Patagonia: “La più grande impresa della nostra Congregazione

Appena giunti in Patagonia, i Salesiani – guidati da Don Bosco – puntarono a ottenere un Vicariato apostolico che garantisse autonomia pastorale e sostegno di Propaganda Fide. Tra il 1880 e il 1882 ripetute richieste a Roma, al presidente argentino Roca e all’arcivescovo di Buenos Aires si infransero contro disordini politici e diffidenze ecclesiastiche. Missionari come Rizzo, Fagnano, Costamagna e Beauvoir percorrevano il Río Negro, il Colorado e fino al lago Nahuel-Huapi, fondando presenze tra indios e coloni. La svolta giunse il 16 novembre 1883: un decreto eresse il Vicariato della Patagonia settentrionale, affidato a mons. Giovanni Cagliero, e la Prefettura meridionale, guidata da mons. Giuseppe Fagnano. Da quel momento l’opera salesiana si radicò «alla fine del mondo», preparandone la futura fioritura.

            Erano appena arrivati i Salesiani in Patagonia, che don Bosco il 22 marzo 1880 tornò nuovamente alla carica presso varie Congregazioni Romane e lo stesso papa Leone XIII
per l’erezione di Vicariato o Prefettura della Patagonia con sede a Carmen, che abbracciasse le colonie già costituite o che si sarebbero andate organizzando sulle sponde del Río Negro, dal 36° al 50° grado di latitudine Sud. Carmen sarebbe potuta divenire “il centro delle Missioni Salesiane fra gli Indi”.
            Ma i disordini militari al momento dell’elezione del generale Roca a Presidente della Repubblica (maggio-agosto 1880) e la morte dell’ispettore salesiano don Francesco Bodrato (agosto 1880) fecero sospendere le pratiche. Don Bosco insistette anche presso il Presidente in novembre, ma senza risultati. Il Vicariato non era voluto né dall’arcivescovo né era gradito all’autorità politica.
            Pochi mesi dopo, nel gennaio 1881 don Bosco incoraggiava il neoispettore don Giacomo Costamagna a darsi da fare per il Vicariato in Patagonia ed assicurava il direttore-parroco don Fagnano che a proposito della Patagonia – “la più grande impresa della nostra Congregazione” – una grande responsabilità sarebbe presto ricaduta su di lui. Ma si rimaneva nell’impasse.
            Intanto in Patagonia don Emilio Rizzo, che aveva accompagnato nel 1880 il vicario di Buenos Aires monsignor Espinosa lungo il Río Negro fino a Roca (50 km), con altri salesiani si apprestava ad ulteriori missioni volanti lungo lo stesso fiume. Don Fagnano poi nel 1881 poté accompagnare l’esercito fino alla Cordigliera. Don Bosco, impaziente, fremeva e don Costamagna ancora nel novembre 1881 lo consigliò di trattare direttamente con Roma.
            Fortuna volle che a fine 1881 venisse in Italia monsignor Espinosa; don Bosco ne approfittò per informare suo tramite l’arcivescovo di Buenos Aires, che nell’aprile del 1882 sembrò favorevole al progetto di un Vicariato affidato ai Salesiani. Più che altro forse per l’impossibilità di attendervi con il suo clero. Ma ancora una volta non se ne fece nulla.           Nell’estate 1882 e poi ancora nel 1883 don Beauvoir accompagnò l’esercito fino al lago Nahuel-Huapi sulle Ande (880 km); altrettante escursioni apostoliche avevano fatto altri salesiani in aprile lungo il Río Colorado, mentre don Beauvoir ritornava a Roca e in agosto don Milanesio si inoltrava fino a Ñorquín nel Neuquén (900 km).
            Don Bosco era sempre più convinto che senza un proprio Vicariato apostolico i Salesiani non avrebbero goduto della necessaria libertà di azione, visti i difficilissimi rapporti che aveva avuto lui con il suo arcivescovo di Torino e tenuto pure conto che lo stesso Concilio Vaticano I non aveva deciso nulla circa i non facili rapporti fra Ordinari e superiori di Congregazioni religiose nei territori di missione. Inoltre, cosa non di poco conto, solo un Vicariato missionario avrebbe potuto avere il sostegno finanziario dalla Congregazione di Propaganda Fide.
            Pertanto don Bosco riprese i suoi sforzi, avanzando alla Santa Sede la proposta di suddivisione amministrativa della Patagonia e Terra del Fuoco in tre Vicariati o Prefetture: dal Río Colorado al Río Chubut, da questi al Río Santa Cruz, e da questi alle isole della Terra del Fuoco, Malvine (Falkland) comprese.
            Papa Leone XIII alcuni mesi dopo acconsentì e gli fece chiedere i nominativi. Don Bosco allora suggerì al cardinale Simeoni l’erezione di un solo Vicariato per la Patagonia settentrionale con sede a Carmen, dal quale dipendesse una Prefettura apostolica per la Patagonia meridionale. Per quest’ultima proponeva don Fagnano; per il Vicariato don Cagliero o don Costamagna.

Un sogno che si avvera
            Il 16 novembre 1883 un decreto di Propaganda Fide eresse il Vicario apostolico della Patagonia settentrionale e centrale, che comprendeva il sud della provincia di Buenos Aires, i territori nazionali di La Pampa centrale, il Río Negro, il Neuquén e il Chubut. Quattro giorni dopo lo affidò a don Cagliero come Provicario apostolico (e successivamente Vicario apostolico). Il 2 dicembre 1883 fu la volta del Fagnano ad essere nominato Prefetto apostolico della Patagonia cilena, del territorio cileno di Magallanes-Punta Arenas, del territorio argentino di Santa Cruz, delle isole Malvinas e delle non meglio definite isole che si estendevano fino allo stretto di Magellano. Ecclesiasticamente la Prefettura copriva aree appartenenti alla diocesi cilena di San Carlos de Ancud.
            Il sogno del famoso viaggio in treno da Cartagena in Colombia a Punta Arenas in Cile del 10 agosto 1883 iniziava così a realizzarsi, tanto più che alcuni Salesiani da Montevideo in Uruguay all’inizio del 1883 erano arrivati a fondare la casa di Niteroi in Brasile. Il lungo processo di poter gestire una missione in piena libertà canonica era arrivato a conclusione. Nell’ottobre del 1884 don Cagliero sarebbe stato insignito della nomina di Vicario apostolico della Patagonia, là dove avrebbe fatto la sua entrata l’8 luglio successivo, sette mesi dopo la sua consacrazione episcopale avvenuta a Valdocco il 7 dicembre 1884.

Il seguito
            Sia pure in mezzo a difficoltà di ogni genere che la storia ricorda – comprese accuse e vere calunnie – l’opera salesiana da quei timidi inizi si dispiegò rapidamente sia nella Patagonia Argentina sia in quella cilena. Si radicò per lo più in piccolissimi centri di indios e di coloni, oggi diventati cittadine e città. Monsignor Fagnano nel 1887 si stabilì a Punta Arenas (Cile), da dove iniziò poco dopo le missioni nelle isole della Terra del Fuoco. Generosi e capaci missionari spesero generosamente la vita al di qua e al di là dello Stretto di Magellano “per la salvezza delle anime” e pure dei corpi (per quanto era nelle loro possibilità) degli abitanti di quelle terre “laggiù, alla fine del mondo”. Lo hanno riconosciuto in tanti, fra loro una persona che se ne intende, perché a sua volta venuto “quasi dalla fine del mondo”: papa Francesco.

Foto d’epoca: I tre Bororòs che accompagnarono i missionari salesiani a Cuyabà (1904)




La radicalità evangelica del Beato Stefano Sándor

Stefano Sándor (Szolnok 1914 – Budapest 1953) è un martire coadiutore salesiano. Giovane allegro e devoto, dopo gli studi metallurgici entrò tra i Salesiani, diventando maestro tipografo e guida dei ragazzi. Animò oratori, fondò la Gioventù Operaia Cattolica e trasformò trincee e cantieri in “oratori festivi”. Quando il regime comunista confiscò le opere ecclesiali, continuò clandestinamente a educare e salvare giovani e macchinari; arrestato, fu impiccato l’8 giugno 1953. Radicato nell’Eucaristia e nella devozione a Maria, incarnò la radicalità evangelica di Don Bosco con dedizione educativa, coraggio e fede incrollabile. Beatificato da papa Francesco nel 2013, resta modello di santità laicale salesiana.

1. Cenni biografici
            Sándor Stefano nacque a Szolnok, in Ungheria, il 26 ottobre 1914 da Stefano e Maria Fekete, primo di tre fratelli. Il padre era impiegato presso le Ferrovie dello Stato, la madre invece era casalinga. Entrambi trasmisero ai propri figli una profonda religiosità. Stefano studiò nella sua città ottenendo il diploma di tecnico metallurgico. Fin da ragazzo veniva stimato dai compagni, era allegro, serio e gentile. Aiutava i fratellini a studiare e a pregare, dandone per primo l’esempio. Fece con fervore la cresima impegnandosi a imitare il suo santo protettore e san Pietro. Serviva ogni giorno la santa Messa dai padri francescani ricevendo l’Eucaristia.
            Leggendo il Bollettino Salesiano conobbe Don Bosco. Si sentì subito attratto dal carisma salesiano. Si confrontò col suo direttore spirituale, esprimendogli il desiderio di entrare nella Congregazione salesiana. Ne parlò anche ai suoi genitori. Essi gli negarono il consenso, e cercarono in ogni modo di dissuaderlo. Ma Stefano riuscì a convincerli, e nel 1936 fu accettato al Clarisseum, sede dei Salesiani a Budapest, dove in due anni fece l’aspirantato. Frequentò nella tipografia “Don Bosco” i corsi di tecnicostampatore. Iniziò il noviziato, ma dovette interromperlo per la chiamata alle armi.
            Nel 1939 ottenne il congedo definitivo e, dopo l’anno di noviziato, emise la sua prima professione l’8 settembre 1940 come salesiano coadiutore. Destinato al Clarisseum, si impegnò attivamente nell’insegnamento nei corsi professionali. Ebbe anche l’incarico dell’assistenza all’oratorio, che condusse con entusiasmo e competenza. Fu il promotore della Gioventù Operaia Cattolica. Il suo gruppo venne riconosciuto come il migliore del movimento. Sull’esempio di Don Bosco, si mostrò un educatore modello. Nel 1942 fu richiamato al fronte, e si guadagnò una medaglia d’argento al valore militare. La trincea era per lui un oratorio festivo che animava salesianamente, rincuorando i compagni di leva. Alla fine della Seconda guerra mondiale si impegnò nella ricostruzione materiale e morale della società, dedicandosi in particolare ai giovani più poveri, che radunava insegnando loro un mestiere. Il 24 luglio 1946 emise la sua professione perpetua. Nel 1948 conseguì il titolo di maestro-stampatore. Alla fine degli studi gli allievi di Stefano venivano assunti nelle migliori tipografie della capitale Budapest e dell’Ungheria.

            Quando lo Stato nel 1949, sotto Mátyás Rákosi, incamerò i beni ecclesiastici e iniziarono le persecuzioni nei confronti delle scuole cattoliche, che dovettero chiudere i battenti, Sándor cercò di salvare il salvabile, almeno qualche macchina tipografica e qualcosa dell’arredamento che tanti sacrifici era costato. Di colpo i religiosi si ritrovarono senza più nulla, tutto era diventato dello Stato. Lo stalinismo di Rákosi continuò ad accanirsi: i religiosi vennero dispersi. Senza più casa, lavoro, comunità, molti si ridussero allo stato di clandestini. Si adattarono a fare di tutto: spazzini, contadini, manovali, facchini, servitori… Anche Stefano dovette “sparire”, lasciando la sua tipografia che era diventata famosa. Invece di rifugiarsi all’estero rimase in patria per salvare la gioventù ungherese. Colto sul fatto (stava cercando di salvare delle macchine tipografiche), dovette fuggire in fretta e rimanere nascosto per alcuni mesi; poi, sotto altro nome, riuscì a farsi assumere in una fabbrica di detergenti della capitale, ma continuò impavido e clandestinamente il suo apostolato, pur sapendo che era attività rigorosamente proibita. Nel luglio del 1952 fu catturato sul posto di lavoro, e non fu più rivisto dai confratelli. Un documento ufficiale ne certifica il processo e la condanna a morte, eseguita per impiccagione l’8 giugno 1953.
            La fase diocesana della Causa di martirio iniziò a Budapest il 24 maggio 2006 e si concluse l’8 dicembre 2007. Il 27 marzo 2013 papa Francesco autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto di martirio e a celebrare il rito di beatificazione, che si svolse sabato 19 ottobre 2013 a Budapest.

2. Testimonianza originale di santità salesiana
            I rapidi cenni sulla biografia di Sándor ci hanno introdotto nel cuore della sua vicenda spirituale. Contemplando la fisionomia che ha assunto in lui la vocazione salesiana, segnata dall’azione dello Spirito e ora proposta dalla Chiesa, scopriamo alcuni tratti di quella santità: il senso profondo di Dio e la disponibilità piena e serena alla sua volontà, l’attrazione per Don Bosco e la cordiale appartenenza alla comunità salesiana, la presenza animatrice ed incoraggiante tra i giovani, lo spirito di famiglia, la vita spirituale e di preghiera coltivata personalmente e condivise con la comunità, la totale consacrazione alla missione salesiana vissuta nella dedizione agli apprendisti e ai giovani lavoratori, ai ragazzi dell’oratorio, all’animazione di gruppi giovanili. Si tratta di un’attiva presenza nel mondo educativo e sociale, tutta animata dalla carità di Cristo che lo spinge interiormente!

            Non mancarono gesti che hanno dell’eroico e dell’insolito, fino a quello supremo di donare la propria vita per la salvezza della gioventù ungherese. «Un giovanotto voleva saltare sul tram che passava davanti alla casa salesiana. Sbagliando mossa, cadde sotto il veicolo. La carrozza si fermò troppo tardi; una ruota lo ferì profondamente alla coscia. Una grande folla si radunò a guardare la scena senza intervenire, mentre il povero malcapitato stava per dissanguarsi. In quel momento si aprì il cancello del collegio e Pista (nome famigliare di Stefano) corse fuori con una barella pieghevole sotto il braccio. Buttò per terra la sua giacca, si infilò sotto il tram e tirò fuori il giovanotto con prudenza, stringendo la sua cintura attorno alla coscia sanguinante, e mise il ragazzo sulla barella. A questo punto arrivò l’ambulanza. La folla festeggiò Pista con entusiasmo. Egli arrossì, ma non poté nascondere la gioia di avere salvato la vita a qualcuno».
            Uno dei suoi ragazzi ricorda: «Un giorno mi ammalai gravemente di tifo. All’ospedale di Újpest mentre al capezzale i miei genitori si preoccupavano per la mia vita, Stefano Sándor si offrì di darmi il sangue, se fosse stato necessario. Questo atto di generosità commosse molto mia madre e tutte le persone intorno a me».
            Anche se sono trascorsi oltre sessant’anni dal suo martirio e profonda è stata l’evoluzione della Vita Consacrata, dell’esperienza salesiana, della vocazione e della formazione del salesiano coadiutore, la via salesiana alla santità tracciata da Stefano Sándor è un segno e un messaggio che apre prospettive per l’oggi. Si compie in questo modo l’affermazione delle Costituzioni salesiane: «I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione». La sua beatificazione indica concretamente quella «misura alta della vita cristiana ordinaria» indicata da Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte.

2.1. Sotto il vessillo di Don Bosco
            È sempre interessante cercare di individuare nel piano misterioso che il Signore tesse su ciascuno di noi il filo conduttore di tutta l’esistenza. Con una formula sintetica il segreto che ha ispirato e guidato tutti i passi della vita di Stefano Sándor, si può sintetizzare con queste parole: al seguito di Gesù, con Don Bosco e come Don Bosco, dovunque e sempre. Nella storia vocazionale di Stefano Don Bosco irrompe in modo originale e con i tratti tipici di una vocazione ben identificata, come scrisse il parroco francescano, presentando il giovane Stefano: «Qui a Szolnok, nella nostra parrocchia abbiamo un giovane molto bravo: Stefano Sándor di cui sono padre spirituale e che, finita la scuola tecnica, apprese il mestiere in una scuola metallurgica; fa la Comunione giornalmente e vorrebbe entrare in un ordine religioso. Da noi non avremmo nessuna difficoltà, ma lui vorrebbe entrare dai Salesiani come fratello laico».
            Il giudizio lusinghiero del parroco e direttore spirituale evidenzia: i tratti di lavoro e preghiera tipici della vita salesiana; un cammino spirituale perseverante e costante con una guida spirituale; l’apprendistato dell’arte tipografica che nel tempo si perfezionerà e si specializzerà.
            Era venuto a conoscere Don Bosco tramite il Bollettino Salesiano e le pubblicazioni salesiane di Rákospalota. Da questo contatto attraverso la stampa salesiana nacque forse la sua passione per la tipografia e per i libri. Nella lettera all’Ispettore dei Salesiani d’Ungheria, don János Antal, dove chiede di essere accettato tra i figli di Don Bosco, dichiarava: «Sento la vocazione di entrare nella Congregazione salesiana. Di lavoro ce n’è bisogno ovunque; senza lavoro non si può raggiungere la vita eterna. A me piace lavorare».
            Fin dall’inizio emerge la volontà forte e decisa di perseverare nella vocazione ricevuta, come poi di fatto avverrà. Quando il 28 maggio 1936 egli fece domanda di ammissione al noviziato salesiano, dichiarò di «aver conosciuto la Congregazione salesiana ed essere stato sempre più confermato nella sua vocazione religiosa, tanto da confidare di poter perseverare sotto il vessillo di Don Bosco». Con poche parole Sándor esprime una coscienza vocazionale di alto profilo: conoscenza esperienziale della vita e dello spirito della Congregazione; conferma di una scelta giusta e irreversibile; sicurezza per il futuro di essere fedele sul campo di battaglia che lo attende.
            Il verbale dell’ammissione al noviziato, in lingua italiana (2 giugno 1936), qualifica unanimemente l’esperienza dell’aspirantato: «Con ottimo risultato, diligente, di pietà buona e si offrì da sé all’oratorio festivo, fu pratico, di buon esempio, ricevette l’attestato di stampatore, ma non ha ancora la perfetta praticità». Sono già presenti quei tratti che, consolidati successivamente nel noviziato, ne definiranno la fisionomia di religioso salesiano laico: l’esemplarità della vita, la generosa disponibilità alla missione salesiana, la competenza nella professione di tipografo.
            L’8 settembre 1940 emette la sua professione religiosa come salesiano coadiutore. Di questo giorno di grazia riportiamo una lettera scritta da Pista, come veniva famigliarmente chiamato, ai suoi genitori: «Cari genitori, ho da riferire di un evento importante per me e che lascerà orme indelebili nel mio cuore. L’8 settembre per grazia del buon Dio e con la protezione della Santa Vergine mi sono impegnato con la professione ad amare e servire Dio. Nella festa della Vergine Madre ho fatto il mio sposalizio con Gesù e gli ho promesso col triplice voto di essere Suo, di non staccarmi mai più da Lui e di perseverare nella fedeltà a Lui fino alla morte. Prego pertanto tutti voi di non dimenticarmi nelle vostre preghiere e nelle Comunioni, facendo voti che io possa rimanere fedele alla mia promessa fatta a Dio. Potete immaginare che quello fu per me un giorno lieto, mai capitato nella mia vita. Penso che non avrei potuto dare alla Madonna un dono di compleanno più gradito del dono di me stesso. Immagino che il buon Gesù vi avrà guardato con occhi affettuosi, essendo stati voi a donarmi a Dio… Affettuosi saluti a tutti. PISTA».

2.2. Dedizione assoluta alla missione
            «La missione dà a tutta la nostra esistenza il suo tono concreto…», dicono le Costituzioni salesiane.12 Stefano Sándor visse la missione salesiana nel campo che gli era stato affidato, incarnando la carità pastorale educativa come salesiano coadiutore, con lo stile di Don Bosco. La sua fede lo portò a vedere Gesù nei giovani apprendisti e lavoratori, nei ragazzi dell’oratorio, in quelli della strada.
            Nell’industria tipografica la direzione competente dell’amministrazione è considerata un compito essenziale. Stefano Sándor era incaricato della direzione, dell’addestramento pratico e specifico degli apprendisti e della fissazione dei prezzi dei prodotti tipografici. La tipografia “Don Bosco” godeva in tutto il Paese di grande prestigio. Facevano parte delle edizioni salesiane il Bollettino Salesiano, Gioventù Missionaria, riviste per la gioventù, il Calendario Don Bosco, libri di devozione e l’edizione in traduzione ungherese degli scritti ufficiali della Direzione Generale dei Salesiani. È in quell’ambiente che Stefano Sándor prese ad amare i libri cattolici che venivano da lui non solo approntati per la stampa, ma anche studiati.
            Nel servizio della gioventù egli era pure responsabile dell’educazione collegiale dei giovani. Anche questo era un compito importante, oltre al loro addestramento tecnico. Era indispensabile disciplinare i giovani, in fase di sviluppo vigoroso, con fermezza affettuosa. In ogni momento del periodo di apprendistato egli li affiancava come un fratello maggiore. Stefano Sándor si distinse per una forte personalità: possedeva un’eccellente istruzione specifica, accompagnata dalla disciplina, dalla competenza e dallo spirito comunitario.
            Non si accontentava di un solo determinato lavoro, ma si rendeva disponibile ad ogni necessità. Si assunse il compito di sagrestano della piccola chiesa del Clarisseum e si prese cura nella direzione del “Piccolo Clero”. Prova della sua capacità di resistenza fu anche l’impegno spontaneo di lavoro volontario nel fiorente oratorio, frequentato regolarmente dai giovani dei due sobborghi di Újpest e Rákospalota. Gli piaceva giocare con i ragazzi; nelle partite di calcio faceva l’arbitro con grande competenza.

2.3. Religioso educatore
            Stefano Sándor fu educatore alla fede di ogni persona, confratello e ragazzo, soprattutto nei momenti di prova e nell’ora del martirio. Davvero Sándor aveva fatto della missione per i giovani il proprio spazio educativo, dove viveva quotidianamente i criteri del Sistema Preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza amorosa ai giovani lavoratori, nell’aiuto prestato a comprendere e accettare le situazioni di sofferenza, nella testimonianza viva della presenza del Signore e del suo amore indefettibile.
            A Rákospalota Stefano Sándor si dedicò con zelo all’addestramento dei giovani tipografi e all’educazione dei giovani dell’oratorio e dei “Paggi del Sacro Cuore”. Su questi fronti manifestò uno spiccato senso del dovere, vivendo con grande responsabilità la sua vocazione religiosa e caratterizzandosi per una maturità che suscitava ammirazione e stima. «Durante la sua attività tipografica, viveva coscienziosamente la sua vita religiosa, senza alcuna volontà di apparire. Praticava i voti di povertà, castità e obbedienza, senza alcuna forzatura. In questo campo, la sua sola presenza valeva una testimonianza, senza dire alcuna parola. Anche gli alunni riconoscevano la sua autorevolezza, grazie ai suoi modi fraterni. Metteva in pratica tutto ciò che diceva o chiedeva agli alunni, e a nessuno veniva in mente di contraddirlo in alcun modo».
            György Érseki conosceva i Salesiani fin dal 1945 e dopo la Seconda guerra mondiale andò ad abitare a Rákospalota, nel Clarisseum. La sua conoscenza con Stefano Sándor durò fino al 1947. Per questo periodo non solo ci offre uno spaccato della molteplice attività del giovane coadiutore, tipografo, catechista ed educatore della gioventù, ma anche una lettura profonda, dalla quale emerge la ricchezza spirituale e la capacità educativa di Stefano: «Stefano Sándor fu una persona molto dotata di natura. In qualità di pedagogo, posso sostenere e confermare la sua capacità di osservazione e la sua personalità poliedrica. Fu un bravo educatore e riusciva a gestire i giovani, uno per uno, in una maniera ottimale, scegliendo il tono adeguato con tutti. Vi è ancora un dettaglio appartenente alla sua personalità: considerava ogni suo lavoro un santo dovere, consacrando, senza sforzi e con grande naturalezza, tutta la sua energia alla realizzazione di questo scopo sacro. Grazie ad un intuito innato, riusciva a cogliere l’atmosfera e ad influenzarla positivamente. […] Aveva un carattere forte come educatore; si prendeva cura di tutti singolarmente. S’interessava dei nostri problemi personali, reagendo sempre nel modo più adatto a noi. In questo modo realizzava i tre principi di Don Bosco: la ragione, la religione e l’amorevolezza… I coadiutori salesiani non indossavano la veste all’infuori del contesto liturgico, ma l’aspetto di Stefano Sándor si distingueva dalla massa della gente. Per quanto riguarda la sua attività di educatore, non ricorreva mai alla punizione fisica, vietata secondo i principi di Don Bosco, diversamente da altri insegnanti salesiani più impulsivi, incapaci di padroneggiarsi e che a volte davano degli schiaffi. Gli alunni apprendisti affidati a lui formavano una piccola comunità all’interno del collegio, pur essendo diversi fra di loro dal punto di vista dell’età e della cultura. Essi mangiavano alla mensa insieme agli altri studenti, dove abitualmente durante i pasti si leggeva la Bibbia. Naturalmente vi era presente anche Stefano Sándor. Grazie alla sua presenza, il gruppo di apprendisti industriali riuscì sempre il più disciplinato… Stefano Sándor rimase sempre giovanile, dimostrando grande comprensione verso i giovani. Cogliendo i loro problemi, trasmetteva dei messaggi positivi e li sapeva consigliare sia sul piano personale, che su quello religioso. La sua personalità rivelava grande tenacia e resistenza nel lavoro; anche nelle situazioni più difficili, rimaneva fedele ai suoi ideali e a se stesso. Il collegio salesiano di Rákospalota ospitava una grande comunità, richiedendo un lavoro con i giovani a più livelli. Nel collegio, accanto alla tipografia, abitavano dei giovani salesiani in formazione, che erano in stretto rapporto con i coadiutori. Ricordo i seguenti nomi: József Krammer, Imre Strifler, Vilmos Klinger e László Merész. Questi giovani avevano compiti diversi da quelli di Stefano Sándor e ne differivano anche caratterialmente. Grazie però alla loro vita in comune, conoscevano i problemi, le virtù e i difetti gli uni degli altri. Stefano Sándor nel suo rapporto con questi chierici trovò sempre la misura adeguata. Stefano Sándor riuscì a trovare il tono fraterno per ammonirli, quando mostravano qualche loro manchevolezza, senza cadere nel paternalismo. Anzi, furono i giovani chierici a chiedere la sua opinione. A mio avviso, egli realizzò gli ideali di Don Bosco. Fin dal primo momento della nostra conoscenza, Stefano Sándor rappresentò lo spirito che caratterizzava i membri della Società Salesiana: senso del dovere, purezza, religiosità, praticità e fedeltà ai principi cristiani».

            Un ragazzo di quel tempo così ricorda lo spirito che animava Stefano Sándor: «Il mio primo ricordo di lui è legato alla sagrestia del Clarisseum, in cui egli, in qualità di sagrestano principale, esigeva l’ordine, imponendo la serietà dovuta alla situazione, rimanendo però sempre lui, con il suo comportamento, a darci il buon esempio. Era una delle sue caratteristiche quella di darci le direttive con un tono moderato, senza alzar la voce, chiedendoci piuttosto cortesemente di fare i nostri doveri. Questo suo comportamento spontaneo ed amichevole ci conquistò. Gli volevamo veramente bene. Ci incantò la naturalezza con la quale Stefano Sándor si occupava di noi. Ci insegnava, pregava e viveva con noi, testimoniando la spiritualità dei coadiutori salesiani di quel tempo. Noi, giovani, spesso non ci rendevamo conto di quanto fossero speciali queste persone, ma egli spiccava per la sua serietà, che manifestava in chiesa, nella tipografia e persino nel campo da gioco».

3. Riflesso di Dio con radicalità evangelica
            Ciò che dava spessore a tutto questo – la dedizione alla missione e la capacità professionale ed educativa – e che colpiva immediatamente coloro che lo incontravano era la figura interiore di Stefano Sándor, quella di discepolo del Signore, che viveva in ogni momento la sua consacrazione, nella costante unione con Dio e nella fraternità evangelica. Dalle testimonianze processuali emerge una figura completa, anche per quell’equilibrio salesiano per cui le diverse dimensioni si congiungono in una personalità armonica, unificata e serena, aperta al mistero di Dio vissuto nel quotidiano.
            Un tratto che colpisce di tale radicalità è il fatto che fin dal noviziato tutti i suoi compagni, anche quelli aspiranti al sacerdozio e molto più giovani di lui, lo stimassero e lo vedessero come modello da imitare. L’esemplarità della sua vita consacrata e la radicalità con cui visse e testimoniò i consigli evangelici lo distinsero sempre e ovunque per cui in molte occasioni, anche nel tempo della prigionia, diversi pensavano che fosse un sacerdote. Tale testimonianza dice molto della singolarità con cui Stefano Sándor visse sempre con chiara identità la sua vocazione di salesiano coadiutore, evidenziando proprio lo specifico della vita consacrata salesiana in quanto tale. Tra i compagni di noviziato Gyula Zsédely così parla di Stefano Sándor: «Entrammo insieme nel noviziato salesiano di Santo Stefano a Mezőnyárád. Il nostro maestro fu Béla Bali. Qui passai un anno e mezzo con Stefano Sándor e fui testimone oculare della sua vita, modello di giovane religioso. Benché Stefano Sándor avesse almeno nove-dieci anni più di me, conviveva con i suoi compagni di noviziato in modo esemplare; partecipava alle pratiche di pietà insieme a noi. Non sentivamo affatto la differenza d’età; ci stava a fianco con affetto fraterno. Ci edificava non solo attraverso il suo buon esempio, ma anche dandoci dei consigli pratici in merito all’educazione della gioventù. Si vedeva già allora come fosse predestinato a questa vocazione secondo i principi educativi di Don Bosco… Il suo talento di educatore balzò agli occhi anche di noi novizi, specialmente in occasione delle attività comunitarie. Con il suo fascino personale ci entusiasmava a tal punto, che davamo per scontato di poter affrontare con facilità anche i compiti più difficili. Il motore della sua profonda spiritualità salesiana furono la preghiera e l’Eucaristia, nonché la devozione alla Vergine Maria Ausiliatrice. Durante il noviziato, che durò un anno, vedevamo nella sua persona un buon amico. Divenne il nostro modello anche nell’obbedienza, poiché, essendo lui il più vecchio, fu messo alla prova con delle piccole umiliazioni, ma egli le sopportò con padronanza e senza dar segni di sofferenza o risentimento. In quel tempo, purtroppo, c’era qualcuno tra i nostri superiori che si divertiva ad umiliare i novizi, ma Stefano Sándor seppe resistere bene. La sua grandezza di spirito, radicata nella preghiera, era percepibile da tutti».
            Riguardo alla intensità con cui Stefano Sándor viveva la sua fede, con una continua unione con Dio, emerge una esemplarità di testimonianza evangelica, che possiamo ben definire un “riflesso di Dio”: «Mi pare che la sua attitudine interiore sia scaturita dalla devozione all’Eucaristia e alla Madonna, la quale aveva trasformato anche la vita di Don Bosco. Quando si occupava di noi, “Piccolo Clero”, non dava l’impressione di esercitare un mestiere; le sue azioni manifestavano la spiritualità di una persona capace di pregare con grande fervore. Per me e per i miei coetanei “il Signor Sándor” fu un ideale e neanche per sogno pensavamo che tutto ciò che abbiamo visto e udito fosse una messinscena superficiale. Ritengo che solo la sua intima vita di preghiera abbia potuto alimentare tale comportamento quando, ancora confratello giovanissimo, aveva compreso e preso sul serio il metodo di educazione di Don Bosco».
            La radicalità evangelica si espresse in diverse forme nel corso della vita religiosa di Stefano Sándor:
            – Nell’aspettare con pazienza il consenso dei genitori per entrare dai Salesiani.
            – In ogni passaggio della vita religiosa dovrà attendere: prima di essere ammesso al noviziato dovrà fare l’aspirantato; ammesso al noviziato dovrà interromperlo per fare il servizio militare; la domanda per la professione perpetua, prima accettata, verrà rinviata dopo un ulteriore periodo di voti temporanei.
            – Nelle dure esperienze del servizio militare e al fronte. Lo scontro con un ambiente che tendeva molte insidie alla sua dignità di uomo e di cristiano rafforzarono in questo giovane novizio la decisione di seguire il Signore, di essere fedele alla sua scelta di Dio, costi quel che costi. Davvero non c’è discernimento più duro ed esigente che quello di un noviziato provato e vagliato nella trincea della vita militare.
            – Negli anni della soppressione e poi del carcere, fino all’ora suprema del martirio.

            Tutto questo rivela quello sguardo di fede che accompagnerà sempre la storia di Stefano: la consapevolezza che Dio è presente e opera per il bene dei suoi figli.

Conclusione
            Stefano Sándor dalla nascita fino alla morte fu un uomo profondamente religioso, che in tutte le circostanze della vita rispose con dignità e coerenza alle esigenze della sua vocazione salesiana. Così visse nel periodo dell’aspirantato e della formazione iniziale, nel suo lavoro di tipografo, come animatore dell’oratorio e della liturgia, nel tempo della clandestinità e della carcerazione, fino ai momenti che precedettero la sua morte. Desideroso, fin dalla prima giovinezza, di consacrarsi al servizio di Dio e dei fratelli nel generoso compito dell’educazione dei giovani secondo lo spirito di Don Bosco, fu capace di coltivare uno spirito di fortezza e di fedeltà a Dio e ai fratelli che lo misero in grado, nel momento della prova, di resistere, prima alle situazioni di conflitto e poi alla prova suprema del dono della vita.
            Vorrei evidenziare la testimonianza di radicalità evangelica offerta da questo confratello. Dalla ricostruzione del profilo biografico di Stefano Sándor emerge un reale e profondo cammino di fede, iniziato fin dalla sua infanzia e giovinezza, irrobustito dalla professione religiosa salesiana e consolidato nell’esemplare vita di salesiano coadiutore. Si nota in particolare una genuina vocazione consacrata, animata secondo lo spirito di Don Bosco, da un intenso e fervoroso zelo per la salvezza delle anime, soprattutto giovanili. Anche i periodi più difficili, quali il servizio militare e l’esperienza della guerra, non scalfirono l’integro comportamento morale e religioso del giovane coadiutore. È su tale base che Stefano Sándor subirà il martirio senza ripensamenti o esitazioni.
            La beatificazione di Stefano Sándor impegna tutta la Congregazione nella promozione della vocazione del salesiano coadiutore, accogliendo la sua testimonianza esemplare e invocando in forma comunitaria la sua intercessione per questa intenzione. Come salesiano laico, riuscì a dare buon esempio persino ai preti, con la sua attività in mezzo ai giovani e con la sua esemplare vita religiosa. È un modello per i giovani consacrati, per il modo con il quale affrontò le prove e le persecuzioni senza accettare compromessi. Le cause a cui si dedicò, la santificazione del lavoro cristiano, l’amore per la casa di Dio e l’educazione della gioventù, sono tuttora missione fondamentale della Chiesa e della nostra Congregazione.
Come educatore esemplare dei giovani, in particolare degli apprendisti e dei giovani lavoratori, e come animatore dell’oratorio e dei gruppi giovanili, ci è di esempio e di stimolo nel nostro impegno di annunciare ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà.




San Francesco di Sales lo ammaestra. Futuro sulle vocazioni (1879)

Nel sogno profetico che Don Bosco racconta il 9 maggio 1879, San Francesco di Sales appare come premuroso maestro e consegna al Fondatore un libretto carico di avvertimenti per novizi, professi, direttori e superiori. La visione è dominata da due battaglie epiche: giovani e guerrieri prima, poi uomini armati e mostri, mentre lo stendardo di «Maria Auxilium Christianorum» garantisce la vittoria a chi lo segue. I sopravvissuti partono per Oriente, Nord e Mezzogiorno, prefigurando l’espansione missionaria salesiana. Le parole del Santo insistono su obbedienza, castità, carità educativa, amore al lavoro e temperanza, colonne indispensabili perché la Congregazione cresca, resista alle prove e lasci ai figli un’eredità di santità operosa. Si chiude con una bara, severo richiamo a vigilanza e preghiera.

            Checché sia di questo sogno [cura del mal d’occhi con sugo di cicoria], il Beato un altro ne ebbe dei soliti, che raccontò il 9 maggio. Assistette in esso alle lotte accanite che si sarebbero dovute affrontare dai chiamati alla Congregazione, ricevendo una serie di utili avvisi per tutti i suoi ed alcuni salutari consigli per l’avvenire.

            Grande e lunga battaglia di giovanetti contro guerrieri di vario aspetto, diverse forme, con armi strane. In fine rimasero pochissimi superstiti.
            Altra più accanita ed orribile battaglia avvenne tra mostri di forma gigantesca contro ad uomini di alta statura bene armati e bene esercitati. Essi avevano uno stendardo assai alto e largo, nel centro del quale stavano dipinte in oro queste parole: Maria Auxilium Christianorum (Maria Aiuto dei Cristiani). La pugna fu lunga e sanguinosa. Ma quelli che seguivano lo stendardo, furono come invulnerabili e rimasero padroni di una vastissima pianura. A costoro si congiunsero i giovanetti superstiti alla antecedente battaglia e tra tutti formarono una specie d’esercito aventi ognuno per arma nella destra il Santissimo Crocifisso, nella sinistra un piccolo stendardo di Maria Ausiliatrice modellato come si è detto sopra.
            I novelli soldati fecero molte manovre in quella vasta pianura, poi si divisero e partirono gli uni all’Oriente, alcuni pochi al Nord, molti al Mezzodì.
            Scomparsi questi, si rinnovarono le stesse battaglie, le stesse manovre e partenze per le stesse direzioni.
            Ho conosciuto alcuni delle prime zuffe: quelli che seguirono erano a me sconosciuti: ma essi davano a divedere che conoscevano me e mi facevano molte domande.
            Succedette poco dopo una pioggia di fiammelle splendenti che sembravano di fuoco di vario colore. Tuonò e poi si rasserenò il cielo e mi trovai in un giardino amenissimo. Un uomo che aveva la fisionomia di S. Francesco di Sales, mi offrì un libretto senza dirmi parola. Chiesi chi fosse.
            – Leggi nel libro – rispose.
            Aprii il libro, ma stentava a leggere. Potei però rilevare queste precise parole:
Ai Novizi: – Ubbidienza in ogni cosa. Coll’ubbidienza meriteranno le benedizioni del Signore e la benevolenza degli uomini. Colla diligenza combatteranno e vinceranno le insidie degli spirituali nemici.
Ai professi: – Custodire gelosamente la virtù della castità. Amare il buon nome dei confratelli e promuovere il decoro della Congregazione.
Ai Direttori: – Ogni cura, ogni fatica per osservare e far osservare le regole con cui ognuno si è consacrato a Dio.
Al Superiore: – Olocausto assoluto per guadagnare sé e i suoi soggetti a Dio.
            Molte altre cose erano stampate in quel libro, ma non potei più leggere, perché la carta apparve azzurra come l’inchiostro.
            – Chi siete voi? – ho di nuovo domandato a quell’uomo, che con sereno sguardo mi stava rimirando.
            – Il mio nome è noto a tutti i buoni e sono mandato per comunicarti alcune cose future.
            – Quali?
            – Quelle esposte e quelle che chiederai.
            – Che debbo fare per promuovere le vocazioni?
            – I Salesiani avranno molte vocazioni colla loro esemplare condotta, trattando con somma carità gli allievi, ed insistendo sulla frequente Comunione.
            – Che si deve osservare nell’accettazione dei novizi?
            – Escludere i pigri ed i golosi.
            – Nell’accettare ai voti?
            – Vegliare se vi sia garanzia sulla castità.
            – Come si potrà meglio conservare il buono spirito nelle nostre case?
            – Scrivere, visitare, ricevere e trattare con benevolenza; e ciò con molta frequenza da parte dei Superiori.
            – Come dobbiamo regolarci nelle Missioni?
            – Mandare individui sicuri nella moralità; richiamare coloro che ne lasciassero travedere grave dubbio; studiare e coltivare le vocazioni indigene.
            – Cammina bene la nostra Congregazione?
– Qui iustus est justificetur adhuc (Chi è giusto sarà ancora giustificato). Non progredi est regredi (Non andare avanti significa tornare indietro). Qui perseveraverit, salvus erit (Chi persevera sarà salvato).
            – Si dilaterà molto?
            – Finché i Superiori faranno la parte loro, crescerà e niuno potrà arrestarne la propagazione.
            – Durerà molto tempo?
            – La Congregazione vostra durerà fino a che i soci ameranno il lavoro e la temperanza. Mancando una di queste due colonne, il vostro edifizio ruina schiacciando Superiori ed inferiori e i loro seguaci.
            In quel momento apparvero quattro individui portanti una bara mortuaria. Camminavano verso di me.
            – Per chi è questo? – io dissi.
            – Per te!
            – Presto?
            – Non domandarlo: pensa solo che sei mortale.
            – Che cosa mi volete significare con questa bara?
            – Che devi far praticare in vita quello che desideri che i tuoi figli debbano praticare dopo di te. Questa è l’eredità, il testamento che devi lasciare ai tuoi figli; ma devi prepararlo e lasciarlo ben compiuto e ben praticato.
            – Ci sovrastano fiori o spine?
            – Sovrastano molte rose, molte consolazioni, ma sono imminenti spine pungentissime che cagioneranno in tutti profondissima amarezza e cordoglio. Bisogna pregare molto.
            – A Roma dobbiamo andare?
            – Si, ma adagio, con la massima prudenza e con raffinate cautele.
            – Sarà imminente il fine della mia vita mortale?
            – Non ti curare di questo. Hai le regole, hai i libri, fa’ quello che insegni agli altri. Vigila.

            Volevo fare altre domande, ma scoppiò cupo il tuono con lampi e fulmini, mentre alcuni uomini, o dirò meglio orridi mostri, si avventarono contro di me per sbranarmi. In quell’istante una tetra oscurità mi tolse la vista di tutto. Mi credevo morto e mi son posto a gridare come frenetico. Mi svegliai e mi trovai ancor vivo, ed erano le quattro e tre quarti del mattino.
            Se c’è qualche cosa che possa essere vantaggioso, accettiamolo.
            In ogni cosa poi sia onore e gloria a Dio per tutti i secoli dei secoli.
(MB XIV, 123-125)

Foto nel frontespizio. San Francesco di Sales. Anonimo. Sacrestia del Duomo di Chieri




Le profezie di Malachia. I papi e la fine del mondo

Le cosiddette “Profezie di Malachia” rappresentano uno dei testi profetici più affascinanti e controversi legati al destino della Chiesa cattolica e del mondo. Attribuite a Malachia di Armagh, arcivescovo irlandese vissuto nel XII secolo, queste previsioni descrivono brevemente, attraverso enigmatici motti latini, i pontefici da Celestino II fino all’ultimo papa, il misterioso “Pietro Secondo”. Nonostante siano considerate dagli studiosi moderne falsificazioni risalenti al tardo Cinquecento, le profezie continuano a suscitare dibattiti, interpretazioni apocalittiche e speculazioni su possibili scenari escatologici. Al di là della loro autenticità, esse rappresentano comunque un forte richiamo alla vigilanza spirituale e all’attesa consapevole del giudizio finale.

Malachia di Armagh. Biografia di un “Bonifacio d’Irlanda”
Malachia (in irlandese Máel Máedóc Ua Morgair, in latino Malachias) nacque intorno al 1094 nei pressi di Armagh, da una famiglia nobile. Ricevette la sua formazione intellettuale dal dotto Imhar O’Hagan e, nonostante la sua iniziale riluttanza, fu ordinato sacerdote nel 1119 dall’arcivescovo Cellach. Dopo un periodo di perfezionamento liturgico presso il monastero di Lismore, Malachia intraprese un’intensa attività pastorale che lo portò a ricoprire incarichi di crescente responsabilità. Nel 1123 come Abate di Bangor, avviò il ripristino della disciplina sacramentale; nel 1124: nominato Vescovo di Down e Connor, proseguì la riforma liturgica e pastorale e nel 1132: divenuto Arcivescovo di Armagh, dopo difficili contese con gli usurpatori locali, liberò la sede primaziale d’Irlanda e promosse la struttura diocesana sancita dal sinodo di Ráth Breasail.

Durante il suo ministero, Malachia introdusse significative riforme adottando la liturgia romana, sostituendo le eredità monastiche claniche con la struttura diocesana prescritta dal sinodo di Ráth Breasail (1111) e promosse la confessione individuale, il matrimonio sacramentale e la cresima.
Per questi interventi riformatori, san Bernardo di Chiaravalle lo paragonò a san Bonifacio, l’apostolo della Germania.

Malachia compì due viaggi a Roma (1139 e 1148) per ricevere il pallio metropolitano per le nuove province ecclesiastiche d’Irlanda, e in tale occasione fu nominato legato pontificio. Al ritorno dal primo viaggio, con l’aiuto di san Bernardo di Chiaravalle, fondò l’abbazia cistercense di Mellifont (1142), la prima di numerose fondazioni cistercensi in terra irlandese. Morì durante un secondo viaggio verso Roma, il 2 novembre 1148 a Clairvaux, tra le braccia di san Bernardo, che ne scrisse la biografia intitolata “Vita Sancti Malachiae”.

Nel 1190, papa Clemente III lo canonizzò ufficialmente, rendendolo il primo santo irlandese proclamato secondo la procedura formale della Curia romana.

La “Profezia dei Papi”: un testo che compare quattro secoli dopo
Alla figura di questo arcivescovo riformatore venne associata, solo nel XVI secolo, una raccolta di 112 motti che descriverebbero altrettanti pontefici: da Celestino II fino all’enigmatico “Pietro Secondo”, destinato ad assistere alla distruzione della “città dei sette colli”.
La prima pubblicazione di queste profezie risale al 1595, quando il monaco benedettino Arnold Wion le inserì nella sua opera Lignum Vitae, presentandole come un manoscritto redatto da Malachia durante la sua visita a Roma nel 1139.
Le profezie consistono in brevi frasi simboliche che dovrebbero caratterizzare ciascun papa attraverso riferimenti al nome, al luogo di nascita, allo stemma araldico o a eventi significativi del pontificato. Di seguito sono riportati i motti attribuiti agli ultimi pontefici:

109De medietate Lunae (“Dalla metà della luna”)
Attribuito a Giovanni Paolo I, che regnò per un solo mese. Fu eletto il 26.08.1978, quando la luna era nell’ultimo quarto (25.08.1978), e morì il 28.09.1978, quando la luna era nel primo quarto (24.09.1978).

110De labore solis (“Dalla fatica del sole”)
Attribuito a Giovanni Paolo II, che guidò la Chiesa per 26 anni, il terzo pontificato più lungo della storia dopo san Pietro (34-37 anni) e il beato Pio IX (più di 31 anni). Fu eletto il 16.10.1978, poco dopo un’eclissi solare parziale (02.10.1978), e morì il 02.04.2005, pochi giorni prima di un’eclissi solare anulare (08.04.2005).

111Gloria olivae (“Gloria dell’oliva”)
Attribuito a Benedetto XVI (2005-2013). Il cardinale Ratzinger, impegnato nel dialogo ecumenico e interreligioso, scelse il nome di Benedetto XVI in continuità con Benedetto XV, papa che si adoperò per la pace durante la Prima Guerra Mondiale, come egli stesso spiegò nella sua prima Udienza Generale del 27 aprile 2005 (la pace è simboleggiata dal ramo d’ulivo portato dalla colomba a Noè al termine del Diluvio). Questo collegamento simbolico venne ulteriormente rafforzato dalla canonizzazione, nel 2009, di Bernardo Tolomei (1272-1348), fondatore della congregazione benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto (Monaci Olivetani).

112[a]In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit…
Questa non è propriamente un motto, ma una frase introduttiva. Nell’edizione originale del 1595 appare come riga a sé stante, suggerendo la possibilità di inserire ulteriori papi tra Benedetto XVI e il profetizzato “Pietro Secondo”. Ciò contraddirebbe l’interpretazione che identifica necessariamente Papa Francesco come l’ultimo pontefice.

112[b]Petrus Secundus
Riferito all’ultimo papa (la Chiesa ebbe come primo pontefice san Pietro e avrà come ultimo un altro Pietro) che guiderà i fedeli in tempi di tribolazione.
Il paragrafo intero della profezia recita:
“In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Secundus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, Civitas septicollis diruetur, et Iudex tremendus judicabit populum suum. Amen.”
“Durante l’estrema persecuzione della Santa Chiesa Romana siederà Pietro Secondo, che pascerà le pecore tra molte tribolazioni; quando queste saranno terminate, la città dei sette colli [Roma] sarà distrutta, ed il terribile Giudice giudicherà il suo popolo. Amen.”
“Pietro Secondo” sarebbe dunque l’ultimo pontefice prima della fine dei tempi, con un chiaro riferimento apocalittico alla distruzione di Roma e al giudizio finale.

Speculazioni contemporanee
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le interpretazioni speculative: chi identifica papa Francesco come il 112° e ultimo pontefice, chi ipotizza che lui è stato un papa di transizione verso il vero l’ultimo papa, chi addirittura calcola il 2027 come possibile data della fine dei tempi.
Quest’ultima ipotesi si basa su un curioso calcolo: dalla prima elezione papale menzionata nella profezia (Celestino II nel 1143) fino alla prima pubblicazione del testo (durante il pontificato di Sisto V, 1585-1590) trascorsero circa 442 anni; seguendo la stessa logica, aggiungendo altri 442 anni dalla pubblicazione si arriverebbe al 2027. Queste speculazioni, tuttavia, mancano di fondamento scientifico, poiché il manoscritto originale non contiene riferimenti cronologici espliciti.

L’autenticità contestata
Sin dalla comparsa del testo, numerosi storici hanno espresso dubbi sulla sua autenticità per diverse ragioni:
assenza di manoscritti antichi: non esistono copie databili a prima del 1595;
stile linguistico: il latino utilizzato è tipico del XVI secolo, non del XII;
precisione retrospettiva: i motti riferiti ai papi precedenti al conclave del 1590 sono sorprendentemente accurati, mentre quelli successivi risultano molto più vaghi e facilmente adattabili a eventi posteriori;
finalità politiche: in un’epoca di forti tensioni tra fazioni curiali, un simile elenco profetico avrebbe potuto influenzare l’elettorato cardinalizio nel Conclave del 1590.

La posizione della Chiesa
La dottrina cattolica insegna, come riportato nel Catechismo, che il destino della Chiesa non può essere diverso da quello del suo Capo, Gesù Cristo. Nei paragrafi 675-677 si descrive “L’ultima prova della Chiesa”:

Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il «mistero di iniquità» sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica sé stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.
Questa impostura anti-cristica si delinea già nel mondo ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato «intrinsecamente perverso».
La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest’ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa.

Allo stesso tempo, la dottrina cattolica ufficiale invita alla prudenza, fondandosi sulle parole stesse di Gesù:
«Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti» (Mt 24,11).
«Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti» (Mt 24:24).

La Chiesa sottolinea, seguendo il Vangelo di Matteo (Mt 24,36), che il momento della fine del mondo non è conoscibile dagli uomini, ma soltanto da Dio stesso. E il Magistero ufficiale – Il Catechismo (n. 673-679) ribadisce che nessuno può “leggere” l’ora del ritorno di Cristo.

Le profezie attribuite a San Malachia non hanno mai ricevuto un’approvazione ufficiale dalla Chiesa. Tuttavia, al di là della loro autenticità storica, esse ci ricordano una verità fondamentale della fede cristiana: la fine dei tempi accadrà, come insegnato da Gesù.

Da duemila anni gli uomini riflettono su questo evento escatologico, spesso dimenticando che la “fine dei tempi” per ciascuno coincide con il proprio termine dell’esistenza terrena. Che importa se il nostro fine vita coinciderà con la fine dei tempi? Per molti non sarà così. Ciò che davvero conta è vivere autenticamente la vita cristiana nel quotidiano, seguendo gli insegnamenti di Cristo ed essendo sempre pronti a rendere conto al Creatore e Redentore dei talenti ricevuti. Resta sempre attuale l’ammonimento di Gesù: «Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24,42).
In quest’ottica, il mistero del “Pietro Secondo” non rappresenta tanto una minaccia di rovina, quanto piuttosto un invito alla costante conversione e alla fiducia nel disegno divino di salvezza.




Gli esegeti

Un famoso biblista aveva invitato un gruppo di colleghi a casa sua. Si sedettero intorno ad un tavolo che aveva al centro un magnifico vaso di fiori e incominciarono ad accanirsi su una pagina della Bibbia. Discutevano animatamente, scomponevano ogni parola, ipotizzavano radici antiche, congetturavano, postulavano, paragonavano, distillavano, storicizzavano, demitizzavano, psicologizzavano, femminilizzavano…
Non riuscivano ad accordarsi pressoché su nulla.
Improvvisamente il padrone di casa interruppe la discussione e si rivolse a uno degli ospiti che prendeva i fiori dal vaso posto al centro del tavolo e li distruggeva sistematicamente.
«Che cosa fa?».
«Conto i verticilli, divido gli stami e i pistilli, metto da parte peduncoli e filamenti…».
«Questo zelo scientifico le fa onore, ma in questo modo rovina tutta la bellezza di questi stupendi fiori!».
L’uomo sorrise amaramente: «È proprio quello che state facendo voi».

Il rabbino Elimelekh aveva tenuto un sermone meraviglioso sull’arte di vivere. Pieni di entusiasmo gli ascoltatori lo accompagnavano festosi mentre in carrozza prendeva la via del ritorno verso il suo villaggio.
Ad un certo punto, il rabbino fece fermare la carrozza e chiese al conducente di andare avanti senza di lui, mentre si mescolava alla gente.
«Che esempio di umiltà!» disse uno dei suoi discepoli.
«L’umiltà non c’entra» rispose Elimelekh. «Qui la gente passeggia felice, canta, beve vino, chiacchiera, fa nuove amicizie e tutto grazie ad un vecchio rabbi che è venuto a parlare sull’arte di vivere. Perciò preferisco lasciare le mie teorie sulla carrozza e godermi la festa».