Con don Bosco. Sempre

Non è indifferente celebrare un Capitolo generale in un luogo o in un altro. Certamente, a Valdocco, nella “culla del carisma”, abbiamo l’opportunità di riscoprire la genesi della nostra storia e ritrovare l’originalità che costituisce il cuore della nostra identità di consacrati e apostoli dei giovani.

Nella cornice antica di Valdocco, in cui tutto parla delle nostre origini, sono quasi obbligato a fare memoria di quel dicembre del 1859, in cui don Bosco aveva preso una decisione incredibile, unica nella storia: fondare una congregazione religiosa con dei ragazzi.
Li aveva preparati, ma erano pur sempre giovanissimi. «Da molto tempo pensavo di fondare una Congregazione. Ecco giunto il momento di venire al concreto» spiegò con semplicità don Bosco. «Veramente questa Congregazione non nasce adesso: esisteva già per quell’insieme di Regole che voi avete sempre osservato per tradizione… Si tratta ora di andare avanti, di costituire normalmente la Congregazione e di accettarne le Regole. Sappiate però che vi saranno iscritti soltanto coloro che, dopo averci riflettuto seriamente, vorranno fare a suo tempo i voti di povertà, castità e obbedienza… Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra».
All’uscita dalla riunione ci fu un silenzio insolito. Ben presto, quando le bocche si aprirono, si poté costatare che don Bosco aveva avuto ragione a procedere con lentezza e prudenza. Alcuni borbottavano tra i denti che don Bosco voleva fare di loro dei frati. Cagliero misurava a grandi passi il cortile in preda a sentimenti contraddittori.
Ma il desiderio di «rimanere con don Bosco» ebbe il sopravvento nella maggioranza. Cagliero uscì nella frase che sarebbe diventata storica: «Frate o non frate, io rimango con don Bosco».
Alla «conferenza di adesione», che si tenne la sera del 18 dicembre, erano in 17.
Don Bosco convocò il primo Capitolo Generale il 5 settembre 1877 a Lanzo Torinese. I partecipanti erano ventitré e il Capitolo durò tre giorni interi.
Oggi, per il Capitolo numero 29, i capitolari sono 227. Sono arrivati da tutte le parti del mondo, in rappresentanza di tutti i salesiani.
All’apertura del primo Capitolo generale, Don Bosco disse ai nostri confratelli: «Il Divin Salvatore dice nel santo Vangelo che dove sono due o tre congregati nel suo nome, ivi si trova Egli stesso in mezzo a loro. Noi non abbiamo altro fine in queste radunanze che la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime redente dal prezioso Sangue di Gesù Cristo».  Possiamo quindi essere certi che il Signore sarà in mezzo a noi e che condurrà Egli le cose in modo tale che tutti si sentano a proprio agio.

Un cambiamento d’epoca
L’espressione evangelica: «Gesù chiamò quelli che voleva con sé e li mandò a predicare» (Mc 3,14-15), dice che Gesù sceglie e chiama quelli che vuole. Tra questi ci siamo anche noi. Il Regno di Dio si rende presente e quei primi Dodici sono un esempio e un modello per noi e per le nostre comunità. I Dodici sono persone comuni, con pregi e difetti, non formano una comunità di puri e neppure un semplice gruppo di amici.
Sanno, come ha detto Papa Francesco, che “Viviamo un cambiamento d’epoca più che un’epoca di cambiamenti”.  A Valdocco, in questi giorni, si respira un clima di grande consapevolezza. Tutti i confratelli sentono che questo è un momento di grande responsabilità.
Nella vita della maggioranza dei confratelli, delle ispettorie e della Congregazione ci sono molte cose positive, ma questo non basta e non può servire da “consolazione”, perché il grido del mondo, le grandi e nuove povertà, la lotta quotidiana di tante persone – non soltanto povere ma anche semplici e laboriose – si alza forte come richiesta di aiuto. Sono tutte domande che ci devono provocare e scuotere e non lasciarci tranquilli.
Con l’aiuto delle ispettorie attraverso la consultazione, crediamo di aver individuato da un lato i principali motivi di preoccupazione e dall’altro i segni di vitalità della nostra Congregazione, declinati sempre con i tratti culturali specifici di ogni contesto.
Durante il Capitolo proponiamo di concentrarci su cosa significhi per noi essere veramente salesiani appassionati di Gesù Cristo, perché senza questo offriremo buoni servizi, faremo del bene alle persone, aiuteremo, ma non lasceremo una traccia profonda.
La missione di Gesù continua e si rende visibile oggi nel mondo anche attraverso noi, suoi inviati. Siamo consacrati per costruire ampi spazi di luce per il mondo di oggi, per essere profeti. Siamo stati consacrati da Dio e posti alla sequela del suo amato Figlio Gesù, per vivere veramente come conquistati da Dio. Perciò ancora una volta l’essenziale si gioca tutto nella fedeltà della Congregazione allo Spirito Santo, vivendo, con lo spirito di Don Bosco, una vita consacrata salesiana incentrata in Gesù Cristo.
La vitalità apostolica, come vitalità spirituale, è impegno a favore dei giovani, dei ragazzi, nelle più svariate povertà, pertanto non ci si può fermare a offrire solo servizi educativi. Il Signore ci chiama a educare evangelizzando, portando la Sua presenza ed accompagnando la vita con opportunità di futuro.
Siamo chiamati a cercare nuovi modelli di presenza, nuove espressioni del carisma salesiano in nome di Dio. Questo sia fatto in comunione con i giovani e con il mondo, tramite “un’ecologia integrale”, nella formazione di una cultura digitale nei mondi abitati dai giovani e dagli adulti.
Ed è forte il desiderio e l’aspettativa che questo sia un Capitolo generale coraggioso, in cui si dicano le cose, senza perdersi in frasi corrette, ben confezionate, ma che non toccano la vita.
In questa missione non siamo soli. Sappiamo e sentiamo che la Vergine Maria è un modello di fedeltà.
È bello tornare con la mente e con il cuore al giorno della solennità dell’Immacolata Concezione del 1887 quando, due mesi prima della sua morte, Don Bosco disse ad alcuni Salesiani che, commossi, lo guardavano e ascoltavano: «Finora abbiamo camminato sul certo. Non possiamo errare; è Maria che ci guida».
Maria Ausiliatrice, la Madonna di Don Bosco, ci guida. Lei è la Madre di tutti noi ed è Lei che ripete, come a Cana di Galilea in quest’ora del CG29: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
La nostra Madre Ausiliatrice ci illumini e ci guidi, come fece con Don Bosco, ad essere fedeli al Signore e a non deludere mai i giovani, soprattutto quelli più bisognosi.




Il sogno delle 22 lune (1854)

Nel marzo del 1854 in giorno di festa, D. Bosco dopo i vespri radunò tutti gli alunni interni nella retro sagrestia dicendo di voler raccontar loro un sogno. Erano presenti fra gli altri i giovani Cagliero, Turchi, Anfossi, il Ch. Reviglio, il Ch. Buzzetti, dai quali abbiamo raccolta la nostra narrazione. Tutti erano persuasi che sotto il nome di sogno D. Bosco occultasse le manifestazioni che aveva dal cielo. Il sogno fu questo:

            – Io mi trovava con voi nel cortile e godeva nel mio cuore di vedervi vispi, allegri e contenti. Chi saltava, chi gridava, chi correva. Ad un tratto vedo che uno di voi esce da una porta della casa e si mette a passeggiare in mezzo ai compagni, con una specie di cilindro, ossia turbante, sul capo. Era questo trasparente, tutto illuminato nell’interno; e colla figura di una grossa luna, nel bel mezzo della quale era scritta la cifra 22. Io stupito cercai subito di avvicinarlo per dirgli che lasciasse quell’arnese da carnevale: ma ecco mentre l’aria si oscurava, come se fosse stato dato un segnale di campanello, il cortile si sgombra e scorgo tutti i giovani sotto i portici della casa, disposti in fila. Il loro aspetto manifestava un gran timore, e dieci o dodici di essi avevano il viso ricoperto di strana pallidezza. Io passai davanti a tutti questi per osservarli; e scorgo fra di loro quello che aveva la luna sul capo, più pallido degli altri; dai suoi omeri pendeva una coltre funebre. M’incammino verso di lui per chiedergli che cosa significasse quello strano spettacolo; ma una mano mi trattiene, e vedo uno sconosciuto di grave aspetto e nobile portamento, che mi dice:
            – Ascoltami, prima di avvicinarti a lui; egli ha ancora 22 lune di tempo, e prima che siano passate, morrà. Tienilo d’occhio e preparalo!
            Io voleva domandargli qualche spiegazione del suo parlare e della sua improvvisa comparsa, ma più non lo vidi.
            – Il giovane, miei cari figliuoli, io lo conosco ed è tra di voi!
            Un vivo terrore si impossessò di tutti i giovani, tanto più essendo la prima volta che D. Bosco annunziava in pubblico e con una certa solennità la morte di uno della casa. Il buon padre non poté a meno di notarlo e proseguì:
            – Io lo conosco ed è tra voi quel delle lune. Ma non voglio che vi spaventiate. È un sogno come vi ho detto, e sapete che non sempre si deve prestar fede ai sogni. Ad ogni modo, comunque sia la cosa, quello che è certo si è che dobbiamo essere sempre preparati come ci raccomanda il divin Salvatore nel santo Vangelo e non commettere peccati; ed allora la morte non ci farà più paura. Fatevi tutti buoni, non offendete il Signore, ed io intanto starò attento e terrò d’occhio quello del numero ventidue, il che vuol dire 22 lune, ossia 22 mesi: e spero che farà una buona morte.
            Questo annunzio, se spaventò sul principio i giovani, fece però in appresso grandissimo bene, perché stavano tutti attenti a mantenersi in grazia di Dio, col pensiero della morte, ed a contare intanto le lune che trascorrevano. D. Bosco a quando a quando li interrogava:
            – Quante lune vi sono ancora?
            E gli veniva risposto:
            – Venti, diciotto, quindici, ecc.
            Talora i giovani che badavano a tutte le sue parole, gli si accostavano per annunziargli le lune già passate, e cercavano far pronostici, indovinare; ma D. Bosco stava in silenzio. Il giovane Piano, entrato come studente nell’Oratorio nel mese di novembre 1854, sentiva parlare della nona luna e dai compagni e dai superiori venne a sapere ciò che D. Bosco aveva predetto. Ed egli pure, come tutti gli altri, stette in osservazione.
            Finì l’anno 1854, trascorsero molti mesi del 1855 e venne l’ottobre, cioè la luna ventesima. Cagliero, già chierico, era incaricato di sorvegliare tre stanzette vicine nell’antica casa Pinardi, che servivano di dormitorio ad una camerata di giovani. Fra questi era un certo Gurgo Secondo, Biellese da Pettinengo, in sui 17 anni, di belle e robuste forme, tipo di una florida sanità, che dava tutte le speranze di lunga vita, fino ad estrema vecchiezza. Suo padre l’aveva raccomandato a D. Bosco perché lo tenesse in pensione. Valente suonatore di pianoforte e di organo studiava da mane a sera la musica e guadagnava di bei soldi dando lezioni in Torino. D. Bosco lungo l’anno, a quando a quando, aveva interrogato il Ch. Cagliero sulla condotta dei suoi assistiti, con particolare premura. Nell’ottobre lo chiamò a sé e gli disse:
            – Dove dormi tu?
            – Nella stanzetta ultima, rispose il Ch. Cagliero, e di là assisto le altre due.
            – E non sarebbe meglio che trasportassi il tuo letto in quella di mezzo?
            – Come vuole; ma le faccio notare che le altre due stanze sono asciutte, mentre nella seconda una parete è formata dalla muraglia del campanile della chiesa, costrutto di fresco. Vi è quindi un po’ di umidità: si avvicina l’inverno e potrei prendermi qualche malanno. D’altronde di dove mi trovo adesso, posso benissimo assistere tutti i giovani del mio dormitorio.
            – Quanto ad assisterli lo so che puoi; ma è meglio, replicò D. Bosco, che te ne vada in quella di mezzo.
            Il Ch. Cagliero obbedì, ma dopo qualche tempo chiese licenza a D. Bosco di tramutare il suo letto nella stanza primiera. D. Bosco non acconsentì, ma gli disse:
            – Sta dove sei e riposa tranquillo che la tua sanità nulla avrà a soffrirne.
            Il Ch. Cagliero si acquietò e alcuni giorni dopo di bel nuovo fu chiamato da D. Bosco:
            – Quanti siete nella tua nuova stanza?
            Rispose:
            – Siamo tre: io, il giovane Gurgo Secondo, il Garovaglia; ed il pianoforte che fa quattro.
            – Bene, disse D. Bosco; va bene: siete tre suonatori, e Gurgo potrà darvi lezioni di pianoforte. Tu guarda di assisterlo bene. E null’altro aggiunse. Il chierico, punta da curiosità e venuto in sospetto, incominciò a fargli qualche domanda, ma D. Bosco lo interruppe dicendogli:
            – Il perché lo saprai a suo tempo.
            Il segreto era che in quella stanza stava il giovane delle 22 lune.
            Al principio di dicembre non vi era alcun ammalato nell’Oratorio, e D. Bosco, salito in cattedra alla sera dopo le orazioni, annunziò che uno dei giovani sarebbe morto prima del santo Natale. Per questa nuova predizione e perché le 22 lune ormai si compievano, in casa regnava una grande trepidazione, si ricordavano frequentemente le parole di D. Bosco e se ne temeva l’avveramento.
            D. Bosco in quei giorni aveva chiamato a sé ancora una volta il Ch. Cagliero, e gli domandò se Gurgo si portasse bene e se, date le lezioni di musica in città, ritornasse a casa per tempo. Cagliero gli rispose che tutto andava bene e che non vi erano novità né suoi compagni. Ottimamente; sono contento: invigila perché siano tutti buoni, e avvisami se accadessero degli inconvenienti. Cosi gli disse D. Bosco che più altro non aggiunse.
            Ed ecco verso la metà di dicembre essere il Gurgo assalito da una colica violenta e così pericolosa che, mandato a chiamare in fretta il medico, per suo consiglio gli si amministrarono i santi Sacramenti. Per otto giorni, e molto penosa, durò la malattia e volgeva in meglio, grazie alle cure del dottore Debernardi, sicché Gurgo poté levarsi da letto convalescente. Il male era come sparito e il medico ripeteva averla il giovane scappata bella. Intanto era stato avvisato il padre, poiché, non essendo ancora morto alcuno all’Oratorio, D. Bosco voleva impedire agli allievi un funereo spettacolo. La novena del Santo Natale era incominciata e Gurgo pressoché guarito contava d’andare al paese nelle feste natalizie. Tuttavia, quando si davano buone nuove di lui a D. Bosco, ci aveva l’aria di chi non voglia credere. Venne il padre, e trovato il figlio già in buono stato, chiesta e ottenuta licenza, andò a prendere il posto alla vettura per condurlo l’indomani a Novara, e poi a Pettinengo, perché si ristabilisse pienamente in salute. Era di domenica, 23 dicembre; Gurgo però quella stessa sera mostrò desiderio di mangiare un po’ di carne, cibo vietato dal medico. Il padre per rafforzarlo corse a comprarla e la fece cuocere in una macchinetta da caffè. Il giovane bevette il brodo e mangiò la carne, che certo doveva essere mezzo cruda e mezzo cotta e forse troppo – più del necessario. Il padre si ritirò; nella camera rimase l’infermiere e Cagliero. Ed ecco ad una certa ora della notte l’infermo comincia a lamentarsi per i dolori di ventre. La colica era tornata ad assalirlo nel modo più straziante. Gurgo chiamò per nome l’assistente:
            – Cagliero, Cagliero? Ho finito di farti scuola di pianoforte.
            – Abbi pazienza: coraggio! rispondeva Cagliero.
            – Io non vado più a casa: non parto più. Prega per me; se sapessi quanto male mi sento. Raccomandami alla Madonna.
            – Sì, pregherò: invoca anche tu Maria SS..
            Intanto Cagliero incominciò a pregare; ma vinto dal sonno si addormentò. Ed ecco all’improvviso l’infermiere lo scuote e accennandogli Gurgo corre subito a chiamare D. Alasonatti, che dormiva nella camera vicina. Questi venne, e dopo qualche istante Gurgo spirava. Fu una desolazione in tutta la casa. Cagliero al mattino incontrò Don Bosco che scendeva le scale per andare a dire la S. Messa ed era molto mesto, perché già gli era stata comunicata la dolorosa notizia.
            Intanto nella casa si faceva un gran parlare di questa morte. Si era alla vigesima seconda luna e questa non ancora compiuta; e Gurgo, morendo il 24 dicembre prima dell’aurora, compieva anche la seconda predizione, cioè che egli non avrebbe vista la festa del santo Natale.
            Dopo pranzo i giovani e i chierici circondavano silenziosi D. Bosco. A un tratto il Ch. Turchi Giovanni lo interrogò se Gurgo fosse quello delle lune.
            – Sì, rispose D. Bosco: era proprio lui; è appunto desso che io vidi nel sogno!
            Quindi soggiunse ancora:
– Avrete osservato, che io, tempo fa, lo aveva messo a dormire in una camerata speciale, raccomandando a taluno dei migliori assistenti, che là trasportasse il suo letto acciocché potesse continuamente vigilar su di lui. E l’assistente fu il Ch. Giovanni Cagliero. E improvvisamente voltosi a questo chierico gli disse: Un’altra volta non farai più tante osservazioni a quanto ti dirà D. Bosco. Adesso capisci perché io non voleva che tu lasciassi la camera ove era quel poveretto? Tu mi supplicavi; ma io non volli contentarti, appunto perché Gurgo avesse un custode. Se egli fosse ancor vivo, potrebbe dire le quante volte gli andava parlando così alla larga della morte e le cure che gli prodigai per disporlo ad un felice passaggio.
            “Io – scrisse Mons. Cagliero – intesi allora il motivo delle speciali raccomandazioni fattemi da D. Bosco, ed imparai a conoscere ed apprezzare vie meglio l’importanza, delle sue parole e dei suoi paterni avvisi”.
            “La sera, vigilia di Natale – narra Enria Pietro – mi ricordo ancora D. Bosco che saliva sulla cattedra girando gli occhi intorno come se cercasse qualcuno. E disse: il primo giovane che muore nell’Oratorio. Ha fatto le sue cose bene e speriamo che sia in paradiso. Raccomando a voi che siate sempre preparati…E non poté più parlare perché il suo cuore era troppo addolorato. La morte le aveva rapito un figlio”.
(MB V, 377-383)




Educare il corpo e i suoi 5 sensi con san Francesco di Sales

            Un buon numero di antichi asceti cristiani hanno sovente considerato il corpo come un nemico, la cui corruzione doveva essere combattuta, anzi, come un oggetto di disprezzo e da tener in nessun conto. Numerosi uomini spirituali del Medioevo non si preoccupavano del corpo se non per infliggergli penitenze. Nella maggioranza delle scuole del tempo, niente era previsto per far riposare “fratello asino”.
            Per Calvino, la natura umana totalmente corrotta dal peccato originale, non poteva essere altro se non un “immondezzaio”. Sul fronte opposto, numerosi scrittori e artisti rinascimentali esaltavano il corpo fino al punto di tributargli un culto, nel quale la sensualità aveva un grande rilievo. Rabelais, da parte sua, magnificava il corpo dei suoi giganti e si compiaceva nel metterne in mostra le funzioni organiche anche meno nobili.

Il realismo salesiano
           
Tra la divinizzazione del corpo e il suo disprezzo, Francesco di Sales offre una visione realista della natura umana. Alla fine della prima meditazione sul tema della creazione dell’uomo, “il primo essere del mondo visibile”, l’autore dell’Introduzione alla vita devota mette sulle labbra di Filotea questo proposito che sembra riassumere il suo pensiero: “Voglio sentirmi onorata per l’essere che egli mi ha dato”. Certo, il corpo è votato alla morte. Con crudo realismo l’autore descrive l’addio dell’anima al corpo, che abbandonerà “pallido, livido, disfatto, orrendo e puzzolente”, ma ciò non costituisce una ragione per trascurarlo e denigrarlo ingiustamente mentre è vivo. San Bernardo ha avuto torto quando annunciava a coloro che volevano porsi al suo seguito “che dovevano abbandonare il loro corpo e andare da lui solamente in spirito”. I mali fisici non devono spingere a odiare il corpo: il male morale è assai peggiore.
            Non troviamo affatto in Francesco di Sales l’oblio o la messa in ombra dei fenomeni corporali, come quando parla di diverse forme di malattie o quando evoca le manifestazioni dell’amore umano. In un capitolo del Trattato dell’amor di Dio dal titolo: “L’amore tende all’unione”, egli scrive per esempio che “si applica una bocca sull’altra quando ci si bacia, per testimoniare che si vorrebbe versare un’anima nell’altra, per unirle con un’unione perfetta”. Questo atteggiamento di Francesco di Sales nei confronti del corpo ha suscitato, già al suo tempo, reazioni scandalizzate. Quando apparve la Filotea, un religioso avignonese criticò pubblicamente questo “libretto”, lo fece a pezzi tacciando il suo autore di “dottore corrotto e corruttore”. Nemico del pudore esagerato, Francesco di Sales non conosceva ancora il riserbo e le paure che emergeranno in tempi successivi. Sopravvivono in lui usanze medievali o più semplicemente è una manifestazione del suo gusto “biblico”? Ad ogni modo, in lui non si trova niente di paragonabile alle trivialità dell’“infame” Rabelais.
            I doni naturali più stimati sono la bellezza, la forza e la salute. In riferimento alla bellezza, Francesco di Sales così si esprimeva parlando di santa Brigida: “Nacque in Scozia; era una ragazza molto bella, dato che gli scozzesi sono belli di natura, e in quel Paese si incontrano le più belle creature esistenti”. Pensiamo d’altronde al repertorio di immagini riguardanti le perfezioni fisiche dello sposo e della sposa, prese dal Cantico dei cantici. Benché le rappresentazioni siano sublimate e trasferite su un registro spirituale, rimangono tuttavia significative di un’atmosfera dove si esalta la bellezza naturale dell’uomo e della donna. Si è tentato di fargli sopprimere il capitolo del Teotimo sul bacio, nel quale dimostra che “l’amore tende all’unione”, ma si è sempre rifiutato di farlo. In ogni caso, la bellezza esteriore non è quella più importante: la bellezza della figlia di Sion è interiore.

Stretto legame tra il corpo e l’anima
            Innanzi tutto Francesco di Sales afferma che il corpo è “una parte della nostra persona”. L’anima personificata potrà anche dire con un accento di tenerezza: “Questa carne è la mia cara metà, è mia sorella, è mia compagna, nata con me, nutrita con me”.
            Il vescovo è stato assai attento al legame esistente tra il corpo e l’anima, tra la sanità del corpo e quella dell’anima. Così scrive di una persona da lui diretta, cagionevole di salute, che la salute del suo corpo “dipende molto da quella dell’anima, e quella dell’anima dipende dalle consolazioni spirituali”. “Non è illanguidito il vostro cuore – scriveva a una malata –, bensì il vostro corpo, e, dati i legami strettissimi che li uniscono, il vostro cuore ha l’impressione di provare il male del vostro corpo”. Ognuno può costatare che le infermità corporali “finiscono per creare disagio anche allo spirito, a causa degli stretti vincoli fra l’uno e l’altro”. Inversamente, lo spirito agisce sul corpo fino al punto che “il corpo percepisce gli affetti che si agitano nel cuore”, come avvenne in Gesù, che si sedette al pozzo di Giacobbe, stanco del suo gravoso impegno al servizio del regno di Dio.
            Tuttavia, siccome “il corpo e lo spirito procedono spesso in direzione contraria, e, a misura che l’uno s’indebolisce, l’altro si irrobustisce”, e siccome “lo spirito deve regnare”, “dobbiamo sostenerlo e consolidarlo talmente, che resti sempre il più forte”. Se poi mi prendo cura del corpo è “perché sia al servizio dello spirito”.
            Intanto siamo giusti nei confronti del corpo. In caso di malessere o di sbagli, capita spesso che l’anima accusi il corpo e lo maltratti, come fece Balaam colla sua asina: “O povera anima! se la tua carne potesse parlare, ti direbbe, come l’asina di Balaam: perché batti me, miserabile? È contro di te, anima mia, che Dio arma la sua vendetta, sei tu la criminale”. Quando una persona riforma il suo intimo, la conversione si manifesterà anche esternamente: in tutti gli atteggiamenti, nella bocca, nelle mani e “finanche nei capelli”. La pratica della virtù rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente. Inversamente, un cambiamento esteriore, un comportamento del corpo può favorire un cambio interiore. Un atto di devozione esteriore durante la meditazione può risvegliare la devozione interiore. Ciò che qui è detto della vita spirituale può essere facilmente applicato all’educazione in generale.

Amore e dominio del corpo
            Parlando dell’atteggiamento da avere nei confronti del corpo e delle realtà corporali, non stupisce vedere Francesco di Sales raccomandare a Filotea, come prima cosa, la gratitudine per le grazie corporali che Dio le ha dato.

Dobbiamo amare il nostro corpo per diversi motivi: perché ci è necessario per compiere le buone opere, perché è una parte della nostra persona, e perché è destinato a partecipare alla felicità eterna. Il cristiano deve amare il proprio corpo come un’immagine vivente di quello del Salvatore incarnato, come da lui proveniente per parentela e consanguineità. Soprattutto dopo che abbiamo rinnovato l’alleanza, ricevendo realmente il corpo del Redentore nell’adorabile sacramento dell’eucaristia, e, col battesimo, la confermazione e gli altri sacramenti, ci siamo dedicati e consacrati alla somma bontà.

            L’amore del proprio corpo fa parte dell’amore dovuto a sé stessi. In verità, la ragione più convincente per onorare e usare saggiamente del corpo sta in una visione di fede, che il vescovo di Ginevra così spiegava alla madre di Chantal uscita da una malattia: “Abbiate ancora cura di questo corpo, perché è di Dio, mia carissima Madre”. La Vergine Maria viene presentata a questo punto come modello: “Con quale devozione doveva amare il suo corpo verginale! Non soltanto perché era un corpo dolce, umile, puro, obbediente al santo amore e totalmente impregnato di mille sacri profumi, ma anche perché era la viva sorgente di quello del Salvatore e gli apparteneva molto strettamente, con un legame che non ha confronti”.
            L’amore del corpo è, sì, raccomandato, ma il corpo deve rimanere sottomesso allo spirito, come il servitore al suo maestro. Per controllare l’appetito dovrò “comandare alle mani di non fornire alla bocca cibi e bevande, se non nella giusta misura”. Per governare la sessualità “bisogna togliere o dare alla facoltà della riproduzione i soggetti, gli oggetti e gli alimenti che l’eccitano, secondo i dettami della ragione”. Al giovane che si accinge a “prendere il largo nel vasto mare” il vescovo raccomanda: “Vi auguro anche un cuore vigoroso che vi impedisca di vezzeggiare il vostro corpo con soverchie ricercatezze nel mangiare, nel dormire o in altre cose. Si sa, infatti, che un cuore generoso sente sempre un po’ di disprezzo per le delicatezze e le delizie corporali”.
            Affinché il corpo rimanga sottomesso alla legge dello spirito, conviene evitare gli eccessi: né maltrattarlo né vezzeggiarlo. In ogni cosa occorre misura. Il motivo della carità deve avere il primato in tutte le cose; ciò gli fa scrivere: “Se il lavoro che fate vi è necessario oppure è molto utile alla gloria di Dio, preferirei che sopportiate le pene del lavoro piuttosto che quelle del digiuno”. Di qui la conclusione: “In generale è meglio avere in corpo più forze di quante servano, piuttosto che rovinarle al di là del necessario; perché rovinarle si può sempre, appena si vuole, ma per recuperarle non sempre basta volerlo”.
            Ciò che è necessario evitare è questa “tenerezza che si prova per sé stessi”. Se la prende, con fine ironia ma in modo spietato, con un’imperfezione che non è soltanto “propria dei bambini, e, se posso osare di dirlo, delle donne”, ma anche di uomini poco coraggiosi, di cui ci dà questo interessante quadro caratteristico: “Altri sono quelli teneri verso sé stessi, e che non fanno altro che lamentarsi, coccolarsi, vezzeggiarsi e guardarsi”.
            Ad ogni modo, il vescovo di Ginevra si prendeva cura del suo corpo com’era suo dovere, obbediva al proprio medico e alle “infermiere”. Si occupava anche della salute altrui, consigliando misure appropriate. Scriverà, per esempio, alla madre di un giovane allievo del collegio d’Annecy: “È necessario far visitare Charles dai medici, affinché il suo gonfiore di ventre non si aggravi”.
            Al servizio della salute c’è l’igiene. Francesco di Sales desiderava che sia il cuore e sia il corpo fossero puliti. Raccomandava il decoro, molto differente da affermazioni come questa di sant’Ilario secondo il quale “non bisognava cercare la pulizia nei nostri corpi che non sono altro se non carogne pestilenziali e cariche soltanto di infezione”. Era piuttosto del parere di sant’Agostino e degli antichi che facevano il bagno “per tener puliti i loro corpi sia dalla sporcizia prodotta dalla calura e dal sudore, e sia per la salute, che è certamente oltremodo aiutata dalla pulizia”.
            Per poter lavorare e adempiere i doveri del proprio incarico, ognuno dovrebbe prendersi cura del proprio corpo per quanto riguarda l’alimentazione e il riposo: “Mangiare poco, lavorare molto e con molta agitazione e negare al corpo il riposo necessario, è come esigere molto da un cavallo che è sfiancato senza dargli il tempo per masticare un po’ di biada”. Il corpo ha bisogno di riposare, è cosa del tutto evidente. Le lunghe veglie serali sono “dannose alla testa e allo stomaco”, mentre, invece, alzarsi presto al mattino è “utile sia alla salute che alla santità”.

Educare i nostri sensi, specialmente gli occhi e le orecchie
            I nostri sensi sono doni meravigliosi del Creatore. Ci mettono in contatto con il mondo e ci aprono a tutte le realtà sensibili, alla natura, al cosmo. I sensi sono la porta dello spirito, al quale forniscono, per così dire, la materia prima; infatti, come dice la tradizione scolastica, “niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi”.
            Quando Francesco di Sales parla dei sensi, il suo interesse lo porta specialmente sul piano educativo e morale, e il suo insegnamento al riguardo si ricollega a quanto ha esposto sul corpo in generale: ammirazione e vigilanza. Da una parte dice che Dio ci dona “gli occhi per vedere le meraviglie delle sue opere, la lingua per lodarlo, e così per tutte le altre facoltà”, senza mai omettere, dall’altra, la raccomandazione a “porre delle sentinelle agli occhi, alla bocca, alle orecchie, alle mani e all’odorato”.
            È necessario incominciare dalla vista, perché “fra tutte le parti esterne del corpo umano non ce n’è una, per fattura come per attività, più nobile dell’occhio”. L’occhio è fatto per la luce: lo dimostra il fatto che più le cose sono belle, piacevoli alla vista e debitamente illuminate, più l’occhio le guarda con avidità e vivacità. “Dagli occhi e dalle parole si conosce qual è l’anima e lo spirito dell’uomo, poiché gli occhi servono all’anima come il quadrante all’orologio”. È risaputo che tra gli amanti, gli occhi parlano di più della lingua.
            Bisogna vigilare sugli occhi, perché attraverso di loro possono entrare la tentazione e il peccato, come avvenne ad Eva, che rimase incantata nel vedere la bellezza del frutto proibito, o a Davide, che fissò il suo sguardo sulla moglie di Uria. In certi casi bisogna procedere come si fa con l’uccello da preda: per farlo ritornare è necessario mostrargli il logoro; per quietarlo occorre coprirlo con un cappuccio; allo stesso modo, per evitare gli sguardi cattivi, “bisogna distogliere gli occhi, coprirli con il cappuccio naturale e chiuderli”.
            Ammesso che le immagini visive siano largamente dominanti nelle opere di Francesco di Sales, occorre riconoscere che le immagini uditive sono assai degne di nota. Ciò evidenzia l’importanza che attribuiva all’udito per ragioni tanto estetiche quanto morali. “Una sublime melodia ascoltata con molto raccoglimento” produce un tale magico effetto da “incantare le orecchie”. Ma attenzione a non superare le capacità uditive: una musica, per bella che sia, se è forte e troppo vicina, ci dà fastidio e offende l’orecchio.
            D’altra parte, occorre sapere che “il cuore e le orecchie discorrono fra loro”, perché è attraverso l’orecchio che il cuore “ascolta i pensieri degli altri”. È ancora attraverso l’orecchio che entrano nel più profondo dell’anima parole sospette, ingiuriose, menzognere o malevole, dalle quali è necessario guardarsi bene; perché le anime si avvelenano attraverso l’orecchio, come il corpo attraverso la bocca. La donna onesta si tapperà le orecchie per non udire la voce dell’incantatore che vuole conquistarla subdolamente. Restando nell’ambito simbolico, Francesco di Sales dichiara che l’orecchio destro è l’organo attraverso il quale ascoltiamo i messaggi spirituali, le buone ispirazioni e mozioni, mentre quello sinistro serve per udire discorsi mondani e vani. Per custodire il cuore, proteggiamo quindi con grande cura le orecchie.
            Il miglior servizio che possiamo chiedere alle orecchie è quello di poter udire la parola di Dio, oggetto della predicazione, la quale esige uditori attenti e tesi a farla penetrare nei loro cuori affinché porti frutto. Filotea è invitata a “farla stillare” a sua volta nell’orecchio ora dell’uno e ora dell’altro, e a pregare Dio nell’intimo della anima sua, perché gli piaccia far penetrare quella santa rugiada nel cuore di chi l’ascolta.

Gli altri sensi
            Anche in tema di odorato, si è rilevato l’abbondanza delle immagini olfattive. I profumi sono tanto diversi quanto lo sono le sostanze odorose, come il latte, il vino, il balsamo, l’olio, la mirra, l’incenso, il legno aromatico, il nardo, l’unguento, la rosa, la cipolla, il giglio, la violetta, la viola del pensiero, la mandragola, il cinnamomo… Stupisce ancor più costatare i risultati prodotti con la fabbricazione dell’acqua odorosa:

Il basilico, il rosmarino, la maggiorana, l’issopo, i chiodi di garofano, la cannella, la noce moscata, i limoni e il muschio, mescolati insieme e tritati, danno effettivamente un profumo molto gradevole per la miscela dei loro odori; ma non è nemmeno paragonabile a quello dell’acqua che ne viene distillata, nella quale gli aromi di tutti questi ingredienti, isolati dai loro corpi, si fondono più perfettamente, dando origine ad uno squisito profumo che penetra molto di più l’olfatto di quanto non avverrebbe se, assieme all’acqua, ci fossero le parti materiali.

            Numerose sono le immagini olfattive ricavate dal Cantico dei cantici, poema orientale dove i profumi occupano un posto rilevante e dove uno dei versetti biblici più commentati da Francesco di Sales è il grido accorato della sposa: “Attirami a te, noi cammineremo e correremo insieme nella scia dei tuoi profumi”. E quanto è raffinata questa annotazione: “Il soave profumo della rosa è reso più sottile dalla vicinanza dell’aglio piantato nei pressi dei roseti!”.
            Non confondiamo, però, il sacro balsamo con i profumi di questo mondo. Esiste infatti un olfatto spirituale, che dovrebbe essere nel nostro interesse coltivare. Esso ci consente di percepire la presenza spirituale del soggetto amato, e inoltre fa sì che non ci lasciamo distrarre dai cattivi odori del prossimo. Il modello è il padre che raccoglie a braccia aperte il figliol prodigo che ritorna da lui “seminudo, sporco, lurido e puzzolente di immondizie per la lunga consuetudine coi porci”. Un’altra immagine realista compare in riferimento a certe critiche mondane: non meravigliamoci, raccomanda Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, è necessario “che il poco unguento di cui disponiamo sembri puzzolente alle narici del mondo”.
            A proposito del gusto, certe osservazioni del vescovo di Ginevra potrebbero farci pensare che era un goloso nato, anzi un educatore del gusto: “Chi non sa che la dolcezza del miele si unisce sempre più al nostro senso del gusto con un progresso continuo di sapore, allorché, tenendolo lungamente in bocca, anziché inghiottirlo subito, il suo sapore penetra più a fondo il senso del nostro gusto?”. Ammessa la dolcezza del miele, occorre però apprezzare maggiormente il sale, per il fatto che è di uso più comune. In nome della sobrietà e della temperanza, Francesco di Sales raccomandava di saper rinunciare al gusto personale, mangiando ciò che ci “è messo davanti”.
            Infine, trattandosi del tatto, Francesco di Sales ne parla soprattutto in un senso spirituale e mistico. Così raccomanda di toccare Nostro Signore crocifisso: il capo, le sante mani, il prezioso corpo, il cuore. Al giovane che sta per prendere il largo nel vasto mare del mondo richiede di governarsi energicamente e di disprezzare le mollezze, le delizie corporali e le leziosaggini: “Vorrei che a volte voi trattaste duramente il vostro corpo per fargli provare qualche asprezza e durezza, disprezzando delicatezze e cose gradevoli ai sensi; perché è necessario che talvolta la ragione eserciti la sua superiorità e l’autorità che ha di regolare gli appetiti sensuali”.

Il corpo e la vita spirituale
            Anche il corpo è chiamato a partecipare alla vita spirituale che si esprime in primo luogo nella preghiera: “È vero, l’essenza della preghiera è nell’anima, ma la voce, i gesti e gli altri segni esteriori, mediante i quali si rivela l’intimo dei cuori, sono nobili appannaggi e utilissime proprietà della preghiera; ne sono effetti e operazioni. L’anima non si accontenta di pregare se l’uomo nella sua interezza non prega; essa prega assieme agli occhi, alle mani, alle ginocchia”.
            Egli aggiunge che “l’anima prosternata davanti a Dio fa piegare facilmente su di sé l’intero corpo; alza gli occhi dove eleva il cuore, innalza le mani là, da dove aspetta un aiuto”. Francesco di Sales spiega anche che “pregare in spirito e verità è pregare volentieri e affettuosamente, senza finzione né ipocrisia, e impegnando del resto l’uomo intero, anima e corpo, affinché ciò che Dio ha unito non sia separato”. “Bisogna che tutto l’uomo preghi”, ripete alle visitandine. Ma la miglior preghiera è quella di Filotea, quando decide di consacrare a Dio non solamente l’anima, il suo spirito e il suo cuore, ma anche il suo “corpo con tutti i suoi sensi”; è così che l’amerà e servirà veramente con tutto il suo essere.




Il Vicario del Rettor Maggiore. Don Stefano Martoglio

Abbiamo la gioia di annunciare che don Stefano Martoglio è stato rieletto come Vicario del Rettor Maggiore.
I capitolari, lo hanno eletto oggi con maggioranza assoluta e dal primo scrutinio.

Auguriamo un fruttuoso apostolato a don Stefano e le assicuriamo le nostre preghiere.




Nuovo Rettor Maggiore: Fabius Attard

Abbiamo la gioia di annunciare che don Fabius Attard è il nuovo Rettor Maggiore, l’undicesimo successore di don Bosco.

Brevissime informazioni del nuovo Rettor Maggiore:
Nato: 23.03.1959 a Gozo (Malta), diocesi di Gozo.
Noviziato: 1979-1980 a Dublin.
Professione perpetua: 11.08.1985 a Malta.
Ordinazione presbiterale: 04.07.1987 a Malta.
Ha svolto diversi incarichi pastorali e formativi all’interno della sua ispettoria di origine.
È stato per 12 anni il Consigliere generale per la Pastorale Giovanile, 2008-2020.
Dal 2020 è stato il Delegato del Rettor Maggiore per la Formazione Permanente dei salesiani e dei laici in Europa.
Ultima comunità di appartenenza: Roma CNOS.
Lingue conosciute: Maltese, Inglese, Italiano, Francese, Spagnolo.

Auguriamo un fruttuoso apostolato a don Fabio e le assicuriamo le nostre preghiere.




Rettori Maggiori della Congregazione Salesiana

La Congregazione Salesiana, fondata nel 1859 da San Giovanni Bosco, ha avuto alla sua guida un superiore generale chiamato, già dai tempi di don Bosco, Rettor Maggiore. La figura del Rettore Maggiore è centrale nella leadership della congregazione, fungendo da guida spirituale e centro di unità non solo dei salesiani ma anche dell’intera Famiglia Salesiana. Ogni Rettore Maggiore ha contribuito in modo unico alla missione salesiana, affrontando le sfide del loro tempo e promuovendo l’educazione e la vita spirituale dei giovani. Facciamo un breve riassunto dei Rettori Maggiori e delle sfide che hanno dovuto affrontare.

San Giovanni Bosco (1859-1888)
San Giovanni Bosco, fondatore della Congregazione Salesiana, incarnò qualità distintive che hanno plasmato l’identità e la missione dell’ordine. La sua profonda fede e fiducia nella Divina Provvidenza lo resero un leader carismatico, capace di ispirare e guidare con visione e determinazione. La sua dedizione instancabile all’educazione dei giovani, specialmente dei più bisognosi, si manifestò attraverso l’innovativo Sistema Preventivo, basato su ragione, religione e amorevolezza. don Bosco promosse un clima di famiglia nelle case salesiane, favorendo relazioni sincere e fraterne. La sua capacità organizzativa e il suo spirito imprenditoriale portarono alla creazione di numerose opere educative. La sua apertura missionaria spinse la Congregazione oltre i confini italiani, diffondendo il carisma salesiano nel mondo. La sua umiltà e semplicità lo resero vicino a tutti, guadagnandosi la fiducia e l’affetto di collaboratori e giovani.
San Giovanni Bosco affrontò molte difficoltà. Dovette superare l’incomprensione e l’ostilità di autorità civili ed ecclesiastiche, che spesso diffidavano del suo metodo educativo e della sua rapida crescita. Affrontò gravi difficoltà economiche nel sostenere le opere salesiane, spesso contando solo sulla Provvidenza. Gestire giovani difficili e formare collaboratori affidabili fu un compito arduo. Inoltre, la sua salute, logorata dall’intenso lavoro e dalle continue preoccupazioni, fu un limite costante. Nonostante tutto, affrontò ogni prova con fede incrollabile, amore paterno per i giovani e una determinazione instancabile, portando avanti la missione con speranza.

1. Beato Michele Rua (1888-1910)
Il ministero di Rettor Maggiore del Beato Michele Rua si caratterizza come fedeltà al carisma di don Bosco, consolidamento istituzionale e espansione missionaria. È stato nominato da don Bosco come successore per ordine del papa Leone XIII, nell’udienza del 24.10.1884. Dopo la confermazione del Papa, nel 24.09.1885, don Bosco ha reso pubblica la sua scelta davanti al Capitolo Superiore.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– agì come “regola vivente” del sistema preventivo, mantenendo integro lo spirito educativo di don Bosco attraverso formazione, catechesi e direzione spirituale; fu un continuatore del fondatore;
– diresse la Congregazione in crescita esponenziale, gestendo centinaia di case e migliaia di religiosi, con visite pastorali in tutto il mondo nonostante problemi di salute;
– fronteggiò calunnie e crisi (come lo scandalo del 1907) difendendo l’immagine salesiana;
– promosse le Figlie di Maria Ausiliatrice e i Cooperatori, rafforzando la struttura tripartita voluta da don Bosco;
– sotto la sua guida, i Salesiani passarono da 773 a 4.000 membri, e le case da 64 a 341, estendendosi in 30 nazioni.

2. Don Paolo Albera (1910-1921)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Paolo Albera si distingue per fedeltà al carisma di don Bosco ed espansione missionaria globale. Eletto nel Capitolo Generale 11.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– mantenne integro il sistema preventivo, promuovendo la formazione spirituale dei giovani salesiani e la diffusione del Bollettino Salesiano come strumento di evangelizzazione;
– affrontò le sfide della Prima Guerra Mondiale, con salesiani mobilitati (oltre 2.000 chiamati alle armi, 80 di loro morti in guerra) e case trasformate in ospedali o caserme, mantenendo coesione nella Congregazione; questo conflitto causò la sospensione del Capitolo Generale previsto e interruppe molte attività educative e pastorali;
– affrontò le conseguenze di questa guerra che generò un aumento della povertà e del numero di orfani, richiedendo un impegno straordinario per accogliere e sostenere questi giovani nelle case salesiane;
– aprì nuove frontiere in Africa, Asia e America, inviando 501 missionari in nove spedizioni ad gentes e fondando opere in Congo, Cina e India.

3. Beato Filippo Rinaldi (1922-1931)
Il ministero di Rettor Maggiore del Beato Filippo Rinaldi si caratterizza per fedeltà al carisma di don Bosco, espansione missionaria e innovazione spirituale. Eletto nel Capitolo Generale 12.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– mantenne integro il sistema preventivo, promuovendo la formazione interiore dei salesiani;
– inviò oltre 1.800 salesiani in tutto il mondo, fondò istituti missionari e riviste, aprendo nuove frontiere in Africa, Asia e America;
– istituì l’associazione degli Ex-allievi e il primo Istituto secolare salesiano (Volontarie di don Bosco), adattando lo spirito di don Bosco alle esigenze del primo Novecento;
– rianimò la vita interiore della Congregazione, esortando a una “confidenza illimitata” in Maia Ausiliatrice, eredità centrale del carisma salesiano;
– enfatizzò l’importanza della formazione spirituale e dell’assistenza agli emigrati, promuovendo opere di previdenza e associazioni tra lavoratori;
– durante il suo rettorato, i membri passarono da 4.788 a 8.836 e le case da 404 a 644, evidenziando la sua capacità organizzativa e il suo zelo missionario.

4. Don Pietro Ricaldone (1932-1951)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Pietro Ricaldone si caratterizza per consolidamento istituzionale, impegno durante la Seconda Guerra Mondiale e collaborazione con le autorità civili. Eletto nel Capitolo Generale 14.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– potenziò le case salesiane e i centri di formazione, fondò l’Università Pontificia Salesiana (1940) e curò la canonizzazione di don Bosco (1934) e Madre Mazzarello (1951);
– affrontò la Guerra Civile Spagnola (1936-1939) che rappresentò una delle principali difficoltà, con persecuzioni che colpirono duramente le opere salesiane nel paese;
– successivamente affrontò la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) causò ulteriori sofferenze: molti salesiani furono deportati o privati della libertà, e le comunicazioni tra la Casa Generalizia di Torino e le comunità sparse nel mondo furono interrotte; inoltre, l’avvento di regimi totalitari in Europa orientale portò alla soppressione di diverse opere salesiane;
– durante la guerra, aprì le strutture salesiane a sfollati, ebrei e partigiani, mediando per la liberazione di prigionieri e proteggendo chi era in pericolo;
– promosse la spiritualità salesiana attraverso opere editoriali (es. Corona patrum salesiana) e iniziative a favore dei giovani marginalizzati.

5. Don Renato Ziggiotti (1952-1965)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Renato Ziggiotti (1952-1965) si caratterizza per espansione globale, fedeltà al carisma e impegno conciliare. Eletto nel Capitolo Generale 17.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– fu il primo Rettor Maggiore a non aver conosciuto personalmente don Bosco e a rinunciare all’incarico prima della morte, dimostrando grande umiltà;
– durante il suo mandato, i salesiani passarono da 16.900 a oltre 22.000 membri, con 73 ispettorie e quasi 1.400 case in tutto il mondo;
– promosse la costruzione della Basilica di San Giovanni Bosco a Roma e del santuario sul Colle dei Becchi (Colle don Bosco), oltre al trasferimento del Pontificio Ateneo Salesiano nella capitale;
– fu il primo Rettor Maggiore a partecipare attivamente alle prime tre sessioni del Concilio Vaticano II, anticipando il rinnovamento della Congregazione e il coinvolgimento dei laici;
– compì un’impresa senza precedenti: visitò quasi tutte le case salesiane e Figlie di Maria Ausiliatrice, dialogando con migliaia di confratelli, nonostante le difficoltà logistiche.

6. Don Luigi Ricceri (1965-1977)
​Il ministero di Rettor Maggiore di don Luigi Ricceri si caratterizza per rinnovamento conciliare, centralizzazione organizzativa e fedeltà al carisma salesiano. Eletto nel Capitolo Generale 19.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– adattamento post-conciliare: guidò la Congregazione nell’attuazione delle indicazioni del Concilio Vaticano II, promuovendo il Capitolo Generale Speciale (1966) per il rinnovamento delle Costituzioni e la formazione permanente dei salesiani;
– trasferì la Direzione Generale da Valdocco a Roma, separandola dalla “Casa Madre” per integrarla meglio nel contesto ecclesiale;
– la revisione delle Costituzioni e dei Regolamenti fu un compito complesso, mirato a garantire l’adeguamento alle nuove direttive ecclesiali senza perdere l’identità originaria;
– potenziò il ruolo dei Cooperatori e degli Ex-allievi, rafforzando la collaborazione tra i diversi rami della Famiglia salesiana.

7. Don Egidio Viganò (1977-1995)
​ Il ministero di Rettor Maggiore di don Egidio Viganò si caratterizza per fedeltà al carisma salesiano, impegno conciliare e espansione missionaria globale. Eletto nel Capitolo Generale 21.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– la sua partecipazione come esperto al Concilio Vaticano II influenzò significativamente il suo operato, promuovendo l’aggiornamento delle Costituzioni salesiane in linea con le direttive conciliari e guidò la Congregazione nell’attuazione delle indicazioni del Concilio Vaticano II;
–  collaborò attivamente con il papa san Giovanni Paolo II, divenendone confessore personale, e partecipò a 6 sinodi dei vescovi (1980-1994), rafforzando il legame tra la Congregazione e la Chiesa universale;
– profondamente legato alla cultura latinoamericana (dove trascorse 32 anni), ampliò la presenza salesiana nel Terzo Mondo, con un focus su giustizia sociale e dialogo interculturale;
– fu il primo rettor maggiore eletto per tre mandati consecutivi (su dispensa papale);
– potenziò il ruolo dei Cooperatori e degli Ex-allievi, promuovendo la collaborazione tra i diversi rami della Famiglia salesiana;
–  rafforzò la devozione a Maria Ausiliatrice, riconoscendo l’Associazione dei Devoti di Maria Ausiliatrice come parte integrante della Famiglia Salesiana;
– la sua dedizione alla ricerca scientifica e al dialogo interdisciplinare lo portò a essere considerato il “secondo fondatore” dell’Università Pontificia Salesiana;
– sotto la sua guida, la Congregazione avviò il “Progetto Africa”, espandendo la presenza salesiana nel continente africano che diede molti frutti.

8. Don Juan Edmundo Vecchi (1996-2002)
Il ministero di Rettor Maggiore di don Juan Edmundo Vecchi si distingue per fedeltà al carisma salesiano, impegno nella formazione e apertura alle sfide del post-Concilio. Eletto nel Capitolo Generale 24.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– è il primo Rettor Maggiore non italiano: figlio di immigrati italiani in Argentina, rappresentò un cambio generazionale e geografico nella guida della Congregazione, aprendo a una prospettiva più globale;
– promosse la formazione permanente dei salesiani, sottolineando l’importanza della spiritualità e della preparazione professionale per rispondere alle esigenze dei giovani;
– promosse una rinnovata attenzione all’educazione dei giovani, enfatizzando l’importanza della formazione integrale e dell’accompagnamento personale;
– attraverso le Lettere Circolari, esortò a vivere la santità nella quotidianità, legandola al servizio giovanile e alla testimonianza di don Bosco;
– durante la sua malattia, continuò a testimoniare fede e dedizione, offrendo riflessioni profonde sull’esperienza della sofferenza e dell’anzianità nella vita salesiana.

9. Don Pascual Chávez Villanueva (2002-2014)
​Il ministero di Rettor Maggiore di don Pascual Chávez Villanueva si distingue per fedeltà al carisma salesiano, impegno nella formazione e l’impegno nelle sfide della globalizzazione e delle trasformazioni ecclesiali. Eletto nel Capitolo Generale 25.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– promosse la rinnovata attenzione alla comunità salesiana come soggetto evangelizzatore, con priorità alla formazione spirituale e all’inculturazione del carisma nei contesti regionali;
– rilanciò l’impegno verso i giovani più vulnerabili, ereditando l’approccio di don Bosco, con particolare attenzione agli oratori di frontiera e alle periferie sociali;
– curò la formazione permanente dei salesiani, sviluppando studi teologici e pedagogici legati alla spiritualità di don Bosco, preparando il bicentenario della sua nascita;
– guidò la Congregazione con un approccio organizzativo e dialogante, coinvolgendo le diverse regioni e promuovendo la collaborazione tra centri di studio salesiani;
– promosse una maggiore collaborazione con i laici, incoraggiando la corresponsabilità nella missione salesiana e affrontando le resistenze interne al cambiamento.

10. Don Ángel Fernández Artime (2014-2024)
Il ministero di don Ángel Fernández Artime si distingue per fedeltà al carisma salesiano, e al papato. Eletto nel Capitolo Generale 27.
Alcune caratteristiche del suo rettorato:
– guidò la Congregazione con un approccio inclusivo, visitando 120 paesi e promuovendo l’adattamento del carisma salesiano alle diverse realtà culturali, mantenendo saldo il legame con le radici di don Bosco;
– rafforzò l’impegno verso i giovani più vulnerabili, delle periferie, ereditando l’approccio di don Bosco;
– affrontò le sfide della globalizzazione e delle trasformazioni ecclesiali, promuovendo la collaborazione tra centri di studio e rinnovando gli strumenti di governo della Congregazione;
– promosse una maggiore collaborazione con i laici, incoraggiando la corresponsabilità nella missione educativa e pastorale;
– dovete affrontare la pandemia di COVID-19 che ha richiesto adattamenti nelle opere educative e assistenziali per continuare a servire i giovani e le comunità in difficoltà;
– dovete affrontare la gestione delle risorse umane e materiali in un periodo di crisi vocazionale e cambiamenti demografici;
– sposto la Casa Generalizia dalla Pisana all’opera fondata da don Bosco, Sacro Cuore di Roma;
– il suo impegno culminò nella nomina a Cardinale (2023) e a Pro-Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata (2025), segnando un riconoscimento della sua influenza nella Chiesa universale.

I Rettori Maggiori della Congregazione Salesiana hanno svolto un ruolo fondamentale nella crescita e nello sviluppo della congregazione. Ognuno di loro ha portato il proprio contributo unico, affrontando le sfide del loro tempo e mantenendo vivo il carisma di san Giovanni Bosco. La loro eredità continua a ispirare le generazioni future di salesiani e giovani in tutto il mondo, garantendo che la missione educativa di don Bosco rimanga rilevante e vitale nel contesto contemporaneo.

Presentiamo sottostante anche una statistica di questi rettorati.

 Rettor Maggiore Nato il Inizio mandato Rettor Maggiore Eletto a … anni Fine mandato Rettor Maggiore Rettor Maggiore per… Ha vissuto per… anni
BOSCO Giovanni 16.08.1815 18.12.1859 44 31.01.1888 (†) 28 anni e 1 mese 72
RUA Michele 09.06.1837 31.01.1888 50 06.04.1910 (†) 22 anni e 2 mesi 72
ALBERA Paolo 06.06.1845 16.08.1910 65 29.10.1921 (†) 11 anni e 2 mesi 76
RINALDI Filippo 28.05.1856 24.04.1922 65 05.12.1931 (†) 9 anni e 7 mesi 75
RICALDONE Pietro 27.07.1870 17.05.1932 61 25.11.1951 (†) 19 anni e 6 mesi 81
ZIGGIOTTI Renato 09.10.1892 01.08.1952 59 27.04.1965 († 19.04.1983) 12 anni e 8 mesi 90
RICCERI Luigi 08.05.1901 27.04.1965 63 15.12.1977 († 14.06.1989) 12 anni e 7 mesi 88
VIGANO Egidio 29.06.1920 15.12.1977 57 23.06.1995 (†) 17 anni e 6 mesi 74
VECCHI Juan Edmundo 23.06.1931 20.03.1996 64 23.01.2002 (†) 5 anni e 10 mesi 70
VILLANUEVA Pasqual Chavez 20.12.1947 03.04.2002 54 25.03.2014 11 anni e 11 mesi 76
ARTIME Angel Fernandez 21.08.1960 25.03.2014 53 31.07.2024 10 anni 4 mesi 64



Elezione del primo Rettor Maggiore

Durante l’undicesimo Capitolo Generale della Congregazione Salesiana venne eletto il primo Rettor Maggiore, don Paolo Albera. Sebbene formalmente rappresenti il secondo successore di don Bosco, in realtà fu il primo a essere eletto, poiché don Rua era stato già nominato personalmente da don Bosco, per ispirazione divina e su sollecitazione di Papa Pio IX (la nomina di don Rua fu ufficializzata il 27 novembre 1884 e successivamente confermata dalla Santa Sede l’11 febbraio 1888). A seguire, lasciamoci guidare dal racconto di don Eugenio Ceria, che narra l’elezione del primo successore di don Bosco e i lavori del Capitolo Generale.

            Non sembra quasi possibile parlare di antichi Salesiani senza prendere le mosse da Don Bosco. Questa volta è per ammirare la divina Provvidenza, che a Don Bosco lungo l’arduo cammino fece incontrare gli uomini a lui indispensabili nei vari gradi e uffici dell’istituenda sua Congregazione. Uomini, dico, non fatti, ma da fare. Toccò al fondatore cercarseli giovanetti, crescerli, educarli, istruirli, informarli del suo spirito, sicché, dovunque li mandasse, lo rappresentassero degnamente in mezzo ai Soci e di fronte agli estranei. Ecco il caso anche del suo secondo successore. Il piccolo ed esile Paolino Albera, quando dal paesello nativo venne all’Oratorio, non spiccava tra la turba dei compagni per alcuna di quelle caratteristiche, le quali richiamano l’attenzione sopra un nuovo arrivato; ma Don Bosco non tardò a scorgere in lui innocenza di costumi, capacità intellettuale velata da naturale timidezza, e indole di fanciullo, che gli dava bene a sperare. Portatolo su su fino all’altare, lo mandò Direttore a Sampierdarena, poi Direttore a Marsiglia e Ispettore per la Francia, dove lo chiamavano petit Don Bosco, finché nel 1886 la fiducia dei confratelli lo elesse Catechista generale ossia Direttore spirituale della Società. Ma lì non si arrestarono le sue ascensioni.
            Dopo la morte di Don Rua il governo della Società passò, secondo la Regola, nelle mani del Prefetto Generale Don Filippo Rinaldi, che perciò presiedeva il Capitolo Superiore e dirigeva i preparativi per il Capitolo Generale da tenersi entro l’anno 1910. Il grande convegno fu stabilito che si aprisse il 15 agosto, preceduto da un corso di esercizi spirituali, fatti dai Capitolari e predicati da Don Albera.
            Un diario intimo di Don Albera, in inglese, ci mette in grado di conoscere quali fossero i suoi sentimenti nel periodo dell’attesa. Sotto il 21 aprile troviamo: “Parlo a lungo con Don Rinaldi e con gran piacere. Io desidero di tutto cuore, che sia eletto alla carica di Rettor Maggiore della nostra Congregazione. Pregherò lo Spirito Santo per ottenere questa grazia». E sotto il 26: “Raramente si parla del successore di Don Rua. Io spero che si elegga il Prefetto. Ha le virtù necessarie per la carica. Ogni giorno prego per questa grazia». Di nuovo 1’11 maggio: “Accetto di andare a Milano per il funerale di Don Rua. Sono contentissimo di obbedire a Don Rinaldi, nel quale riconosco il mio vero Superiore. Prego tutti i giorni domandando che sia eletto Rettor Maggiore”. Sotto il 6 giugno rivela il perché di tanta propensione per Don Rinaldi scrivendo di lui: “Ho un’alta idea della sua virtù, della sua capacità e iniziativa”. Andando poco dopo a Roma in sua compagnia, scriveva l’8 in Firenze: “Vedo che Don Rinaldi è bene accetto dappertutto e considerato come il successore di Don Rua. Lascia buona impressione in quelli con i quali parla”.
            Se fosse dunque stato lecito fare propaganda, egli sarebbe stato suo grande elettore. Né erano pochi i Salesiani che la pensavano allo stesso modo. Non parliamo degli spagnoli, tra i quali aveva lasciato grande eredità d’affetti. Ispettori e delegati, quando arrivavano dalla Spagna per il Capitolo Generale, non facevano tanti misteri nemmeno parlando con lui. Ma egli a tali discorsi mostrava tutta l’indifferenza di un sordo, che non intenda sillaba di quanto gli si dice. In questo il suo atteggiamento era tale, che impressionava i suoi giocondi interlocutori. C’era veramente del mistero.
            La sera dell’Assunta si tenne l’adunanza di apertura, nella quale Don Rinaldi “parlò molto bene”, nota nel diario Don Albera. All’elezione del Rettor Maggiore si procedette nella seduta del mattino seguente. Dall’inizio dello scrutinio i nomi di Don Albera e di Don Rinaldi si avvicendavano a brevi intervalli. Il primo appariva sempre più turbato e sbigottito; l’altro invece non dava il menomo segno di commozione. La cosa era notata, e non senza una puntolina di curiosità. Un grande applauso salutò il voto, che raggiungeva la maggioranza assoluta, richiesta dalla Regola. Don Rinaldi, com’ebbe compiuto l’ultimo atto nella sua qualità di presidente dell’assemblea con la proclamazione dell’eletto, domandò di poter leggere un suo promemoria. Ottenuto l’assenso, si fece restituire da Don Lemoyne, Segretario del Capitolo1 Superiore, una busta chiusa, consegnatagli il 27 febbraio e recante la soprascritta: “Da aprirsi dopo le elezioni che avverrebbero alla morte del caro Don Rua”. Avutala nelle mani, la dissuggellò e lesse: “Il sig. Don Rua è gravemente ammalato ed io mi credo in dovere di consegnare per iscritto, quanto si conserva nel mio cuore, al suo successore. Il 22 novembre 1877 si celebrava a Borgo S. Martino la solita festa di S. Carlo. Alla tavola presieduta dal Ven. Giovanni Bosco e da Mons. Ferrò sedeva io pure al fianco di Don Belmonte. Ad un certo punto cadde la conversazione su Don Albera, raccontando Don Bosco le difficoltà, che gli mosse il clero del suo paese. Fu allora che Mons. Ferrò volle sapere, se Don Albera avesse superato quelle difficoltà: — Certamente, rispose Don Bosco. Egli è il mio secondo… — E passando una mano sulla fronte, sospese la frase. Ma io calcolai subito che non era il secondo entrato né il secondo in dignità, non essendo del Capitolo Superiore, né il secondo Direttore ed arguii che fosse il secondo successore; ma conservai queste cose nel mio cuore, aspettando gli eventi. Torino, 27 febbraio 1910». Gli elettori compresero allora il perché del suo contegno e si sentirono allargare il cuore: avevano dunque eletto colui che da Don Bosco era stato preconizzato trentatré anni prima.
            Venne subito incaricato Don Bertello di formulare due telegrammi di comunicazione al Santo Padre e al Card. Rampolla, Protettore della Società. Al Papa si diceva: “Don Paolo Albera, nuovo Rettor Maggiore Pia Società Salesiana e Capitolo Generale, che con massima concordia di animi oggi novantacinquesimo anniversario nascita Ven. Don Bosco lo elesse e col massimo giubilo lo festeggia eletto, ringraziano Vostra Santità preziosi consigli e preghiere e protestano profondo ossequio ed illimitata obbedienza”. Sua Santità rispose tosto inviando l’apostolica benedizione. Nel telegramma si allude a un autografo pontificio del 9 agosto. Era del tenore seguente: “Ai diletti figli della Congregazione Salesiana del Ven. Don Bosco raccolti per la elezione del Rettor Generale, nella certezza, che tutti, quacumque humana affectione postposita, daranno il loro voto a quel Confratello, che giudicheranno in Domino il più adatto per mantenere il vero spirito della Regola, per incoraggiare e dirigere alla perfezione tutti i Membri del religioso Istituto, e per far prosperare le molteplici opere di carità e di religione, alle quali si sono consacrati, impartiamo con paterno affetto l’Apostolica Benedizione. Dal Vaticano li 9 agosto 1910. Pius PP. X”.
            Anche il Cardinale Protettore aveva indirizzato il 12 agosto “al Regolatore ed Elettori del Capitolo “una parola paterna di augurio e di incoraggiamento, dicendo tra l’altro: “Il vostro amatissimo Don Bosco col più intenso affetto di padre già vi rivolge senza dubbio dal Cielo lo sguardo ed implora ferventemente dal Divino Paracleto che spanda su di voi i celesti lumi ispirandovi savi consigli. La santa Chiesa attende dai vostri suffragi un degno successore di Don Bosco e di Don Rua, il quale sappia sapientemente conservare l’opera loro, anzi accrescerla con nuovi incrementi. Ed anch’io col più vivo interessamento, unito a voi nella preghiera, formo caldissimi voti, affinché col divino favore la vostra scelta sia sotto ogni rapporto felice e tale da recarmi la dolce consolazione di vedere la Congregazione Salesiana ognora più rigogliosa fiorire a vantaggio delle anime e ad onore dell’Apostolato cattolico. Fate dunque che in atto così sacro e solenne gli animi vostri si tengano lungi da umani riguardi e personali sentimenti; onde guidati unicamente da rette intenzioni e ardente brama della gloria di Dio e del maggior bene dell’Istituto, congiunti nel nome del Signore nella più perfetta concordia e carità, possiate scegliere a vostro reggitore colui che per santità di vita vi sia esempio, per bontà di cuore padre amoroso, per prudenza e saggezza guida sicura, per zelo e fermezza vigile custode della disciplina, della religiosa osservanza e dello spirito del Venerabile Fondatore”. Sua Eminenza, ricevendo non molto dopo Don Albera, gli diede segni non dubbi di ritenere che la scelta fosse stata fatta conforme ai voti da lui espressi.
            Quale fosse nei primi istanti il sentimento dell’eletto, lo dice il diario, nel quale sotto il 16 agosto leggiamo: “Questo è un giorno di grande sfortuna per me. Sono stato eletto Rettor Maggiore della Pia Società di S. Francesco di Sales. Quale responsabilità sulle mie spalle! Ora più che mai debbo gridare: Deus, in adiutorium meum intende. Ho pregato moltissimo, specialmente davanti alla tomba di Don Bosco”. Nel suo portafoglio fu rinvenuto un foglietto ingiallito, nel quale si era tracciato e firmato questo programma: “Avrò sempre Dio in vista, Gesù Cristo qual modello, l’Ausiliatrice in aiuto, me stesso in sacrificio”.
            Erano scaduti nel medesimo tempo tutti i membri del Capitolo Superiore e bisognava farne l’elezione, il che si eseguì nella terza seduta. Primo fu eletto il Prefetto Generale. La votazione sul nome di Don Rinaldi risultò plebiscitaria. Dei 73 votanti, 71 diedero a lui il voto. Mancò dunque un voto solo, che andò a Don Paolo Virion, Ispettore francese. L’altro, assai probabilmente il suo, fu per Don Pietro Ricaldone, Ispettore nella Spagna, da lui molto stimato. Ripigliò pertanto la sua quotidiana fatica, che doveva durare ancora dodici anni, fino a quando diventò egli stesso Rettor Maggiore.
            Fatto questo, il Capitolo passò all’elezione dei rimanenti, che furono: Don Giulio Barberis, Catechista Generale; Don Giuseppe Bertello, Economo; Don Luigi Piscetta, Don Francesco Cerruti, Don Giuseppe Vespignani, Consiglieri. Quest’ultimo, Ispettore nell’Argentina, ringraziata l’assemblea per l’atto di fiducia, si disse obbligato da motivi particolari e anche dalla salute a declinare la nomina, pregando si volesse addivenire a un’altra elezione. Ma il Superiore non credette doversene accettare così su due piedi la rinuncia e lo pregò di sospendere fino al domani ogni decisione. Al domani, invitato dal Rettor Maggiore a notificare la risoluzione presa, rispose che, seguendo il consiglio del Superiore, si rimetteva interamente all’obbedienza con faccettare la carica.
            Primo atto del rieletto Prefetto Generale fu di portare ufficialmente a conoscenza dei Soci l’elezione del nuovo Rettor Maggiore. In una breve lettera, accennate di volo le varie fasi della sua vita, ricordava opportunamente il così detto “Sogno della Ruota”, nel quale Don Bosco aveva visto Don Albera con una lucerna in mano illuminare e guidare gli altri (MB VI,910). Quindi molto opportunamente conchiudeva: “Miei cari confratelli, risuonino ancora una volta alle vostre orecchie le amorose parole di Don Bosco nella lettera-testamento: “Il vostro Rettore è morto, ma ve ne sarà eletto un altro, che avrà cura di voi e della vostra eterna salvezza. Ascoltatelo, amatelo, ubbiditelo, pregate per lui, come avete fatto per me”.
            Alle Figlie di Maria Ausiliatrice Don Albera stimò opportuno fare senza troppo indugio una sua comunicazione, tanto più che da esse riceveva lettere in buon numero. Le ringraziava pertanto dei loro rallegramenti, ma soprattutto delle loro preghiere. “Spero, scriveva, che Iddio esaudirà i vostri voti e che non permetterà che la mia inettezza abbia ad essere di nocumento a quelle opere, a cui il Ven. Don Bosco e l’indimenticabile Don Rua consacrarono tutta la loro vita”. Si augurava infine che tra i due rami della famiglia di Don Bosco regnasse ognora una santa gara nel conservare lo spirito di carità e di zelo lasciato in eredità dal fondatore.
            Diamo ora un fuggevole sguardo ai lavori del Capitolo Generale. Tema fondamentale si può dire che ve ne fu uno solo. Il Capitolo antecedente, compiuta una revisione piuttosto sommaria dei Regolamenti, aveva deliberato che, così com’erano, si praticassero per sei anni ad experimentum e che il Capitolo XI li ripigliasse in esame fissandone il testo definitivo. Questi Regolamenti erano sei: per gl’Ispettori, per tutte le case salesiane, per le case di noviziato, per le parrocchie, per gli oratori festivi e per la Pia Unione dei Cooperatori. Il medesimo Capitolo X con una petizione firmata da 36 membri aveva chiesto che nell’XI si trattasse la questione amministrativa e soprattutto il modo di rendere sempre più proficui i cespiti d’entrata, che la Provvidenza concedeva a ogni casa salesiana. Ad agevolare l’arduo lavoro fu nominata per ogni Regolamento una Commissione, dirò così, di tecnici, extracapitolare con l’incarico di fare gli studi relativi e di presentare al Capitolo medesimo le conclusioni.
            Le discussioni, incominciate alla quinta seduta, si protrassero per altre 21. A voler esaurire la materia sarebbe stato necessario prolungare ben più i lavori; ma il Capitolo Generale con votazione unanime deferì il compito di ultimare la revisione al Capitolo Superiore, il quale promise di eseguirla, nominando un’apposita Commissione. Tuttavia il Capitolo Generale, per mostrare che non se ne disinteressava e per aiutare l’opera, manifestò il desiderio di creare una Commissione incaricata di formulare i principali criteri, che avrebbero dovuto guidare la nuova Commissione dei Regolamenti nella sua lunga e delicata fatica. Cosi fu fatto. Vennero pertanto portate a conoscenza dell’assemblea e approvate dieci norme direttive, elaborate da suoi delegati sotto la presidenza di Don Ricaldone. Lo sfondo di esse era di mantenere saldo lo spirito di Don Bosco, integri conservando quegli articoli che si riconoscevano suoi, e di eliminare dai Regolamenti quanto contenevano di puramente esortativo.
            Dell’XI Capitolo Generale altro più non ricorderò fuorché due episodi, i quali sembrano avere particolare importanza. Il primo si riferisce al Regolamento degli Oratori festivi. La Commissione extracapitolare aveva creduto bene di sfrondarlo, massime nella parte concernente le svariate cariche. A Don Rinaldi parve che ne risultasse distrutto il concetto di Don Bosco circa gli Oratori festivi; onde insorse dicendo; “Il Regolamento stampato nel 1877 fu veramente compilato da Don Bosco, e me lo assicurava Don Rua quattro mesi prima della morte. Faccio quindi voti, che sia conservato intatto, perché, se sarà praticato, si vedrà che è sempre buono anche oggi”.
            Qui si accese un’animata discussione, della quale colgo le battute più notevoli. Il relatore dichiarò che la Commissione ignorava affatto questa particolarità; ma osservò pure non essersi mai quel Regolamento praticato integralmente in nessun Oratorio festivo, nemmeno a Torino. Opinare la Commissione che il Regolamento fosse stato fatto compilare da Don Bosco su Regolamenti degli Oratori festivi lombardi; a ogni modo aver essa inteso soltanto di sfrondarlo e d’introdurvi quanto di pratico si riscontrasse nei migliori Oratori salesiani. Ma Don Rinaldi non si acquietò, e insistette nel desiderio di Don Rua che quel Regolamento venisse rispettato, come opera di Don Bosco, pur con l’introduzione di quanto si giudicasse utile per i giovani adulti.
            Rincalzò questa tesi Don Vespignani. Egli, venuto all’Oratorio già sacerdote nel 1876, aveva ricevuto da Don Rua l’incarico di trascrivere dall’originale di Don Bosco quel Regolamento e ne conservava ancora le prime bozze. Anche Don Barberis assicurò di aver veduto l’autografo. Gli oppositori l’avevano contro le cariche. Ma Don Rinaldi non disarmò, anzi proferì queste energiche parole: “Nulla si alteri del Regolamento di Don Bosco, che altrimenti perderebbe l’autorità”. Don Vespignani confermò un’altra volta il pensiero di lui con esempi dell’America e specialmente dell’Uruguay, dove, essendosi voluto al tempo di Mons. Lasagna provare diversamente, non si era riusciti a nulla. Finalmente la controversia fu chiusa col votare il seguente ordine del giorno: “Il Capitolo Generale XI delibera che si conservi intatto il “Regolamento degli Oratori festivi” di Don Bosco, quale fu stampato nel 1877, facendovi solo in appendice quelle aggiunte che vi si ritenessero opportune, specialmente per le sezioni dei giovani più adulti». Va encomiata la sensibilità dell’assemblea di fronte a un tentativo di riforma in cose sancite da Don Bosco.
            Il secondo episodio appartiene alla penultima seduta per una questione non estranea ai Regolamenti, come a prima vista potrebbe sembrare. La sollevò di nuovo Don Rinaldi, resosi interprete del desiderio di molti, che venisse definita la posizione dei Direttori nelle case dopo il decreto sulle confessioni. Fino al 1901 l’essere essi confessori ordinari dei soci e degli alunni faceva sì che nel dirigere agissero abitualmente con uno spirito paterno (questo argomento è ampiamente esposto in Annali III,170-194). Dopo d’allora invece si cominciava a osservare che veniva smettendosi il carattere paterno voluto da Don Bosco nei suoi Direttori e da lui insinuato nel Regolamento delle case e altrove; i Direttori infatti si davano ad accudire gli affari materiali, disciplinari e scolastici, sicché diventavano Rettori e non più Direttori. “Dobbiamo tornare, diceva Don Rinaldi, allo spirito e al concetto di Don Bosco, manifestatoci specialmente nei “Ricordi confidenziali “(Annali III,49-53) e nel Regolamento. Il Direttore sia sempre Direttore salesiano. Eccetto il ministero della confessione, nulla è mutato».
            Don Bertello deplorò che i Direttori avessero creduto di dover lasciare con la confessione anche la cura spirituale della casa, dedicandosi ad uffici materiali. “Speriamo, disse, che sia stata cosa di un momento. Bisogna tornare all’ideale di Don Bosco, descrittoci nel Regolamento. Si leggano quegli articoli, si meditino e si pratichino” (Li citò secondo l’edizione d’allora’; nella presente sarebbero i 156, 157, 158, 159, 57, 160, 91, 195). Conchiuse Don Albera dicendo: “È questione essenziale per la vita della nostra Società, che si conservi lo spirito del Direttore secondo l’ideale di Don Bosco; altrimenti cambiamo il modo di educare e non saremo più salesiani. Dobbiamo fare di tutto per conservare lo spirito di paternità, praticando i ricordi che Don Bosco ci lasciò: essi ci diranno come bisogna fare. Specialmente nei rendiconti noi potremo conoscere i nostri sudditi e dirigerli. Quanto ai giovani, la paternità non importa carezze o concessioni illimitate, ma l’interessarsi di loro, il dar loro facoltà di venirci a trovare. Non dimentichiamo poi l’importanza del discorsino della sera. Siano fatte bene e con cuore le prediche. Facciamo vedere che ci sta a cuore la salvezza delle anime e lasciamo ad altri le parti odiose. Così sarà conservata al Direttore l’aureola, di cui lo voleva circondato Don Bosco”.
            Anche questa volta i Capitolari trovarono aperta nell’Oratorio un’Esposizione generale delle Scuole Professionali e Agricole Salesiane, la terza, che durò dal 3 luglio al 16 ottobre. Avendo già descritte le due precedenti, non occorre più fermarci a ripetere su per giù le medesime cose (Annali III,452-472). Naturalmente l’esperienza passata servì a una migliore organizzazione della mostra. Prevalse il criterio enunciato già due volte dall’organizzatore Don Bertello, che cioè, secondo un ordinamento voluto da Don Bosco, ogni Esposizione di tal genere è un fatto destinato a ripetersi periodicamente ad ammaestramento e stimolo delle scuole. L’apertura e la chiusura ricevettero lustro dall’intervento delle autorità cittadine e di rappresentanti del Governo. Visitatori non ne mancarono mai, e fra essi personalità d’alto grado ed anche di vera competenza. Nell’ultimo giorno il prof. Piero Gribaudi fece al nuovo Rettor Maggiore la prima presentazione di ex-allievi torinesi in numero di circa 300. Il Deputato Cornaggia nel suo discorso finale pronunciò questo giudizio ben degno di restare (Bollettino Salesiano, nov.1910, p.332): “Chi ha avuto occasione di approfondire lo studio sull’ordinamento di queste scuole e dei concetti che le ispirano, non può non ammirare la sapienza di quel Grande, che ha compreso i bisogni operai nelle condizioni dei tempi nuovi, prevenendo filantropi e legislatori”.
            Avevano partecipato alla mostra 55 case con un numero complessivo di 203 scuole. L’esame dei lavori esposti fu affidato a nove giurie distinte, delle quali fecero parte 50 tra i più insigni professori, artisti e industriali di Torino. Dovendo avere l’Esposizione carattere esclusivamente scolastico, secondo tale criterio vennero giudicati i lavori e aggiudicati i premi. Questi ultimi furono cospicui, offerti dal Papa (una medaglia d’oro), dal Ministero di Agricoltura e Commercio (cinque medaglie d’argento), dal Municipio di Torino (una medaglia d’oro e due d’argento), dal Consorzio agrario di Torino (due medaglie d’argento), dalla “Pro Torino” (una medaglia vermeil, una d’argento e due di bronzo), dagli ex-allievi del Circolo “Don Bosco” (una medaglia d’oro), dalla Ditta “Augusta” di Torino (lire 500 in materiale tipografico da dividersi in tre premi), dal Capitolo Superiore salesiano (corona d’alloro in argento dorato per il gran premio) (Le assegnazioni stanno elencate nel citato numero del Bollettino Salesiano).
            Mette conto riportare gli ultimi periodi della relazione, che Don Bertello lesse prima che si proclamassero i premiati. Disse: “Circa tre mesi fa, nell’atto d’inaugurare la nostra piccola Esposizione, noi abbiamo deplorato che per la morte del Rev.mo sig. Don Rua fosse mancato Colui, al quale intendevamo di fare l’omaggio dei nostri studi e dei nostri lavori nel suo giubileo sacerdotale. La Divina Provvidenza ci ha dato un nuovo Superiore e Padre nella persona del Rev.mo sig. Don Albera. Orbene, chiudendo l’Esposizione, noi deponiamo nelle sue mani i nostri propositi e le nostre speranze, sicuri che l’artigiano, che fu già prima cura del Ven. Don Bosco e delizia del signor Don Rua, avrà sempre un posto conveniente nell’affetto e nelle sollecitudini del loro Successore”.
            Quello fu l’ultimo trionfo di Don Bertello. Poco più di un mese dopo, il 20 novembre, un malore improvviso spegneva d’un tratto un’esistenza così operosa. L’ingegno robusto, la soda cultura, la fermezza del carattere e la bontà dell’animo fecero di lui prima un saggio Direttore di collegio, poi un solerte Ispettore e infine per dodici anni un esperto Direttore Generale delle scuole professionali e agricole salesiane. Tutto egli doveva, dopo Dio, a Don Bosco, che l’aveva allevato nell’Oratorio fin da piccolo e se l’era formato a sua immagine e somiglianza.
            Don Albera non aveva frapposto il menomo indugio a compiere il gran dovere di rendere omaggio al Vicario di Gesù Cristo, a Colui che la Regola chiama “arbitro e supremo Superiore “della Società. Subito il 1° settembre partì per Roma, dove, giunto il 2, trovò già il biglietto di udienza per la mattina del 3. Sembrò quasi che Pio X fosse impaziente di vederlo. Dalle labbra del Papa raccolse alcune amabili espressioni, che si ripose nel cuore. Ai ringraziamenti per l’autografo e la benedizione rispose il Papa d’aver creduto di agire così per far conoscere quanto gli tornasse gradita l’attività mondiale dei Salesiani e soggiunse: -— Siete nati ieri, è vero, ma siete sparsi in tutto il mondo e dappertutto lavorate molto. — Essendo informato delle vittorie già ottenute nei tribunali contro i calunniatori di Varazze (Annali III,729-749), ammonì: — Vigilate, perché altri colpi vi preparano i vostri nemici. — Finalmente, richiesto umilmente di qualche norma pratica per il governo della Società, rispose; — Non vi scostate dagli usi e dalle tradizioni introdotti da Don Bosco e da Don Rua.
            Era già finito il 1910 e Don Albera non aveva ancora fatto una comunicazione all’intera Società. Occupazioni nuove per lui e incessanti, massime le molte conferenze con i 32 Ispettori, gl’impedivano sempre di raccogliersi al tavolino. Solo nella prima metà di gennaio, come si rileva dal diario, scrisse le prime pagine di una circolare, che doveva riuscirgli lunghetta. La spedi con la data del 25. Scusatosi del ritardo a farsi vivo, commemorato Don Rua ed elogiato Don Rinaldi per il suo buon governo interinale della Società, si diffondeva in particolari notizie sul Capitolo Generale, sulla propria elezione, sulla visita al Papa, sulla morte di Don Bertello. In tutto aveva l’aria di un padre che s’intrattiene familiarmente con i figli. Li mise pure a parte delle sue pene per i fatti del Portogallo. Spodestata a Lisbona la monarchia nell’ottobre 1910, i rivoluzionari avevano preso accanitamente di mira i religiosi, assalendoli con una furia selvaggia. I Salesiani non ebbero a lamentare vittime; tuttavia i confratelli del Pinheiro presso Lisbona passarono una brutta giornata. Un branco di energumeni invase e svaligiò quella casa, non solo prendendosi ludibrio dei sacerdoti e dei chierici, ma anche profanando sacrilegamente la cappella e più sacrilegamente disperdendo al suolo e perfino calpestando le ostie consacrate. Quasi tutti i Salesiani dovettero lasciare il Portogallo, rifugiandosi nella Spagna o nell’Italia. I rivoluzionari ne occuparono le scuole e i laboratori, donde furono scacciati gli alunni. Anche alle colonie si estese la persecuzione, sicché bisognò abbandonare Macao e Mozambico, dove si faceva gran bene (Annali III, 606 e 622-4). Ma già allora Don Albera poteva scrivere: “Coloro stessi che ci hanno dispersi, riconoscono che hanno privato il loro paese delle uniche scuole professionali che possedesse”.
            Egli, che tante volte aveva udito Don Bosco nei primordi della Società predire il moltiplicarsi de’ suoi figli in ogni nazione anche remota, e vedeva allora avverate mirabilmente quelle predizioni, sentiva certo tutto il peso dell’immensa eredità ricevuta e riteneva che per qualche tempo non fosse da metter mano a opere nuove, ma convenisse applicarsi a consolidare le esistenti. Stimava quindi doveroso inculcare la stessa cosa a tutti i Salesiani: a ottener ciò non bastando da soli i Superiori, si raccomandava caldamente alla cooperazione comune. Siccome poi in quegli anni il modernismo tendeva insidie anche alle famiglie religiose, metteva sull’avviso i Salesiani, supplicandoli a fuggire ogni novità, che Don Bosco e Don Rua non avrebbero potuto approvare.
            Insieme con la circolare inviava pure a ogni casa un esemplare delle circolari di Don Rua, che dal letto di morte aveva dato a lui l’incarico di raccoglierle in un volume. Il lavoro tipografico era già terminato da circa due mesi; infatti la pubblicazione recava in fronte una lettera di Don Albera con la data dell’8 dicembre 1910.
            Per il vicino anniversario della morte di Don Bosco inviava dunque alle case un doppio regalo, la circolare e il libro. A questo secondo egli teneva in modo speciale, perché sapeva di offrire in esso un gran tesoro di ascetica e di pedagogia salesiana. Le tracce di Don Rua egli si era proposto di seguire, prefiggendosi specialmente d’imitarne la carità e lo zelo nel procurare il bene spirituale di tutti i Salesiani.

Annali della Società salesiana, vol. IV (1910-1921), p. 1-13




Vera Grita pellegrina di speranza

            Vera Grita, figlia di Amleto e di Maria Anna Zacco della Pirrera, nata a Roma il 28 gennaio 1923, era la secondogenita di quattro sorelle. Visse e studiò a Savona dove conseguì l’abilitazione magistrale. A 21 anni, durante una improvvisa incursione aerea sulla città (1944), venne travolta e calpestata dalla folla in fuga, riportando conseguenze gravi per il suo fisico che da allora rimase segnato per sempre dalla sofferenza. Passò inosservata nella sua breve vita terrena, insegnando nelle scuole dell’entroterra ligure (Rialto, Erli, Alpicella, Deserto di Varazze), dove si guadagnò la stima e l’affetto di tutti per il suo carattere buono e mite.
            A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipava alla Messa ed era assidua al sacramento della Penitenza. Dal 1963 fu suo confessore il salesiano don Giovanni Bocchi. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizzò la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si donava a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sottopose tutti gli scritti al direttore spirituale, il salesiano don Gabriello Zucconi, e custodì nel silenzio del proprio cuore il segreto di quella chiamata, guidata dal divino Maestro e dalla Vergine Maria che l’accompagnarono lungo la via della vita nascosta, della spoliazione e dell’annientamento di sé.
            Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita rispose al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Centrata e salda nel Dio che ama e sostiene, con grande fermezza interiore fu resa capace di sopportare le prove e le sofferenze della vita. Sulla base di tale solidità interiore diede testimonianza di un’esistenza cristiana fatta di pazienza e costanza nel bene.
            Morì il 22 dicembre 1969, a 46 anni, in una cameretta dell’ospedale a Pietra Ligure dove aveva trascorso gli ultimi sei mesi di vita in un crescendo di sofferenze accettate e vissute in unione a Gesù Crocifisso. “L’anima di Vera – scrisse don Borra, Salesiano, suo primo biografo – con i messaggi e le lettere entra nella schiera di quelle anime carismatiche chiamate ad arricchire la Chiesa con fiamme di amore a Dio e a Gesù Eucaristico per la dilatazione del Regno”.

Una vita privata delle umane speranze
            Umanamente, la vita di Vera è segnata sin dall’infanzia dalla perdita di un orizzonte di speranza. La perdita dell’autonomia economica nel suo nucleo familiare, quindi il distacco dai genitori per recarsi Modica in Sicilia dalle zie e soprattutto la morte del padre nel 1943, mettono Vera davanti alle conseguenze di eventi umani particolarmente sofferti.
            Dopo il 4 luglio 1944, giorno del bombardamento su Savona e che segnerà tutta la vita di Vera, anche le sue condizioni di salute saranno compromesse per sempre. Perciò la Serva di Dio si ritrovò giovane ragazza senza alcuna prospettiva di futuro e dovette a più riprese rivedere i propri progetti e rinunciare a tanti desideri: dagli studi universitari all’insegnamento e, soprattutto, a una propria famiglia con il giovane che stava frequentando.
            Nonostante la fine repentina di tutte le sue umane speranze tra i 20 e i 21 anni, in Vera la speranza è molto presente: sia quale virtù umana che crede in un cambiamento possibile e si impegna a realizzarlo (pur molto malata, preparò e vinse il concorso per insegnare), sia soprattutto come virtù teologale – ancorata alla fede – che le infonde energia e diventa strumento di consolazione per gli altri.
            Quasi tutti i testimoni che la conobbero rilevano tale apparente contraddizione tra condizioni di salute compromesse e la capacità di non lamentarsi mai, attestando invece gioia, speranza e coraggio anche in circostanze umanamente disperate. Vera divenne “apportatrice di gioia”.
            Una nipote afferma: «Era sempre malata e sofferente, ma mai l’ho vista scoraggiata o arrabbiata per la sua condizione, aveva sempre una luce di speranza sostenuta dalla grande fede. […] Mia zia era spesso ricoverata in ospedale, sofferente e delicata, ma sempre serena e piena di speranza per il grande Amore che aveva per Gesù».
            Anche la sorella Liliana trasse dalle telefonate pomeridiane con lei incoraggiamento, serenità e speranza, benché la Serva di Dio fosse allora gravata da numerosi problemi di salute e da vincoli professionali: «mi infondeva – dice – fiducia e speranza facendomi riflettere che Dio è sempre vicino a noi e ci conduce. Le sue parole mi riportavano nelle braccia del Signore e ritrovavo la pace».
            Agnese Zannino Tibirosa, la cui testimonianza riveste particolare valore poiché frequentò Vera all’ospedale “Santa Corona” nel suo ultimo anno di vita, attesta: «nonostante le gravi sofferenze che la malattia le procurava, non l’ho mai sentita lamentarsi del suo stato. Dava sollievo e speranza a tutti quelli che avvicinava e quando parlava del suo futuro, lo faceva con entusiasmo e coraggio».
            Fino all’ultimo Vera Grita si mantenne così: anche nell’ultima parte del suo cammino terreno custodì uno sguardo al futuro, sperò che con le cure il tubercoloma potesse venire riassorbito, sperava di poter occupare la cattedra ai Piani di Invrea nell’anno scolastico 1969-1970 come pure di potersi dedicare, una volta uscita dall’ospedale, alla propria missione spirituale.

Educata alla speranza dal confessore e nel cammino spirituale
            In tal senso, la speranza attestata da Vera è radicata in Dio e in quella lettura sapienziale degli eventi che il suo padre spirituale don Gabriello Zucconi e, prima di lui, il confessore don Giovanni Bocchi le insegnarono. Proprio il ministero di don Bocchi – uomo di letizia e speranza – esercitò un ascendente positivo su Vera, che egli accolse nella sua condizione di malata e cui insegnò a dare valore alle sofferenze – non ricercate – da cui era gravata. Don Bocchi per primo fu maestro di speranza, di lui è stato detto: «con parole sempre cordiali e piene di speranza, ha spalancato i cuori alla magnanimità, al perdono, alla trasparenza nei rapporti interpersonali; ha vissuto le beatitudini con naturalità e fedeltà quotidiana». «Sperando ed avendo la certezza che come è avvenuto a Cristo avvenga anche a noi: la Risurrezione gloriosa», don Bocchi attuava attraverso il suo ministero un annuncio della speranza cristiana, fondata sull’onnipotenza di Dio e la risurrezione di Cristo. Più tardi, dall’Africa dove era partito missionario, dirà: «ero lì perché volevo portare e donare loro Gesù Vivo e presente nella Santissima Eucaristia con tutti i doni del Suo Cuore: la Pace, la Misericordia, la Gioia, l’Amore, la Luce, l’Unione, la Speranza, la Verità, la Vita eterna».
            Vera divenne apportatrice di speranza e di gioia anche in ambienti segnati dalla sofferenza fisica e morale, da limitazioni cognitive (come tra i suoi piccoli alunni ipodotati) o condizioni familiari e sociali non ottimali (come nel «clima arroventato» di Erli).
            L’amica Maria Mattalia ricorda: «Rivedo il dolce sorriso di Vera, talvolta stanco per tanto lottare e soffrire; rammentando la sua forza di volontà cerco di seguire il suo esempio di bontà, di grande fede, speranza e amore […]».
            Antonietta Fazio – già bidella alla scuola di Casanova – testimoniò di lei: «era molto benvoluta dai suoi alunni che amava tanto ed in particolare da coloro in difficoltà intellettiva […]. Molto religiosa, trasmetteva ad ognuno fede e speranza pur essendo lei medesima molto sofferente nel fisico ma non nel morale».
            In quei contesti, Vera lavorava per far rinascere le ragioni della speranza. Per esempio, in ospedale (dove il vitto è poco appagante) si privò di un grappolo speciale d’uva per farne trovare una parte sul comodino di tutte le malate della camerata, come pure ebbe sempre cura della propria persona sì da presentarsi bene, in ordine, con compostezza e raffinatezza, concorrendo anche in tal modo a contrastare l’ambiente di sofferenza di una clinica, e talvolta di perdita della speranza in tanti malati che rischiano di “lasciarsi andare”.
            Attraverso i Messaggi dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, il Signore la educò a una postura di attesa, pazienza e fiducia in lui. Innumerevoli sono infatti le esortazioni sull’attendere lo Sposo o lo Sposo che attende la sua sposa:

“Spera nel tuo Gesù sempre, sempre.

Venga Egli nelle nostre anime, venga nelle nostre case; venga con noi per condividere gioie e dolori, fatiche e speranze.

Lascia fare al mio Amore e aumenta la tua fede, la tua speranza.

Seguimi nel buio, nelle ombre perché conosci la «via».

Spera in Me, spera in Gesù!

Dopo il cammino della speranza e dell’attesa ci sarà la vittoria.

Per chiamarvi alle cose del Cielo”.

Apportatrice di speranza nel morire e nell’intercedere
            Anche nella malattia e in morte, Vera Grita testimoniò la speranza cristiana.
Sapeva che, quando la sua missione fosse compiuta, anche la vita in terra sarebbe terminata. «Questo è il tuo compito e quando sarà terminato tu saluterai la terra per i Cieli»: perciò non si sentiva “proprietaria” del tempo, ma cercava l’obbedienza alla volontà di Dio.
            Negli ultimi mesi, pur in una condizione ingravescente ed esposta a un peggioramento del quadro clinico, la Serva di Dio attestò serenità, pace, interiore percezione di un “compimento” della propria vita.
            Negli ultimi giorni, benché fosse naturalmente attaccata alla vita, don Giuseppe Formento la descrisse «già in pace con il Signore». In tal spirito poté ricevere la Comunione fino a pochi giorni prima di morire, e ricevere l’Estrema unzione il 18 dicembre.
            Quando la sorella Pina andò a trovarla poco prima della morte – Vera era stata circa tre giorni in coma – contravvenendo al proprio abituale riserbo le disse di avere visto in quei giorni molte cose, cose bellissime che purtroppo non le restava il tempo di raccontare. Aveva saputo delle preghiere di Padre Pio e del Papa Buono per lei, inoltre aggiunse – con riferimento alla Vita eterna – «Voi tutti verrete in paradiso con me, siatene certe».
            Liliana Grita testimoniò inoltre come, nell’ultimo periodo, Vera «sapesse più di Cielo che di terra». Della sua vita venne tratto il seguente bilancio: «lei così sofferente consolava gli altri, infondendo loro speranza e non esitava ad aiutarli».
            Molte grazie attribuite alla mediazione intercedente di Vera riguardano, infine, la speranza cristiana. Vera – anche durante la Pandemia da Covid 19 – ha aiutato tanti a ritrovare le ragioni della speranza ed è stata per essi tutela, sorella nello spirito, aiuto nel sacerdozio. Ha aiutato interiormente un sacerdote che in seguito ad Ictus si era dimenticato le preghiere, non riuscendo più a scandirle con proprio estremo dolore e disorientamento. Ha fatto sì che tanti tornassero a pregare, chiedendo la guarigione di un giovane papà colpito da emorragia.
            Anche suor Maria Ilaria Bossi, Maestra delle Novizie delle Benedettine del Santissimo Sacramento di Ghiffa, rileva come Vera – sorella nello spirito – sia un’anima che indirizza al Cielo e accompagna verso il Cielo: «La sento sorella nel cammino verso il cielo… Tanti […] che in lei si riconoscono, e a lei si riferiscono, nel cammino evangelico, nella corsa verso il cielo».
            In sintesi, si comprende come tutta la storia di Vera Grita sia stata sorretta non da speranze umane, dal mero guardare al “domani” auspicando fosse migliore del presente, bensì da una vera Speranza teologale: «era serena perché la fede e la speranza l’hanno sempre sostenuta. Cristo era al centro della sua vita, da Lui traeva la forza. […] era una persona serena perché aveva nel cuore la Speranza teologale, non la speranza spicciola […], ma quella che deriva solo da Dio, che è dono e ci prepara all’incontro con Lui».

            In una preghiera a Maria dell’Opera dei Tabernacoli Viventi, si legge: «Sollevaci [Maria] dalla terra affinché da qui noi viviamo e siamo per il Cielo, per il Regno del figlio tuo».
            È bello anche ricordare che anche don Gabriello dovette pellegrinare nella speranza tra tante prove e difficoltà come scrive in una lettera a Vera del 4 marzo 1968 da Firenze: «Tuttavia dobbiamo sempre sperare. La presenza delle difficoltà non toglie che alla fine il bene, il buono, il bello trionferanno. Ritornerà la pace, l’ordine, la gioia. L’uomo figlio di Dio riavrà tutta la gloria che ebbe fin da principio. L’uomo sarà salvo in Gesù e ritroverà in Dio ogni bene. Ecco allora che ritornano in mente tutte le cose belle promesse da Gesù e l’anima in Lui ritrova la sua pace. Coraggio: ora siamo come in combattimento. Verrà il giorno della vittoria. Essa è certezza in Dio».
            Nella chiesa del Santa Corona a Pietra Ligure Vera Grita partecipava alla Messa e si recava a pregare durante i lunghi ricoveri. La sua testimonianza di fede nella presenza viva di Gesù Eucaristia e della Vergine Maria nella sua breve vita terrena è un segno di speranza e di conforto, per quanti in questo luogo di cura chiederanno il suo aiuto e la sua intercessione presso il Signore per essere sollevati e liberati dalla sofferenza.
            Il cammino di Vera Grita nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i ‘poveri’, i ‘fragili’, i ‘malati’ che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza.
            Scrive san Paolo, «che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi». Con «impazienza» noi aspettiamo di contemplare il volto di Dio poiché «nella speranza noi siamo stati salvati» (Rom 8, 18.24). Pertanto, è assolutamente necessario sperare contro ogni speranza, «Spes contra spem». Perché, come ha scritto Charles Péguy, la Speranza è una bambina «irriducibile». Rispetto alla Fede che «è una sposa fedele» e alla Carità che «è una Madre», la Speranza sembra, in prima battuta, che non valga nulla. E invece è esattamente il contrario: sarà proprio la Speranza, scrive Péguy, «che è venuta al mondo il giorno di Natale» e che «portando le altre, traverserà i mondi».
            «Scrivi, Vera di Gesù, io ti darò luce. L’albero fiorito in primavera ha dato i suoi frutti. Molti alberi dovranno rifiorire nella stagione opportuna perché i frutti siano copiosi… Ti chiedo di accettare con fede ogni prova, ogni dolore per Me. Vedrai i frutti, i primi frutti della nuova fioritura». (Santa Corona – 26 ottobre 1969 – Festa di Cristo Re – Penultimo messaggio).




I ragazzi del cimitero

Il dramma dei giovani abbandonati continua a far rumore nel mondo contemporaneo. Le statistiche parlano di circa 150 milioni di ragazzi costretti a vivere per strada, una realtà che si manifesta in maniera drammatica anche a Monrovia, capitale della Liberia. In occasione della festa di San Giovanni Bosco, a Vienna, si è svolta una campagna di sensibilizzazione promossa da Jugend Eine Welt, un’iniziativa che ha messo in luce non solo la situazione locale ma anche le difficoltà incontrate in paesi lontani, come la Liberia, dove il salesiano Lothar Wagner dedica la sua vita a dare una speranza a questi giovani.

Lothar Wagner: un salesiano che dedica la sua vita ai ragazzi di strada in Liberia
Lothar Wagner, salesiano coadiutore tedesco, ha dedicato oltre vent’anni della sua vita al sostegno dei ragazzi in Africa Occidentale. Dopo aver maturato esperienze significative in Ghana e Sierra Leone, negli ultimi quattro anni si è concentrato con passione sulla Liberia, un paese segnato da conflitti prolungati, crisi sanitarie e devastazioni come l’epidemia di Ebola. Lothar si è fatto portavoce di una realtà spesso ignorata, dove le cicatrici sociali ed economiche compromettono le opportunità di crescita per i giovani.

La Liberia, con una popolazione di 5,4 milioni di abitanti, è un paese in cui la povertà estrema si accompagna a istituzioni fragili e a una corruzione diffusa. Le conseguenze di decenni di conflitti armati e crisi sanitarie hanno lasciato il sistema educativo tra i peggiori al mondo, mentre il tessuto sociale si è logorato sotto il peso di difficoltà economiche e mancanza di servizi essenziali. Molte famiglie non riescono a garantire ai propri figli i bisogni primari, spingendo così un gran numero di giovani a cercare rifugio per strada.

In particolare, a Monrovia, alcuni ragazzi trovano rifugio nei luoghi più inaspettati: i cimiteri della città. Conosciuti come “ragazzi del cimitero”, questi giovani, privi di un’abitazione sicura, si rifugiano tra le tombe, luogo che diventa simbolo di un abbandono totale. Dormire all’aperto, nei parchi, nelle discariche, persino nelle fogne o all’interno di tombe, è diventato il tragico rifugio quotidiano per chi non ha altra scelta.

“È davvero molto commovente quando si cammina per il cimitero e si vedono ragazzi che escono dalle tombe. Si sdraiano con i morti perché non hanno più un posto nella società. Una situazione del genere è scandalosa.”

Un approccio multiplo: dal cimitero alle celle di detenzione
Non solo i ragazzi dei cimiteri sono al centro dell’attenzione di Lothar. Il salesiano si dedica anche a un’altra realtà drammatica: quella dei detenuti minorenni nelle prigioni liberiane. La prigione di Monrovia, costruita per 325 detenuti, ospita oggi oltre 1.500 prigionieri, tra cui molti giovani incarcerati senza una formale accusa. Le celle, estremamente sovraffollate, sono un chiaro esempio di come la dignità umana venga spesso sacrificata.

“Manca cibo, acqua pulita, standard igienici, assistenza medica e psicologica. La fame costante e la drammatica situazione spaziale a causa del sovraffollamento indeboliscono enormemente la salute dei ragazzi. In una piccola cella, progettata per due detenuti, sono rinchiusi otto-dieci giovani. Si dorme a turno, perché questa dimensione della cella offre spazio solo in piedi ai suoi numerosi abitanti”.

Per far fronte a questa situazione, organizza visite quotidiane nella prigione, portando acqua potabile, pasti caldi e un supporto psicosociale che diventa un’ancora di salvezza. La sua presenza costante è fondamentale per cercare di ristabilire un dialogo con le autorità e le famiglie, sensibilizzando anche sull’importanza di tutelare i diritti dei minori, spesso dimenticati e abbandonati a un destino infausto. “Non li lasciamo soli nella loro solitudine, ma cerchiamo di donare loro una speranza,” sottolinea Lothar con la fermezza di chi conosce il dolore quotidiano di queste giovani vite.

Una giornata di sensibilizzazione a Vienna
Il sostegno a queste iniziative passa anche dall’attenzione internazionale. Il 31 gennaio, a Vienna, Jugend Eine Welt ha organizzato una giornata dedicata a evidenziare la precaria situazione dei ragazzi di strada, non solo in Liberia, ma in tutto il mondo. Durante l’evento, Lothar Wagner ha condiviso le sue esperienze con studenti e partecipanti, coinvolgendoli in attività pratiche – come l’uso di un nastro segnaletico per simulare le condizioni di una cella sovraffollata – per far comprendere in prima persona le difficoltà e l’angoscia dei giovani che vivono quotidianamente in spazi minimi e in condizioni degradanti.

Oltre alle emergenze quotidiane, il lavoro di Lothar e dei suoi collaboratori si concentra anche su interventi a lungo termine. I missionari salesiani, infatti, sono impegnati in programmi di riabilitazione che spaziano dal supporto educativo alla formazione professionale per i giovani detenuti, fino all’assistenza legale e spirituale. Questi interventi mirano a reintegrare i ragazzi nella società una volta rilasciati, aiutandoli a costruire un futuro dignitoso e pieno di possibilità. L’obiettivo è chiaro: offrire non solo un aiuto immediato, ma creare un percorso che consenta ai giovani di sviluppare le proprie potenzialità e contribuire attivamente alla rinascita del paese.

Le iniziative si estendono anche alla costruzione di centri di formazione professionale, scuole e strutture di accoglienza, con la speranza di ampliare il numero di giovani beneficiari e garantire un sostegno costante, giorno e notte. La testimonianza di successo di molti ex “ragazzi del cimitero” – alcuni dei quali sono diventati insegnanti, medici, avvocati e imprenditori – è la conferma tangibile che, con il giusto sostegno, la trasformazione è possibile.

Nonostante l’impegno e la dedizione, il percorso è costellato di ostacoli: la burocrazia, la corruzione, la diffidenza dei ragazzi e la mancanza di risorse rappresentano sfide quotidiane. Molti giovani, segnati da abusi e sfruttamento, faticano a fidarsi degli adulti, rendendo ancor più arduo il compito di instaurare un rapporto di fiducia e di offerta di un supporto reale e duraturo. Tuttavia, ogni piccolo successo – ogni giovane che ritrova la speranza e inizia a costruire un futuro – conferma l’importanza di questo lavoro umanitario.

Il percorso intrapreso da Lothar e dai suoi collaboratori testimonia che, nonostante le difficoltà, è possibile fare la differenza nella vita dei ragazzi abbandonati. La visione di una Liberia in cui ogni giovane possa realizzare il proprio potenziale si traduce in azioni concrete, dalla sensibilizzazione internazionale alla riabilitazione dei detenuti, passando per programmi educativi e progetti di accoglienza. Il lavoro, improntato su amore, solidarietà e una presenza costante, rappresenta un faro di speranza in un contesto in cui la disperazione sembra prevalere.

In un mondo segnato dall’abbandono e dalla povertà, le storie di rinascita dei ragazzi di strada e dei giovani detenuti sono un invito a credere che, con il giusto sostegno, ogni vita possa risorgere. Lothar Wagner continua a lottare per garantire a questi giovani non solo un riparo, ma anche la possibilità di riscrivere il proprio destino, dimostrando che la solidarietà può davvero cambiare il mondo.




Il nome

Nella Facoltà di Medicina di una importante università, il professore di anatomia, come esame finale, distribuì a tutti gli studenti un questionario.
Uno studente che si era preparato minuziosamente rispose prontamente a tutte le domande fino a quando arrivò all’ultima.
La domanda era: «Qual è il nome di battesimo della donna delle pulizie?».
Lo studente consegnò il test lasciando l’ultima risposta in bianco.
Prima di consegnare il compito, domandò al professore se l’ultima domanda del test avrebbe contato ai fini del voto.
«È chiaro!» rispose il professore. «Nella vostra carriera voi incontrerete molte persone. Hanno tutte il loro grado d’importanza. Esse meritano la vostra attenzione, anche con un piccolo sorriso o un semplice ciao».
Lo studente non dimenticò mai la lezione ed imparò che il nome di battesimo della donna delle pulizie era Marianna.

Un discepolo chiese a Confucio: «Se il re ti chiedesse di governare il Paese, quale sarebbe la tua prima azione?».
«Vorrei imparare i nomi di tutti i miei collaboratori».
«Che sciocchezza! Non è certo una questione di primaria preoccupazione per un primo ministro».
«Un uomo non può sperare di ricevere aiuto da ciò che non conosce» rispose Confucio. «Se non conosce la natura, non conoscerà Dio. Allo stesso modo, se non sa chi ha al suo fianco, non avrà amici. Senza amici, non sarà in grado di ideare un piano. Senza un piano, non potrà dirigere le azioni di alcuno. Senza direzione, il paese piomberà nelle tenebre e nemmeno i danzatori sapranno più come mettere un piede accanto all’altro. Così un’azione apparentemente banale, imparare il nome della persona che sta accanto a te, può fare una differenza enorme.
L’incorreggibile peccato del nostro tempo è che tutti vogliono mettere subito a posto le cose e si dimenticano che per fare questo hanno bisogno degli altri».