Quando il Signore bussa

Un confratello mi ha detto: «Padre, abbiamo solo bisogno della tua vicinanza, del tuo ascolto, della tua preghiera. Questo ci consola, ci incoraggia e ci dà forza e speranza perché continuiamo a servire i giovani, poveri e feriti, impauriti e terrorizzati!»

Il 25 marzo 2025 la Chiesa celebra la solennità dell’annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria. Una delle solennità più significative per la fede cristiana. In questa solennità noi facciamo memoria dell’iniziativa di Dio che entra a far parte di quella storia umana che lui stesso ha creato. In quel giorno nella Santa Eucaristia noi recitiamo il credo e quando professiamo che il Figlio di Dio si è fatto uomo noi credenti ci inginocchiamo come segno di stupore per questa iniziativa meravigliosa di Dio davanti alla quale non ci resta che metterci in ginocchio.
Nella esperienza dell’annunciazione Maria ha paura: “Non temere Maria” le dice l’Angelo. Dopo che ha espresso le sue domande, essendo assicurata che si tratta del progetto di Dio per lei, Maria risponde con una semplice frase che rimane per noi oggi un richiamo è un invito. Maria, la Benedetta tra le donne, dice semplicemente: “Sia fatto di me secondo la tua parola”.
Il 25 marzo passato il Signore ha bussato sulla porta del mio cuore attraverso la chiamata che i miei fratelli al Capitolo Generale 29° mi hanno rivolto. Mi hanno chiesto di mettermi disponibile per assumere la missione di essere Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco, la Congregazione di San Francesco di Sales. Confesso che lì per lì sentivo il peso dell’invito, momenti che disorientano perché quello che il Signore stava chiedendomi non era una cosa leggera. Il punto è che quando arriva la chiamata, noi come credenti entriamo in quello spazio sacro dove sentiamo forte il fatto che è Lui che prende l’iniziativa. La strada davanti a noi è solo quella di semplicemente abbandonarsi nelle mani di Dio, senza se e senza ma. E tutto questo naturalmente non è facile.

«Vedrai come il Signore lavora»
In queste prime settimane mi sto ancora chiedendo come Maria che senso ha tutto questo? Poi pian piano comincio ad arrivare quella consolazione che una volta mi diceva un mio Ispettore: “quando il Signore chiama è Lui che prende l’iniziativa, da Lui dipende quello che si fa. Tu solo tieniti pronto e disponibile. Vedrai come il Signore lavora.”
Alla luce di questa esperienza personale ma di portata assai ampia, perché si tratta della Congregazione Salesiana e della Famiglia Salesiana, mi sono immediatamente rivolto ai miei cari fratelli Salesiani. Fin dal primo momento ho chiesto loro che mi accompagnino con la loro preghiera, la loro vicinanza il loro sostegno.
Devo confessare che queste prime settimane già sento che questa missione deve ispirarsi a Maria. Lei dopo l’annunzio dell’Angelo si mise in cammino a aiutare sua cugina Elisabetta. E così mi sono messo a servire i miei fratelli, ascoltarli, condividendo e rassicurando loro il sostegno di tutta la Congregazione, specialmente per coloro che vivono in situazioni di guerre, conflitti e povertà estreme.
Mi ha colpito il commento di un ispettore che con i suoi confratelli sta vivendo una situazione estremamente difficile. Dopo un colloquio molto fraterno mi disse: “Padre, abbiamo solo bisogno della tua vicinanza, del tuo ascolto, della tua preghiera. Questo ci consola, ci incoraggia e ci dà forza e speranza perché continuiamo a servire i giovani, poveri e feriti, impauriti e terrorizzati!” Dopo questo commento siamo rimasti in silenzio, lui e io, con qualche lacrima che scendeva dai suoi occhi e devo dire anche dai miei.
Finito l’incontro sono rimasto solo nel mio ufficio. Mi sono chiesto se questa missione che il Signore mi chiede di accettare non è forse quella di rendermi fratello accanto ai miei fratelli che soffrono ma sperano? Che combattono a fare il bene per i poveri e non hanno nessuna intenzione di smettere? Sentivo dentro di me una voce che mi diceva che vale la pena dire ‘sì’ quando il Signore bussa, costi quel che costi!




Salesiani in Ukraina (video)

La Visitatoria salesiana di Maria Ausiliatrice di rito bizantino (UKR) ha rimodellato la propria missione educativo‑pastorale dall’inizio dell’invasione russa del 2022. Tra sirene antiaeree, rifugi improvvisati e scuole nei sotterranei, i salesiani si sono fatti prossimità concreta: ospitano sfollati, distribuiscono aiuti, accompagnano spiritualmente militari e civili, trasformano una casa in centro di accoglienza e animano il campus modulare “Mariapolis”, dove ogni giorno servono mille pasti e organizzano oratorio e sport, persino la prima squadra ucraina di Calcio Amputati. La testimonianza personale di un confratello rivela ferite, speranze e preghiere di chi ha perso tutto, ma continua a credere che, dopo questa lunga Via Crucis nazionale, per l’Ucraina sorgerà la Pasqua della pace.

La pastorale della Visitatoria di Maria Ausiliatrice di rito bizantino (UKR) durante la guerra
La nostra pastorale ha dovuto modificarsi quando iniziata la guerra. Le nostre attività educativo-pastorali hanno dovuto adattarsi a una realtà completamente diversa, segnata spesso da un suono incessante delle sirene che annunciano il pericolo di attacchi missilistici e bombardamenti. Ogni volta che scatta l’allarme, siamo costretti a interrompere le attività e a scendere con i ragazzi nei rifugi sotterranei o nei bunker. In alcune scuole, le lezioni si svolgono direttamente nei sotterranei, per garantire maggiore sicurezza agli allievi.

Sin dall’inizio ci siamo messi senza indugio ad aiutare e soccorrere la popolazione sofferente. Abbiamo aperto le nostre case per accogliere gli sfollati, abbiamo organizzato la raccolta e distribuzione degli aiuti umanitari: prepariamo con i nostri ragazzi e i giovani migliaia di pacchi con i viveri e vestiario e con tutto l’occorrente per mandare alla gente bisognosa nei territori vicini ai combattimenti o nelle zone dei combattimenti. Inoltre, alcuni nostri confratelli salesiani operano come cappellani nelle zone dei combattimenti. Dove danno un sostegno spirituale ai giovani militari, ma anche portando aiuto umanitario alle persone che sono rimaste nei paesi sotto continui bombardamenti, aiutando ad alcuni di loro a trasferirsi in un luogo più sicuro. Un confratello diacono che è stato nelle trincee si ha logorato la salute e ha perso la caviglia. Quando alcuni anni fa leggevo nel Bollettino salesiano in lingua italiana un articolo dove parlava dei salesiani in trincea, nella prima o seconda guerra mondiale non pensavo che questo si sarebbe avverato in quest’epoca moderna nel mio paese.  Mi hanno colpito una volta, le parole di un giovanissimo soldato ucraino, che citando uno storico e eminente ufficiale difensore e combattente per l’indipendenza del nostro popolo diceva: “Noi lottiamo difendendo la nostra indipendenza non perché odiamo chi ci sta davanti, ma perché amiamo chi ci sta dietro di noi.”

In questo periodo abbiamo trasformato anche una nostra Casa Salesiana in un centro di accoglienza per gli sfollati.

Per sostenere la riabilitazione fisica, mentale, psicologica e sociale dei giovani che hanno perso gli arti in guerra, abbiamo creato una squadra di Calcio Amputati, la prima squadra di questo tipo in Ucraina.
Sin dall’inizio dell’invasione nel 2022, abbiamo messo a disposizione del municipio di Leopoli un nostro terreno, destinato alla costruzione di una scuola salesiana, per realizzare un campus modulare per sfollati interni: “Mariapolis” dove noi salesiani operiamo in collaborazione con il Centro del Dipartimento Sociale del Municipio. Diamo un sostegno assistenziale e un accompagnamento spirituale rendendo l’ambiente più accogliente. Sostenuti dall’aiuto della nostra Congregazione, delle varie organizzazioni tra cui VIS e Missioni Don Bosco, le varie procure e altre fondazioni di beneficienza, agenzie anche statali di altri paesi, abbiamo potuto organizzare la cucina del campus con il rispettivo personale che ci permette a offrire il pranzo ogni giorno per circa 1000 persone. Inoltre, grazie al loro aiuto possiamo organizzare varie attività nello stile salesiano per 240 ragazzi e giovani che sono presenti nel campus.

Una piccola esperienza e una povera testimonianza personale
Vorrei condividere qui la mia piccola esperienza e testimonianza…Io davvero ringrazio il Signore che, tramite il mio Ispettore, mi ha chiamato a questo servizio particolare. Da tre anni lavoro nel campus che ospita circa 1.000 sfollati interni. Fin dall’inizio, sto accanto a persone che hanno perso in un momento tutto, tranne la dignità. Le loro case sono distrutte e saccheggiate, i risparmi e i beni accumulati con fatica lungo gli anni della vita sono svaniti. Molti hanno perso molto di più e di più prezioso: i loro cari, uccisi davanti ai loro occhi da missili o mine. Alcuni delle persone che sono nel campus hanno dovuto vivere per mesi nei sotterranei di palazzi crollati, nutrendosi di quel poco che trovano, anche se scaduto. Bevevano l’acqua dei termosifoni e bollivano le bucce di patate per sfamarsi. Poi, alla prima possibilità sono scappati o evacuati senza sapere dove andare, senza certezze su cosa li aspettava. Inoltre, alcuni hanno visto i loro paesi, come Mariupol, rasi al suolo. Infatti, in onore di questa bellissima città di Maria noi salesiani abbiamo chiamato il campus per gli sfollati con il nome “Mariapolis” affidando questo luogo e gli abitanti del campus alla Vergine Maria. E Lei come la mamma sta accanto ad ogni uno in questi momenti di prova. Nel campus, ho allestito una cappella dedicata a Lei, dove c’è un’icona disegnata da una signora del campus proveniente dalla martoriata città di Kharkiv. La cappella è diventata per tutti residenti indipendentemente a che confessione di fede cristiana loro appartengono, luogo di incontro con Dio e con sé stessi.

Stare con loro, voler loro bene, accoglierli, ascoltarli, consolarli, incoraggiarli, pregare per loro e con loro e sostenerli in quello che posso, sono i momenti che fanno parte del mio servizio che ormai è diventata la mia vita in questo periodo. È una vera scuola di vita, di spiritualità, dove imparo moltissimo stando accanto alla loro sofferenza. Quasi tutti loro sperano che la guerra finisca presto e arrivi la pace, per poter tornare a casa. Ma per molti, quel sogno è ormai irrealizzabile: le loro case non esistono più. Cosi come posso cerco di offrire loro qualche appiglio di speranza, aiutandoli a incontrare Colui che non abbandona nessuno, che è vicino nelle sofferenze e nelle difficoltà della vita.

A volte mi chiedono di prepararli alla Riconciliazione: con Dio, con sé stessi, con la dura realtà che sono costretti a vivere. Altre volte, li aiuto nei bisogni più concreti: medicine, vestiti, pannoloni, visite in ospedale. Faccio anche il lavoro di amministratore insieme ai mie tre colleghi laici.  Ogni giorno, alle 17:00, preghiamo per la pace, e un piccolo gruppo ha imparato a recitare il Rosario, pregandolo quotidianamente.

Come salesiano cerco di essere attento ai bisogni dei ragazzi: sin dall’inizio io con aiuto degli animatori abbiamo creato oratorio all’interno del campus. Inoltre attività, gite, campeggi in montagna durante l’estate. Inoltre, uno degli impegni che porto avanti è seguire la mensa, per assicurare che nessuno delle persone residenti al campus rimanga senza un pasto caldo.

Tra gli abitanti del campus c’è il piccolo Maksym, che si sveglia nel cuore della notte, terrorizzato da ogni rumore forte. Maria, una madre che ha perso tutto anche il marito e ogni giorno sorride ai figli per non far pesare loro il dolore. Poi c’è Petro, 25 anni, che con la sua ragazza era in casa quando un drone russo ha lanciato una bomba. L’esplosione gli ha amputato le due gambe, mentre la sua ragazza è morta poco dopo. Petro è rimasto tutta la notte in fin di vita, finché i soldati lo hanno trovato al mattino e lo hanno portato in salvo. L’ambulanza non poteva avvicinarsi a causa dei combattimenti.
In mezzo a tanta sofferenza, continuo il mio apostolato con l’aiuto del Signore e il sostegno dei miei confratelli.

Noi salesiani di rito bizantino, insieme ai nostri 13 confratelli di rito latino presenti in Ucraina – in gran parte di origine polacca e appartenenti all’Ispettoria salesiana di Cracovia (PLS) – condividiamo profondamente il dolore e le sofferenze del popolo ucraino. Come figli di Don Bosco, continuiamo con fede e speranza la nostra missione educativo-pastorale, adattandoci ogni giorno alle difficili condizioni imposte dalla guerra.

Siamo accanto ai giovani, alle famiglie, e a tutti coloro che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Desideriamo essere segni visibili dell’amore di Dio, affinché la vita, la speranza e la gioia dei giovani non siano mai soffocate dalla violenza e dal dolore.

In questa testimonianza comune, riaffermiamo la vitalità del nostro carisma salesiano, che sa rispondere anche alle sfide più drammatiche della storia. Le nostre due peculiarità, quella di rito bizantino e quella di rito latino, rendono visibile quell’unità inscindibile del Carisma Salesiano quanto affermano le Costituzioni Salesiane all’art. 100: “Il carisma del Fondatore è principio di unità della Congregazione e, per la sua fecondità, è all’origine dei modi diversi di vivere l’unica vocazione salesiana.

Crediamo che il dolore, la sofferenza non hanno l’ultima parola: e che nella fede, ogni Croce contiene già il seme della Risurrezione. Dopo questa lunga Settimana Santa, giungerà inevitabilmente la Risurrezione per Ucraina: verrà la vera e giusta PACE.

Alcune informazioni
Alcuni confratelli capitolari chiedevano delle informazioni sulla guerra in Ucraina. Permettetemi di dire qualche cosa in modo di un Flash. Una precisazione cha guerra in Ucraina non può essere interpretata come un conflitto etnico o una disputa territoriale tra due popoli con rivendicazioni contrapposte o diritti su un determinato territorio. Non si tratta di una lite tra due parti in lotta per un pezzo di terra. E dunque non è una battaglia tra pari. Quella in Ucraina è un’invasione, un’aggressione unilaterale. Qui si tratta di un popolo che ha aggradito impropriamente un all’altro. Una nazione, che fabbricò delle motivazioni infondate, inventandosi un presunto diritto, violando l’ordine e le leggi internazionali, decise di attaccare un altro Stato, violandone la sovranità e l’integrità territoriale, il diritto di decidere la propria sorte e direzione del proprio sviluppo, occupandone e annettendone dei territori. Distruggendo città e paesi, molti dei quali rasi al suolo, togliendo la vita a migliaia di civili. Qui c’è un aggressore e un aggredito: è proprio questa la peculiarità e l’orrore di questa guerra.
Ed è partendo da questo presupposto che dovrebbe essere concepita anche la pace che attendiamo. Una pace che ha il sapore della giustizia e essere basata sulla verità, non temporanea, non opportunistica, non una pace fondata sulle convenienze nascoste e commerciali, evitando di creare precedenti per regimi autocratici nel mondo che potrebbero un giorno decidere ad invadere altri Paesi, occupare o annettere una parte di un paese vicino o lontano, semplicemente perché lo desiderano o perché li piace così, o perché sono più potenti.
Un’altra assurdità di questa guerra non provocata e non dichiarata che l’aggressore vieta alla vittima il diritto di difendersi, cerca intimidire e minacciare tutti quelli in questo caso altri paesi che si schierano dalla parte di chi è indifeso e si mettono ad aiutare a difendersi e a resistere la vittima aggredita ingiustamente.

Alcune tristi statistiche
Dall’inizio dell’invasione del 2022 fino ad oggi (08.04.2025), l’ONU ha registrato e confermato i dati relativi a 12.654 morti e 29.392 feriti tra I CIVILI in Ucraina.

Secondo le ultime notizie disponibili verificate dell’UNICEF almeno 2.406 BAMBINI sono stati uccisi o feriti dall’escalation della guerra in Ucraina dal 2022. Le vittime infantili comprendono 659 BAMBINI UCCISI e 1.747 FERITI – ovvero almeno 16 bambini uccisi o feriti ogni settimana. Milioni di bambini continuano ad avere vite sconvolte a causa degli attacchi in corso o nel dover scappare ed evacuarsi in altri posti e paesi. I bambini del Donbas soffrono dalla guerra già da 11 anni.
La Russia ha avviato insieme al piano di un’invasione dell’Ucraina anche un programma di deportazioni forzate dei bambini ucraini. Ultimi dati dicono 20 000 bambini prelevati dalle case, detenuti per mesi e sottoposti a una forzata russificazione attraverso un’intensa propaganda prima dell’adozione forzata.

don Andrii Platosh, sdb






Via all’inferno proponimenti inefficaci (1873)

San Giovanni Bosco riferisce in una “buona notte” il frutto di una lunga supplica alla Madonna Ausiliatrice: comprendere la causa principale della dannazione eterna. La risposta, ricevuta in ripetuti sogni, è sconvolgente nella sua semplicità: la mancanza di un fermo, concreto proponimento al termine della Confessione. Senza una decisione sincera di cambiare vita, anche il sacramento diventa sterile e i peccati si ripetono.

            Un monito solenne: – Perché tanti vanno alla perdizione?… Perché non fanno buoni propositi quando si confessano.

            La sera del 31 maggio 1873, dopo le preghiere, nel dare la “buona notte” agli alunni, il Santo faceva quest’importante dichiarazione, dicendola «il risultato delle sue povere preghiere», e «che veniva dal Signore!».

            In tutto il tempo della novena di Maria Ausiliatrice, anzi in tutto il mese di maggio, nella Messa e nelle altre mie preghiere ho sempre domandato, al Signore ed alla Madonna, la grazia che mi facessero un po’ conoscere che cosa mai fosse che manda più gente all’Inferno. Adesso non dico se questo venga o no dal Signore; solamente posso dire che quasi tutte le notti sognava che questa era la mancanza di fermo proponimento nelle Confessioni. Quindi mi pareva veder dei giovani che uscivano di chiesa venendo da confessarsi, ed avevano due corna.
            – Come va questo? diceva tra me stesso.
            – Eh! questo proviene dall’inefficacia dei proponimenti fatti nella Confessione! E questo è il motivo per cui tanti vanno a confessarsi anche sovente, ma non si emendano mai, confessano sempre le medesime cose. Ci sono di quelli (adesso faccio dei casi ipotetici, non mi servo di nulla di confessione, perché c’è il segreto), ci sono di quelli che al principio dell’anno avevano un voto scadente e adesso hanno il medesimo voto. Altri mormoravano in principio dell’anno e continuano sempre nelle medesime mancanze.
            Io ho creduto bene di dirvi questo, perché questo si è il risultato delle povere preghiere di Don Bosco; e viene dal Signore.

            Di questo sogno non tracciò in pubblico altri dettagli, ma senza dubbio se ne servi privatamente per incoraggiare ed ammonire; e per noi anche quel poco che disse, e la forma colla quale lo disse, resta un grave ammonimento da ricordar di frequente ai giovinetti.
(MB X, 56)




Don Bosco promotore della “misericordia divina”

Giovanissimo sacerdote, don Bosco ha pubblicato un volume, in formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla misericordia di Dio”.

Tutto cominciò dalla marchesa di Barolo
            La marchesa Giulia Colbert di Barolo (1785-1864), dichiarata venerabile da papa Francesco il 12 maggio 2015, coltivava personalmente una particolare devozione alla divina misericordia, per cui aveva fatto introdurre nelle comunità religiose ed educative da lei fondate vicino a Valdocco l’abitudine di una settimana di meditazioni e preghiere sul tema. Ma non si accontentava. Desiderava che tale pratica si diffondesse anche altrove, soprattutto nelle parrocchie, in mezzo al popolo. Ne chiese il consenso alla Santa Sede, che non solo l’accordò, ma concesse a tale pratica devozionale varie indulgenze. A questo punto si trattava dunque di fare una pubblicazione adeguata allo scopo.
            Siamo nell’estate 1846, quando don Bosco, superata la grave crisi di sfinimento che lo aveva portato sull’orlo della tomba, si era ritirato presso mamma Margherita ai Becchi a fare la convalescenza e si era ormai “licenziato” dal suo apprezzatissimo servizio di cappellano ad una delle opere della Barolo, con grave disappunto della marchesa stessa. Ma i “suoi giovani” lo chiamavano alla casa Pinardi appena affittata.
            A questo punto intervenne il famoso patriota Silvio Pellico, segretario-bibliotecario della marchesa ed estimatore ed amico di don Bosco, che ne aveva messo in musica alcune poesie. Ci raccontano le memorie salesiane che il Pellico, con un certo ardire, propose alla marchesa di incaricare don Bosco di fare la pubblicazione che le interessava. Che fece la marchesa? Accettò, sia pure non troppo entusiasta. Chissà? Forse voleva metterlo alla prova. E don Bosco, accettò pure lui.

Un tema che gli stava a cuore
            Il tema della misericordia di Dio rientrava fra i suoi interessi spirituali, quelli su cui era stato formato in seminario a Chieri e soprattutto al Convitto di Torino. Solo due anni prima aveva finito di frequentare le lezioni del conterraneo san Giuseppe Cafasso, appena quattro anni più vecchio di lui, ma suo direttore spirituale, di cui seguiva le predicazioni agli esercizi spirituali ai sacerdoti, ma anche formatore di una mezza dozzina di altri fondatori, alcuni anche santi. Ebbene il Cafasso, se pur figlio della cultura religiosa del suo tempo – fatta di prescrizioni e della logica del “fare il bene per sfuggire il castigo divino e meritarsi il Paradiso” – non perdeva occasione tanto nel suo insegnamento quanto nella sua predicazione di parlare della misericordia di Dio. E come poteva non farlo se era dedito costantemente al sacramento della Penitenza e all’assistenza ai condannati a morte? Tanto più che tale indulgenziata devozione all’epoca costituiva una reazione pastorale contro il rigorismo del giansenismo che sosteneva la predestinazione di coloro che si salvavano.
            Don Bosco dunque, appena tornato dal paese ai primi di novembre, si mise al lavoro, seguendo le pratiche di pietà approvate da Roma e diffuse in Piemonte. Con l’aiuto di qualche testo che poté facilmente trovare nella biblioteca del Convitto che ben conosceva, a fine anno pubblicava a sue spese un libriccino di 111 pagine, formato minuscolo, intitolato “Esercizio di divozione alla Misericordia di Dio. Ne fece immediatamente omaggio alle ragazze, alle donne e alle suore delle fondazioni della Barolo. Non è documentato, ma logica e riconoscenza vuole che ne abbia fatto omaggio pure alla marchesa Barolo, la promotrice del progetto: ma la stessa logica e riconoscenza vorrebbe che la marchesa non si sia fatta vincere in generosità, facendogli pervenire, magari in anonimato come altre volte, un suo contributo alle spese.
            Non c’è qui lo spazio per presentare i contenuti “classici” del libretto di meditazioni e preghiere di don Bosco; ci preme solo evidenziare che il suo principio di fondo è: “ciascuno deve invocare la Misericordia di Dio per sé stesso e per tutti gli uomini, perché ‘siamo tutti peccatori’ […] tutti bisognosi di perdono e di grazia […] tutti chiamati all’eterna salvezza”.
            Significativo è poi il fatto che a conclusione di ciascun giorno della settimana don Bosco, nella logica del titolo “esercizi di divozione”, assegni una pratica di pietà: invitare altri ad intervenire, perdonare chi ci ha offesi, fare subito una mortificazione per ottenere da Dio misericordia a tutti i peccatori, fare qualche elemosina o sostituirla con la recita di preghiere o giaculatorie ecc. L’ultimo giorno la pratica è sostituita da un simpatico invito, forse anche allusivo alla marchesa di Barolo, di recitare “almeno un’Ave Maria per la persona che ha promosso questa divozione!”.

La prassi educativa
            Ma al di là degli scritti con finalità edificanti e formative, ci si può chiedere come don Bosco abbia in concreto educato i suoi giovani a confidare nella misericordia divina. La risposta non è difficile e si potrebbe documentarla in tanti modi. Ci limitiamo a tre esperienze vitali vissute a Valdocco: i sacramenti della Confessione e Comunione e la sua figura di “padre pieno di bontà e amore”

La Confessione
            Don Bosco ha avviato alla vita cristiana adulta centinaia di giovani di Valdocco. Ma con quali mezzi? Due in particolare: la Confessione e la Comunione.
            Don Bosco, si sa, è uno dei grandi apostoli della Confessione, e questo anzitutto perché ha esercitato a fondo tale ministero, così come, per altro, il già citato suo maestro e direttore spirituale Cafasso e l’ammiratissima figura del quasi coetaneo il santo curato d’Ars (1876-1859). Se la vita di quest’ultimo, come è stato scritto, “è trascorsa in confessionale” e quella del primo ha saputo offrire molte ore della giornata (“il tempo necessario”) per ascoltare in confessione “vescovi, sacerdoti, religiosi, laici eminenti e gente semplice che accorrevano a lui”, quella di don Bosco non poté fare altrettanto per le tante occupazioni in cui era immerso. Ciononostante gli si è messo in confessionale a disposizione dei giovani (e dei salesiani) tutti i giorni in cui a Valdocco o in case salesiane si celebravano le funzioni religiose o vi erano occasioni speciali.
            Aveva per altro incominciato a farlo appena finito di “imparare a fare il prete” al Convitto (1841-1844), quando di domenica radunava i giovani nell’oratorio itinerante del biennio, quando si recava a confessare al santuario della Consolata o nelle parrocchie piemontesi in cui era invitato, quando approfittava dei viaggi in carrozza o in treno per confessare vetturino o passeggeri. Non smise mai di farlo fino all’ultimo, allorché invitato a non stancarsi con le confessioni, rispondeva che ormai era l’unica cosa che ormai poteva fare per i suoi giovani. E quale non è stato il suo dolore quando, per motivi burocratici e di malintesi, non gli era stata rinnovata dall’arcivescovo la patente di confessione! Le testimonianze al riguardo di don Bosco confessore sono innumerevoli e del resto la famosa fotografia, che lo ritrae nell’atto di confessare un ragazzino circondato da tanti altri in attesa di farlo, dovette piacere molto allo stesso santo che forse ne ebbe l’idea e che comunque rimane tuttora un’icona significativa ed indelebile della sua figura nell’immaginario collettivo.
            Ma al di là della sua esperienza di confessore, don Bosco si è fatto promotore instancabile del sacramento della Riconciliazione, ne ha divulgato la necessità, l’importanza, l’utilità della frequenza, ha indicato i pericoli di una celebrazione priva delle necessarie condizioni, ha illustrato le classiche modalità il modo di accostarvisi con frutto. Lo ha fatto attraverso conferenze, buone notti, motti arguti e paroline all’orecchio, lettere circolari ai giovani dei collegi, lettere personali, narrazione di numerosi sogni che avevano come oggetto proprio la confessione, bene o male fatta. Secondo poi la sua intelligente prassi catechistica narrava loro episodi di conversioni di grandi peccatori, ed anche sue personali esperienze al riguardo.
            Don Bosco, profondo conoscitore dell’anima giovanile, per indurre tutti giovani al pentimento sincero, fa leva sull’amore e riconoscenza verso Dio, presentato nella sua infinita bontà, generosità e misericordia. Per scuotere invece i cuori più freddi e induriti, descrive i possibili castighi del peccato e impressiona salutarmente le loro menti con la viva descrizione del giudizio divino e dell’Inferno. Anche in questi casi tuttavia, non soddisfatto di aver spinto i ragazzi al dolore del peccato commesso, cerca di portarli al bisogno della misericordia divina, disposizione importante per anticipare loro il perdono ancora prima della confessione sacramentale. Don Bosco, al solito, non entra in disquisizioni dottrinali, gli interessa solo una confessione sincera, che terapeuticamente cicatrizzi la ferita del passato, ricomponga il tessuto spirituale del presente per un futuro di “vita di grazia”.
            Don Bosco crede al peccato, crede al peccato grave, crede all’inferno e della loro esistenza parla a lettori ed uditori. Ma di riflesso è anche convinto che Dio è la misericordia in persona, per cui ha dato all’uomo il sacramento della Riconciliazione. Ed eccolo allora insistere sulle condizioni per riceverlo bene e soprattutto sul confessore “padre” e “medico” e non tanto “dottore e giudice”: “Il confessore sa quanto sia ancora maggiore della vostre colpe la misericordia di Dio che vi concedere il perdono mediante il suo intervento” (Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, pp. 24-25).
            Stando anche alle memorie salesiane, suggeriva sovente ai suoi ragazzi d’invocare la divina misericordia, di non scoraggiarsi dopo il peccato, ma di ritornare a confessarsi senza aver paura, confidando nella bontà del Signore e facendo poi fermi propositi di bene.
            Da “educatore sul campo giovanile” don Bosco sente l’esigenza di insistere di meno sull’ex opere operato e di più sull’ex opere operantis, vale dire sulle disposizioni del penitente. A Valdocco tutti si sentivano invitati a confessarsi bene, tutti avvertivano il rischio di confessioni cattive e l’importanza di confessarsi bene; molti di loro poi sentivano di vivere in una terra benedetta dal Signore. Non per nulla la misericordia divina aveva fatto sì che un giovane defunto si risvegliasse dopo che si erano esposti i drappi funebri perché potesse confessare (a don Bosco) i suoi peccati.
            Insomma il sacramento della confessione, ben spiegato nei suoi tratti specifici e celebrato di frequente, è stato il mezzo forse più̀ efficace attraverso il quale il santo piemontese ha portato i suoi giovani a confidare nella immensa misericordia di Dio.

II-a parteLa Comunione
            Ma anche la Comunione, il secondo pilastro della pedagogia religiosa di don Bosco, servì allo scopo.
            Don Bosco è certamente uno dei massimi promotori della pratica sacramentale della Comunione frequente. La sua dottrina, modellata sul modo di pensare della controriforma, più che alla celebrazione liturgica dell’Eucaristica, dava importanza alla Comunione, anche se nella sua frequenza vi è stata un’evoluzione. Nei i primi vent’anni della sua vita sacerdotale, sulla scia di Sant’Alfonso, ma anche del Concilio di Trento e prima ancora di Tertulliano e S. Agostino, suggeriva la comunione settimanale, o più volte alla settimana o anche tutti i giorni a seconda della perfezione delle disposizioni corrispondenti alle grazie del sacramento. Domenico Savio, che a Valdocco aveva cominciato a confessarsi e comunicarsi ogni quindici giorni, passò poi a farlo ogni settimana, indi tre volte alla settimana, infine, dopo un anno di intensa crescita spirituale, ogni giorno, ovviamente sempre seguendo l’avviso del confessore, lo stesso don Bosco.
            Successivamente nei secondi anni sessanta don Bosco, sulla base delle sue esperienze pedagogiche e di una forte corrente teologica favorevole alla comunione frequente, che vedeva come capofila il francese mons. de Ségur e il priore di Genova don Giuseppe Frassinetti, passò ad invitare i suoi giovani ad una maggior frequenza, convinto che essa permetteva passi decisivi nella vita spirituale e favoriva la loro crescita nell’amore di Dio. E nel caso di impossibilità di Comunione Sacramentale quotidiana, suggeriva quella spirituale, magari nel corso dei una visita al Santissimo Sacramento, tanto apprezzata da Sant’Alfonso. Comunque l’importante era tenere la coscienza in stato da poter fare la comunione tutti i giorni: la decisione spettava in un certo modo al confessore.
            Per don Bosco ogni Comunione degnamente ricevuta – digiuno prescritto, stato di grazia, volontà di staccarsi dal peccato, un bel ringraziamento dopo di essa – cancella i difetti quotidiani, rafforza l’anima per evitarli in futuro, aumenta la confidenza in Dio e nella sua infinita bontà e misericordia; inoltre è fonte di grazia per riuscire nella scuola e nella vita, è aiuto nel sopportare le sofferenze e nel vincere le tentazioni.
            Don Bosco crede che la Comunione sia una necessità per i “buoni” per mantenersi tali e per i “cattivi” per diventare “buoni”. Essa è per chi vuol farsi santo, non per i santi, come le medicine si danno ai malati. Ovviamente sa che la sola frequenza non è sicuro indizio di bontà, in quanto c’è chi la riceva con molta tiepidezza e per abitudine, tanto più che la stessa superficialità dei giovani sovente non permette loro di capire tutta l’importanza di quello che fanno.
            Con la Comunione poi si possono impetrare dal Signore particolari grazie per sé e per altri. Le lettere di don Bosco sono colme di richieste ai suoi giovani di pregare e di ricevere la Comunione secondo la sua intenzione, perché il Signore gli conceda la buona riuscita negli “affari” di ogni ordine in cui si trova immerso. E lo stesso fa con tutti i suoi corrispondenti, invitati ad accostarsi a tale sacramento per ottenere le grazie richieste, mentre lui avrebbe fatto altrettanto nella celebrazione della santa Messa.
            Don Bosco ci tiene tanto che i suoi ragazzi crescano nutriti dai sacramenti, ma vuole anche il massimo rispetto della loro libertà. E ha lasciato disposizioni precise ai suoi educatori nel suo trattatello sul Sistema Preventivo: “Non mai obbligare i giovani alla frequenza dei santi sacramenti ma soltanto incoraggiarli, e porgere loro comodità di approfittarne”.
            Nel tempo stesso però rimane irremovibile nella sua convinzione che i sacramenti hanno un’importanza capitale. Ha scritto perentoriamente: “Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura se non nella frequenza della Confessione e della Comunione” (Il pastorello delle Alpi, ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, 1864. p. 100).

Una paternità e misericordia fatta persona
            La misericordia di Dio, operante particolarmente nel momento dei sacramenti della Confessione e della Comunione, trovava poi la sua espressione esterna non solo in un don Bosco “confessore padre”, ma anche “padre, fratello, amico” dei giovani nella vita ordinaria di tutti i giorni. Con qualche esagerazione si potrebbe dire che la loro confidenza con don Bosco era tale che tanti di loro quasi non facevano distinzione fra don Bosco “confessore” e don Bosco “amico” e “fratello”; altri poi potevano talora scambiare l’accusa sacramentale con le sincere effusioni di un figlio verso il padre; di converso la conoscenza dei giovani da parte di don Bosco era tale che con domande sobrie ispirava loro estrema confidenza e non di rado sapeva fare l’accusa al loro posto.
            La figura di Dio padre, misericordioso e provvidente, che lungo tutta la storia ha dimostrato la sua bontà da Adamo in poi verso gli uomini, giusti o peccatori, ma tutti bisognosi di aiuto e oggetto di cure paterne, e comunque tutti chiamati alla salvezza in Gesù Cristo, si viene così a modulare e a riflettere sulla bontà di don Bosco “Padre dei suoi giovani”, che vuole solo il loro bene, che non li abbandona, sempre pronto a comprenderli, compatirli, perdonarli. Per molti di loro, orfani, poveri ed abbandonati, adusi fin da piccoli ad un duro lavoro quotidiano, oggetto di manifestazioni molto contenute di tenerezza, figli di un’epoca in cui ciò che prevaleva era la decisa sottomissione e l’obbedienza assoluta a qualunque autorità costituita, don Bosco è stato forse la carezza mai sperimentata di un padre, la “tenerezza” di cui parla papa Francesco.
            Commuove tuttora la lettera ai giovani della casa di Mirabello sul finire del 1864: “Quelle voci, quegli evviva, quel baciare e stringere la mano, quel sorriso cordiale, quel parlarci dell’anima, quell’incoraggiarci reciprocamente al bene sono cose che mi imbalsamarono il cuore, e per ciò non ci posso pensare senza sentirmi commosso fino alle lagrime. Vi dirò […] che voi siete la pupilla dell’occhio mio” (Epistolario II a cura di F. Motto II, lett. n. 792).
            Ancor più commovente la lettera ai giovani di Lanzo il 3 gennaio 1876: “Lasciate che ve lo dica e niuno si offenda, voi siete tutti ladri; lo dico e lo ripeto, voi mi avete preso tutto. Quando fui a Lanzo, mi avete incantato con la vostra benevolenza ed amorevolezza, mi avete legate le facoltà della mente colla vostra pietà; mi rimaneva ancora questo povero cuore, di cui già mi avevate rubati gli affetti per intiero. Ora la vostra lettera segnata da 200 mani amiche e carissime hanno preso possesso di tutto questo cuore, cui nulla più è rimasto, se non un vivo desiderio di amarvi nel Signore, di farvi del bene e salvare l’anima di tutti» (Epistolario III, lett. n. 1389).
            L’amorevolezza con cui trattava e voleva che i salesiani trattassero i ragazzi aveva un fondamento divino. Lo affermava citando un’espressione di s. Paolo: “La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”.
            L’amorevolezza era dunque un segno della misericordia e dell’amore divino che sfuggiva al sentimentalismo e a forme di sensualità in ragione della carità teologica che ne era la sorgente. Don Bosco comunicava tale amore ai singoli ragazzi e anche a gruppi di loro: “Che io vi porti molta affezione, non occorre che ve lo dica, ve ne ho date chiare prove. Che poi voi mi vogliate bene, non ho bisogno che lo diciate, perché me lo avete costantemente dimostrato. Ma questa nostra reciproca affezione sopra cosa è fondata? […] Dunque il bene delle anime nostre è il fondamento della nostra affezione” (Epistolario II, n. 1148). L’amore di Dio, il primum teologico, è dunque il fondamento del primum pedagogico.
            L’amorevolezza era anche la traduzione dell’amore divino in amore realmente umano, fatto di giusta sensibilità, amabile cordialità, affetto benevolo e paziente che tende alla comunione profonda del cuore. Insomma quell’amore effettivo ed affettivo che si sperimenta in forma privilegiata nella relazione fra educando ed educatore, allorquando gesti di amicizia e di perdono da parte dell’educatore inducono il giovane, in forza dell’amore che guida l’educatore, ad aprirsi alla confidenza, a sentirsi sostenuto nel suo sforzo di superarsi e di impegnarsi, a dare il consenso e ad aderire in profondità ai valori che l’educatore vive personalmente e gli propone. Il giovane capisce che questa relazione lo ricostruisce e lo ristruttura come uomo. L’impresa più ardua del Sistema preventivo è proprio quella di conquistare il cuore del giovane, di goderne la stima, la fiducia, di farselo amico. Se un giovane non ama l’educatore, questi può fare ben poco del giovane e per il giovane.

Le opere di misericordia
            Si potrebbe ora continuare con le opere di Misericordia che il catechismo distingue tra quelle corporali e quelle spirituali, fissando due gruppi di sette. Non sarebbe difficile documentare sia come don Bosco abbia vissuto, praticato e incentivato la pratica di tali opere di misericordia sia come con il suo “essere ed operare” abbia di fatto costituito un segno e testimonianza visibile, con fatti e parole, dell’amore di Dio verso gli uomini. Per limiti di spazio ci limitiamo ad indicare la possibilità della ricerca. Resta però fermo che oggi esse sembrano abbandonate anche per la falsa contrapposizione fra misericordia e giustizia, come se la misericordia non fosse un modo tipico di esprimere quell’amore che, in quanto tale, non può mai contraddire la giustizia.




L’eredità di Papa Francesco

In mezzo al fiume di articoli e di commenti che hanno accompagnato questi giorni, desideriamo esprimere semplicemente il nostro grazie a Papa Francesco per il patrimonio umano e spirituale che ci consegna:

1. Per la Misericordia divina. Grazie per averci ricordato instancabilmente che «Dio non si stanca di perdonare» e per lo straordinario Giubileo della Misericordia.

2. Per la gioia della fede. Grazie per averci insegnato che la fede in Gesù Cristo permette di vivere «sulle ali della speranza»: davvero Spes non confundit.

3. Per la devozione a Maria. Grazie per la testimonianza di filiale devozione alla Madre di Dio, Maria Santissima.

4. Per la semplicità disarmante. Grazie per uno stile di vita sobrio che ha attraversato ogni gesto del suo pontificato.

5. Per il primato degli ultimi. Grazie per aver posto al centro poveri, senza tetto, rifugiati, migranti e carcerati.

6. Per la denuncia della “cultura dello scarto”. Grazie per aver condannato lo sfruttamento e la strumentalizzazione delle persone, il profitto senza scrupoli e il consumismo sfrenato.

7. Per il valore della famiglia. Grazie per averci avvertito che gli animali da compagnia non possono sostituire i figli.

8. Per l’attenzione agli anziani. Grazie per aver ricordato che la vita fragile non è da scartare: gli anziani non sono da eutanasiare per essere inutili o non produttivi, ma sono testimoni di pace, amore e benedizione.

9. Per la sinodalità. Grazie per aver mostrato che il cristianesimo non è «fai-da-te», ma comunione con Dio e con i fratelli.

10. Per l’apertura ecumenica. Grazie per aver ricercato l’unità tra i cristiani con gesti concreti e coraggiosi.

11. Per la lotta per la pace. Grazie per aver levato la voce in un mondo lacerato da una «terza guerra mondiale a pezzi».

12. Per lo sguardo profetico sul tempo presente. Grazie per averci fatto capire che non viviamo semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma il cambiamento di un’epoca.

Grazie. Che Dio ricompensi tutto il bene seminato sulla terra.




Educare le nostre emozioni con san Francesco di Sales

La psicologia moderna ha dimostrato l’importanza e l’influsso delle emozioni nella vita della psiche umana e ognuno sa che le emozioni sono particolarmente forti durante la giovinezza. Ma non si parla quasi più delle «passioni dell’anima», che l’antropologia classica ha analizzato accuratamente, come testimonia l’opera di Francesco di Sales, e, in particolare, quando scrive che «l’anima, in quanto tale, è la sorgente delle passioni». Nel suo vocabolario il termine «emozione» non appare ancora con le connotazioni che gli attribuiamo. Dirà, invece, che le nostre «passioni» in certe circostanze sono «mosse». In ambito educativo, la questione che si pone riguarda l’atteggiamento che conviene avere di fronte a queste manifestazioni involontarie della nostra sensibilità, che hanno sempre una componente fisiologica.

«Io sono un povero uomo e nulla più»
            Tutti coloro che hanno conosciuto Francesco di Sales hanno notato la sua grande sensibilità e emotività. Gli saliva il sangue alla testa e il volto diventava tutto rosso. Conosciamo i suoi scatti d’ira contro gli «eretici» e la cortigiana di Padova. Come ogni buon Savoiardo, era «abitualmente calmo e dolce, ma capace di terribili scatti d’ira; un vulcano sotto la neve». La sua sensibilità era assai viva. In occasione della morte della sorellina Jeanne, scriveva a Giovanna di Chantal, anch’essa costernata:

Ahimè, Figlia mia: io sono un povero uomo e nulla più. Il mio cuore s’è intenerito più di quanto non avrei mai immaginato; ma la verità è che vi ha contribuito assai il dispiacere vostro e di mia madre: ho avuto paura per il cuore vostro e per quello di mia madre.

            Alla morte della madre, non nascose che quella separazione gli aveva fatto versare lacrime; ebbe certo il coraggio di chiuderle gli occhi e la bocca e di darle un ultimo bacio, ma dopo ciò, confidava a Giovanna di Chantal, «il cuore mi si gonfiò grandemente, e piansi per questa buona madre più di quanto non avessi mai fatto dal giorno in cui abbracciai il sacerdozio». Egli, infatti, non frenava sistematicamente le manifestazioni esteriori dei suoi sentimenti, il suo umanesimo le accettava tranquillamente. Una preziosa testimonianza di Giovanna di Chantal ci informa che «il nostro santo non era esente da sentimenti e da moti delle passioni, e non voleva esserne liberato».
            Si sa bene che le passioni dell’anima influiscono sul corpo, provocando reazioni esteriori ai loro movimenti interiori: «Noi esterniamo e manifestiamo le nostre passioni e i movimenti che le nostre anime hanno in comune con gli animali per mezzo degli occhi, con movimenti delle sopracciglia, della fronte e di tutto il volto». Così, non è in nostro potere non provare paura in determinate circostanze: «È come se uno dicesse ad una persona che si vede venire contro un leone od un orso: Non aver paura». Ora, «quando si prova timore si diventa pallidi, e quando veniamo richiamati per una cosa che ci contraria, ci sale il sangue al volto e diventiamo rossi, oppure la contrarietà può anche far sgorgare lacrime dai nostri occhi». I bambini, «se vedono un cane che abbaia, immediatamente si mettono a gridare e non smettono finché non sono vicini alla mamma».
            Quando la signora di Chantal incontrerà l’assassino del marito, come reagirà il suo «cuore»? «So che, senza dubbio, cotesto vostro cuore sobbalzerà e si sentirà sconvolto, e il vostro sangue bollirà», prevede il suo direttore spirituale, aggiungendo questa lezione di saggezza: «Dio ci fa toccare con mano, in queste emozioni, quanto sia vero che siamo fatti di carne, di ossa e di spirito».

Le dodici passioni dell’anima
            Nell’antichità, Virgilio, Cicerone e Boezio riducevano a quattro le passioni dell’anima, mentre sant’Agostino conosceva una sola passione dominante, l’amore, articolato a sua volta in quattro passioni secondarie: «L’amore che tende a possedere ciò che ama, si chiama cupidigia o desiderio; quando lo consegue e lo possiede, si chiama gioia; quando fugge ciò che gli è contrario, si chiama timore; se gli capita di perderlo e ne sente il peso, si chiama tristezza».
            Nella Filotea, Francesco di Sales ne segnala sette, paragonandole alle corde che il liutaio deve di volta in volta accordare: l’amore, l’odio, il desiderio, il timore, la speranza, la tristezza e la gioia.
            Nel Teotimo, invece, ne enumera fino a dodici. Stupisce che «questa moltitudine di passioni […] sia lasciata nelle nostre anime!». Le prime cinque hanno per oggetto il bene, ossia tutto ciò che la nostra sensibilità ci fa spontaneamente cercare e apprezzare come buono per noi (pensiamo ai beni fondamentali della vita, della salute e della gioia):

Se il bene viene considerato in sé stesso, secondo la sua bontà naturale, genera l’amore, prima e principale passione; se il bene viene considerato in quanto mancante, provoca il desiderio; se, desiderandolo, si pensa di poterlo conseguire, si ha la speranza; se si teme di non poterlo ottenere, si entra nella disperazione; e quando, di fatto, lo si possiede, si ha la gioia.

            Le altre sette passioni sono quelle che ci fanno spontaneamente reagire negativamente di fronte a tutto ciò che ci appare come male da evitare e da combattere (pensiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte):

Appena conosciamo il male, lo odiamo; se è assente, lo fuggiamo; se pensiamo di non poterlo evitare, lo temiamo; se riteniamo di poterlo evitare, ci facciamo animo e coraggio; ma se lo sentiamo presente, ci rattristiamo, e allora l’ira e il cruccio intervengono repentinamente per respingerlo e allontanarlo o almeno vendicarsene; e, se ciò non è fattibile, rimaniamo nella tristezza; ma, se riusciamo a respingerlo o a farne vendetta, proviamo soddisfazione e un senso di pace, che è piacere del trionfo, perché come il possesso del bene rallegra il cuore, la vittoria sul male soddisfa il coraggio.

            Come si vede, alle undici passioni dell’anima proposte da san Tommaso, Francesco di Sales aggiunge la vittoria sul male, che «soddisfa il coraggio» e provoca la gioia del trionfo.

L’amore, prima e principale passione
            Come era facile prevedere, l’amore è presentato come la «prima e principale passione»: «L’amore viene al primo posto, fra le passioni dell’anima: è il re di tutti i moti del cuore, trasforma in sé tutto il resto e ci fa essere ciò che esso ama». «L’amore è la prima passione dell’anima», ripete.
            Esso si manifesta in mille maniere e il suo linguaggio è assai diversificato; infatti, «non si esprime soltanto a parole, ma anche con gli occhi, con i gesti e con le azioni. Per quello che riguarda gli occhi, le lacrime che ne sgorgano sono prove d’amore». Ci sono pure i «sospiri d’amore». Ma tali manifestazioni dell’amore sono differenti. La più abituale e superficiale è l’emozione o passione, la quale mette in moto quasi involontariamente la sensibilità.
            E l’odio? Odiamo spontaneamente ciò che ci appare come un male. Occorre sapere che, tra le persone, ci sono forme di odio e avversioni istintive, irrazionali, inconsapevoli, come quelle esistenti tra il mulo e il cavallo, tra la vigna e i cavoli. Non ne siamo per nulla responsabili, perché non dipendono dalla nostra volontà.

Il desiderio e la fuga
            Il desiderio è un’altra realtà fondamentale della nostra psiche. La vita quotidiana provoca molteplici desideri, perché il desiderio consiste nella «speranza di un bene futuro». I più comuni desideri naturali sono quelli che «riguardano i beni, i piaceri e gli onori».
            All’opposto, noi fuggiamo spontaneamente i mali della vita. La volontà umana di Cristo lo spingeva a fuggire i dolori e le sofferenze della passione; di qui il tremore, l’angoscia e il sudare sangue.

La speranza e la disperazione
            La speranza concerne un bene che si pensa di poter ottenere. Filotea è invitata a esaminare come si è comportata in riferimento alla «speranza, forse troppo spesso riposta nel mondo e nella creatura, e troppo poco in Dio e nelle cose eterne».
            Quanto alla disperazione, guardate per esempio quella dei «giovani aspiranti alla perfezione»: «Appena incontrano una difficoltà sul loro cammino, eccoti subito una sensazione di disappunto, che li spinge a fare un mucchio di lamentele, tale da dare l’impressione di essere travagliati da grandi tormenti. L’orgoglio e la vanità non possono tollerare il minimo difetto, senza sentirsi subito fortemente turbati sino a giungere alla disperazione».

La gioia e la tristezza
            La gioia è «la soddisfazione per il bene ottenuto». Così, «quando incontriamo quelli che amiamo, non è possibile non sentirsi commossi per la gioia e la contentezza». Il possesso di un bene produce infallibilmente una compiacenza o allegrezza, come la legge di gravità muove la pietra: «È il peso che scuote le cose, le muove e le ferma: è il peso che muove la pietra e la trascina nella discesa non appena vengono tolti gli ostacoli; è lo stesso peso che le fa continuare il movimento verso il basso; infine, è sempre lo stesso peso che la fa arrestare ed assestarsi quando è giunta al suo posto».
            La gioia giunge talvolta al riso. «Il riso è una passione che erompe senza che lo vogliamo e non è in nostro potere trattenerlo, tanto più che ridiamo e siamo mossi a ridere da circostanze impreviste». Nostro Signore ha riso? Il vescovo di Ginevra pensa che Gesù sorrideva quando voleva: «Nostro Signore non poteva ridere, perché per lui nulla era imprevisto, dato che conosceva tutto prima che avvenisse; poteva, certo, sorridere, ma lo faceva volutamente».
            Le giovani visitandine, prese a volte da un incontenibile riso quando una compagna si batteva il petto o una lettrice commetteva un errore durante la lettura a tavola, avevano bisogno di una lezioncina su questo punto: «I pazzi ridono di ogni situazione, perché tutto li sorprende, non riuscendo a prevedere nulla; ma i saggi non ridono con tanta leggerezza, perché impiegano maggiormente la riflessione, la quale fa sì che prevedano le cose che devono accadere». Detto ciò, non è un difetto ridere di qualche imperfezione, «purché non si vada troppo oltre».
            La tristezza è «il dolore per un male presente». Essa «turba l’anima, provoca timori smodati, fa provare disgusto per la preghiera, fiacca e addormenta il cervello, priva l’anima di saggezza, di risoluzione, di giudizio e coraggio e annienta le forze»; è «come un duro inverno che rovina tutta la bellezza della terra e rende indolenti tutti gli animali; perché toglie ogni soavità dall’anima e la rende come pigra e impotente in tutte le sue facoltà».
            Può sfociare in certi casi nel pianto: un padre, all’atto di inviare il figlio a corte o agli studi, non può trattenersi «dal piangere congedandosi da lui»; e «una figlia, benché si sia sposata secondo i desideri del padre e della madre, li commuove fino alle lacrime al momento di riceverne la benedizione». Alessandro Magno pianse quando venne a sapere che c’erano altre terre che non avrebbe mai potuto conquistare: «Come un bambino che frigna per una mela che gli si nega, quell’Alessandro, che gli storici chiamano il Grande, più folle di un bambino, si mette a piangere a calde lacrime, perché gli sembra impossibile conquistare gli altri mondi».

Il coraggio e la paura
            Il timore si riferisce a un «male futuro». Certuni, volendo fare i coraggiosi, si aggirano da qualche parte durante la notte, ma «appena sentono cadere un sasso o il fruscio di un sorcio che scappa, si mettono ad urlare: Dio mio! – Che cosa c’è, si chiede loro, che cosa avete trovato? – Ho sentito un rumore.  – Ma che cosa? – Non lo so». È necessario essere guardinghi, perché «la paura è un male più grande del male stesso».
            Quanto al coraggio, prima di essere una virtù, è un sentimento che ci sostiene davanti a difficoltà che normalmente dovrebbero abbatterci. Francesco di Sales lo provò all’atto di intraprendere una lunga e rischiosa visita della sua diocesi di montagna:

Sono sul punto di montare a cavallo per la visita pastorale, che durerà circa cinque mesi. […] Parto pieno di coraggio, e, fin da questa mattina, ho provato una grande gioia di poter cominciare, sebbene, prima, per vari giorni, avessi provato vani timori e tristezze.

La collera e il sentimento del trionfo
            Quanto all’ira o collera, non possiamo impedire dall’esserne presi in certe circostanze: «Se mi vengono a dire che qualcuno ha parlato male di me, o che mi venga causata altra contrarietà, immediatamente scoppia la collera e non mi rimane nemmeno una vena che non si contorca, perché il sangue ribolle». Perfino nei monasteri della Visitazione le occasioni di irritarsi e arrabbiarsi non mancavano, e si sentivano prepotenti gli attacchi dell’«appetito irascibile». Niente di strano in ciò: «Impedire che il risentimento della collera si svegli in noi e che il sangue ci salga alla testa, non sarà mai possibile; saremo fortunati se potremo avere questa perfezione un quarto d’ora prima di morire». Può anche succedere «che l’ira sconvolga e metta sottosopra il mio povero cuore, che la testa mi fumi da tutte le parti, che il sangue ribolla come una pentola sul fuoco».
            L’appagamento dell’ira, per aver superato il male, provoca l’esaltante emozione del trionfo. Colui che trionfa «non può contenere il trasporto della sua gioia».

Alla ricerca dell’equilibrio
            Le passioni e i moti dell’anima sono il più delle volte indipendenti dal nostro volere: «Non si pretende da voi che non abbiate passioni; non è in vostro potere», diceva alle figlie della Visitazione, aggiungendo: «Che cosa può fare una persona per avere tale o tal altro temperamento, soggetto a questa o quella passione? Tutto sta dunque nelle azioni che ne facciamo derivare per mezzo di quel movimento, che dipende dalla nostra volontà».
            Una cosa è sicura, i moti d’animo e le passioni fanno dell’uomo un essere estremamente soggetto a variazioni della «temperatura» psicologica, ad immagine delle variazioni climatiche. «La sua vita scorre su questa terra come le acque, fluttuando e ondeggiando in una perpetua varietà di movimenti». «Oggi si sarà felici all’eccesso, e, subito dopo, esageratamente tristi. In tempo di carnevale si vedranno manifestazioni di gioia e di allegria, con azioni sciocche e pazzoidi, poi, subito dopo, vedrete segni di tristezza e di tedio così esagerati da far pensare che si tratti di cose terribili e, all’apparenza, irrimediabili. Un altro, al presente, sarà troppo fiducioso e nulla lo spaventerà, e, subito dopo, verrà preso da un’angoscia che lo sprofonderà fin sotto terra».
            Il direttore spirituale di Giovanna di Chantal ha individuato bene le diverse «stagioni dell’anima» attraversate da costei agli inizi della sua fervorosa vita:

Vedo che si trovano nella vostra anima tutte le stagioni dell’anno. Ora sentite l’inverno attraverso le molte sterilità, distrazioni, pesantezze e noie; ora le rugiade del mese di maggio col profumo dei santi fiorellini, e ora il calore dei desideri di piacere al nostro buon Dio. Non resta che l’autunno del quale, come dite, non vedete molti frutti. Orbene, spesso avviene che, trebbiando il grano o pigiando l’uva, si trova un frutto più abbondante di quanto promettessero le messi e la vendemmia. Voi vorreste che fosse sempre primavera o estate; ma no, Figlia mia: bisogna che avvenga l’avvicendamento delle stagioni nel nostro interiore come nel nostro esteriore. Solo in cielo tutto sarà primavera quanto alla bellezza, tutto sarà autunno quanto al godimento e tutto sarà estate quanto all’amore. Lassù, non vi sarà più inverno, ma qui esso è necessario per l’esercizio dell’abnegazione e di mille piccole e belle virtù, che si esercitano nel tempo delle aridità.

            La salute dell’anima come quella del corpo non può consistere nell’eliminare questi quattro umori, ma nel raggiungere una «invariabilità d’umore». Quando una passione predomina sulle altre, causa le malattie dell’anima; e siccome è oltremodo difficile regolarla, ne deriva che gli uomini sono bizzarri e variabili, per cui non si scorge altro tra loro se non fantasie, incostanze e stupidità.
            Le passioni hanno di buono il fatto di consentirci «d’esercitare la volontà nell’acquisto della virtù e nella vigilanza spirituale». Nonostante certe manifestazioni, nelle quali si deve «soffocare e reprimere le passioni», per Francesco di Sales non si tratta di eliminarle, cosa impossibile, ma di controllarle come più si può, cioè moderarle e orientarle a un fine che sia buono.
            Non si tratta, quindi, di fingere di ignorare le nostre manifestazioni psichiche, come se non esistessero (ciò che ancora una volta è impossibile), ma di «vegliare in continuazione sul proprio cuore e sul proprio spirito per mantenere le passioni nella norma e sotto il controllo della ragione; altrimenti si avranno soltanto originalità e comportamenti disuguali». Filotea non sarà felice, se non quando avrà «sedato e pacificato tante passioni che [le] provocavano inquietudine».
            Avere uno spirito costante è uno dei migliori ornamenti della vita cristiana e uno dei più amabili mezzi per acquistare e conservare la grazia di Dio, e anche per edificare il prossimo. «La perfezione, quindi, non consiste nell’assenza delle passioni, bensì nel loro corretta regolazione; le passioni stanno al cuore come le corde a un’arpa: bisogna che siano accordate perché possiamo dire: Ti loderemo con l’arpa».
            Quando le passioni ci fanno perdere l’equilibrio interiore e esteriore, due metodi sono possibili: «opponendovi passioni contrarie, oppure opponendovi maggiori passioni della stessa specie». Se sono turbato dal «desiderio delle ricchezze o del piacere voluttuoso», combatterò tale passione con il disprezzo e la fuga, oppure aspirerò a ricchezze e piaceri superiori. Posso lottare contro la paura fisica con il contrario che è il coraggio, oppure sviluppando un timore salutare riguardante l’anima.
            L’amore di Dio, da parte sua, imprime alle passioni una vera e propria conversione, cambiandone l’orientamento naturale e prospettando loro un fine spirituale. Per esempio, «l’appetito per i cibi viene reso molto spirituale se, prima di appagarlo, gli si dà il motivo dell’amore: e no, Signore, non è per accontentare questo povero ventre, né per appagare questo appetito che vado a tavola, ma, secondo la tua Provvidenza, per mantenere questo corpo che tu hai fatto soggetto a tale miseria; sì, Signore, perché così è piaciuto a te».
            La trasformazione così operata somiglierà a un «artificio» utilizzato nell’alchimia che cambia il ferro in oro. «O santa e sacra alchimia! – scrive il vescovo di Ginevra –, o polvere divina della fusione, con la quale tutti i metalli delle nostre passioni, affetti e azioni vengono mutati nell’oro purissimo della celeste dilezione!».
            Moti dell’animo, passioni e immaginazioni sono profondamente radicati nell’anima umana: rappresentano una risorsa eccezionale per la vita dell’anima. Sarà compito delle facoltà superiori, la ragione e soprattutto la volontà, moderarle e governarle. Impresa difficile; Francesco di Sales l’ha compiuta con successo, perché, secondo quanto afferma la madre di Chantal, «possedeva un tale assoluto dominio delle sue passioni da renderle obbedienti come schiave; e alla fine non comparivano quasi più».




Santa Pasqua di Risurrezione 2025!

“Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto.” (Lc 24,12)

Per contemplare il Signore Risorto non bastano i nostri occhi umani, occorre la luce della fede. Possa questa fede, illuminata e rafforzata dalla gioia della Risurrezione che celebriamo in questa Santa Pasqua 2025, guidare sempre il vostro cammino della vita terrena verso la patria del Cielo.

Cristo è risorto!




La purezza e mezzi per conservarla (1884)

In questo sogno di Don Bosco appare un giardino paradisiaco: un declivio verde, alberi festonati e, al centro, un immenso tappeto candido ornato di iscrizioni bibliche che esaltano la purezza. Sul bordo siedono due fanciulle dodicenni, vestite di bianco con cinture rosse e corone floreali: personificano Innocenza e Penitenza. Con voce soave dialogano sul valore dell’innocenza battesimale, sui pericoli che la minacciano e sui sacrifici necessari per custodirla: preghiera, mortificazione, obbedienza, purezza dei sensi.

            Gli parve di avere dinanzi un’immensa incantevole ripa verdeggiante, di dolce pendio e tutta spianata. Alle falde questo prato formava come uno scalino piuttosto basso, dal quale si saltava sulla stradicciola ove stava D. Bosco. Sembrava un Paradiso terrestre splendidamente illuminato da una luce più pura e più viva di quella del sole. Era tutto coperto di erbe verdeggianti smaltate da mille ragioni di fiori e ombreggiato da un numero grandissimo di alberi che avviticchiandosi coi rami a vicenda, li stendevano a guisa di ampli festoni.
            In mezzo al giardino fino alla proda di esso era steso un tappeto di un candore magico, ma così lucido, che abbagliava la vista; era largo più miglia. Presentava la magnificenza di uno stato reale. Come ornamento nella fascia che correva lungo l’orlo aveva varie iscrizioni e caratteri d’oro. Da un lato si leggeva: Beati immaculati in via, qui ambulant in lege Domini (Beato chi è integro nella sua via e cammina nella legge del Signore, Ps 118,1). Sull’altro lato: Non privabit bonis eos, qui ambulant in innocentia (Non rifiuta il bene a chi cammina nell’innocenza, Ps 83,13). Sul terzo lato: Non confundentur in tempore malo: in diebus famis saturabuntur (Non si vergogneranno nel tempo della sventura e nei giorni di carestia saranno saziati, Ps 37,19). Sul quarto: Novit Dominus dies immaculatorum et haereditas eorum in aeternum erit (Il Signore conosce i giorni degli uomini integri: la loro eredità durerà per sempre, Ps 37,18).
            Ai quattro angoli dello strato intorno ad un magnifico rosone stavano quattro altre iscrizioni: Cum simplicibus sermocinatio eius (La sua amicizia è per i giusti, Prov 3,32). – Proteget gradientes simpliciter (È scudo a coloro che agiscono con rettitudine, Prov 2,7) – Qui ambulant simpliciter, ambulant confidenter (Chi cammina nell’integrità va sicuro, Prov 10,9) – Voluntas eius in iis, qui simpliciter ambulant (Egli si compiace di chi ha una condotta integra, Prov 11,20).
            In mezzo poi allo strato questa ultima scritta: Qui ambulant simpliciter, salvus erit (Chi procede con rettitudine sarà salvato, Prov. 28,18).
            Nel mezzo della ripa sul bordo superiore del candido tappeto si innalzava un gonfalone bianchissimo sul quale si leggeva pure a caratteri d’oro: Fili mi, tu semper mecum es et omnia mea tua sunt (Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, Lc 15,31).
            Se D. Bosco era meravigliato alla vista di quel giardino, molto più attiravano la sua attenzione due vaghe fanciulle in sui dodici anni, sedute sul margine del tappeto ove la riva faceva scalino. Una celestiale modestia spirava da tutto il loro grazioso contegno. Dai loro occhi costantemente fissi in alto traspariva non solo un’ingenua semplicità di colomba, ma raggiava una vivezza d’amore purissimo, una gioia di felicità celestiale. La loro fronte aperta e serena sembrava la sede del candore e della schiettezza, sulle loro labbra serpeggiava un dolce incantevole sorriso. I loro lineamenti manifestavano un cuore tenero ed ardente. Le graziose movenze della persona loro davano una tale aria di sovrumana grandezza e nobiltà che faceva contrasto colla loro giovinezza.
            Una veste candidissima scendeva loro fino al piede, sulla quale non si scorgeva né macchia, né ruga, e neppure un granello di polvere. I fianchi avevano cinti con una cintura rossa fiammante con bordi d’oro. Su questa spiccava un fregio come nastro composto di gigli, di violette e di rose. Un nastro simile, come fosse un monile, portavano al collo, composto degli stessi fiori, ma di forma diversa. Come braccialetti avevano ai polsi una fascetta di margheritine bianche. Tutte queste cose e questi fiori avevano forma, colori, bellezze che riesce impossibile il descriverli. Tutte le pietre più preziose del mondo incastonate con l’arte più squisita parrebbero fango al confronto.
            Le scarpe candidissime erano bordate di nastro pur bianco filettato d’oro, che faceva un bel nodo nel mezzo. Bianco pure con piccoli fili d’oro era il cordoncino col quale erano legate.
            La loro lunga capigliatura era stretta da una corona, che cingeva la fronte, e così folta che faceva onda sotto la corona e ricadendo sulle spalle finiva inanellata a ricci.
            Esse avevano incominciato un dialogo: ora si alternavano parlando ora si interrogavano ed ora esclamavano. Ora ambedue sedevano; ora una sola stava seduta e l’altra in piedi; ed ora passeggiavano. Non uscivano però mai fuori da quel candido tappeto e non toccarono mai né erba né fiori. D. Bosco nel suo sogno stava come spettatore. Né esso rivolse parole a quelle fanciulle, né le fanciulle si sono accorte della sua presenza, e l’una diceva con soavissimo accento:
            – Che cosa è l’innocenza? Lo stato fortunato della grazia santificante conservato mercè la costante ed esatta osservanza della divina legge.
            E l’altra donzella con voce non meno dolce:
            – E la conservata purità dell’innocenza è fonte ed origine di ogni scienza e di ogni virtù.
            La prima:
            – Quale lustro, quale gloria, quale splendore di virtù vivere bene tra i cattivi, e tra i malvagi maligni conservare il candore dell’innocenza e la lenità dei costumi.
            La seconda si alzò in piedi e fermandosi vicino alla compagna:
            – Beato quel giovinetto che non va dietro ai consigli degli empi e non si mette nella via dei peccatori, ma suo diletto è la legge del Signore, che egli medita di giorno e di notte. Ed ei sarà come albero piantato lungo la corrente delle acque della grazia del Signore, il quale darà a suo tempo il frutto copioso di buone opere: per soffiar di vento non cadrà di lui foglia di sante intenzioni e di merito e tutto quello che farà avrà prospero effetto, ed ogni circostanza della vita coopererà per accrescere il suo premio. – Così dicendo accennava gli alberi del giardino carichi di frutti bellissimi che spandevano per l’aria un profumo delizioso, mentre torrentelli limpidissimi che ora scorrevano fra due sponde fiorite, ora cadevano da piccole cascatelle, ed ora formavano laghetti, bagnavano i loro fusti, con un mormorio che pareva il suono misterioso di musica lontana.
            La prima donzella replicò:
            – Esso è come un giglio tra le spine che Iddio coglie nel suo giardino per porlo come ornamento sovra il suo cuore; e può dire al suo Signore: Il mio Diletto appartiene a me ed io a lui: perché ei si pasce in mezzo ai gigli. – Così dicendo accennava ad un gran numero di gigli vaghissimi che alzavano il candido capo tra le erbe e gli altri fiori, mentre mostrava in lontananza un’altissima siepe verdeggiante che circondava tutto il giardino. Questa era fitta di spine e dietro si scorgevano vagolare come ombre mostri schifosi che tentavano penetrare nel giardino, ma erano impediti dalle spine di quella siepe.
            – É vero! Quanta verità è nelle tue parole! soggiunge la seconda. Beato quel giovanetto che sarà trovato senza colpa! Ma chi sarà costui e gli daremo lode? Perché egli ha fatto cose mirabili in vita sua. Egli fu trovato perfetto ed avrà gloria eterna. Egli poteva peccare e non peccò; far del male e non lo fece. Per questo i beni di lui sono stabiliti nel Signore e le sue opere buone saranno celebrate da tutte le congregazioni dei Santi.
            – E sulla terra quale gloria Dio ad essi riserva! Li chiamerà, loro farà un posto nel suo santuario, li farà ministri dei suoi misteri, e un nome sempiterno darà loro che mai perirà, concluse la prima.
            La seconda si alzò in piedi ed esclamò:
            – Chi può descrivere la bellezza di un innocente? Quest’anima è vestita splendidamente come una di noi, ornata della bianca stola del santo Battesimo. Il suo collo, le sue braccia risplendono di gemme divine, ha in dito l’anello dell’alleanza con Dio. Essa cammina leggiera nel suo viaggio per l’eternità. Gli si para innanzi una via tempestata di stelle… È tabernacolo vivente dello Spirito Santo. Col sangue di Gesù che scorre nelle sue vene e imporpora le sue guance e le sue labbra, colla Santissima Trinità nel cuore immacolato manda intorno a sé torrenti di luce che la vestono nel fulgore del sole. Dall’alto piovono nembi di fiori celesti che riempiono l’aria. Tutto intorno si spandono le soavi armonie degli angioli che fanno eco alla sua preghiera. Maria Santissima gli sta a fianco pronta a difenderla. Il cielo è aperto per lei. Essa è fatta spettacolo alle immense legioni dei Santi e degli Spiriti beati, che la invitano agitando la loro palme. Iddio tra gli inaccessibili fulgori del suo trono di gloria colla destra le addita il seggio che le ha preparato, mentre colla sinistra tiene la splendida corona che dovrà incoronarla per sempre. L’innocente è il desiderio, il gaudio, il plauso del paradiso. E sul suo volto è scolpita una gioia ineffabile. É figlio di Dio. Dio è il Padre suo. Il paradiso è la sua eredità. Esso è continuamente con Dio. Lo vede, lo ama, lo serve, lo possiede, lo gode, ha un raggio delle celesti delizie: è in possesso di tutti i tesori, di tutte le grazie, dì tutti i segreti, dì tutti i doni e di tutte le sue perfezioni e di tutto Dio stesso.
            – Ed è perciò che l’innocenza nei Santi dell’Antico Testamento nei Santi del Nuovo, e specialmente nei Martiri si presenta così gloriosa. Oh Innocenza quanto sei bella! Tentata cresci in perfezione, umiliata ti levi più sublime, combattuta esci trionfante, uccisa voli alla corona. Tu libera nella schiavitù, tranquilla e sicura nei pericoli, lieta tra le catene. I potenti t’inchinano, i principi ti accolgono, i grandi ti cercano. I buoni ti obbediscono, i malvagi t’invidiano, i rivali ti emulano, gli avversari soccombono. E tu riuscirai sempre vittoriosa, anche allorché gli uomini ti avessero condannata ingiustamente!
            Le due donzelle fecero un istante di pausa, come per prendere respiro dopo uno sfogo così affocato e quindi si presero per mano e si guardarono:
            – Oh se i giovani conoscessero qual prezioso tesoro è l’innocenza, come fin dal principio della loro vita custodirebbero gelosamente la stola del santo battesimo! Ma purtroppo non riflettono e non pensano che cosa voglia dire macchiarla. L’innocenza è un liquore preziosissimo.
            – Ma è chiuso in un vaso di fragile creta e se non vien portato con gran cautela si spezza con tutta facilità.
            – L’innocenza è una gemma preziosissima.
            – Ma se non se ne conosce il valore, si perde e con facilità si tramuta con oggetto vile.
            – L’innocenza è tino specchio d’oro che ritrae le sembianze di Dio.
            – Ma basta un po’ di aria umida per irrugginirlo e bisogna tenerlo involto in un velo.
            – L’innocenza è un giglio.
            – Ma il solo tocco di una ruvida mano lo sciupa.
            – L’innocenza è una candida veste. Omni tempore sint vestimenta tua candida (In ogni tempo siano candide le tue vesti, Sir 9,8).
            – Ma una macchia sola basta per deturparla, quindi bisogna camminare con grande precauzione.
            – L’innocenza e l’integrità resta violata se viene imbrattata da una sola macchia e perde il tesoro della sua grazia.
            – Basta un solo peccato mortale.
            – E perduta una volta è perduta per sempre.
            – Quale sventura tante innocenze che si perdono ogni giorno! Allorché un giovanetto cade in peccato, il paradiso si chiude: la Vergine Santissima e l’Angelo custode scompaiono, cessano le musiche, si ecclissa la luce. Dio non è più nel suo cuore, si dilegua la via stellata che esso percorreva, cade e resta in un punto solo come isola in mezzo al mare, un mare di fuoco che si estende fino all’estremo orizzonte dell’eternità, che si inabissa fino alla profondità del caos. Sulla sua testa nel cielo scurissime guizzano, minacciose, le folgori della divina giustizia. Satana si è slanciato vicino a lui, lo ha caricato di catene, gli ha posto un piede sul collo, e col ceffo orribile sollevato in alto ha gridato: Ho vinto. Il tuo figlio è mio schiavo. Non è più tuo… È finita per lui la gioia. Se la giustizia di Dio in quel momento gli sottrae quell’unico punto sul quale sta, è perduto per sempre.
            – Ei può risorgere! La misericordia di Dio è infinita. Una buona confessione gli ridonerà la grazia e il titolo di figlio di Dio.
            – Ma non più l’innocenza! E quali conseguenze gli rimarranno del primo peccato! Ei conosce il male che prima non conosceva; sentirà terribili le prave inclinazioni; sentirà il debito enorme che ha contratto colla divina giustizia, si sentirà più debole nei combattimenti spirituali. Proverà ciò che prima non provava: vergogna, mestizia, rimorso.
            – E pensare che prima era detto di lui: Lasciate che i fanciulli vengano a me. Essi saranno come gli angeli di Dio in cielo. Figliuolo, donami il tuo cuore.
            – Ah un delitto spaventoso commettono quei disgraziati dei quali è colpa se un fanciullo perde l’innocenza. Ha detto Gesù: Chi scandalizzerà alcuno di questi piccolini che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina asinaia e che fosse sommerso nel profondo del mare. Guai al mondo per causa degli scandali. Non è possibile impedire gli scandali, ma guai a colui per colpa del quale viene lo scandalo. Guardatevi dal disprezzare alcuni di questi piccoli, poiché io vi fo sapere che i loro angioli nei cieli vedono perpetuamente il volto del padre mio che è nei Cieli e chiedono vendetta.
            – Disgraziati costoro! Ma non meno infelici quelli che si lasciano rubare l’innocenza.
            E qui ambedue si misero a passeggiare; il tema del loro discorso era qual fosse il mezzo per conservar l’innocenza.
            Una diceva:
            – È un grande errore che hanno nella testa i giovanetti, che cioè la penitenza debba solamente praticarsi da chi è peccatore. La penitenza è necessaria eziandio per conservare l’innocenza. Se S. Luigi non avesse fatto penitenza, sarebbe senz’altro caduto in peccato mortale. Ciò si dovrebbe predicare, inculcare, insegnare continuamente ai giovanetti. Quanti di più conserverebbero l’innocenza, mentre ora sono così pochi!
            – Lo dice l’Apostolo. Portando noi sempre per ogni dove la mortificazione di Gesù Cristo nel nostro corpo, affinché la vita ancor di Gesù si manifesti nei corpi nostri.
            – E Gesù santo, immacolato, innocente passò la vita sua in privazioni e dolori.
            – Così Maria Santissima, così tutti i Santi.
            – E fu per dare esempio a tutti i giovani. Dice S. Paolo: Se vivrete secondo la carne, morrete; se poi collo spirito darete morte alle azioni della carne, vivrete.
            – Dunque senza penitenza non si può conservar l’innocenza!
            – Eppure molti vorrebbero conservar l’innocenza e vivere in libertà.
            – Stolti! Non è scritto: Fu rapito, perché la malizia non alterasse il suo spirito e la seduzione non inducesse l’anima di lui in errore? Per questo l’affascinamento della vanità oscura il bene e la vertigine della concupiscenza sovverte l’animo innocente. Dunque due nemici hanno gli innocenti: le storte massime e i discorsi iniqui dei cattivi, e la concupiscenza. Non dice il Signore che la morte in giovanetta età è premio per l’innocente per toglierlo dai combattimenti? “Perché egli piacque a Dio, fu amato da lui e perché viveva tra i peccatori, altrove fu trasportato. Consumato egli in breve tempo compié una lunga carriera. Poiché era cara a Dio l’anima di lui, per questo Egli si affrettò di trarlo di mezzo alle iniquità. Fu rapito perché la malizia non alterasse il suo spirito, e la seduzione non inducesse l’anima di lui in errore”.
            – Fortunati i fanciulli se abbracceranno la croce della penitenza e con fermo proponimento diranno con Giobbe: Donec deficiam, non recedam ab innocentia mea (Fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità, Gb 27,5).
            – Dunque mortificazione nel superare la noia che essi provano nella preghiera.
            – E sta scritto: Psallam et intelligam in via immaculata. Quando venies ad me? (Agirò con saggezza nella via dell’innocenza: quando a me verrai?, Ps 100,2). Petite et accipietis (Chiedete e vi sarà dato, Gv 16,24). Pater Noster! (Padre nostro!).
            – Mortificazione nell’intelletto coll’umiliarsi, obbedire ai Superiori e alle regole.
            – E sta pure scritto: Si mei non fuerint dominati, tunc immaculatus ero et emundabor a delicto maximo (Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro da grave peccato, Ps 18,13). E questo è la superbia. Iddio ai superbi resiste e agli umili dà la grazia. Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato. Obbedite ai vostri prepositi.
            – Mortificazione nel dir sempre la verità, nel palesare i propri difetti, e i pericoli nei quali può uno trovarsi. Allora avrà sempre consiglio, specialmente dal confessore.
            – Pro anima tua ne confundaris dicere verum: per amor dell’anima tua non vergognarti di dire la verità (Sir 4,24). Perché c’è un rossore che tira seco il peccato, e c’è un rossore che tira seco la gloria e la grazia.
            – Mortificazione nel cuore frenando i suoi moti inconsulti, amando tutti per amor di Dio e staccandosi risolutamente da chi ci accorgiamo insidiare alla nostra innocenza.
            – L’ha detto Gesù. Se la tua mano o il tuo piede ti serve di scandalo, troncali e gettali via da te: è meglio per te giungere alla vita con un piede o una mano di meno, che con tutte due le mani e con tutti due i piedi essere gettato nel fuoco eterno. E se l’occhio tuo ti serve dì scandalo, cavatelo e gettalo via da te; è meglio per te l’entrare alla vita con un solo occhio che con due occhi essere gettato nel fuoco dell’inferno.
            – Mortificazione nel sopportare coraggiosamente e francamente gli scherni del rispetto umano. Exacuerunt, ut gladium, linguas suas: intenderunt arcum, rem amaram, ut sagittent in occultis immaculatum (Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare, per colpire di nascosto l’innocente, Ps 63,4-5).
            – E vinceranno questo maligno che schernisce temendo essere scoperto dai Superiori, col pensare alle terribili parole di Gesù: Chi si vergognerà di me e delle mie parole, si vergognerà di lui il Figliuolo dell’uomo quando verrà colla maestà sua e del Padre e dei santi Angeli.
            – Mortificazione negli occhi, nel guardare, nel leggere, rifuggendo da ogni lettura cattiva o inopportuna.
            – Un punto essenziale. Ho fatto patto cogli occhi miei di non pensare neppure ad una vergine. E nei salmi: Rivolgi gli occhi perché non vedano la vanità.
            – Mortificazione dell’udito e non ascoltare discorsi cattivi, o sdolcinati, o empi.
            – Si legge nell’Ecclesiastico: Saepi aures tuas spinis, linguam nequam non audire (Sir 28,28). Fa siepe di spine alle tue orecchie e non ascoltare la mala lingua.
            – Mortificazione nel parlare: non lasciarsi vincere dalla curiosità.
            – Sta pur scritto: Metti una porta ed un chiavistello alla tua bocca. Bada di non peccar colla lingua, onde tu non vada per terra a vista dei nemici, che ti insidiano e non sia insanabile e mortale la tua caduta (Sir 28,25-26).
            – Mortificazione di gola: non mangiare, non bere troppo.
            – Il troppo mangiare, il troppo bere trasse il diluvio universale sul mondo e il fuoco sopra Sodoma e Gomorra, e mille castighi sul popolo Ebreo.
            – Mortificarsi insomma nel soffrire ciò che ci accade lungo il giorno, freddo, caldo, e non cercare le nostre soddisfazioni. Mortificate le vostre membra terrene (Col, 3,5).
            – Ricordarsi di ciò che Gesù ha imposto: Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam quotidie et sequatur me (Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua, Lc 9,23).
            – E Dio stesso colla sua provvida mano cinge di croci e spine i suoi innocenti, come fece con Giobbe, Giuseppe, Tobia ed altri Santi. Quia acceptus eras Deo, necesse fuit, ut tentatio probaret te (Perché tu fossi accettato da Dio, era necessario che la tentazione ti mettesse alla prova, Tb 12,13).
            – La via dell’innocente ha le sue prove, i suoi sacrifici, ma ha la forza nella Comunione, perché chi si comunica sovente ha la vita eterna, sta in Gesù e Gesù in lui. Ei vive della stessa vita di Gesù, sarà da lui risuscitato nell’ultimo giorno. È questo il frumento degli eletti, il vino che fa germogliare i vergini. Parasti in conspectu meo mensam adversus eos, qui tribulant me.  (Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici, Ps 23,5). Cadent a latere tuo mille et decem millia a dextris tuis, ad te autem non appropinquabunt (Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire, Ps 91,7).
            – E la Vergine dolcissima da lui amata è la Madre sua. Ego mater pulchrae dilectionis et timoris et agnitionis et sanctae spei. In me gratia omnis (per conoscere) viae et veritatis; in me omnis spes vitae et virtutis. (Sono la madre dell’amore, del timore, della scienza e della santa speranza. In me c’è tutta la grazia della via e della verità, Sir 24,24-25). Ego diligentes me diligo (Io amo coloro che mi amano, Pr 8,17). Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt (Chi mi fa conoscere avrà la vita eterna, Sir 24,31). Terribilis, ut castrorum acies ordinata (terribile come un vessillo di guerra, Ct 6,4).
            Le due donzelle allora si volsero e salivano lentamente la ripa. E l’una esclamava:
            – La salute dei giusti vien dal Signore: ed egli è il lor protettore nel tempo della tribolazione. Il Signore li aiuterà e li libererà; ci li trarrà dalla mano dei peccatori e li salverà perché in lui hanno sperato (Sal 36,39-40).
            – E l’altra proseguiva:
            – Dio mi cinse di robustezza e la via che io batto rendete immacolata.
            Giunte le due donzelle in mezzo a quel magnifico tappeto, si volsero.
            – Sì, gridò una, l’innocenza coronata dalla penitenza è la regina di tutte le virtù.
            E l’altra esclamò pure:
            – Quanto è gloriosa e bella la casta generazione! La memoria di lei è immortale ed è nota dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. La gente la imita quando ella è presente, e la desidera quando ella è partita pel cielo, e coronata trionfa nell’eternità, vinto il premio dei casti combattimenti. E quale trionfo! E quale gaudio! E quale gloria nel presentare a Dio immacolata la stola del santo battesimo dopo tanti combattimenti tra gli applausi, i cantici, il fulgore degli eserciti celesti!
            Mentre che così parlavano del premio che sta preparato per l’innocenza conservata per la penitenza, Don Bosco vide comparire schiere di angioli che scendendo si posavano su quel candido tappeto. E si univano a quelle due donzelle tenendo esse il posto di mezzo. Erano una gran moltitudine. E cantavano: Benedictus Deus et Pater Domini Nostri Jesu Christi, qui benedixit nos in omni benedictione spirituali in coelestibus in Christo; qui elegit nos in ipso ante mundi constitutionem, ut essemus sancti et immaculati in conspectu eius in charitate et praedestinavit nos in adoptionem per Jesum Christum (Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, Ef 1,3-5). Le due fanciulle si posero allora a cantare un inno stupendo, ma con tali parole e tali note che solo quegli angeli che erano più vicini al centro potevano modulare. Gli altri pure cantavano, ma Don Bosco non poteva sentire le loro voci, benché facessero gesti e muovessero le labbra atteggiando la bocca al canto.
            Cantavano le fanciulle: Me propter innocentiam suscepisti et confirmasti me in conspectu tuo in aeternum. Benedictus Dominus Deus a saeculo et usque in saeculum; fiat fiat! (Per la mia integrità tu mi sostieni e mi fai stare alla tua presenza per sempre. Sia benedetto il Signore, Dio d’Israele, da sempre e per sempre, Sal 40,13-14).
            Intanto alle prime schiere di Angioli se ne aggiungevano altre e poi altre continuamente. Il loro vestito era vario di colori, di ornamenti, diverso gli uni dagli altri e specialmente da quello delle due donzelle. Ma la ricchezza e la magnificenza era divina. La bellezza di ciascuno di costoro era quale mente umana non potrà mai in nessun modo concepirne un’ombra per quanto lontana. Tutto lo spettacolo di questa scena non si può descrivere, ma a forza di aggiungere parola a parola si può in qualche modo spiegarne confusamente il concetto.
            Finito il cantico delle due fanciulle, si udirono cantare tutti insieme un cantico immenso e così armonioso che l’eguale non sì è udito e mai si udirà sulla terra. Essi cantavano:
Ei, qui potens est vos conservare sine peccato et constituere ante conspectum gloriae suae immaculatos in exultatione, in adventu Domini nostri Jesu Christi: Soli Deo Salvatori nostro, per Jesum Christum Dominum nostrum, gloria et magnificentia, imperium et potestas ante omne saeculum, et nunc et in omnia saecula saeculorum. Amen (A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e colmi di gioia, all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e per sempre. Amen, Gd 1,24-25).
            Mentre cantavano, sopraggiungevano sempre nuovi angeli e quando il cantico fu terminato, a poco a poco tutti insieme si sollevarono in alto e disparvero con tutta la visione. – E Don Bosco si svegliò.
(MB XVII, 722-730)




Discorso del Rettor Maggiore alla chiusura del Capitolo Generale 29

Carissimi confratelli,

            Arriviamo alla fine di questa esperienza del XXIX Capitolo Generale con un cuore colmo di gioia e di gratitudine per tutto quello che abbiamo potuto vivere, condividere e progettare. Il dono della presenza dello Spirito di Dio che ogni giorno abbiamo supplicato nella preghiera mattutina come anche durante i lavori per mezzo della conversazione nello Spirito, è stata la forza centrale dell’esperienza del Capitolo Generale. Il protagonismo dello Spirito lo abbiamo cercato e ci è stato donato abbondantemente.
            La celebrazione di ogni Capitolo Generale è come una pietra miliare nella vita di ogni congregazione religiosa. Questo vale anche per noi, per la nostra amatissima Congregazione Salesiana. È un momento che dà continuità al cammino che da Valdocco continua a essere vissuto con impegno e portato avanti con zelo e determinazione nelle varie parti del mondo.
            Arriviamo alla fine di questo Capitolo Generale con l’approvazione di un Documento Finale che ci servirà come carta di navigazione per i prossimi sei anni – 2025-2031. Il valore di tale Documento Finale lo vedremo e lo sentiremo nella misura che la stessa dedicazione nell’ascolto, la stessa premura di lasciarci accompagnare dallo Spirito Santo che hanno segnato queste settimane riusciamo a mantenerle dopo la conclusione di questa esperienza di pentecoste salesiana.
            Fin dall’inizio da quando il Rettor Maggiore don Angel Fernández Artime ha reso pubblica la Lettera di Convocazione del Capitolo Generale 29, 24 settembre 2023, ACG 441, chiare erano le motivazioni che dovevano guidare i lavori pre-capitolari e dopo anche i lavori dello stesso Capitolo Generale. Il Rettor Maggiore scrive che:

Il tema scelto è frutto di una ricca e profonda riflessione che abbiamo portato avanti nel Consiglio Generale sulla base delle risposte ricevute dalle Ispettorie e della visione che abbiamo della Congregazione in questo momento. Siamo stati piacevolmente sorpresi dalla grande convergenza e armonia che abbiamo trovato in tanti contributi delle Ispettorie, che avevano molto a che fare con la realtà che vediamo nella Congregazione, con il cammino di fedeltà che esiste in molti settori e anche con le sfide del presente. (ACG 441)

            Il processo di ascolto delle Ispettorie che ha portato all’individuazione del tema di questo Capitolo Generale è già una indicazione chiara di una metodologia di ascolto. Alla luce di quanto abbiamo vissuto in queste settimane si conferma il valore del processo dell’ascolto. La maniera come abbiamo prima individuato e poi interpretato le sfide che la Congregazione è determinata di affrontare ha evidenziato quel clima salesiano tipico nostro, spirito di famiglia, che non vuole evitare le sfide, che non cerca di uniformare il pensiero, ma che fa tutto il possibile per arrivare a quello spirito di comunione dove ognuno di noi possa riconoscere la via per essere il don Bosco oggi.
            Il punto focale delle sfide individuate ha a che fare con il “riferimento alla centralità di Dio (come Trinità) e di Gesù Cristo come Signore della nostra vita, senza mai dimenticare i giovani e il nostro impegno nei loro confronti” (ACG 441). Lo svolgimento dei lavori del Capitolo Generale testimonia non solo il fatto che abbiamo la capacità di individuare le sfide ma abbiamo anche trovato il modo di far emergere quella concordia e unità, riconoscendo a facendo tesoro del fatto che ci troviamo in continenti e contesti diversi, culture e lingue diverse. In più, questo clima conferma che quando noi oggi guardiamo la realtà con gli occhi e con il cuore di don Bosco, quando siamo davvero appassionati di Cristo e dedicati ai giovani, allora scopriamo che la diversità diventa ricchezza, che camminare insieme è bello anche se faticoso, che solo insieme possiamo affrontare le sfide senza paura.
            In un mondo frammentato da guerre, confitti e ideologie spersonalizzanti, in un mondo segnato da pensieri e modelli economici e politici che tolgono il protagonismo ai giovani, la nostra presenza è un segno, un «sacramento» di speranza. I giovani, senza distinzione di colore della pelle, di appartenenza religiosa o etnica, ci chiedono di promuovere proposte e luoghi di speranza. Sono figlie e figlio di Dio che da noi aspettano che siamo servi umili.
            Un secondo punto che è stato confermato e ribadito da questo Capitolo Generale è la condivisa convinzione che “se nella nostra Congregazione mancassero la fedeltà e la profezia, saremmo come la luce che non brilla e il sale che non dà sapore.” (ACG 441). Il punto qui non è tanto se vogliamo essere più autentici o meno, ma il fatto stesso che questa è l’unica strada che abbiamo ed è quella che qui in queste settimane è stata fortemente ribadita: crescere nella autenticità!
            Il coraggio mostrato in alcuni momenti del Capitolo Generale è una eccellente premessa per il coraggio che ci sarà chiesto nel futuro su altri temi che da questo Capitolo Generale sono usciti. Sono sicuro che questo coraggio qui ha trovato un terreno fertile, un ecosistema sano e promettente e che augura bene per il futuro. Avere coraggio significa non lasciare che la paura abbia l’ultima parola. La parabola dei talenti ce lo insegna in maniera chiara. A noi il Signore ci ha dato un solo talento: il carisma salesiano, concentrato nel Sistema Preventivo. Ad ognuno di noi sarà chiesto cosa abbiamo fatto di questo talento.

            Insieme, siamo chiamati a farlo fruttificare in contesti sfidanti, nuovi e inediti. Non abbiamo nessun motivo per seppellirlo. Abbiamo tante motivazioni, tante grida dei giovani che ci spingono ad «uscire» a seminare speranza. Questo passo coraggioso, pieno di convinzione lo ha già vissuto don Bosco a suo tempo e che oggi ci chiede di viverlo come lui e con lui.

Vorrei commentare alcuni punti che si trovano già nel Documento Finale e che credo che possano servire come frecce che ci incoraggiano nel cammino dei prossimi sei anni.

1. Conversione personale
            Il nostro cammino come Congregazione Salesiana dipende da quelle scelte personali, intime e profonde che ognuno di noi decide di fare. Allargando lo sfondo contro il quale bisogna riflettere sul tema della conversione personale, è importante ricordare come in questi anni dopo il Concilio Vaticano II, la Congregazione ha fatto un cammino di riflessione spirituale, carismatica e pastorale che è stato magistralmente commentato da don Pascual Chávez nei suoi interventi settimanali. Questa lettura e questo contributo arricchisce ulteriormente quella riflessione importante che ci ha lasciato il Rettor Maggiore don Egidio Viganó nella sua ultima lettera alla Congregazione: Come rileggere oggi il carisma del fondatore (ACG 352, 1995). Se oggi parliamo di un «cambio di epoca», don Viganó nel 1995 scriveva:

La rilettura del carisma del nostro Fondatore ci tiene impegnati ormai da ben trent’anni. Due grandi fari di luce ci hanno aiutato in questo impegno: il primo è il Concilio Ecumenico Vaticano II, il secondo è il cambio epocale di quest’ora di accelerazione della storia” (ACG 352, 1995).

            Faccio riferimento a questo cammino della Congregazione con le sue ricchezze e patrimonio perché il tema della conversione personale è quello spazio dove questo cammino della Congregazione trova la sua conferma e la sua ulteriore spinta. La conversione personale non è un affare intimistico, autoreferenziale. Non si tratta di una chiamata che tocca solo me in maniera distaccata da tutto e da tutti. La conversione personale è quell’esperienza singolare da dove poi uscirà e emergerà una rinnovata pastorale. Il cammino della Congregazione lo possiamo constatare perché trova nel cuore di ognuno di noi il suo punto di partenza. Da qui possiamo notare quel continuo e convinto rinnovamento pastorale. Papa Francesco in una frase condensa questa urgenza: “l’intimità della Chiesa con Gesù è un’intimità itinerante, e la comunione «si configura essenzialmente come comunione missionaria»” (Christifideles laici n.32, Evangelii gaudium 23).
            Questo ci porta scoprire che quando stiamo insistendo sulla conversione personale dobbiamo fare attenzione a non cadere, da una parte, in una interpretazione intimistica della esperienza spirituale e dall’altra a non sottovalutare quello che è il fondamento di ogni cammino pastorale.
            In questa chiamata di rinnovata passione per Gesù, invito ogni salesiano e ogni comunità a prendere sul serio le scelte e gli impegni concreti che come Capitolo Generale abbiamo creduto urgenti per una più autentica testimonianza educativo pastorale. Crediamo che non possiamo crescere pastoralmente senza quell’atteggiamento di ascolto alla Parola di Dio. Riconosciamo che i vari impegni pastorali che abbiamo, le necessità sempre più crescenti che ci si presentano e che testimoniano una povertà che non si arresta mai, rischiano di toglierci il tempo necessario di «stare con Lui». Questa sfida già la troviamo fin dall’inizio della nostra Congregazione. Si tratta di avere chiare le priorità che rafforzano la nostra spina dorsale spirituale e carismatica che dà anima e credibilità alla nostra missione.
            Don Alberto Caviglia, quando commenta il tema della “Spiritualità Salesiana” nelle sue Conferenze sullo Spirito Salesiano scrive:

La meraviglia più grande che hanno avuto coloro che studiarono don Bosco per il processo di canonizzazione… fu la scoperta dell’incredibile lavoro di costruzione dell’uomo interiore.
Il Card. Salotti (…) riferendosi agli studi che andava facendo, diceva al S. Padre che «nello studiare i voluminosi processi di Torino, più che la grandezza esteriore dell’opera sua colossale, lo ha colpito la vita interiore dello spirito, da cui nacque e si alimentò tutto il prodigioso apostolato del Ven. Don Bosco».
Molti conoscono soltanto l’opera esterna che sembra così rumorosa, ma ignorano in gran parte quell’edificio sapiente, sublime di perfezione cristiana che egli aveva eretto pazientemente nell’anima sua coll’esercitarsi ogni giorno, ogni ora nella virtù propria del suo stato.

            Carissimi fratelli, qui abbiamo il nostro don Bosco. È questo don Bosco che oggi noi siamo chiamati a scoprire. L’Articolo n.21 delle nostre Costituzioni ce lo dice in maniera molto chiara:

Lo studiamo e lo imitiamo, ammirando in lui uno splendido accordo di natura e di grazia. Profondamente uomo, ricco delle virtù della sua gente, egli era aperto alle realtà terrestri; profondamente uomo di Dio, ricolmo dei doni dello Spirito Santo, viveva “come se vedesse l’invisibile”.
Questi due aspetti si sono fusi in un progetto di vita fortemente unitario: il servizio dei giovani. Lo realizzò con fermezza e costanza, fra ostacoli e fatiche, con la sensibilità di un cuore generoso. “Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù…Realmente non ebbe a cuore altro che le anime” (Cost. 21).

            Mi piace qui ricordare un invito di Madre Teresa alle sue consorelle qualche anno prima di morire. La sua dedicazione e quella delle sue consorelle ai poveri è nota a tutti. Però ci fa bene ascoltare queste sue parole scritte alle sue consorelle:

Finché non riuscirai a sentire Gesù nel silenzio del tuo cuore, non riuscirai a sentirlo dire «Ho sete» nel cuore dei poveri. Non rinunciare mai a questo contatto intimo e quotidiano con Gesù come persona viva e reale, non solo come idea. (“Until you can hear Jesus in the silence of your own heart, you will not be able to hear him saying, “I thirst” in the hearts of the poor. Never give up this daily intimate contact with Jesus as the real living person – not just the idea”, in https://catholiceducation.org/en/religion-and- philosophy/the-fulfillment-jesus-wants-for-us.html)

            Solo ascoltando nel profondo del cuore a chi ci chiama a seguirlo, Gesù Cristo, possiamo davvero ascoltare con un cuore autentico coloro che ci chiamano a servirli. Se la motivazione radicale del nostro essere servi non trova le sue radici nella persona di Cristo, l’alternativa è che le nostre motivazioni siano nutriti dal terreno del nostro ego. E la conseguenza è che poi la nostra stessa azione pastorale finisce per inflazionare lo stesso ego. L’urgenza di recuperare lo spazio mistico, il terreno sacro dell’incontro con Dio, un terreno nel quale dobbiamo togliere i sandali delle nostre certezze e delle nostre maniere di interpretare la realtà con le sue sfide, in queste settimane è stato ribadito più volte e in varie maniere.
            Carissimi fratelli, qui abbiamo il primo passo. Qui diamo prova se vogliamo davvero essere figli autentici di don Bosco. Qui diamo prova se davvero amiamo e imitiamo don Bosco.

2. Conoscere don Bosco non solo amare don Bosco
            Siamo consapevoli che un’altra sfida centrale che abbiamo come Salesiani è quella di comunicare la buona novella con la nostra testimonianza e attraverso le nostre proposte educativo pastorali in una cultura che sta subendo un cambio radicale. Se nell’occidente parliamo della indifferenza alla proposta religiosa frutto della sfida della secolarizzazione, notiamo come in altri continenti la sfida prende altre forme, prima di tutto il cambio verso una cultura globalizzata che sposta radicalmente le scale di valori e stili di vita. In un mondo fluido e iperconnesso, quello che abbiamo conosciuto ieri, oggi è radicalmente cambiato: in breve qui si tratta del tema più volte accennato del cambio di epoca.
            Avendo questo cambiamento i suoi effetti a tutto campo, è positivo vedere come la Congregazione dal CGS (1972) fino ad oggi è in un continuo cammino di ripensamento e riflessione sulla sua proposta educativo pastorale. È un processo che risponde alla domanda “cosa farebbe don Bosco oggi, in una cultura secolarizzata e globalizzata come la nostra?”
            In tutto questo movimento riconosciamo come fin dalle sue origini la bellezza e la forza del carisma salesiano risiedono proprio nella sua capacità interna di dialogare con la storia dei giovani che in ogni epoca siamo chiamati a incontrare. Ciò che noi contempliamo a Valdocco, terra santa salesiana, è il soffio dello Spirito che ha guidato don Bosco e che riconosciamo che continua a guidare anche noi oggi. Le Costituzioni iniziano precisamente con questa fondante e fondamentale certezza:

Lo Spirito Santo suscitò, con l’intervento materno di Maria, san Giovanni Bosco.
Formò in lui un cuore di padre e di maestro, capace di una dedizione totale: “Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”.
Per prolungare nel tempo la sua missione lo guidò nel dar vita a varie forze apostoliche, prima fra tutte la nostra Società.
La Chiesa ha riconosciuto in questo l’azione di Dio, soprattutto approvando le Costituzioni e proclamando santo il Fondatore.
Da questa presenza attiva dello Spirito attingiamo l’energia per la nostra fedeltà e il sostegno della nostra speranza. (Cost. 1)

            Il carisma salesiano racchiude un invito innato a metterci di fronte ai giovani nello stesso modo in cui don Bosco si metteva di fronte a Bartolomeo Garelli… «suo amico»!
            Tutto questo sembra molto facile a dirlo, si presenta come un’esortazione amicale. In realtà, nasconde dentro di sé l’urgente invito a noi, figli di don Bosco, affinché nell’oggi della storia, là dove noi ci troviamo, riproponiamo il carisma salesiano in modo adeguato e significativo. Però, c’è una condizione indispensabile che ci permette di fare questo cammino: la conoscenza vera e seria di don Bosco. Non possiamo dire di «amare» veramente don Bosco, se non siamo impegnati seriamente a «conoscere» don Bosco.
            Spesso il rischio è di accontentarci con una conoscenza di don Bosco che non riesce a connettersi con le sfide attuali. Attrezzati solo con una conoscenza superficiale di don Bosco, siamo davvero poveri di quel bagaglio carismatico che ci rende autentici figli suoi. Senza conoscere don Bosco non possiamo e non arriviamo a incarnare don Bosco nelle culture dove siamo. Ogni sforzo che presume solo questa povertà di conoscenza carismatica risulta solamente in operazioni carismatiche di cosmesi, che alla fine sono un tradimento della stessa eredità di don Bosco.
            Se desideriamo che il carisma salesiano sia in grado di dialogare con la cultura attuale, le culture attuali, dobbiamo continuamente approfondirlo per sé stesso e alla luce delle sempre nuove condizioni in cui viviamo. Il bagaglio che abbiamo ricevuto all’inizio della nostra fase formativa iniziale se non è seriamente approfondito, oggi non è sufficiente, semplicemente è inutile, se non addirittura dannoso.
            In questa direzione, la Congregazione ha fatto e sta facendo un enorme sforzo per rileggere la vita di don Bosco, il carisma salesiano alla luce delle attuali condizioni sociali e culturali, in tutte le parti del mondo. È un patrimonio che abbiamo, ma corriamo il rischio di non conoscerlo perché non riusciamo a studiarlo come merita. La perdita di memoria rischia non solo farci perdere il contatto con il tesoro che abbiamo, ma rischia di farci anche credere che questo tesoro non esista. E questo sarà davvero tragico non tanto e soltanto per noi Salesiani, ma per quelle folle di giovani che ci stanno aspettando.
            L’urgenza di tale approfondimento non è solo di natura intellettualistica ma tocca la sete che esiste per una seria formazione carismatica dei laici nelle nostre CEP. Il Documento Finale questo tema lo tratta spesso e in maniera sistematica. I laici che oggi partecipano con noi alla missione salesiana sono persone desiderose di una più chiara proposta formativa salesianamente significativa. Non possiamo vivere questi spazi di convergenza educativo pastorale se il nostro linguaggio e il nostro modo di comunicare il carisma non hanno la capacità conoscitiva e la preparazione giusta per suscitare curiosità e attenzione da parte di coloro che vivono con noi la missione salesiana.
            Non basta dire che amiamo don Bosco. Il vero «amore» per don Bosco implica l’impegno di conoscerlo e studiarlo e non solo alla luce del suo tempo, ma anche alla luce del grande potenziale della sua attualità, alla luce del nostro tempo. Il Rettor Maggiore don Pascual Chávez, aveva invitato tutta la Congregazione e la Famiglia Salesiana perché i tre anni che hanno preceduto il «Bicentenario della nascita di don Bosco 1815-2013» fossero tempo di approfondimento della storia, pedagogia e spiritualità di don Bosco (Don Pascual CHÁVEZ, Aguinaldo 2012, “Conoscendo e imitando don Bosco, facciamo dei giovani la missione della nostra vita” ACG 412).
È un invito che è più che mai attuale. Questo Capitolo Generale è una chiamata e un’opportunità per rafforzare tale conoscenza del nostro Padre e Maestro.
            Riconosciamo carissimi fratelli, che a questo punto questo tema si collega con quello precedente – la conversione personale. Se non conosciamo don Bosco e se non lo studiamo, non possiamo comprendere le dinamiche e le fatiche del suo cammino spirituale e per conseguenza le radici delle sue scelte pastorali. Arriviamo ad amarlo solo superficialmente, senza la vera capacita di imitarlo come l’uomo profondamente santo. Soprattutto sarà impossibile inculturare oggi il suo carisma nei diversi contesti e nelle diverse situazioni. Solo rafforzando la nostra identità carismatica, potremo offrire alla Chiesa e alla società una testimonianza credibile e una proposta educativo pastorale significativa e rilevante ai giovani oggi.

3. Il cammino continua
            In questa terza parte vorrei incoraggiare tutte le Ispettorie a mantenere vive le attenzioni in alcuni settori che attraverso le varie Delibere e impegni concreti abbiamo voluto dare un segno di continuità.
            Il campo dell’animazione e il coordinamento dell’emarginazione e del disagio giovanile è stato un settore nel quale in questi decenni la Congregazione si è molto impegnata. Credo che la risposta da parte delle Ispettorie alla povertà crescente è un segno profetico che ci contraddistingue e che trova tutti noi determinati a continuare a rafforzare la risposta salesiana a favore dei più poveri.
            L’impegno della Ispettorie nel campo della promozione di ambienti sicuri continua a trovare una risposta sempre più crescente e professionale nelle Ispettorie. Lo sforzo in questo campo è una testimonianza che questa strada è quella giusta per affermare l’impegno per la dignità di tutti, specialmente i più vulnerabili.
            Il campo della ecologia integrale emerge come una chiamata per un maggior lavoro educativo e pastorale. La crescita dell’attenzione nelle comunità educative pastorali per i temi ambientali ci chiede un impegno sistematico per promuovere cambiamento di mentalità. Le varie proposte di formazione in questo ambito già presenti nella Congregazione vanno riconosciute, accompagnate e ulteriormente rafforzate.
            Ci sono poi due aree che vorrei invitare la Congregazione a considerare attentamente per i prossimi anni. Fanno parte di una visione più larga dell’impegno della Congregazione. Credo che siano due aree che avranno delle conseguenze sostanziali sui nostri processi educativo pastorali.

3.1 Intelligenza artificiale – una missione reale in un mondo artificiale
            Come Salesiani di don Bosco, siamo chiamati a camminare con i giovani in ogni ambiente in cui vivono e crescono, anche nel vasto e complesso mondo digitale. Oggi l’Intelligenza Artificiale (IA) si presenta come un’innovazione rivoluzionaria, in grado di plasmare il modo in cui le persone imparano, comunicano e costruiscono relazioni. Tuttavia, per quanto rivoluzionaria possa essere, l’IA rimane esattamente questo: artificiale. Il nostro ministero, radicato nell’autentica connessione umana e guidato dal Sistema Preventivo, è profondamente reale. L’intelligenza artificiale può assisterci, ma non può amare come noi. Può organizzare, analizzare e insegnare in modi nuovi, ma non potrà mai sostituire la dimensione relazionale e quella pastorale che definiscono la nostra missione salesiana.
            Don Bosco era un visionario, che non temeva l’innovazione, sia a livello ecclesiale come a livello educativo, culturale e sociale. Quando questa innovazione serviva al bene dei giovani don Bosco andava avanti con una velocità sorprendente. Sfruttava la stampa, i nuovi metodi educativi e i laboratori per elevare i giovani e prepararli alla vita. Se fosse tra noi oggi, senza dubbio guarderebbe all’IA con occhio critico e creativo. La vedrebbe non come un fine ma come un mezzo, uno strumento per amplificare l’efficacia pastorale senza perdere di vista la persona umana, sempre al centro.
            L’IA non è solo uno strumento: è parte della nostra missione di Salesiani che vivono nell’era digitale. Il mondo virtuale non è più uno spazio separato ma una parte integrante della vita quotidiana dei giovani. L’IA può aiutarci a rispondere alle loro esigenze in modo più efficiente e creativo, offrendo percorsi di apprendimento personalizzati, mentorship virtuale e piattaforme che favoriscono connessioni significative.
            In questo senso, l’IA diventa sia uno strumento che una missione, in quanto ci aiuta a raggiungere i giovani dove si trovano, spesso immersi nel mondo digitale. Pur abbracciando l’IA, dobbiamo riconoscere che è solo un aspetto di una realtà più ampia che comprende i social media, le comunità virtuali, la narrazione digitale e molto altro. Insieme, questi elementi formano una nuova frontiera pastorale che ci sfida a essere presenti e proattivi. La nostra missione non è semplicemente quella di utilizzare la tecnologia, ma di evangelizzare il mondo digitale, portando il Vangelo in spazi dove altrimenti potrebbe essere assente.
            La nostra risposta all’IA e alle sfide digitali deve essere radicata nello spirito salesiano di ottimismo e impegno proattivo. Continuiamo a camminare con i giovani, anche nel vasto mondo digitale, con cuori pieni di amore perché appassionati a Cristo e radicati nel carisma di don Bosco. Il futuro è luminoso quando la tecnologia è al servizio dell’umanità e quando

la presenza digitale è piena di autentico calore salesiano e impegno pastorale. Abbracciamo questa nuova sfida, fiduciosi che lo spirito di don Bosco ci guiderà in ogni nuova opportunità.

3.2 L’Università Pontificia Salesiana
            L’Università Pontificia Salesiana (UPS) è l’Università della Congregazione Salesiana, l’Università che appartiene a tutti noi. Costituisce una struttura di grande e strategica importanza per la Congregazione. La sua missione consiste nel far dialogare il carisma con la cultura, l’energia dell’esperienza educativa e pastorale di don Bosco con la ricerca accademica, così da elaborare una proposta formativa di alto profilo a servizio della Congregazione, della Chiesa e della società.
            Fin dagli inizi la nostra Università ha avuto un ruolo insostituibile nella formazione di tanti confratelli per ruoli di animazione e di governo e tuttora svolge questo compito prezioso. In un’epoca caratterizzata da disorientamento diffuso circa la grammatica dell’umano e il senso dell’esistenza, dalla disgregazione del legame sociale e dalla frammentazione dell’esperienza religiosa, da crisi internazionali e fenomeni migratori, una Congregazione come la nostra è urgentemente chiamata ad affrontare la missione educativa e pastorale usufruendo delle solide risorse intellettuali che si elaborano all’interno di una università.
            Come Rettor Maggiore e come Gran Cancelliere dell’UPS desidero ribadire che le due priorità fondamentali per l’Università della Congregazione sono la formazione di educatori e pastori, salesiani e laici, a servizio dei giovani e l’approfondimento culturale – storico, pedagogico e teologico – del carisma. Intorno a questi due assi portanti, che richiedono dialogo interdisciplinare e attenzione interculturale, l’UPS è chiamata a sviluppare il proprio impegno di ricerca, di insegnamento e di trasmissione del sapere. Mi rallegro pertanto che in vista del 150° anniversario dello scritto di don Bosco sul Sistema Preventivo sia stato avviato, in collaborazione con la Facoltà “Auxilium” delle FMA, un serio progetto di ricerca per mettere a fuoco l’ispirazione originaria della prassi educativa di don Bosco e per esaminare come essa ispiri oggi le pratiche pedagogiche e pastorali nella diversità dei contesti e delle culture.
            Il governo e l’animazione della Congregazione e della Famiglia Salesiana trarranno certamente benefici dal lavoro culturale dell’Università, così come lo studio accademico riceverà linfa preziosa mantenendo uno stretto contatto con la vita della Congregazione e il suo servizio quotidiano ai giovani più poveri di ogni parte del mondo.

3.3 150 anni – il viaggio continua
            Siamo chiamati rendere grazie e lode a Dio in questo anno giubilare della speranza perché in quest’anno ricordiamo l’impegno missionario di don Bosco che nell’anno 1875 trova un momento molto significativo di sviluppo. La riflessione che nella Strenna 2025 ci ha offerto il Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio, ci ricorda il tema centrale del 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco: riconoscere, ripensare e rilanciare.
            Alla luce del Capitolo Generale 29° che stiamo concludendo ci aiuta a mantenere vivo questo invito nel sessennio che ci spetta. Come dice il testo della Strenna 2025, siamo chiamati ad essere riconoscenti perché “la riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere.”
            Alla riconoscenza aggiungiamo il dovere del ripensare la nostra fedeltà, perché “la fedeltà comporta la capacità, di cambiare nell’obbedienza, verso una visione che viene da Dio e dalla lettura dei «segni dei tempi» … Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore?”
            Infine il coraggio di rilanciare, ricominciare ogni giorno. Come stiamo facendo in questi giorni, guardiamo lontano per “accogliere le nuove sfide, rilanciando la missione con speranza. (Perché la) Missione è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede.”

4. Conclusione
            Alla fine di questo discorso conclusivo vorrei presentare una riflessione di Tomáš HALÍK, tratta dal suo libro Il pomeriggio del cristianesimo (HALÍK, Tomáš, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare (Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2022). L’autore nell’ultimo capitolo del libro che porta il nome “La società della via”, presenta quattro concetti ecclesiologici.
            Credo che questi quattro concetti ecclesiologici possono aiutarci a interpretare positivamente le grandi opportunità pastorali che ci attendono. Questa riflessione la propongo con la consapevolezza che ciò che propone l’autore si trova intimamente legato al cuore del carisma salesiano. Colpisce e sorprende il fatto che più noi ci addentriamo a fare una lettura carismatico pastorale come anche pedagogica e culturale della realtà attuale, si conferma sempre di più la convinzione che il nostro carisma ci fornisce una solida base affinché i vari processi che stiamo accompagnando trovino la loro giusta collocazione in un mondo dove i giovani stanno aspettando che si offra loro speranza, gioia e ottimismo. È bene che riconosciamo con grande umiltà ma allo stesso tempo con un grande senso di responsabilità come il carisma di don Bosco continui a fornire linee guida oggi, non solo per noi, ma per tutta la Chiesa.

Chiesa come popolo di Dio in pellegrinaggio nella storia. Questa immagine delinea una Chiesa in movimento e alle prese con incessanti cambiamenti. Dio plasma la forma della Chiesa nella storia, le si rivela per mezzo della storia e le impartisce i suoi insegnamenti attraverso gli avvenimenti storici. Dio è nella storia (Id. p. 229).

            La nostra chiamata ad essere educatori e pastori consiste proprio nel camminare con il gregge in questa fase della storia, in questa società in continuo cambiamento. La nostra presenza nei vari “cortili della vita delle persone” è la presenza sacramentale di un Dio che vuole incontrare coloro che lo cercano senza saperlo. In questo contesto, “il sacramento della presenza” acquista per noi un valore inestimabile perché si intreccia con le vicende storiche dei nostri giovani e di tutti coloro che si rivolgono a noi nelle varie espressioni della missione salesiana – il CORTILE.

La ‘scuola’ è la seconda visione della Chiesa – scuola di vita e scuola di sapienza. Viviamo in un’epoca in cui nello spazio pubblico di molti Paesi europei non domina né una religione tradizionale né l’ateismo, ma prevalgono piuttosto agnosticismo, apateismo e analfabetismo religioso… In questa epoca è urgentemente necessario che la società cristiana si trasformi in una ‘scuola’ seguendo l’ideale originario delle università medievali, sorte come comunità di docenti e alunni, comunità di vita, preghiera e insegnamento (Id. pp. 231-232).

            Ripercorrendo il progetto educativo pastorale di don Bosco dalle sue origini, scopriamo come questa seconda proposta tocchi direttamente l’esperienza che attualmente offriamo ai nostri giovani: la scuola e la formazione professionale sia come luoghi sia come cammini esperienziali. Sono percorsi educativi come strumento indispensabile per dare vita a un processo integrale dove cultura e fede si incontrano. Per noi oggi questo spazio è una eccellente opportunità dove possiamo testimoniare la buona notizia nell’incontro umano e fraterno, educativo e pastorale con tante persone e, soprattutto, con tanti bambini e ragazzi perché essi sentano accompagnati verso un futuro dignitoso. L’esperienza educativa per noi pastori è uno stile di vita che comunica saggezza e valori in un contesto che incontra e va oltre la resistenza e che fa sciogliere la indifferenza con la empatia e la vicinanza. Camminare insieme promuove uno spazio di crescita integrale ispirato alla saggezza e ai valori del Vangelo – la SCUOLA.

La Chiesa come ospedale da campo…Troppo a lungo, faccia a faccia con le malattie della società, la Chiesa si è limitata a fare la morale; ora si trova davanti al compito di riscoprire e applicare il potenziale terapeutico della fede. La missione diagnostica dovrebbe essere svolta da quella disciplina per la quale ho proposto il nome di cairologia – l’arte di leggere e interpretare i segni dei tempi, l’ermeneutica teologica dei fatti della società e della cultura. La cairologia dovrebbe dedicare la sua attenzione alle epoche di crisi e di cambiamento dei paradigmi culturali. Dovrebbe sentirle come parte di una ‘pedagogia di Dio’, come il tempo opportuno per approfondire la riflessione sulla fede e rinnovarne la prassi. In un certo senso, la cairologia sviluppa il metodo del discernimento spirituale, che è una componente importante della spiritualità di sant’Ignazio e dei suoi discepoli; lo applica quando approfondisce e valuta lo stato attuale del mondo e i nostri compiti in esso (Id. pp. 233-234).

            Questo terzo criterio ecclesiologico va al cuore dell’approccio salesiano. Non siamo presenti nella vita dei bambini e dei giovani per condannarli. Ci rendiamo disponibili per offrire loro uno spazio sano di comunione (ecclesiale), illuminato dalla presenza di un Dio misericordioso che non pone condizioni a nessuno. Elaboriamo e comunichiamo le varie proposte pastorali proprio con questa visione di facilitare l’incontro dei giovani con una proposta spirituale capace di illuminare i tempi in cui vivono, di offrire loro una speranza per il futuro. La proposta della persona di Gesù Cristo non è frutto di uno sterile confessionalismo o cieco proselitismo, ma la scoperta di una relazione con una persona che offre amore incondizionato a tutti. La nostra testimonianza e quella di tutti coloro che vivono l’esperienza educativo pastorale, come comunità, è il segno più eloquente e il messaggio più credibile dei valori che vogliamo comunicare per poterli condividere – la CHIESA.

Il quarto modello di Chiesa… è necessario che la Chiesa istituisca dei centri spirituali, luoghi di adorazione e contemplazione, ma anche di incontro e dialogo, dove sia possibile condividere l’esperienza della fede. Molti cristiani sono preoccupati del fatto che in un gran numero di Paesi si stia sfilacciando la rete delle parrocchie, che è stata costituita alcuni secoli fa in una situazione socio-culturale e pastorale completamente diversa e nell’ambito di una differente interpretazione di sé della Chiesa (Id. pp. 236-237).

            Il quarto concetto è quello di una “casa” capace di comunicare accoglienza, ascolto e accompagnamento. Una “casa” in cui si riconosce la dimensione umana della storia di ogni persona e, allo stesso tempo, si offre la possibilità di permettere a questa umanità di raggiungere la sua maturità. Don Bosco chiama giustamente “casa” il luogo in cui la comunità vive la sua chiamata perché, accogliendo i nostri giovani, sa assicurare le condizioni e le proposte pastorali necessarie affinché questa umanità cresca in modo integrale. Ogni nostra comunità, “casa”, è chiamata ad essere testimone dell’originalità dell’esperienza di Valdocco: una “casa” che intercetta la storia dei nostri giovani, offrendo loro un futuro dignitoso – la CASA.

            Nelle nostre Costituzioni, Art. 40 troviamo la sintesi di tutti questi “quattro concetti ecclesiologici”. È una sintesi che serve come invito e anche come incoraggiamento per il presente e il futuro delle nostre comunità educativo pastorali, delle nostre ispettorie, della nostra amatissima Congregazione Salesiana:

L’oratorio di don Bosco criterio permanente
            Don Bosco visse una tipica esperienza pastorale nel suo primo oratorio, che fu per i giovani casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria.
            Nel compiere oggi la nostra missione, l’esperienza di Valdocco rimane criterio permanente e di discernimento e rinnovamento di ogni attività e opera.

            Grazie.
            Roma, 12 aprile 2025




Intervista al nuovo ispettore don Peter Končan

Piccola biografia
Ha completato il noviziato nella comunità di Pinerolo, in Italia, professando i primi voti l’8 settembre 1993 a Ljubljana Rakovnik, e i voti perpetui sei anni dopo. Ha ricevuto la propria formazione teologica presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma dal 1997 al 2000 ed è stato ordinato sacerdote a Ljubljana il 29 giugno 2001.
In qualità di sacerdote, la maggior parte del suo lavoro educativo e pastorale è stata svolta all’interno dell’opera salesiana di Želimlje. Dal 2000 al 2003 ha operato come educatore e successivamente, fino al 2020, ha ricoperto il ruolo di direttore del convitto. In quegli anni è stato anche professore di religione presso il liceo salesiano e responsabile per la formazione salesiana dei laici.
Dal 2010 al 2016 ha esercitato la funzione di direttore della comunità di Želimlje e, dal 2021 al 2024, è stato direttore della Comunità salesiana di Ljubljana Rakovnik. Dal 2018 al 2024 ha ricoperto l’incarico di Vicario dell’Ispettore e di Delegato per la Formazione. Nel 2021 ha assunto il coordinamento di questo settore a livello europeo in qualità di coordinatore della RECN.
Il 6 dicembre 2023 è stato nominato 15° Ispettore dell’Ispettoria dei Santi Cirillo e Metodio di Ljubljana.

Puoi presentarti?
Sono nato il 30 maggio 1974 a Ljubljana, Slovenia, nella famiglia contadina in un piccolo paese chiamato Šentjošt. Sono il più piccolo dei 4 figli, che oggi tutti hanno una famiglia, allora ho 11 nipoti con cui siamo molto legati. Il mio paese nativo e anche la mia famiglia sono stati fortemente segnati dal terrore comunista durante e dopo la seconda guerra mondiale, alcuni dei parenti sono stati uccisi, le case distrutte … Nella situazione molto difficile i miei genitori hanno dovuto ricominciare a costruire la cascina da capo, hanno dovuto usare tutta la loro laboriosità e ingegnosità per provvedere a noi figli. I genitori hanno coinvolto noi figli nel lavoro quotidiano e in questo modo anch’io ho imparato, che per ottenere qualcosa d’importante bisogna lavorare forte.

Chi ti ha raccontato per primo la storia di Gesù?
I miei genitori hanno sempre apertamente espresso la loro identità cristiana, anche se in quei tempi essere cristiano non era opportuno e hanno avuto per questo non pochi problemi. Ogni sera, dopo il lavoro compiuto ci siamo ritrovati come famiglia per pregare il rosario, le litanie e altre preghiere. A me piaceva fare il chierichetto e per questo spesso andavo a piedi nella chiesa che distava 2 chilometri da casa mia per partecipare alla messa. L’esempio dei genitori, la vita cristiana nella famiglia e nella parrocchia sono quindi le ragioni fondamentali per sentire la chiamata di Dio sin da piccolo.

Come hai conosciuto don Bosco?
I miei genitori andavano spesso nel pellegrinaggio a Ljubljana Rakovnik dove erano i salesiani e così ho conosciuto anch’io don Bosco, che mi ha affascinato subito. Ho iniziato a frequentare i ritiri organizzati dai salesiani e dopo la scuola elementare a 14 anni mi era molto naturale di andare nel seminario minore guidato dai salesiani a Želimlje. I miei genitori sono stati molto contenti della mia decisione e mi hanno sempre sostenuto nel mio cammino. Sono veramente molto grato a loro per tuto amore, per la famiglia serena in quale sono cresciuto e per tanti valori importanti che mi hanno trasmesso. Don Bosco ha affascinato anche loro e cosi nel processo della mia formazione anche loro hanno fatto le promesse come salesiani cooperatori.

Esperienza della formazione iniziale
Io stavo facendo la scuola superiore nel tempo quando è crollato il comunismo e la Slovenia diventava indipendente e allora anche i salesiani potevamo riprendere il nostro lavoro tipico. Per questo sono stato preso dall’entusiasmo di tante possibilità di lavoro giovanile che si stavano aprendo e negli anni vissuti nelle case formative internazionali in Italia mi si è anche allargato l’orizzonte perché ho avuto la possibilità di conoscere tanti salesiani da tutto il mondo e tante esperienze nuove. In questo periodo ho lavorato molto nella mia crescita umana e spirituale e ho anche imparato ad amare tantissimo don Bosco e il suo modo di stare e lavorare con i giovani. Sempre di più sono diventato convinto che questa è una strada pensata da Dio per me e che il carisma salesiano è un grandissimo dono per i giovani del nostro tempo.

Quale è la tua esperienza più bella?
Gli 20 anni vissuti nel convitto a Želimlje e dopo a Rakovnik, vivendo con quasi 300 giovani ogni giorno, sono stati veramente molto belli e hanno molto segnato la mia vita. Avevo il privilegio di seguire la loro crescita umana, intellettuale e spirituale e di toccare da vicino le loro gioie, speranze e ferite. I giovani mi hanno insegnato quanto è importante “perdere” il tempo stando con loro. In questo periodo ho imparato e sperimentato anche quanto sono preziosi i collaboratori laici, senza quali non possiamo portare avanti la nostra missione.

Come sono i giovani del luogo e quali sono le sfide più rilevanti?
Nelle opere salesiane e intorno ai nostri programmi ci sono ancora molti giovani generosi, con cuore aperto e disponibile per fare del bene ai loro coetanei. Sono molto fiero del loro entusiasmo e anche contento che molti nel don Bosco trovano il modello e la forza per la loro crescita umana e spirituale.
Dall’altra parte è anche vero che sono molto segnati dal mondo virtuale e di tutte le altre sfide del nostro tempo. Per fortuna i valori tradizionali non sono spariti del tutto, ma è anche vero, che non sono più abbastanza forti per guidare i giovani. Per questo i salesiani cerchiamo di aiutare i giovani con le proposte concrete di sostegno e camminando con loro. All’ultimo capitolo ispettoriale abbiamo individuato alcune povertà (sfide) del nostro contesto: la famiglia debole, la tiepidezza spirituale, il relativismo e la ricerca dell’identità, il passivismo, l’apatia e la mancanza della preparazione concreta dei giovani per la vita.

Dove trovi la forza di continuare?
Per prima nei confratelli. Per fortuna ho intorno a sé confratelli molto bravi e generosi che mi sono di grandissimo sostegno. L’ispettore da solo non può fare molto. Sono convinto che l’unico modo giusto di portare avanti le cose è quello che tutti (salesiani, giovani e laici) mettiamo i propri doni e forze per il bene comune.  E come secondo, noi tutti e la nostra missione siamo solo una piccola parte in un grande disegno di Dio. È Lui che è il vero protagonista e questa consapevolezza mi dà una grande serenità interiore.

Quale posto occupa nella tua vita Maria Ausiliatrice?
Già nella famiglia ho imparato che Maria è un grande sostegno per la vita quotidiana. Molto volentieri e con tanta fiducia mi reco in pellegrinaggio nei vari santuari mariani, dove Maria mi riempie di pace e forza interiore per tutte le sfide della mia vita. Posso testimoniare molte delle grazie che attraverso Maria sono state concesse a me o ai miei cari.

don Peter KONČAN,
ispettore Slovenia