci esortò la guida, se vogliamo vedere altre cose. Così infilammo un’altra scala a chiocciola e arrivammo alla seconda ringhiera. Qui ci pareva di esserci innalzati verso il Paradiso, e quando entrammo nella ringhiera interna e lasciammo cadere lo sguardo sul pavimento della basilica, ci rendemmo conto della straordinaria altezza cui eravamo giunti. Le persone che lavoravano o camminavano laggiù sembravano bambini. L’altare papale che è sormontato da un baldacchino di bronzo che in altezza sorpassa le più alte case di Torino, da lì pareva un semplice seggiolone.

L’ultimo piano sopra cui siamo saliti è quello che posa sopra la punta della cupola, da dove si gode forse la veduta più maestosa del mondo. Tutto intorno lo sguardo va a perdersi in un orizzonte formato dai limiti della vista umana. Dicono che guardando verso levante si può vedere il mare Adriatico, a ponente il Mediterraneo. Noi però abbiamo soltanto potuto scorgere la nebbia che il tempo piovoso dei giorni passati aveva sparso un po’ dovunque.

C’era rimasta la palla, un globo che da terra pare una delle bocce di cui ci serviamo per passare un po’ di tempo; da lì appariva grandissima. I più coraggiosi, passando per una scaletta perpendicolare e camminando come dentro a un sacco, si arrampicarono come gatti per l’altezza di due trabucchi, ossia sei metri. Alcuni non ebbero abbastanza coraggio. Noi, che eravamo un po’ più temerari, ci siamo riusciti. Dalla palla tutto appare meraviglioso. Mi avevano detto che avrebbe potuto contenere sedici persone; a me pareva però che ce ne potessero stare comodamente trenta. Alcuni buchi, quasi piccole finestre, permettono di osservare la città e le campagne. Ma la grande altezza dà una certa sensazione e non rende del tutto gradevole la visione. Pensavamo che lassù facesse freddo. Tutto il contrario: il sole battendo sul bronzo della palla la riscaldava a tal punto che ci sembrava essere in piena estate. Credo che questa sia una delle ragioni per cui dopo pranzo non è permesso salire fin lassù: per il caldo insopportabile. Qui dopo aver parlato di varie cose riguardanti i giovani dell’oratorio, soddisfatti della nostra impresa, quasi avessimo riportata una grande vittoria, abbiamo cominciato la discesa con passo lento e grave, per non romperci l’osso del collo, e senza più fermarci siamo arrivati a terra.

Per riposarci un po’ siamo andati ad ascoltare la predica che era iniziata proprio allora nella basilica. Il predicatore ci piacque. Buona lingua, bel gesto, ma il tema non ci interessò molto perché trattava dell’osservanza delle leggi civili. Quello però che non servì a nutrire lo spirito servì assai bene a dar riposo al corpo. Restandoci ancora un briciolo di tempo l’abbiamo impiegato a visitare la sacrestia che è una vera magnificenza degna di S. Pietro.
Intanto erano arrivate le undici e mezzo, e a causa del digiuno e del tanto camminare avevamo un grande appetito; perciò siamo andati a fare una piccola refezione. Rua non soddisfatto giudicò bene di andarsene a pranzo, così io rimasi solo col signor Carlo De Maistre, indivisibile compagno di quella giornata. Ristorati alquanto siamo andati a fare visita a monsignor Borromeo, maggiordomo di Sua Santità che ci accolse benissimo, e, dopo aver parlato del Piemonte e di Milano sua patria, si annotò i nostri nomi per inserirci sul catalogo delle persone che desiderano ricevere la palma dal Santo Padre nella funzione della Domenica delle Palme.

Ai famosi musei
Accanto alla loggia di questo prelato, intorno al cortile del palazzo pontificio ci sono i Musei Vaticani. Ci siamo entrati e abbiamo visto cose davvero eccezionali. Ne descrivo solo alcune. C’è una sala di lunghezza straordinaria arricchita di marmi e preziosissimi dipinti. In mezzo alla seconda arcata campeggia una acquasantiera di circa un metro e mezzo, formata di malachite, uno dei marmi più preziosi del mondo. È un dono fatto dall’imperatore di Russia al Sommo Pontefice. Ci sono vari altri oggetti di simile genere. In fondo a quella grande sala a sinistra si apre una specie di lungo corridoio che ospita il museo cristiano […] Nel medesimo si estende la Biblioteca Vaticana, dove si conservano i manoscritti più celebri dell’antichità […]

In giro per Roma
Dal Vaticano andando verso il centro di Roma siamo arrivati a piazza Scossacavalli ove lavorano gli scrittori del celebre periodico La Civiltà Cattolica. Ci siamo fermati a far loro una visita e abbiamo provato un vero piacere nell’osservare che i principali sostenitori di questa pubblicazione sono piemontesi. Sentivo ormai un vivo desiderio di tornare a casa, superando ogni indugio, ed eravamo quasi giunti al Quirinale, quando il signor Foccardi ci vide passare davanti la sua bottega e ci chiamò dentro. A forza di inviti e cortesia ci trattenne alquanto, e nel momento in cui chiedemmo di partire ci disse:
Ecco la vettura, vi accompagno fino a casa. Sebbene mi mettessi di mala voglia in vettura, tuttavia per compiacerlo accondiscesi. Ma il Foccardi desiderando trattenersi più a lungo con noi ci fece fare un lungo giro tanto che siamo arrivati a casa a notte inoltrata.

Qui mi venne consegnata una lettera. L’apro e la leggo. Si notifica al signor Abate Bosco che Sua Santità si è degnata di ammetterlo all’udienza domani, nove di marzo, dalle ore undici e tre quarti ad un’ora. Questa notizia, attesa e molto desiderata, mi procurò una rivoluzione interiore e per tutta la serata non riuscii a parlare d’altro se non del Papa e dell’udienza.

L’udienza papale. S. Maria sopra Minerva
Era arrivato il 9 marzo, il grande giorno dell’udienza papale. Prima però avevo bisogno di parlare col cardinale Gaude; perciò mi recai a dire messa nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, dove il porporato aveva la sua dimora. Anticamente era un tempio che Pompeo il Grande aveva fatto edificare alla dea Minerva; fu chiamata S. Maria sopra Minerva perché fu fabbricata precisamente sopra le rovine di questo tempio. L’anno 750 papa Zaccaria la donò ad un convento di monache greche. L’anno 1370 passò ai padri predicatori che tuttora la officiano. Dinanzi a questa chiesa si apre una piazza ove abbiamo ammirato un obelisco egizio con geroglifici, la cui base poggia sul dorso di un elefante di marmo. Entrati abbiamo potuto ammirare uno degli edifici sacri più belli di Roma. Sotto l’altare maggiore riposa il corpo di S. Caterina da Siena. Celebrata la messa e recatomi con tutta fretta dal cardinale Gaude, gli parlai, quindi partimmo alla volta del Quirinale.

Il piccolo bugiardo
Lungo la via abbiamo incontrato un ragazzo che con buona grazia ci chiese l’elemosina e per farci conoscere la sua condizione ci disse che suo padre era morto, sua madre aveva cinque figlie e che egli sapeva parlare italiano, francese e latino. Meravigliato, gli indirizzai un discorso in francese a cui diede per risposta un solo oui senza né intendere quel che dicevo, né articolare altre espressioni; lo invitai allora a parlare latino, ed egli senza badare alle mie parole si mise a recitare a memoria le seguenti parole: ego stabam bene, pater meus mortuus est l’annus passatus et ego sum rimastus poverus. Mater mea etc. Qui non abbiamo più potuto trattenere le risa. Però l’abbiamo poi avvertito di non dire bugie e gli abbiamo regalato un baiocco.

L’anticamera
Intanto l’ora dell’udienza si avvicinava […] Giunti in Vaticano, salimmo le scale macchinalmente. Ovunque c’erano le guardie nobili, vestite da sembrare tanti principi. Al piano nobile ci aprirono la porta che introduceva nelle sale pontificie. Guardie e camerieri, abbigliati con gran lusso, ci salutavano con profondi inchini. Consegnato il biglietto per l’udienza, fummo condotti di sala in sala fino all’anticamera papale. Siccome vi erano parecchi altri che attendevano, abbiamo aspettato circa un’ora e mezzo prima di essere ricevuti.

Quel tempo l’abbiamo impiegato a osservare le persone e il posto dove ci trovavamo. I domestici del Papa erano vestiti quasi come i vescovi dei nostri paesi. Un monsignore, cui si dà il titolo di prelato domestico introduceva a turno le persone per l’udienza man mano che finiva quella precedente. Abbiamo ammirato grandi sale ben tappezzate, maestose, ma senza lusso. Un semplice tappeto di panno verde copriva il pavimento. Le tappezzerie erano di seta rossa ma senza ornati. Le sedie di legno duro. Un seggiolone posto sopra un palchetto alquanto elegante indicava che quella era la sala pontificia. Tutto questo ci ha fatto piacere, perché coi nostri occhi abbiamo potuto renderci conto della falsità delle dicerie che taluni vanno spargendo contro lo spazio e il lusso della corte pontificia. Mentre eravamo immersi in vari pensieri, suonò il campanello, e il prelato ci fece cenno di avanzare per presentarci a Pio IX. In quel momento io rimasi veramente confuso e dovetti farmi violenza per rimanere calmo.

Pio IX
Rua mi seguì recando una copia delle Letture Cattoliche. Entrati, facemmo la genuflessione all’inizio, poi a metà della sala, infine, la terza, ai piedi del Papa. Cessò ogni apprensione quando scorgemmo nel Pontefice l’aspetto di un uomo affabile, venerando, e al tempo stesso il più bello che potesse dipingere un pittore. Non gli potemmo baciare il piede, perché era seduto al tavolino; gli baciammo però la mano, e Rua, memore della promessa fatta ai chierici, la baciò una volta per sé e una volta per suoi compagni. Allora il Santo Padre fece segno di alzarci e metterci davanti a lui. Io, secondo l’etichetta, avrei voluto parlare restando in ginocchio.
No, egli disse, alzatevi pure. Conviene qui notare che nell’annunziarci al Papa fu letto male il nostro nome. Infatti invece di scrivere Bosco era stato scritto Bosser, perciò il Papa cominciò ad interrogarmi:
– Voi siete piemontese?
– Sì, Santità, sono piemontese, e in questo momento provo la più grande consolazione della mia vita, trovandomi ai piedi del Vicario di Cristo.
– Di che cosa vi occupate?
– Santità, io mi occupo dell’istruzione della gioventù e delle Letture Cattoliche.
– L’istruzione della gioventù è stato un apostolato utile in tutti i tempi, ma oggi lo è molto di più.
C’è anche un altro a Torino che si occupa di giovani. Allora mi accorsi che il Papa aveva sottomano un nome sbagliato, ma, senza saper come, anche lui si rese conto che io non ero Bosser, ma Bosco; così assunse un aspetto molto più festoso, e chiese tante cose riguardanti i giovani, i chierici, gli oratori […] Quindi con volto ridente mi disse:
– Mi ricordo dell’offerta mandatami a Gaeta e dei teneri sentimenti con cui quei giovani l’accompagnarono. Approfittai per esprimergli l’attaccamento dei nostri giovani alla sua persona e lo pregai di gradire una copia delle Letture Cattoliche:
– Santità, gli dissi, le offro una copia dei volumetti finora stampati a nome della direzione; la legatura è opera dei giovani della nostra scuola.
– Quanti sono questi giovani?
– Santità, i giovani della casa sono circa duecento, i legatori sono quindici.
Bene, egli rispose, voglio mandare una medaglia a ciascuno. Quindi andato in un’altra stanza, dopo brevi istanti tornò portando quindici piccole medaglie della Concezione:
Queste saranno per i giovani legatori, disse mentre me le porgeva. Rivoltosi poi a Rua, gliene diede una più grande dicendo:
Questa è per il suo compagno. Quindi rivoltosi nuovamente a me, mi porse una piccola scatola che ne rinchiudeva un’altra più grande:
E questa è per voi. Essendoci inginocchiati per ricevere i regali, il Santo Padre ci invitò ad alzarci, e credendo poi che volessimo partire, stava per congedarci, quando io presi a parlargli così:
– Santità, avrei qualche cosa di particolare da comunicarle.
Va bene, rispose […].
Il Santo Padre è speditissimo nel capire le domande e prontissimo nel dare le risposte, perciò con lui si tratta in cinque minuti quello che con altri richiederebbe oltre un’ora. Tuttavia la bontà del Papa e il mio vivo desiderio di trattenermi con lui prolungarono l’udienza di oltre mezz’ora, tempo assai considerevole sia riguardo alla sua persona sia riguardo all’ora del pranzo che per nostra cagione le era ritardato […].

Il Gianicolo
Alle 13,30 del 10 marzo il padre Giacinto dei Carmelitani Scalzi passava a prenderci con un calesse per trasportarci alla basilica di S. Pancrazio e di S. Pietro in Montorio. Sono due chiese situate sul Gianicolo, chiamato così a causa di Giano che dicono vi abitasse. Sulla sommità di questo colle al di là del Tevere, è situata la basilica di S. Pancrazio, costruita da papa Felice II nel 485, circa 100 anni dopo il martirio di Pancrazio. Il generale Narsete, vinti i Goti, fece una solenne processione insieme con papa Pelagio da S. Pancrazio a S. Pietro. San Gregorio Magno che aveva grande venerazione per questa chiesa vi celebrò più volte la messa e vi tenne alcune omelie, infine la donò ai monaci benedettini. Nel 1673 venne affidata ai Carmelitani Scalzi col convento annesso e un seminario per le missioni delle Indie […]

Sotto l’altare maggiore, vi è un altro altare sotterraneo dove anticamente veniva conservato il corpo del Santo, protetto da una cancellata di ferro. C’era l’usanza di condurre quelli che erano sospettati di spergiuro davanti a questa cancellata, perché se erano colpevoli venivano presi da un vistoso tremolio o da altro accidente.

Le Catacombe
Venite con me, ci disse il padre Giacinto, andremo nelle catacombe. Aveva approntato un lume per ciascuno. Noi ci siamo messi a seguirlo. A metà chiesa sul pavimento ci indicò una botola. Alzato il coperchio apparve una cavità oscura e profonda: cominciavano le catacombe. All’entrata era scritto in latino: “In questo luogo è stato decollato il martire di Cristo Pancrazio”. Eccoci nelle catacombe. Immaginatevi lunghi corridoi ora più stretti e più bassi, ora più alti e spaziosi, ora tagliati da altri corridoi, ora in discesa, ora in salita, e avrete la prima idea di questi sotterranei. A destra e a sinistra vi sono piccole tombe scavate parallelamente nel tufo. Qui anticamente venivano seppelliti i cristiani, soprattutto i martiri. Quelli che avevano dato la vita per la fede erano designati con emblemi particolari. La palma era segno della vittoria riportata contro i tiranni; l’ampolla indicava che aveva sparso il sangue per la fede; il “” significava che era morto nella pace del Signore oppure che aveva patito per Cristo. In altri comparivano gli strumenti con cui erano stati martirizzati. Talvolta questi emblemi erano chiusi nella piccola tomba del santo. Quando non infierivano molto le persecuzioni si scriveva nome e cognome del martire e qualche riga che sottolineava qualche importante circostanza della sua vita. […]
Ecco, ci disse la guida, questo è il luogo dov’era sepolto san Pancrazio, accanto a lui san Dionigi suo zio e qui vicino un altro suo parente. Poi abbiamo visitato alcune tombe riunite in una cameretta sulle cui pareti si vedevano iscrizioni antiche che non abbiamo saputo leggere. In mezzo alla volta era dipinto un giovane che ci parve rappresentasse san Pancrazio […]

Stavolta la guida ci indicò una cripta. Cripta, parola greca, vuol dire profondità. È uno spazio più grande dell’ordinario dove i cristiani solevano radunarsi, in tempo di persecuzione, per ascoltare la Parola, assistere alla messa, e alle funzioni sacre. In un lato c’è ancora un altare antico dove è possibile celebrare. Per lo più era la tomba di qualche martire a servire da altare. Fatto un po’ di cammino ci fu mostrata la cappella dove san Felice papa era solito riposarsi e celebrare l’Eucarestia. Il suo sepolcro è a poca distanza. Ovunque si vedevano scheletri umani ridotti in pezzi dal tempo. La nostra guida ci assicurò che di lì a poco saremmo arrivati a un luogo dove si conservavano lapidi con le iscrizioni intatte.

Ma eravamo molto stanchi, anche perché l’aria sotterranea, e le difficoltà del cammino – ognuno doveva badare a non sbattere il capo, non urtare con le spalle e non scivolare coi piedi – ci avevano affaticano non poco. La guida ci avvertiva che i sotterranei sono moltissimi e alcuni giungono fino alla lunghezza di quindici/venti miglia. Se fossimo andati da soli avremmo potuto cantare il requiescant in pace, perché sarebbe stato assai difficile ritrovare la strada per tornare all’aperto. La nostra guida però era molto pratica e in breve ci ricondusse al punto da dove eravamo partiti […]

San Pietro in Montorio
Saliti di nuovo in vettura col padre Giacinto ci avviammo giù dal Gianicolo per andare a S. Pietro in Montorio. La parola è una corruzione di “monte d’oro”, perché qui il terreno e la ghiaia assumono un colore giallo simile all’oro. Fu anche chiamato Castro Aureo, fortezza d’oro, per gli avanzi della rocca di Anco Marzio ancora esistenti sulla vetta. È una delle chiese fondate da Costantino il Grande, ricca di statue, dipinti e marmi. Tra la chiesa e il convento annesso si staglia un edificio chiamato Tempietto di Bramante di forma rotonda. Si tratta di uno dei più insigni lavori del Bramante. Esso venne edificato sul luogo dove fu martirizzato san Pietro. Sul retro una scaletta conduce in una cappella sotterranea circolare, in mezzo alla quale c’è un foro ove arde continuamente un lume. È il posto dove fu incastrata la cima della croce su cui san Pietro fu inchiodato a testa in giù. La chiesa è situata dove ha termine il Gianicolo e comincia il Vaticano.

Vicino a S. Pietro in Montorio è ubicata la magnifica Fontana Paolina, da Paolo V che l’ha fatta costruire nel 1612. L’acqua sgorga da tre colonne che sembrano un fiume. Arriva fin lì da Bramario, un luogo a 35 miglia da Roma. Queste acque, precipitando, servono a far girare macine da molino ed altre macchine e si diramano con gran vantaggio in vari punti della città […].

Una disavventura
L’11 marzo, siamo stati occupati a scrivere e fare commissioni. Merita un ricordo l’episodio dello smarrimento per Roma. Andai a fare una visita a monsignor Pacca, prelato domestico di Sua Santità. Al ritorno ero accompagnato da padre Bresciani avendo mandato Rua a cercare padre Botandi a Ponte Sisto. Il buon Bresciani mi condusse fino all’accademia della Sapienza quindi mi indicò dove passare per arrivare al Quirinale:
Attraversi questa contrada, poi si tenga sempre a destra. Io invece di prendere a destra presi a sinistra, sicché dopo un’ora di cammino mi sono ritrovato in Piazza del Popolo, distante quasi un miglio da casa. Povero me! Almeno avessi avuto Rua insieme, ci saremmo potuti consolare a vicenda, ma ero solo. Il tempo era nuvoloso, soffiava un vento gagliardo e cominciava a piovere. Che fare? Dormire in mezzo a quella piazza mi rincresceva, perciò con tutta pazienza salii sul Pincio, chiamato così dal palazzo di un signore detto Pincio […]. Questo monte non è molto abitato e non è uno dei sette colli di Roma […]

S. Andrea della Valle
Venerdì 12 sono andato a celebrare la messa a S. Andrea della Valle per distinguerlo da altre chiese consacrate al medesimo Apostolo. Valle gli fu aggiunto sia perché la basilica si trova nel punto più basso di Roma sia anche a causa di un palazzo appartenente alla famiglia Valle. Anticamente la chiesa era dedicata a san Sebastiano che aveva qui sofferto il martirio. Vicino ne fu costruita un’altra dedicata a san Luigi re di Francia. Ma l’anno 1591 un ricco signore di nome Gesualdo la fece ristrutturare rinnovandone interamente il disegno. Essa è una delle prime chiese di Roma. La sua cupola misura 64 palmi di diametro, e perciò dopo S. Pietro in Vaticano è la cupola più ampia di tutte le altre della città.
La prima cappella entrando a sinistra ha un cancello di ferro che indica il punto della cloaca in cui si crede sia stato gettato il corpo di san Sebastiano martire. Quasi in faccia a questa chiesa vi è il palazzo Stoppani che servì di abitazione all’imperatore Carlo V quando venne a Roma, come appare da un’iscrizione sul muro ai piedi della scala.

S. Gregorio Magno
Un’ora e mezza dopo mezzogiorno col signor Francesco De Maistre, nostra guida, siamo partiti per visitare la chiesa di S. Gregorio Magno. Essa è edificata sopra una parte del monte Celio detto anticamente clivus Scauri, cioè discesa di Scauro, ed era la casa abitata da san Gregorio e dai suoi. Fu proprio lui a convertirla in monastero, dove poi dimorò fino all’anno 590, all’inizio come semplice monaco, quindi come Abate. Quando fu eletto pontefice (nel 590) dedicò quell’edificio all’apostolo sant’Andrea, trasformando una parte dei locali ad uso di chiesa. Dopo la sua morte essa venne dedicata a lui medesimo.

È certamente una delle più belle chiese di Roma. La prima cappella entrando a sinistra è dedicata a santa Silvia, madre di san Gregorio. L’ultima a destra è quella del Sacramento, sul cui altare celebrava lo stesso san Gregorio. […]. Questo altare, venerabile per il titolo e il patrocinio del santo Papa, fu reso celebre in tutto il mondo dai privilegi concessi da molti pontefici. Capitò che un monaco del monastero avendo per comando del santo offerto la messa per trenta giorni continui in suffragio dell’anima di un suo fratello defunto, un altro monaco la vide liberata dalle pene del purgatorio.

Accanto a questa cappella ne esiste un’altra più piccola, dove san Gregorio si ritirava per riposarsi. Si fa vedere ancora con precisione il luogo dove era il suo letto. Lì accanto c’è la sedia di marmo sopra cui sedeva sia quando scriveva che quando annunziava la parola di Dio al popolo.
Passato l’altare maggiore s’incontra la cappella che custodisce un’immagine della Madonna molto antica e prodigiosa. Si crede che sia quella che il Santo teneva in casa e ogni volta che le passava davanti la salutasse dicendo “Ave, Maria”. Un giorno però il buon Pontefice per la fretta che aveva a causa di alcuni affari urgenti, uscendo non indirizzò alla Vergine il consueto saluto. Ed Ella gli fece questo dolce rimprovero: “Ave, Gregori”, con le quali parole lo invitava a non dimenticare quel saluto che a lei tornava tanto gradito.

In un’altra cappella troneggia la statua di san Gregorio, un lavoro progettato e diretto da Michelangelo Buonarroti. Il Santo è seduto sul trono con una colomba vicino all’orecchio, che ricorda quanto asserisce Pietro Diacono, famigliare del Santo, cioè che ogni qualvolta che Gregorio predicava o scriveva, sempre una colomba gli parlava all’orecchio. Al centro della cappella è collocata una grande tavola di marmo sopra la quale il Pontefice ogni giorno offriva da mangiare a dodici poveri servendoli di propria mano. Un giorno sedette a mensa con gli altri un angelo sotto forma di giovanetto, che poi ad un tratto disparve. Da allora il Santo aumentò a tredici il numero dei poveri da lui sfamati. Così ebbe origine l’usanza di porre tredici pellegrini alla tavola che nel giovedì santo il Papa ogni anno serve di sua mano. Sopra la tavola è inciso il distico seguente: “Qui Gregorio sfamava dodici poveri; un angelo sedette a mensa e compì il numero di tredici”.

Santi Giovanni e Paolo
Uscendo da questa chiesa e voltando a destra s’incontra quella dei Santi Giovanni e Paolo. L’imperatore Gioviano permise al monaco san Pammacchio di costruirla nel 400 in onore di questi due fratelli martiri. Essa fu edificata sopra la loro abitazione proprio dove subirono il martirio. Venne poi restaurata da san Simmaco Papa verso il 444 […] Entrando si presenta allo sguardo un maestoso edificio. Nel mezzo una cancellata di ferro delimita il luogo dove i santi furono uccisi. I loro corpi, chiusi in un’urna preziosa, riposano sotto l’altare maggiore. Nella cappella accanto, sotto l’altare, viene custodito il corpo del beato Paolo della Croce, fondatore dei passionisti, ai quali è affidata la chiesa. Questo servo di Dio è un piemontese, nato a Castellazzo nella diocesi di Alessandria. Morì nel 1775 all’età di 82 anni. I molti miracoli che a Roma e altrove accadono per sua intercessione, hanno fatto crescere la congregazione dei passionisti, così chiamati a motivo del quarto voto che essi fanno, cioè promuovere la venerazione verso la passione del Signore.

Uno di quei religiosi, un genovese, fra Andrea, dopo averci accompagnati a vedere le cose più importanti della chiesa ci portò in convento, un bell’edificio che ospita una ottantina di padri in gran parte piemontesi.
Questa, ci disse fra Andrea, è la camera in cui morì il nostro santo Fondatore. Ci siamo entrati ed abbiamo in devoto raccoglimento ammirato il luogo d’onde partì l’anima sua per volare al cielo.
Là c’è la sedia, gli abiti, i libri ed altri oggetti che servirono ad uso del Beato. Ogni cosa è posta sotto sigillo e si distribuiscono come reliquie ai fedeli cristiani. Quella camera oggi è una cappella dove si celebra la messa.

Archi di Costantino e Tito
Dato un saluto al cortese fra Andrea, ci siamo avviati verso S. Lorenzo in Lucina. Ma fatta un po’ di strada ci siamo ritrovati sotto all’Arco di Costantino. Esso si è conservato quasi integro. Un’iscrizione del senato e del popolo romano indica che fu dedicato all’imperatore Costantino in occasione della vittoria riportata sopra il tiranno Massenzio. Questo imperatore, divenuto cristiano, fece collocare sopra l’arco una statua con una croce in mano in memoria della croce apparsagli davanti all’esercito, per ricordare a tutto il mondo che egli professava la religione di Gesù crocifisso.
Fatto un altro tratto di strada ecco un altro arco, quello Arco di Tito. Esistono tre archi a Roma e quello di Tito è il più antico ed elegante. È arricchito da bassorilievi che commemorano le varie vittorie riportate da quel prode guerriero: tra essi è scolpito il candelabro del tempio di Gerusalemme in memoria della caduta di quella città e del suo tempio. Sotto quest’arco passava la celebre Via Sacra, una delle più antiche di Roma, così chiamata perché attraverso questa si portavano ogni mese le cose sacre sulla Rocca, e veniva percorsa dagli àuguri per recarsi a prendere i loro responsi.

Giunti a S. Lorenzo in Lucina non riuscimmo a entrare a motivo dei lavori che vi si eseguivano […] Questa chiesa è una delle più vaste parrocchie di Roma, e fu eretta da Sisto III col consenso dell’imperatore Valentiniano in onore di san Lorenzo martire. Per distinguerlo dalle altre chiese innalzate a questo levita, fu denominata in Lucina o dalla santa martire di tal nome, o forse dal luogo che così si chiamava. Annesso a questa chiesa verso il corso è il palazzo Ottobuoni, fabbricato verso l’anno 1300 sopra le rovine di un grande edificio antico chiamato Palazzo di Domiziano. Essendo ormai stanchi e avvicinandosi l’ora del pranzo siamo tornati a casa […].

Santa Maria degli Angeli
 […] Il 13 marzo la stazione quaresimale era a S. Maria degli Angeli, e noi ci siamo andati sia per guadagnare l’indulgenza plenaria, sia anche per pregare Dio a favore della nostra casa. Questa chiesa è distinta da un’altra del medesimo nome con l’aggiunta alle Terme di Diocleziano, perché è costruita sul luogo dove anticamente s’innalzavano le famose terme ossia i bagni dell’imperatore Diocleziano. Il sommo pontefice Pio IV diede incarico a Michelangelo Buonarroti che col vasto suo ingegno seppe trasformare in chiesa una parte di quei superbi edifici. In un salone delle terme esisteva già una chiesetta dedicata a san Cirillo martire. Questa fu rinchiusa nella nuova chiesa, che il Pontefice dedicò a santa Maria degli Angeli, per compiacere il duca e re di Sicilia devotissimo degli Angeli, che cooperò assai alla sua edificazione.

Nel giorno della stazione quaresimale la chiesa è ornata con speciale eleganza, e si espongono alla pubblica venerazione le reliquie più insigni. In una cappella accanto all’altare maggiore era posto il reliquiario con moltissime reliquie tra le quali abbiamo notato i corpi di san Prospero, san Fortunato, san Cirillo, inoltre la testa di san Giustino e di san Massimo martiri e di moltissimi altri. Appagata così la nostra devozione siamo giunti a casa verso le sei assai stanchi e con buon appetito.

Santa Maria della Quercia
Domenica 14 marzo abbiamo celebrato in casa, poi siamo andati a visitare un oratorio, secondo le indicazioni avute dal marchese Patrizi. La chiesa dove si radunano i giovani si chiama S. Maria della Quercia. Eccone l’origine, che risale ai tempi di Giulio II. Un’immagine di Maria era stata dipinta su una tegola da un certo Battista Calvaro, che la pose sopra una quercia entro una sua vigna a Viterbo. Questa immagine rimase nascosta sessant’anni, fino a quando nel 1467 cominciò a manifestarsi con tante grazie e miracoli che i fedeli che l’andavano a visitare, con le loro offerte innalzarono una chiesa e un monastero. Papa Giulio II desiderò che anche a Roma ci fosse un tempio dedicato a Maria della Quercia, che è quello di cui parliamo.
Entrati in chiesa, e arrivati nella spaziosa sacrestia, fummo rallegrati dalla vista di una quarantina di giovanetti. Per la vivacità del comportamento assomigliano molto ai birichini del nostro oratorio. Le loro sacre funzioni si compiono tutte al mattino. Messa, confessione, catechismo e una breve istruzione è quanto si fa per loro […]

Dopo mezzogiorno i giovani vanno a S. Giovanni dei Fiorentini, un altro oratorio dove c’è solo ricreazione senza funzioni di chiesa. Ci siamo andati ed abbiamo visto circa un centinaio di giovani che si divertivano a più non posso. I loro giuochi erano la tombola e la campana, conosciute anche da noi. Praticano pure il giuoco del buco che consiste in cinque buchi alquanto capaci entro cui si mettono due castagne o altra cosa. Da una distanza di sei passi si fa rotolare una boccia. Chi riesce a farla entrare in uno dei buchi guadagna quello che c’è dentro. Ci dispiacque molto che essi non avessero altro che la ricreazione. Se ci fosse qualche prete in mezzo a loro, costui potrebbe fare del bene alle loro anime, perché ce n’è grande bisogno. Tanto più ci rincrebbe in quanto abbiamo trovato in costoro buone disposizioni. Parecchi provavano piacere a dialogare con noi, baciando più volte la mano tanto a me che a Rua, il quale suo malgrado era costretto ad acconsentire […]

Tornati a casa ricevemmo la visita di monsignor Merode, maestro di camera di Sua Santità. Dopo alcuni convenevoli, costui mi annunciò che il Santo Padre mi invitava a predicare gli esercizi spirituali alle detenute nelle carceri presso S. Maria degli Angeli alle terme di Diocleziano. Ogni desiderio del Papa è per me un comando e quindi accettai con vero piacere […]

Al carcere femminile
Alle due pomeridiane mi recai dalla superiora del carcere per combinare il giorno e l’ora in cui iniziare la predicazione. Ella mi disse:
Se per lei va bene può cominciare subito, poiché le donne sono in chiesa e non c’è nessuno che predichi. Così ho cominciato subito e la settimana fu quasi interamente dedicata a questo ministero. La casa correzionale si chiama Alle Terme di Diocleziano perché è situata nel medesimo luogo dove erano le terme di quel famoso imperatore. Vi erano ospitate 260 detenute colpevoli di gravi delitti e condannate alla galera […]. Gli esercizi andarono con soddisfazione. La predicazione semplice e popolare che usiamo tra noi riuscì fruttuosa in questo carcere. Al sabato, dopo l’ultima predica, la madre superiora mi annunziò con gran piacere che nessuna delle condannate aveva omesso di accostarsi ai Sacramenti.

Due episodi
Un piacevole episodio accadde al Santo Padre in questa settimana. Il conte Spada, andò a fargli visita, e s’intavolò questa conversazione:
– Santità, io vorrei chiederle un ricordo di questa visita.
– Chiedete quel che volete e cercherò di accontentarvi.
– Vorrei qualcosa di straordinario.
– Bene, domandate pure.
– Santità, desidererei per ricordo la vostra tabacchiera.
– Ma è piena di un tabacco di qualità infima.
– Non importa; la terrò molto cara.
– Prendetela pure, ve ne faccio un dono con piacere
. Il conte Spada partì più contento di quella tabacchiera che di un gran tesoro. Essa è semplice, di corno di bufalo, unita con due anelli di ottone e non vale quattro soldi, ma è preziosissima per la provenienza. Il buon conte la mostra ai suoi amici come un oggetto degno di venerazione […]

Un altro aneddoto mi fu raccontato di questo venerando Pontefice. L’anno scorso mentre il Santo Padre viaggiava attraverso i suoi stati si trovò nelle vicinanze di Viterbo. Una ragazzina con un fascio di legna, vedendo che la vettura pontificia s’era fermata, pensò che quei signori volessero comperare la sua fascina. Corse verso di loro:
Signore, disse al Santo Padre, compratela, il legno è molto secco.
Non ne abbiamo bisogno, rispose il Papa.
– Comperatela ve la do per tre baiocchi.
Prendi i tre baiocchi e tieni pure la tua fascina. Il Santo Padre le diede tre scudi, quindi si apprestò a risalire in vettura. Ma la ragazzina voleva che il Santo Padre prendesse la sua fascina.
Prendetela, sarete contenti; nella vostra vettura c’è posto abbondante. Mentre il Papa e la sua corte ridevano di un tale affare, la madre della ragazza, che lavorava in un campo vicino, accorse gridando:
Santo Padre, Santo Padre, perdonate; questa povera ragazza è mia figlia. Essa non vi conosce. Abbiate pietà di noi che siamo in grande miseria. Il Papa aggiunse ancora sei scudi e continuò il cammino […]

San Paolo fuori le Mura
Il giorno 22 marzo domenica Don Bosco andò dal cardinale vicario, l’eminentissimo Costantino Patrizi […] Uscito dal Vicariato, peregrinò fino a S. Paolo fuori le Mura per venerare il sepolcro del grande Apostolo delle Genti e ammirare le meraviglie di quel tempio immenso. Dopo un miglio di strada, arrivò al celebre luogo denominato Ad Aquas Salvias, dove san Paolo diede il sangue per Gesù Cristo. Proprio in questo punto, in cui sono tre miracolose sorgenti d’acqua, sgorgate nelle zolle sulle quali fece tre balzi il capo troncato del santo Apostolo, è stata costruita una chiesa. Don Bosco pregò anche nella chiesa vicina di Sancta Maria Scala Coeli, di forma ottagonale, edificata sul cimitero di san Zenone, un tribuno che subì il martirio sotto Diocleziano, assieme a 10.203 suoi commilitoni […]

Il Colosseo
Il 23 marzo il suo sguardo sbalordito contemplò le gigantesche rovine dell’anfiteatro Flavio o Colosseo, di forma ovale con 527 metri di circonferenza esterna, e alto ancora in alcuni tratti cinquanta metri. Nei tempi del suo splendore era coperto di marmi, ornato di colonnati, di centinaia di statue, di obelischi, di quadrighe di bronzo; e nell’interno sosteneva tutto all’intorno immense gradinate, che potevano contenere circa 200.000 persone, per assistere ai combattimenti delle bestie feroci e dei gladiatori, e alle stragi di migliaia e migliaia di martiri. Don Bosco entrò nell’arena degli spettacoli che misura 241 metri di circonferenza […]

San Clemente
Il 24 Don Bosco si recò alla basilica di S. Clemente per venerare le reliquie del quarto papa dopo san Pietro, e quelle di sant’Ignazio martire, vescovo di Antiochia; come anche per ammirare l’architettura dell’antichissima chiesa a tre navate. In quella di mezzo, davanti all’altare della Confessione, un recinto di marmo bianco delimita il coro per il clero minore. È dotato di due pulpiti, uno per il canto del vangelo, presso il quale si alza la colonnina del cero pasquale, e l’altro per la lettura dell’epistola. A fianco di quest’ultimo era posto il leggio per i cantori e lettori delle profezie e degli altri libri delle scritture; intorno all’abside le sedi dei sacerdoti, e, in fondo al centro su tre gradini, la cattedra episcopale […].

Da qui Don Bosco procedette verso la chiesa dei Quattro Coronati, per visitare i sepolcri dei martiri Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, uccisi sotto Diocleziano. Passò poi a S. Giovanni davanti alla Porta Latina, presso la quale sorge una cappella sul luogo dove san Giovanni Evangelista fu immerso nella caldaia d’olio bollente; da lì s’inoltrò fino alla chiesina del Quo Vadis, così chiamata perché in quel punto il Signore apparve a san Pietro che usciva da Roma per sottrarsi alla persecuzione:
Signore, dove vai? gridò l’Apostolo stupito. E Gesù gli rispose:
Vengo per essere crocifisso un’altra volta. San Pietro comprese, e ritornò a Roma dove lo aspettava il martirio. Da questo tempietto Don Bosco rifece la strada, dopo aver dato uno sguardo alla via Appia, lungo la quale si contano moltissimi mausolei dei tempi del paganesimo, che ricordano la fine di ogni grandezza umana.

Don Bosco… salesiano!
Una scena graziosa accadde la mattina del 25 marzo. Don Bosco, passato il Tevere, vide in una piccola piazza una trentina di ragazzi che si divertivano. Senz’altro si portò in mezzo a loro, che, sospesi i giochi, lo guardavano meravigliati. Egli alzò allora la mano tenendo fra le dita una medaglia, poi esclamò:
Siete troppi e mi rincresce di non aver tante medaglie per regalarne una a ciascuno di voi. Quelli, fattosi coraggio, protendendo le mani gridavano a gran voce:
Non importa, non importa… a me, a me! Don Bosco soggiunse:
– Ebbene, non avendone per tutti, questa medaglia voglio regalarla al più buono. Chi è di voi il più buono?
– Sono io, sono io! schiamazzarono tutti insieme
. Egli continuò:
– Come posso fare io, se siete tutti ugualmente buoni? Allora la darò al più discolo! Chi fra di voi è il più discolo?
– Sono io, sono io!
risposero con grida assordanti.
Il marchese Patrizi e i suoi amici, ad una certa distanza, sorridevano commossi e stupiti nel vedere Don Bosco trattare così famigliarmente con quei ragazzi, che per la prima volta aveva incontrati; ed esclamavano:
– Ecco un altro san Filippo Neri, amico della gioventù. Don Bosco infatti, come se fosse stato un amico già conosciuto da quei fanciulli, continuò ad interrogarli, se avessero già ascoltata la Messa, in quale chiesa solessero andare, se frequentassero gli oratori che erano in quelle parti […] Il dialogo era animato. Don Bosco, dopo averli esortati ad essere sempre buoni cristiani, promise che sarebbe passato altra volta per quella piazza e avrebbe regalato una medaglia ciascuno; poi, salutatili affettuosamente, tornò dai suoi accompagnatori mostrando la medaglia. Non aveva dato nulla ai ragazzi, eppure li aveva lasciati contenti.

Santo Stefano Rotondo
Il 26 marzo Don Bosco ritornò al Celio nella spaziosa chiesa di S. Stefano Rotondo, chiamata così per la sua forma. Il cornicione circolare è sostenuto da 56 colonne. Tutt’intorno alle pareti sono dipinte le scene degli atroci supplizi coi quali furono straziati i martiri. È ornata da mosaici del secolo VII, che rappresentano Gesù crocifisso, con alcuni santi, e conserva i corpi di due confessori della fede: san Primo e san Feliciano. Da lì D. Bosco passò a S. Maria in Dominica, o della Navicella, per una barca di marmo che sta sulla piazza antistante. Ha tre navate spartite da 18 colonne e contiene mosaici del secolo IX. Fra questi la Vergine è al posto d’onore fra molti angeli e ai suoi piedi è inginocchiato papa Pasquale […]

Intanto il Santo Padre aveva espresso il desiderio che Don Bosco assistesse in Vaticano al devoto e magnifico spettacolo delle funzioni della Settimana Santa. Quindi aveva dato incarico a monsignor Borromeo di invitarlo a nome suo, e di procurargli un posto dal quale potesse assistere comodamente ai sacri riti. Il monsignore lo fece ricercare tutto il giorno senza esito. Finalmente, a ora tardissima, il messo lo trovò a casa De Maistre dov’era tornato dopo una giornata di visite. Dicendo che veniva per ordine del Papa, fu introdotto e presentò a Don Bosco la lettera d’invito, con la quale era ammesso a ricevere la palma benedetta dalle mani stesse del Papa. Don Bosco la lesse subito ed esclamò che sarebbe andato con gran piacere.

Pasqua Romana di don Bosco. La Domenica delle Palme
Domenica 28 marzo, col chierico Rua, entrò nella basilica di San Pietro molto prima che incominciassero le funzioni. Il conte Carlo De Maistre lo accompagnò al suo posto, nella tribuna dei diplomatici. Egli era attentissimo poiché conosceva l’importanza delle cerimonie della Chiesa. Al suo fianco stava un milord inglese protestante, meravigliato di tanta solennità. A un certo punto un cantore della cappella Sistina eseguì un assolo così bene che Don Bosco ne restò commosso fino alle lacrime e quel milord volgendosi a lui esclamò in latino, perché in altra lingua non sapeva come farsi intendere:
Post hoc paradisus! Quel signore dopo qualche tempo si convertì al cattolicesimo non solo, ma divenne prete e vescovo. Benedette le palme, a turno il corpo diplomatico sfilò davanti al Pontefice, e ogni ambasciatore e ministro ricevette la palma dalle sue mani. Anche Don Bosco e il chierico Rua s’inginocchiarono ai piedi del Papa e ricevettero la palma. Così volle Pio IX: non era forse Don Bosco ambasciatore di Dio? Il chierico Rua, ritornato presso i Rosminiani, regalò la sua al padre Pagani, che la gradì molto […]

Don Bosco caudatario
Il cardinale Marini, uno dei due assistenti al trono, perché Don Bosco potesse assistere a tutte le funzioni della settimana santa, lo prese come caudatario. Così egli in veste violacea stette quasi a fianco del Papa per tutto il tempo, e poté gustare i canti gregoriani e le musiche dell’Allegri e del Palestrina.
Il giovedì santo pontificò il cardinale Mario Mattei, essendo il più anziano dei vescovi suburbicari, invece del cardinale decano che era impedito. D. Bosco seguì il Pontefice che processionalmente portava il SS. Sacramento nella cappella Paolina per riporlo dentro l’urna appositamente preparata; lo accompagnò fin sulla loggia vaticana dalla quale il Papa benedice Roma e il mondo; assistette alla lavanda dei piedi fatta dal Pontefice a tredici sacerdoti, e partecipò alla loro cena commemorativa, servita dallo stesso Vicario di Gesù Cristo.

La benedizione Urbi et Orbi
[…] Il 4 aprile le salve d’artiglieria di Castel S. Angelo annunciavano il giorno di Pasqua. Pio IX scese in basilica verso le dieci per il pontificale. Subito dopo, preceduto dal corteo di vescovi e cardinali, si recò alla Loggia per la benedizione Urbi et Orbi. Don Bosco col cardinale Marini ed un vescovo restò per un istante vicino al davanzale ricoperto da un magnifico drappo, sul quale erano stati deposti tre Triregni d’oro. Il cardinale disse a Don Bosco:
Osservate quale spettacolo! Don Bosco girava sulla piazza gli occhi attoniti. Una folla di 200.000 persone stava accalcata colla faccia rivolta alla Loggia. I tetti, le finestre, i terrazzi di tutte le case erano occupati. L’esercito francese riempiva una parte dello spazio compreso tra l’obelisco e la scalinata di San Pietro. I battaglioni della fanteria pontificia stavano schierati a destra e a sinistra. Indietro, la cavalleria e l’artiglieria. Migliaia di carrozze erano ferme alle due ali della piazza, vicino ai portici del Bernini, e nel fondo presso le case. Specialmente su quelle a nolo stavano in piedi gruppi di persone che parevano dominare la piazza. Era un vociare clamoroso, un calpestio di cavalli, una confusione incredibile. Nessuno può farsi un’idea di tale spettacolo.

Intrappolato
Don Bosco, che aveva lasciato il Papa in basilica mentre era in venerazione delle reliquie insigni, credeva che avrebbe tardato a comparire. Assorto nel contemplare tanta gente di ogni nazione, non s’accorse del sopraggiungere della sedia gestatoria su cui sedeva il Papa. Si venne a trovare in una posizione difficile; stretto fra la sedia e la balaustra, poteva muoversi appena; tutto intorno stavano pigiati cardinali, vescovi, cerimonieri e sediari, sicché non scorgeva alcun varco per uscirne. Rivolgere il viso al Papa era sconvenienza; voltargli le spalle inciviltà; rimanere nel centro del balcone una ridicolaggine. Non potendo far di meglio, si volse di fianco; allora la punta di un piede del Papa arrivò a posarsi sulla sua spalla.

In quel mentre un silenzio solenne regnava sulla grande piazza tanto che si sarebbe potuto udire il ronzio di una mosca. Gli stessi cavalli stavano immobili. Don Bosco, per nulla turbato, attento ad ogni minimo particolare, osservò che un solo nitrito, e il suono di un orologio che batteva le ore, si fece udire mentre il Papa recitava le preghiere di rito. Egli intanto, visto che il pavimento della Loggia era sparso di fronde e fiori, si curvò, e raccogliendo alcuni fiori li mise tra le pagine del libro che aveva in mano. Finalmente Pio IX si alzò in piedi per benedire: aperse le braccia, sollevò al cielo le mani, le stese sulla moltitudine che curvò la fronte, e la sua voce nel cantare la formula della benedizione, sonora, potente, solenne si udiva al di là di piazza Rusticucci e dalla soffitta del palazzo degli scrittori della Civiltà Cattolica.

La folla rispose con una immensa ovazione. Allora il cardinale Ugolini lesse in latino il Breve dell’indulgenza plenaria e subito dopo il cardinale Marini lo ripeté in lingua italiana. Don Bosco si era inginocchiato, e quando si rialzò il corteo papale era ormai scomparso. Tutte le campane suonavano a festa, tuonava il cannone da Castel Sant’Angelo, le musiche militari facevano risuonare le loro trombe. Il cardinale Marini, accompagnato dal caudatario, discese e andò verso la sua carrozza. Appena questa si mosse, Don Bosco si sentì preso dal male prodotto da quel moto che gli rivoltava lo stomaco; non potendo più resistere, manifestò al cardinale quel suo incomodo. Per suo consiglio salì in cassetta col cocchiere, ma il malessere non diminuì, allora scese per camminare a piedi. Essendo in veste violacea, sarebbe stato oggetto di meraviglia o di scherno, se avesse attraversato Roma così; perciò il segretario gentilmente scese dalla carrozza e lo accompagnò a palazzo […].

Il ricordo del Papa
Don Bosco il 6 aprile ritornò a un’udienza particolare di Pio IX col chierico Rua e il teologo Murialdo, ammesso in Vaticano per interposizione dello stesso Don Bosco. Entrarono nell’anticamera alle nove di sera, e subito Don Bosco venne introdotto. Il Papa appena lo ebbe innanzi gli disse con viso serio:
– Abate Bosco, dove vi siete andato a ficcare il giorno di Pasqua durante la benedizione papale? Lì, davanti al Papa, e tenendo la spalla sotto il suo piede come se il Pontefice avesse bisogno di essere sostenuto da Don Bosco.
– Santo Padre
, rispose tranquillo ed umile, sono stato colto di sorpresa e chiedo perdono se l’ho in qualche modo offesa!
– E aggiungete ancora l’affronto di chiedermi se mi avete offeso? Don Bosco guardò il Papa e gli parve che fingesse: un sorriso accennava a comparirgli sulle labbra. Ma che cosa vi è saltato in testa di raccogliere fiori in quel momento? C’è voluta tutta la serietà di Pio IX per non scoppiare dalle risa. […]
Ora, Beatissimo Padre, supplicò Don Bosco, abbiate la bontà di suggerirmi una massima che io possa ripetere ai miei giovani, come ricordo del Vicario di Cristo.
– La presenza di Dio! rispose il Papa. Dite ai vostri giovani che si regolino sempre con questo pensiero!… E voi non avete nulla da domandarmi? Certamente desiderate qualche cosa anche voi.
– Santo Padre, Vostra Santità si è degnata di concedermi quanto ho domandato, ora non mi resta che ringraziarla dal più intimo del cuore.
– Eppure, eppure, voi desiderate ancora qualche cosa.
Al che Don Bosco stava là come sospeso senza proferire parola. Il Pontefice soggiunse:
– Ma come? Non desiderate di fare stare allegri i vostri giovani, quando sarete ritornato tra loro?
– Santità, questo sì.
– Allora aspettate.
Pochi istanti prima erano entrati in quella stanza il teologo Murialdo, il chierico Rua e don Cerutti di Varazze, cancelliere nella Curia Arcivescovile di Genova. Essi rimasero stupiti della famigliarità con la quale il Papa trattava Don Bosco e di ciò che videro in quel momento. Il Papa aveva aperto lo scrigno, ne aveva tirato fuori una manciata di monete d’oro e senza contarle le aveva porte a Don Bosco dicendo:
– Prendete e date poi una buona merenda ai vostri ragazzi. Ognuno può immaginare l’impressione che fece su Don Bosco quest’atto di bontà di Pio IX, il quale con grande amorevolezza si rivolgeva anche agli ecclesiastici sopravvenuti, benediceva le corone, i crocifissi ed altri oggetti di devozione che gli presentavano, e dava a tutti una medaglia ricordo.

La sfida educativa di don Bosco
Fra i cardinali che passò ad ossequiare vi fu l’Eminentissimo Tosti, per invito del quale aveva parlato ai giovani dell’Ospizio San Michele. Costui, soddisfatto della cortesia di Don Bosco, essendo l’ora della sua passeggiata, volle averlo per compagno, così tutti e due salirono in carrozza. Si incominciò a parlare del sistema più adatto all’educazione dei giovani. Don Bosco si era andato persuadendo che gli alunni di quell’ospizio non avevano famigliarità coi superiori, anzi li temevano: cosa poco piacevole, poiché gli educatori erano sacerdoti. Perciò diceva:
– Vede, Eminenza, è impossibile educare bene i giovani se questi non hanno confidenza nei superiori.
– Ma come, replicava il cardinale, si può guadagnare questa confidenza?
– Facendo in modo che essi si avvicinino a noi, togliendo ogni causa che li allontani.
– E come si può fare per avvicinarli a noi?
– Avvicinandoci noi ad essi, cercando di adattarci ai loro gusti, facendoci simili a loro. Vuole che facciamo una prova? Mi dica: in qual punto di Roma si può trovare un bel numero di ragazzi?
– In Piazza Termini e in Piazza del Popolo, rispose il cardinale.
– Ebbene, andiamo in Piazza del Popolo.

Il cardinale passò l’ordine al carrozziere. Appena arrivati, Don Bosco scese di carrozza, e il prelato rimase ad osservarlo. Visto un crocchio di giovanetti che giocavano, si avvicinò, ma i birichini fuggirono. Allora li chiamò con le buone maniere e quelli dopo qualche esitazione si avvicinarono. Don Bosco regalò qualche cosuccia, domandò notizie delle loro famiglie, chiese che gioco stavano facendo e li invitò a continuare, fermandosi prima a guardarli, poi cominciando a prendervi parte. Allora anche altri che stavano osservando da lontano accorsero numerosissimi dai quattro angoli della piazza intorno al prete, che tutti accoglieva amorevolmente ed aveva per tutti una buona parola e un regaluccio. Chiedeva se fossero buoni, se dicessero le orazioni, se andassero a confessarsi. Quando volle allontanarsi, lo seguirono per un buon tratto, lasciandolo solo quando egli risalì in carrozza. Il cardinale era meravigliato.
– Ha visto?
– Avevate ragione!
esclamò il cardinale […]

Le ultime visite
Le ultime visite di D. Bosco furono riservate alla Confessione di San Pietro ed alle Catacombe. Dopo aver pregato nella basilica di S. Sebastiano, viste due delle frecce che ferirono il santo tribuno e la colonna a cui fu legato, scese nelle gallerie sotterranee che custodirono le ossa di migliaia e migliaia di martiri, e dove san Filippo Neri tante notti vegliò in preghiera. Passò poi alle vicine Catacombe di san Callisto. Qui lo attendeva il cavaliere G. B. De Rossi, che le aveva scoperte, al quale lo aveva presentato monsignor di San Marzano.
Chi entra in quei luoghi prova una tale commozione, che gli resta per tutta la vita. Don Bosco era assorto in santi pensieri nel percorrere quei sotterranei, ove i primi cristiani, attraverso la messa, le preghiere in comune, il canto dei salmi e delle profezie, la comunione eucaristica, l’ascolto dei vescovi e dei papi, avevano trovato la forza necessaria per affrontare il martirio. È impossibile contemplare ad occhi asciutti quei loculi che avevano rinchiuso i corpi insanguinati o bruciati di tanti eroi della fede, le tombe di ben quattordici papi che avevano data la vita per testimoniare ciò che insegnavano, e la cripta di santa Cecilia.

Don Bosco osservava gli antichissimi affreschi che ritraevano Gesù Cristo e l’Eucarestia; e le immagini che rappresentavano lo sposalizio di Maria SS. con san Giuseppe, l’Assunzione di Maria in cielo, la Madre di Dio col bambino in braccio o sulle ginocchia. Era incantato dal sentimento di modestia che splendeva in queste immagini, nelle quali l’arte cristiana primitiva aveva saputo riprodurre la bellezza incomparabile dell’anima e dell’ideale altissimo della perfezione morale che si deve attribuire alla Vergine. Non mancavano altre figure di santi e di martiri. Don Bosco uscì dalle catacombe alle 6 della sera. Vi era entrato alle 8 del mattino […]

Verso casa
Don Bosco il 14 aprile partì da Roma col chierico Rua, lieto che fossero state gettate le basi della Società di San Francesco di Sales […] Prese dunque una carrozza a nolo, fece una breve fermata nel paese di Palo dove trovò l’albergatore perfettamente libero dalle febbri: la sua guarigione era stata istantanea. Questi non dimenticherà più l’accaduto, e verso il 1875 o 76, capitato a Genova per ragioni di commercio, volle continuare il suo viaggio fino a Torino. Chiesto e saputo per telegrafo che Don Bosco era all’Oratorio, ci andò; ma egli in quel giorno era a pranzo dal signor Occelletti Carlo. Allora si recò là a trovarlo, facendogli feste senza fine. Il signor Occelletti ricordò sempre con grande piacere il racconto da lui udito di quella guarigione. Arrivato a Civitavecchia e fatta una visita al delegato pontificio, Don Bosco andò al porto per imbarcarsi.

Le onde questa volta furono calme e bello il tempo, sicché egli poté scendere a Livorno, intrattenersi con qualche amico e visitare alcune chiese. Ripreso il mare sul far della sera, don Rua ricorda come la nave giungesse nel porto di Genova al sorgere di una splendida aurora che illuminava il magnifico panorama della superba città. Don Bosco, appena messo piede in terra, si recò al collegio degli Artigianelli, dove lo aspettava don Montebruno e il signor Giuseppe Canale. Dopo mezzogiorno salì in treno. Nell’attraversare la città aveva provato una gradita sorpresa: quando le campane suonarono l’Angelus, molte persone per le vie e le piazze si scoprivano il capo, e gli stessi facchini si erano alzati dalle loro panche per recitare la preghiera. Più volte egli raccontò questo per edificazione dei suoi alunni. Giunse a Torino il 16 di aprile, accolto dai giovani con tanta festa ed affetto, che nessun padre potrebbe augurarsene di più dai propri figli.




Beatificazione di Camille Costa de Beauregard. E dopo…?

            La diocesi di Savoia e la città di Chambéry hanno vissuto tre giornate storiche, il 16, 17 e 18 maggio 2025. Un resoconto dei fatti e delle prospettive future.

            Le reliquie di Camille Costa de Beauregard sono state trasferite dal Bocage alla chiesa di Notre-Dame (luogo del battesimo di Camille), venerdì 16 maggio. Un magnifico corteo ha quindi percorso le vie della città a partire dalle ore venti. Dopo i corni delle Alpi, le cornamuse hanno preso il testimone per aprire la marcia, seguite da una carrozza fiorita che trasportava un ritratto gigante del “padre degli orfani”. Seguivano poi le reliquie, su una barella portata da giovani studenti del liceo del Bocage, vestiti con magnifiche felpe rosse su cui si poteva leggere questa frase di Camille: “Più la montagna è alta, meglio vediamo lontano“. Diverse centinaia di persone di tutte le età sfilavano poi, in un’atmosfera “bon enfant”. Lungo il percorso, i curiosi, rispettosi, si fermavano, sbalorditi, a vedere passare questo corteo insolito.
            All’arrivo alla chiesa di Notre-Dame, un sacerdote era lì per animare una veglia di preghiera sostenuta dai canti di un bel coro di giovani. La cerimonia si svolgeva quindi in un clima rilassato, ma raccolto. Tutti sfilavano, alla fine della veglia, per venerare le reliquie e affidare a Camille un’intenzione personale. Un momento molto bello!
            Sabato 17 maggio. Gran giorno! Da Pauline Marie Jaricot (beatificata nel maggio del 2022), la Francia non aveva conosciuto un nuovo “Beato”. Così tutta la Regione Apostolica si trovava rappresentata dai suoi vescovi: Lione, Annecy, Saint-Étienne, Valence ecc… A questi si erano aggiunti due ex arcivescovi di Chambéry: monsignor Laurent Ulrich, attualmente arcivescovo di Parigi e monsignor Philippe Ballot, vescovo di Metz. Due vescovi del Burkina Faso avevano fatto il viaggio per partecipare a questa festa. Numerosi sacerdoti diocesani erano venuti a concelebrare, così come diversi religiosi tra cui sette Salesiani di Don Bosco. Il nunzio apostolico in Francia, monsignor Celestino Migliore, aveva la missione di rappresentare il cardinale Semeraro (Prefetto del Dicastero per le cause dei santi) trattenuto a Roma per l’intronizzazione di papa Leone XIV. Inutile dire che la cattedrale era gremita, così come i capitelli e il sagrato e il Bocage: più di tremila persone in tutto.
            Che emozione, quando dopo la lettura del decreto pontificio (firmato solo il giorno prima da papa Leone XIV) letto da don Pierluigi Cameroni, postulatore della causa, il ritratto di Camille è stato svelato nella cattedrale! Che fervore in questo grande vascello! Che solennità sostenuta dai canti di un magnifico coro interdiocesano e dal grande organo meravigliosamente servito dal maestro Thibaut Duré! Insomma, una cerimonia grandiosa per questo umile sacerdote che diede tutta la sua vita al servizio dei più piccoli!
            Un reportage è stato assicurato da RCF Savoie (una stazione radio regionale francese che fa parte del network RCF, Radios Chrétiennes Francophones) con interviste a diverse personalità coinvolte nella difesa della causa di Camille, e d’altra parte, dal canale KTO (il canale televisivo cattolico di lingua francese) che trasmetteva in diretta questa magnifica celebrazione.
            Una terza giornata, Domenica 18 maggio, veniva a coronare questa festa. Si svolgeva al Bocage, sotto un grande tendone; era una messa di ringraziamento presieduta da monsignor Thibault Verny, arcivescovo di Chambéry, circondato dai due vescovi africani, il Provinciale dei Salesiani e alcuni sacerdoti, tra cui padre Jean François Chiron, (presidente, da tredici anni, del Comitato Camille creato da monsignor Philippe Ballot) che pronunciava un’omelia notevole. Una folla considerevole era venuta a partecipare e pregare. Alla fine della messa, una rosa “Camille Costa de Beauregard fondatore del Bocage” è stata benedetta da padre Daniel Féderspiel, Ispettore dei Salesiani della Francia (questa rosa, scelta dagli ex allievi, offerta alle personalità presenti, è in vendita nelle serre del Bocage).
            Dopo la cerimonia, i corni delle Alpi hanno dato un concerto fino al momento in cui papa Leone, durante il suo discorso, al momento del Regina Coeli, ha dichiarato di essere molto gioioso della prima beatificazione del suo pontificato, il sacerdote di Chambéry Camille Costa de Beauregard. Tuono di applausi sotto il tendone!
            Nel pomeriggio, diversi gruppi di giovani del Bocage, liceo e casa dei bambini, o scout, si sono succeduti sul podio per animare un momento ricreativo. Sì! Che festa!

            E adesso? Tutto è finito? O c’è un dopo, un seguito?
            La beatificazione di Camille è solo una tappa nel processo di canonizzazione. Il lavoro continua e siete chiamati a contribuire. Cosa resta da fare? Far conoscere sempre meglio la figura del nuovo beato intorno a noi, con molteplici mezzi, perché è necessario che molti lo preghino affinché la sua intercessione ci ottenga una nuova guarigione inspiegabile dalla scienza, il che permetterebbe di considerare un nuovo processo e una rapida canonizzazione. La santità di Camille sarebbe allora presentata al mondo intero. È possibile, bisogna crederci! Non fermiamoci a metà strada!

            Disponiamo di diversi mezzi, come:
            – il libro Il beato Camille Costa de Beauregard La nobiltà del cuore, di Françoise Bouchard, Edizioni Salvator;
            – il libro Pregare quindici giorni con Camille Costa de Beauregard, di padre Paul Ripaud, Edizioni Nouvelle Cité;
            – un fumetto: Beato Camille Costa de Beauregard, di Gaëtan Evrard, Edizioni Triomphe;
            – i video da scoprire sul sito di “Amis de Costa“, e quello della beatificazione;
            – le visite ai luoghi della memoria, al Bocage a Chambéry; sono possibili contattando sia l’accoglienza del Bocage, sia direttamente il signor Gabriel Tardy, direttore de la Maison des Enfants.

            A tutti, grazie per sostenere la causa del beato Camille, se lo merita!

don Paul Ripaud, sdb