L’educazione secondo san Francesco di Sales

L’educazione secondo san Francesco di Sales è un percorso d’amore e cura verso i giovani, basato su regole imprescindibili: dolcezza, comprensione e correzione equilibrata. Dalla famiglia alla società, san Francesco chiede ai responsabili di mostrare un affetto sincero, consapevoli che i giovani hanno bisogno di essere guidati con pazienza e ispirazione. L’educazione è un dono che aiuta a formare anime libere, capaci di pensare e agire con armonia. Come un maestro di montagna, il vescovo savoiardo ci ricorda che correggere vuol dire accompagnare, salvaguardando la spontaneità dei cuori in crescita, e puntando sempre alla trasformazione interiore. Nasce così un’educazione integrale.

Un dovere da compiere con amore
           
L’educazione è un fenomeno universale, basato sulle leggi della natura e della ragione. È il miglior regalo che i genitori possano fare ai loro figli, nei quali alimenterà la gratitudine e la pietà filiale. Parlando di coloro che sono responsabili degli altri, sia in famiglia che nella società, Francesco di Sales raccomanda loro di mostrarsi affettuosi: “Facciano dunque il loro dovere con amore”.
            I giovani hanno bisogno di una guida. Se è vero che “chi governa sé stesso è governato da un grande sciocco”, questo dovrebbe essere ancora più vero per coloro che ancora non hanno esperienza. Allo stesso modo, Celse-Bénigne, il figlio maggiore di Madame de Chantal, che era fonte di preoccupazione per la madre, aveva bisogno di una guida che lo aiutasse a “gustare la bontà della vera saggezza attraverso ammonizioni e raccomandazioni”.
            A un giovane che stava per “prendere il largo nel mondo”, suggerì di trovare “qualche spirito cortese” che potesse andare a trovare di tanto in tanto per “ricrearsi e riprendere fiato spirituale”. Dobbiamo fare come il giovane Tobia nella Bibbia: inviato dal padre in una terra lontana dove non conosceva la strada, ricevette questo consiglio: “Va’ dunque e cerca un uomo che ti guidi”.
            Specialista della montagna, il vescovo savoiardo amava ricordare che chi cammina su sentieri impervi e scivolosi ha bisogno di essere legato, legato l’uno all’altro per avanzare più sicuro. Ogni volta che poteva, offriva aiuto e consigli ai giovani in pericolo. A un giovane scolaro preso dal gioco d’azzardo e dal libertinaggio, scrisse “una lettera piena di buoni, gentili e amichevoli avvertimenti”, invitandolo a fare un uso migliore del suo tempo.
            Una buona guida deve sapersi adattare alle esigenze e alle possibilità di ogni individuo. Francesco di Sales ammirava le madri che sapevano dare a ciascuno dei loro figli ciò di cui avevano bisogno e adattarsi a ciascuno “secondo la portata del suo spirito”. È così che Dio accompagna le persone. Il suo insegnamento assomiglia a quello di un padre attento alle capacità di ciascuno: “Come un buon padre che tiene per mano il suo bambino”, scriveva a Jeanne de Chantal, “egli adatterà i suoi passi ai tuoi e si accontenterà di non andare più veloce di te”.

Elementi di psicologia giovanile
            Per avere qualche possibilità di successo, l’educatore deve sapere qualcosa sui giovani in generale e su ciascun giovane in particolare. Cosa significa essere giovani? Commentando la famosa visione della scala di Giacobbe, l’autore dell’Introduzione alla vita devota osserva che gli angeli che salivano e scendevano la scala avevano tutte le attrattive della giovinezza: erano pieni di vigore e di agilità; avevano le ali per volare e i piedi per camminare con i loro compagni; i loro volti erano belli e allegri; “le loro gambe, le loro braccia e le loro teste erano tutte scoperte” e “il resto del loro corpo era coperto, ma con una veste bella e leggera”.
            Ma non idealizziamo troppo questa età della vita. Per Francesco di Sales, la gioventù è per natura spericolata e audace; i giovani divorano tutte le difficoltà da lontano e fuggono le difficoltà da vicino. “Giovane e ardente” sono due aggettivi che vanno spesso a braccetto, soprattutto quando vengono usati per descrivere una mente “brulicante di concezioni e fortemente incline agli estremi”. E tra i rischi di questa età c’è “l’ardore di un sangue giovane che comincia a ribollire e di un coraggio che non ha ancora come guida la prudenza”.
            I giovani sono versatili, si muovono e cambiano facilmente. Come i giovani cani che amano i cambiamenti, i giovani sono volubili e incostanti, agitati da vari “desideri di novità e cambiamenti”, e sono suscettibili di provocare “grandi e sfortunati scandali”. È un’età in cui le passioni sono feroci e difficili da controllare. Come le farfalle, svolazzano intorno al fuoco con il rischio di bruciarsi le ali.
            Spesso mancano di saggezza ed esperienza, perché l’amor proprio acceca la ragione. Dobbiamo temere questi due atteggiamenti opposti in loro: la vanità, che è in realtà una mancanza di coraggio, e l’ambizione, che è un eccesso di coraggio che li porta a cercare gloria e onore in modo irragionevole.
            Che meraviglia, invece, quando gioventù e virtù si incontrano! Francesco di Sales ammira una giovane donna che aveva tutto per piacere nella primavera della sua vita e che amava e stimava “le sante virtù”. Egli elogia tutti coloro che, durante la loro giovinezza, hanno mantenuto la loro anima “sempre pura in mezzo a tante infezioni”.
            Soprattutto i giovani sono sensibili all’affetto che ricevono. “Non è possibile esprimere quanto siamo amici”, scriveva a un padre a proposito del suo rapporto con il figlio indisciplinato, persino insopportabile, a scuola. Come si vede, Francesco di Sales era felice di proclamarsi amico dei giovani. Scriveva parimenti alla madre di una bambina di cui era padrino: “La cara piccola figlioccia, come penso, ha un segreto sentore che le voglio bene, tanto forte è l’affetto che mi dimostra”.
            Infine, “questa è l’età giusta per ricevere impressioni”, il che è un’ottima cosa perché significa che i giovani possono essere educati e sono capaci di grandi cose. Il futuro è dei giovani, come abbiamo visto nell’abbazia di Montmartre, dove sono stati proprio le giovani, con la loro badessa ancora più giovane, a realizzare la “riforma”.

Il senso delle finalità nell’educazione
            Se da un lato il realismo impone agli educatori di conoscere le persone a cui si rivolgono, dall’altro non devono mai perdere di vista il senso dello scopo della loro azione. Non c’è niente di meglio di una chiara consapevolezza degli obiettivi che ci prefiggiamo, perché “ogni agente agisce per il fine e secondo il fine”.
            Che cos’è dunque l’educazione e qual è il suo scopo? L’educazione, dice Francesco di Sales, è “una moltitudine di sollecitazioni, di aiuti, di prestazioni e di altri servizi necessari al bambino, esercitati e continuati nei suoi confronti fino all’età in cui non ne ha più bisogno”. Due cose colpiscono in questa definizione: da un lato, l’insistenza sulla moltitudine di attenzioni che l’educazione richiede, dall’altro, la sua fine, che coincide con il momento in cui il soggetto ha raggiunto l’autonomia. I bambini vengono educati per raggiungere la libertà e il pieno controllo della propria vita.
            In concreto, l’ideale educativo di Francesco di Sales sembra ruotare attorno alla nozione di armonia, ovvero all’integrazione armonica di tutte le varie componenti che esistono nell’essere umano: “azioni, movimenti, sentimenti, inclinazioni, abitudini, passioni, facoltà e poteri”. L’armonia implica unità, ma anche distinzione. L’unione richiede un unico comandamento, ma l’unico comandamento deve non solo rispettare le differenze, ma promuovere le distinzioni nella ricerca dell’armonia. Nella persona umana, il governo appartiene alla volontà, alla quale fanno riferimento tutte le altre componenti, ciascuna al suo posto e in interdipendenza tra loro.
            Francesco di Sales utilizza due paragoni per illustrare il suo ideale. Non sono privi di analogia con le due pulsioni umane fondamentali messe in luce dalla psicoanalisi: l’aggressività e il piacere. Un esercito è bello, spiega, quando è composto da parti distinte disposte in modo tale da formare insieme un unico esercito. La musica è bella quando le voci sono unite nella distinzione e quando sono distinte pur unendosi.

Partire dal cuore
            “Chi ha conquistato il cuore dell’uomo ha conquistato tutto l’uomo”, scrive l’autore dell’Introduzione alla vita devota. Questa regola generale dovrebbe essere applicabile al campo dell’educazione. L’espressione “conquistare il cuore” può essere interpretata in due modi. Può significare che l’educatore deve puntare al cuore, cioè al centro interiore della persona, prima di preoccuparsi del suo comportamento esteriore. D’altra parte, significa conquistare una persona attraverso l’affetto.
            L’uomo si costruisce dall’interno: questa sembra essere una delle grandi lezioni di Francesco di Sales, formatore e riformatore di persone e comunità. Egli era ben consapevole che il suo metodo non era condiviso da tutti, poiché scriveva: “Non ho mai potuto approvare il metodo di coloro che, per riformare l’uomo, cominciano dall’esterno, dal portamento, dai vestiti, dai capelli”. Bisogna quindi partire dall’interno, cioè dal cuore, sede della volontà e fonte di tutte le nostre azioni.
            Il secondo punto è cercare di conquistare l’affetto degli altri, in modo da stabilire con loro un buon rapporto educativo. In una lettera a una badessa per consigliarle la riforma del suo monastero, composto in gran parte da giovani, troviamo indicazioni preziose su come il vescovo savoiardo concepiva il suo metodo di educazione, di formazione e, più precisamente in questo caso, di “riforma”. Soprattutto, non dobbiamo allarmarli dando loro l’impressione di volerli riformare. L’obiettivo è che si riformino da soli. Dopo questi preliminari, bisogna usare tre o quattro “trucchi”. Non c’è da stupirsi, visto che l’educazione è anche un’arte, anzi l’arte delle arti. Il primo è chiedere loro di fare spesso le cose, ma con molta facilità e senza dare l’impressione di farle. In secondo luogo, bisogna parlare spesso e in termini generali di ciò che deve essere cambiato, come se si stesse pensando a qualcun altro. In terzo luogo, bisogna cercare di rendere l’obbedienza amabile, senza dimenticare ancora una volta di mostrarne i benefici e i vantaggi. Secondo Francesco di Sales, la dolcezza dovrebbe essere preferita perché è generalmente più efficace. Infine, i responsabili devono dimostrare di non agire per capriccio, ma in virtù della loro responsabilità e in vista del bene di tutti.

Comandare, consigliare, ispirare
            Sembra che gli interventi proposti da Francesco di Sales in campo educativo siano modellati sui tre modi che Dio usa con gli uomini per indicare loro la sua volontà: comandamenti, consigli e ispirazioni.
            È ovvio che i genitori e gli insegnanti hanno il diritto e il dovere di comandare i loro figli o alunni per il loro bene, e che essi devono obbedire. Lui stesso, nella sua responsabilità di vescovo, non esitava a farlo quando era necessario. Tuttavia, secondo Camus, aborriva gli spiriti assoluti che volevano essere obbediti a piacimento e che tutto doveva cedere al loro dominio. Diceva che “coloro che amano essere temuti, temono di essere amati”. In alcuni casi, l’obbedienza può essere costretta. Riferendosi al figlio di uno dei suoi amici, scrisse al padre: “Se persevererà, saremo soddisfatti; se non lo farà, dovremo usare uno di questi due rimedi: o ritirarlo in una scuola un po’ più chiusa di questa, o dargli un maestro privato che sia un uomo e al quale renda obbedienza”. Si può escludere del tutto l’uso della forza?
            Di solito, però, Francesco di Sales ricorreva a consigli, avvisi e raccomandazioni. L’autore dell’Introduzione alla vita devota si presenta come un consigliere, un assistente, qualcuno che dà “consigli”. Anche se spesso usa l’imperativo, è un consiglio che sta dando, soprattutto perché spesso è accompagnato da un condizionale: “Se puoi farlo, fallo”. A volte la raccomandazione è mascherata da una dichiarazione di valore: è bene farlo, è meglio fare così, ecc.
            Ma quando può e la sua autorità non è in discussione, preferisce agire per ispirazione, suggerimento o insinuazione. Questo è il metodo salesiano per eccellenza, che rispetta la libertà umana. Gli sembrava particolarmente adatto per scegliere uno stato di vita. È questo il metodo che consigliava a Madame de Chantal per la vocazione che voleva per i suoi figli, “ispirando loro con garbo pensieri in sintonia con questa”.
            Ma l’ispirazione non si comunica solo con le parole. I cieli non parlano, dice la Bibbia, ma proclamano la gloria di Dio con la loro testimonianza silenziosa. Allo stesso modo, “il buon esempio è una predicazione silenziosa”, come quella di san Francesco il quale, senza dire una sola parola, attirava un gran numero di giovani con il suo esempio. Infatti, l’esempio porta all’imitazione. I piccoli usignoli imparano a cantare con i grandi, ricordava, e “l’esempio di coloro che amiamo ha un’influenza e un’autorità dolce e impercettibile su di noi”, al punto che siamo obbligati a lasciarli o a imitarli.

Come correggere?
            Lo spirito di correzione consiste nel “resistere al male e reprimere i vizi di coloro che ci sono affidati, costantemente e valorosamente, ma con dolcezza e tranquillità”. Tuttavia, i difetti devono essere corretti senza indugio, finché sono piccoli, “perché se aspetti che crescano, non potrai curarli facilmente”.
            La severità è talvolta necessaria. I due giovani religiosi che stavano dando scandalo dovevano essere rimessi sulla retta via se si voleva evitare un gran numero di conseguenze deplorevoli. Sebbene la loro giovane età possa essere stata una scusa, “la continuazione del loro comportamento li rende ormai imperdonabili”. Ci sono persino casi in cui è necessario “tenere i malvagi in qualche timore per la resistenza che vedranno opporre”. Il Vescovo di Ginevra cita una lettera di san Bernardo ai frati di Roma che avevano bisogno di correzione, in cui “parla loro come si deve e con un sapone abbastanza caldo”. Facciamo come il chirurgo, perché “è un’amicizia debole o cattiva vedere il proprio amico perire e non aiutarlo, vederlo morire di apostasia e non osare dargli il filo del rasoio della correzione per salvarlo”.
            Tuttavia, la correzione deve essere amministrata senza passione, perché “un giudice castiga i malvagi molto meglio quando emette le sue sentenze con ragione e in uno spirito di tranquillità, che quando le emette con impeto e passione, soprattutto perché, giudicando con passione, non castiga le colpe secondo quello che sono, ma secondo quello che è lui stesso”. Allo stesso modo, “le ammonizioni dolci e cordiali di un padre hanno molto più potere di correggere un figlio che la sua collera e la sua ira”. Ecco perché è importante guardarsi dalla rabbia. La prima volta che provi rabbia, disse a Filotea, “devi raccogliere rapidamente le tue forze, non all’improvviso o con impeto, ma con dolcezza e serietà”. In una lettera a una suora che si era lamentata di “una ragazzina scontrosa e dispersiva” affidata alle sue cure, il vescovo dava questo consiglio: “Non correggerla, se puoi, con rabbia”. Non facciamo come il re Erode o come quegli uomini che dicono di regnare quando sono temuti, quando invece regnare vuol dire “essere amati”.
            Ci sono molti modi per correggere. Uno dei migliori non è tanto quello di riprendere ciò che è negativo, ma di incoraggiare tutto ciò che è positivo in una persona. Questo si chiama “correggere per ispirazione”, perché “è meraviglioso come la dolcezza e l’amabilità di qualcosa di buono sia un modo potente di attirare i cuori”.
            Il suo discepolo, Jean-Pierre Camus, raccontò la storia di una madre che maledisse il figlio che l’aveva insultata. Si pensava che il vescovo dovesse fare lo stesso, ma lui rispose: “Cosa vuoi che faccia? Temevo di versare in un quarto d’ora il piccolo liquore di gentilezza che ho cercato di raccogliere per ventidue anni”. È stato ancora Camus che riferisce questo detto “indimenticabile” del suo maestro: “Ricordatevi che si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto”.
            La gentilezza è preferibile con gli altri, ma anche con noi stessi. Ognuno dovrebbe essere pronto a riconoscere i propri errori con calma e a correggersi senza arrabbiarsi. Ecco un buon consiglio per una “povera ragazza” che è arrabbiata con sé stessa: “Dille che, per quanto possa lamentarsi, non sarà mai sorpresa o arrabbiata con sé stessa”.

Educazione progressiva
            San Francesco di Sales, che aveva il senso del reale e del possibile, oltre alla moderazione e al tatto necessari, era convinto che i grandi progetti si ottengono solo con la pazienza e il tempo. La perfezione non è mai il punto di partenza e probabilmente non sarà mai raggiunta, ma è sempre possibile progredire. La crescita ha le sue leggi che devono essere rispettate: le api erano prima larve, poi ninfe e infine api “formate, fatte e perfette”.
            Fare le cose in modo ordinato, una dopo l’altra, senza clamore, anche con una certa lentezza, ma senza mai fermarsi, questo sembra essere l’ideale del Vescovo di Ginevra. Andiamo avanti, diceva, e “per quanto lentamente avanziamo, faremo molta strada”. Allo stesso modo, raccomandava a una badessa che aveva il gravoso compito di riformare il suo monastero: “Devi avere un cuore grande e duraturo”. La legge della progressione è universale e si applica in ogni campo.
            Per illustrare il suo pensiero, il santo della dolcezza usava innumerevoli paragoni e immagini per inculcare il senso del tempo e la necessità di perseverare. Alcune persone sono portate a volare prima di avere le ali, o a voler essere angeli all’improvviso, quando non sono solo bravi uomini e donne. Quando i bambini sono piccoli, diamo loro il latte, e quando crescono e iniziano ad avere i denti, diamo loro pane e burro.
            Un punto importante è non avere paura di ripetere sempre la stessa cosa. Bisogna imitare i pittori e gli scultori che creano le loro opere ripetendo i colpi di pennello e di scalpello. L’educazione è un lungo viaggio. Lungo il percorso bisogna depurarsi da molti “umori” negativi, e questa depurazione è lenta. Ma non dobbiamo perderci d’animo. La lentezza non significa rassegnazione o attesa disinvolta. Al contrario, dobbiamo imparare a sfruttare al meglio ogni cosa, non perdendo tempo e sapendo utilizzare “i nostri anni, i nostri mesi, le nostre settimane, i nostri giorni, le nostre ore, persino i nostri momenti”.
            La pazienza, spesso insegnata dal Vescovo di Ginevra, è una pazienza attiva che ci permette di andare avanti, anche se a piccoli passi. “A poco a poco e piede a piede, dobbiamo acquisire questo dominio”, scriveva a un’impaziente Filotea. Impariamo “prima a camminare a piccoli passi, poi ad affrettarci, poi a camminare a metà strada, infine a correre”. La crescita verso l’età adulta inizia lentamente e si accelera sempre di più, così come la formazione e l’educazione. Infine, la pazienza è alimentata dalla speranza: “Non c’è terreno così ingrato che l’amore dell’operaio non lo fecondi”.

Educazione integrale
            Da quanto detto finora, è già abbastanza chiaro che per Francesco di Sales l’educazione non poteva essere confusa con una sola dimensione della persona, come l’istruzione, o le buone maniere, o addirittura un’educazione religiosa priva di fondamenti umani. Naturalmente, non si può negare l’importanza di ciascuno di questi ambiti particolari. Per quanto riguarda l’educazione e la formazione della mente, basta ricordare il tempo e gli sforzi che lui stesso dedicò durante la sua giovinezza all’acquisizione di un’alta cultura intellettuale e “professionale”, così come la cura che dedicò all’educazione nella sua diocesi.
            Tuttavia, la sua preoccupazione principale era la formazione integrale della persona umana, intesa in tutte le sue dimensioni e dinamiche. Per dimostrarlo, ci concentreremo su ciascuna delle dimensioni costitutive della persona umana nella sua totalità simbolica: il corpo con tutti i suoi sensi, l’anima con tutte le sue passioni, la mente con tutte le sue facoltà e il cuore, sede della volontà, dell’amore e della libertà.




Vita di San Pietro, principe degli apostoli

Il momento culminante dell’Anno Giubilare per ogni credente è il passaggio attraverso la Porta Santa, un gesto altamente simbolico che va vissuto con profonda meditazione. Non si tratta di una semplice visita per ammirare la bellezza architettonica, scultorea o pittorica di una basilica: i primi cristiani non si recavano nei luoghi di culto per questo motivo, anche perché all’epoca non c’era molto da ammirare. Essi giungevano invece per pregare davanti alle reliquie dei santi apostoli e martiri, e per ottenere l’indulgenza grazie alla loro potente intercessione.
Recarsi presso le tombe degli apostoli Pietro e Paolo senza conoscerne la loro vita non è un segno di apprezzamento. Per questo, in quest’Anno Giubilare, desideriamo presentare i percorsi di fede di questi due gloriosi apostoli, così come furono narrati da San Giovanni Bosco.

Vita di S. Pietro, principe degli apostoli raccontata al popolo dal sacerdote Giovanni Bosco

Uomo di poca fede, perché hai dubitato? (Matt. XIV, 31).

PREFAZIONE
CAPO I. Patria e professione di S. Pietro. — Suo fratello Andrea lo conduce da Gesù Cristo. Anno 29 di Gesù Cristo
CAPO II. Pietro conduce in nave il Salvatore — Pesca miracolosa. — Accoglie Gesù in sua casa. — Miracoli operati. Anno di Gesù Cristo 30.
CAPO III. S. Pietro capo degli Apostoli è inviato a predicare. — Cammina sopra le onde. — Bella risposta data al Salvatore. Anno 31 di Gesù Cristo.
CAPO IV. Pietro confessa per la seconda volta Gesù Cristo come figlio di Dio. — È costituito capo della Chiesa, e gli sono promesse le chiavi del regno dei Cieli. Anno 32 di Gesù Cristo.
CAPO V. S. Pietro dissuade il divino Maestro dalla passione. — Va con lui sul monte Tabor. Anno di G. C. 32.
CAPO VI. Gesù alla presenza di Pietro risuscita la figlia di Giairo. — Paga per Pietro il tributo. — Ammaestra i suoi discepoli nell’umiltà. Anno di G. C. 32.
CAPO VII. Pietro parla con Gesù del perdono delle ingiurie e del distacco dalle cose terrene. — Rifiuta di lasciarsi lavare i piedi. — Sua amicizia con S. Giovanni. Anno di G. C. 33.
CAPO VIII. Gesù predice la negazione di Pietro e lo assicura che non verrà meno la sua fede. — Pietro lo segue nell’orto di Getsemani. — Taglia l’orecchio a Malco. — Sua caduta, suo ravvedimento. Anno di G. C. 33.
CAPO IX. Pietro al sepolcro del Salvatore. — Gesù gli appare. — Sul lago di Tiberiade dà tre distinti segni di amore verso Gesù che lo costituisce effettivamente capo e pastore supremo della Chiesa.
CAPO X. Infallibilità di S. Pietro e dei suoi successori
CAPO XI. Gesù predice a S. Pietro la morte di croce. — Promette assistenza alla Chiesa sino alla fine del mondo. — Ritorno degli Apostoli nel cenacolo. Anno di G. C. 33.
CAPO XII. S. Pietro surroga Giuda. — Venuta dello Spirito Santo. — Miracolo delle lingue. Anno di G. C. 33.
CAPO XIII. Prima predica di Pietro. Anno di G. C. 33.
CAPO XIV. S. Pietro guarisce uno storpio. — Sua seconda predica. Anno di G. C. 33.
CAPO XV. Pietro è messo con Giovanni in prigione e ne viene liberato.
CAPO XVI. Vita dei primi Cristiani. — Fatto di Anania e Saffira. — Miracoli di S. Pietro. Anno di Gesù Cristo 34.
CAPO XVII. S. Pietro di nuovo messo in prigione. — È da un angelo liberato. Anno di Gesù Cristo 34.
CAPO XVIII. Elezione dei sette diaconi. — S. Pietro resiste alla persecuzione di Gerusalemme. — Va in Samaria. — Suo primo scontro con Simon Mago. Anno di G. C. 35.
CAPO XIX. S. Pietro fonda la cattedra di Antiochia; ritorna in Gerusalemme. — È visitato da S. Paolo. Anno di Gesù Cristo 36.
CAPO XX. S. Pietro visita parecchie Chiese. — Guarisce Enea paralitico. — Risuscita la defunta Tabita. Anno di G. C. 38.
CAPO XXI. Dio rivela a S. Pietro la vocazione dei Gentili. — Va in Cesarea e battezza la famiglia di Cornelio Centurione. Anno di G. C. 39.
CAPO XXII. Erode fa decapitare S. Giacomo il Maggiore e mettere S. Pietro in prigione. — Ma ne è liberato da un Angelo. — Morte di Erode. Anno di G. C. 41.
CAPO XXIII. Pietro a Roma. — Vi trasferisce la cattedra apostolica. — Sua prima lettera. — Progresso del Vangelo. Anno 42 di Gesù Cristo.
CAPO XXIV. San Pietro al concilio di Gerusalemme definisce una questione. — San Giacomo conferma il suo giudizio. Anno di Gesù Cristo 50.
CAPO XXV. San Pietro conferisce a San Paolo e a San Barnaba la pienezza dell’Apostolato. — È avvisato da San Paolo. — Ritorna a Roma. Anno di Gesù Cristo 54.
CAPO XXVI. San Pietro fa risuscitare un morto. Anno di Gesù Cristo 66.
CAPO XXVII. Volo. — Caduta. — Disperata morte di Simone Mago. Anno di Gesù Cristo 67.
CAPO XXVIII. Pietro è cercato a morte. — Gesù gli appare e gli predice imminente il martirio. — Testamento del santo Apostolo.
CAPO XXIX. San Pietro in prigione converte Processo e Martiniano. — Suo martirio. Anno dell’Era Volgare 67.
CAPO XXX. Sepolcro di San Pietro. — Attentato contro il suo corpo.
CAPO XXXI. Tomba e Basilica di San Pietro in Vaticano.
APPENDICE SULLA VENUTA DI S. PIETRO A ROMA

PREFAZIONE
            A chi deve entrare in un palazzo chiuso e prenderne possesso è necessario che si renda propizio chi ne tiene le chiavi.
            Sfortunato colui che, trovandosi su una navicella in alto mare, non è nelle grazie del pilota. La pecorella perduta, che sta lontano dal suo pastore, non ne conosce la voce o non l’ascolta.
            Caro lettore; la tua dimora è il cielo, e tu devi aspirare a giungerne al possesso. Finché vivi quaggiù, stai navigando nel fortunoso mare del mondo, in pericolo di scontrare gli scogli, di naufragare e perderti negli abissi dell’errore.
            Come una pecorella, sei ogni giorno in procinto di essere condotto a pascoli nocivi, di smarrirti per balze e dirupi, e di cadere anche nelle zanne dei lupi rapaci, vale a dire nelle insidie dei nemici dell’anima tua. Ah! Sì, hai bisogno di renderti propizio colui al quale furono consegnate le chiavi del cielo; è necessario che tu confidi la tua vita al gran Pilota della Nave di Cristo, al Noè del nuovo Testamento; devi stringerti intorno al Supremo Pastore della Chiesa, che solo può guidarti ai sani pascoli e condurti alla vita.
            Orbene, il Portinaio del regno dei Cieli, gran Nocchiero e Pastore degli uomini è appunto S. Pietro, principe degli Apostoli, il quale esercita il suo potere nella persona del Sommo Pontefice suo Successore. Egli tuttora apre e schiude, governa la Chiesa, guida le anime alla salvezza.
            Non ti dispiaccia, dunque, pio lettore, scorrere la breve vita che qui ti presento; impara a conoscere chi egli sia, a rispettare la suprema sua autorità di onore e di giurisdizione; impara a riconoscere la voce amorevole del Pastore e ad ascoltarla. Perché chi è con Pietro, è con Dio, cammina nella luce e corre verso la vita; chi non è con Pietro, è contro Dio, va barcollando nelle tenebre e precipita nella perdizione. Dove è Pietro, ivi è la vita; dove Pietro non è, ivi è la morte.

CAPO I. Patria e professione di S. Pietro[1]. — Suo fratello Andrea lo conduce da Gesù Cristo. Anno 29 di Gesù Cristo
            Era S. Pietro di nascita giudeo e figlio di un povero pescatore di nome Giona ossia Giovanni, il quale abitava in una città della Galilea detta Betsaida. Questa città è situata sulla riva occidentale del lago di Genezaret, comunemente detto mare di Galilea o di Tiberiade, che in realtà è un vasto lago di dodici miglia di lunghezza e sei di larghezza.
            Prima che il Salvatore gli cambiasse il nome, Pietro si chiamava Simone. Egli esercitava il mestiere di pescatore, come suo padre; aveva un temperamento robusto, ingegno vivace e spiritoso; era pronto nel rispondere, ma di cuore buono e pieno di riconoscenza verso chi lo beneficava.
            Questa indole vivace lo portava spesso ai più caldi trasporti di affetto verso il Salvatore, dal quale parimenti ebbe a ricevere non dubbi segni di predilezione. In quel tempo, non essendo ancora molto conosciuto il pregio della verginità, Pietro prese moglie nella città di Cafarnao, capitale della Galilea, sulla riva occidentale del Giordano, che è un gran fiume, il quale divide la Palestina da nord a sud.
            Siccome Tiberiade era situata dove il Giordano sbocca nel mare di Galilea, e perciò molto adatta alla pesca, così S. Pietro stabilì in questa città la sua ordinaria dimora e continuò a esercitare il suo solito mestiere. La bontà del suo cuore molto disposto per la verità, l’impiego innocente di pescatore e l’assiduità al lavoro contribuirono assai a fare sì che egli si conservasse nel santo timore di Dio.
            Era in quel tempo diffuso il pensiero nella mente di tutti che fosse imminente la venuta del Messia; anzi, taluno andava dicendo che era già nato fra gli Ebrei. La qual cosa era motivo che S. Pietro usasse la massima diligenza per venirne a conoscenza. Egli aveva un fratello maggiore di nome Andrea, il quale, rapito dalle meraviglie che si raccontavano intorno a S. Giovanni Battista, Precursore del Salvatore, volle farsi suo discepolo, andando a vivere la maggior parte del tempo con lui in un aspro deserto.
            La notizia, che si andava ogni giorno più confermando, che già fosse nato il Messia, faceva sì che molti ricorressero a S. Giovanni, credendo che fosse egli stesso il Redentore. Fra questi vi era S. Andrea, fratello di Simon Pietro. Ma non andò molto che, istruito da Giovanni, venne a conoscere Gesù Cristo e la prima volta che lo udì parlare ne fu talmente rapito che corse immediatamente a darne notizia al fratello.
            Appena lo vide: “Simone,” gli disse, “ho trovato il Messia; vieni con me a vederlo.”
            Simone, che già da altri aveva udito raccontare qualcosa, ma vagamente, partì subito con suo fratello e andò là dove Andrea aveva lasciato Gesù Cristo. Pietro, come ebbe dato uno sguardo al Salvatore, ne fu come rapito d’amore. Il divino Maestro, che aveva concepito alti disegni sopra di lui, lo guardò con aria di bontà e, prima che egli parlasse, gli mostrò di essere pienamente informato del suo nome, della sua nascita, della sua patria, dicendo: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni, ma in seguito ti chiamerai Cefa.” Questa parola vuol dire pietra, donde derivò il nome di Pietro. Gesù comunica a Simone che sarebbe chiamato Pietro, perché egli doveva essere quella pietra sopra cui Gesù Cristo avrebbe fondato la sua Chiesa, come vedremo nel corso di questa vita.
            In questo primo colloquio Pietro riconobbe subito essere di gran lunga inferiore alla realtà quello che gli aveva raccontato suo fratello e, fin da quel momento, divenne affezionatissimo a Gesù Cristo, né sapeva più vivere lontano da lui. Il divino Salvatore, per altro, permise a questo nuovo discepolo di far ritorno al suo precedente mestiere perché voleva predisporlo poco per volta al totale abbandono delle cose terrene, guidarlo ai più sublimi gradi della virtù e così renderlo capace di comprendere gli altri misteri che gli avrebbe rivelato e farlo degno del grande potere di cui lo voleva investire.

CAPO II. Pietro conduce in nave il Salvatore — Pesca miracolosa. — Accoglie Gesù in sua casa. — Miracoli operati. Anno di Gesù Cristo 30.
            Pietro continuava dunque a esercitare la sua prima professione; ma ogni volta che il tempo e le occupazioni glielo permettevano, andava con gioia dal divino Salvatore, per udirlo ragionare delle verità della fede e del regno dei cieli.
            Un giorno, camminando Gesù sulla spiaggia del mare di Tiberiade, vide i due fratelli Pietro e Andrea in atto di gettare le loro reti nell’acqua. Chiamatili a sé, disse loro: “Venite con me e, da pescatori di pesci come siete, vi farò diventare pescatori di uomini.” Essi prontamente ubbidirono ai cenni del Redentore e, abbandonando le loro reti, divennero fedeli e costanti seguaci di lui. Non lontano vi era un’altra barca di pescatori, in cui si trovava un certo Zebedeo con due figli, Giacomo e Giovanni, che riparavano le loro reti. Gesù chiamò a sé anche questi due fratelli. Pietro, Giacomo e Giovanni sono i tre discepoli che ebbero segni di speciale benevolenza dal Salvatore e che, dal loro canto, gli si mostrarono in ogni incontro fedeli e leali.
            Intanto il popolo, avendo saputo che il Salvatore si trovava là, si affollava intorno a lui per ascoltare la sua divina parola. Volendo appagare il desiderio della moltitudine e nel tempo stesso offrire comodità a tutti di poterlo udire, non volle predicare dal lido, ma da una delle due navi che erano vicino alla riva; e per dare a Pietro un nuovo attestato di amore scelse la barca di lui. Salito a bordo e fatto salire anche Pietro, gli comandò di allontanarsi un po’ dalla sponda e, postosi a sedere, si mise a istruire quella devota adunanza. Finita la predica, ordinò a Pietro di condurre la nave in alto mare e di gettare la rete per raccogliere pesci.
            Pietro aveva passato tutta la notte precedente a pescare in quel medesimo luogo e non aveva preso niente; perciò, voltosi a Gesù: “Maestro,” gli disse, “noi ci siamo affaticati tutta la notte pescando e non abbiamo preso neppure un pesce; tuttavia, sulla vostra parola, getterò in mare la rete.” Così fece per ubbidienza e, contro ogni aspettativa, la pesca fu tanto copiosa e la rete così piena di grossi pesci che, tentando di trarla fuori dalle acque, stava per lacerarsi. Pietro, non potendo da solo reggere al grande peso della rete, chiese soccorso a Giacomo e Giovanni, che stavano nell’altra nave, e questi vennero ad aiutarlo. D’accordo e con fatica, tirarono fuori la rete, versarono i pesci sulle navi, le quali rimangono entrambe così piene che minacciano di affondare.
            Pietro, che cominciava a ravvisare qualcosa di sovrumano nella persona del Salvatore, riconobbe subito che quello era un prodigio e, pieno di stupore, reputandosi indegno di stare con lui nella medesima barca, umiliato e confuso, si gettò ai suoi piedi dicendo: “Signore, io sono un miserabile peccatore, perciò vi prego di allontanarvi da me.” Quasi a dire: “Oh! Signore, io non sono degno di stare alla vostra presenza.” Ammirando, dice Sant’Ambrogio, i doni di Dio, tanto più meritava quanto meno di sé presumeva[2].
            Gesù gradì la semplicità di Pietro e l’umiltà del suo cuore e, volendo che egli aprisse l’animo a migliori speranze, per confortarlo gli disse: “Deponi ogni timore; da ora in avanti non sarai pescatore di pesci, ma sarai pescatore di uomini.” A queste parole Pietro prese coraggio e, quasi cambiato in un altro uomo, condusse la nave al lido, abbandonò ogni cosa e si fece indivisibile compagno del Redentore.
            Siccome Gesù Cristo, parlando, indirizzò il cammino verso la città di Cafarnao, così Pietro andò con lui. Là entrarono entrambi nella Sinagoga e l’Apostolo ascoltò la predica che qui fece il Signore e fu testimone della miracolosa guarigione di un indemoniato.
            Dalla Sinagoga Gesù andò nella casa di Pietro dove la suocera di lui era travagliata da una gravissima febbre. Insieme con Andrea, Giacomo e Giovanni, egli pregò Gesù di compiacersi di liberare quella donna dal male che la opprimeva. Il divino Salvatore esaudì le loro preghiere e, avvicinandosi al letto dell’ammalata, la prese per mano, la sollevò ed in quell’istante la febbre scomparve. La donna si trovò così perfettamente guarita che poté alzarsi subito e preparare il pranzo a Gesù e a tutta la sua comitiva. La fama di tali miracoli trasse alla casa di Pietro molti infermi insieme con una folla innumerevole, così che tutta la città sembrava radunata là. Gesù restituì la sanità a quanti erano portati a lui; e tutti, pieni di contentezza, ne partivano lodando e benedicendo il Signore.
            I santi Padri nella nave di Pietro ravvisano la Chiesa, di cui è capo Gesù Cristo, in luogo del quale Pietro doveva essere il primo a farne le veci, e dopo di lui tutti i Papi suoi successori. Le parole dette a Pietro: “Conduci la nave in alto mare,” e le altre dette a lui e ai suoi Apostoli: “Spiegate le vostre reti per prendere pesci,” contengono anche un nobile significato. A tutti gli Apostoli, dice S. Ambrogio, comanda di gettare nelle onde le reti; perché tutti gli Apostoli e tutti i pastori sono tenuti a predicare la divina parola e a custodire nella nave, ovvero nella Chiesa, quelle anime che andranno guadagnate nella loro predicazione. Al solo Pietro poi si ordina di condurre la nave in alto mare, perché egli, a preferenza di tutti, viene fatto partecipe della profondità dei divini misteri e solo riceve da Cristo l’autorità di sciogliere le difficoltà che possono insorgere in cose di fede e di morale. Così, nella venuta degli altri apostoli alla nave di lui, si riconosce il concorso degli altri pastori, i quali, unendosi a Pietro, devono aiutarlo a propagare e conservare la fede nel mondo e guadagnare anime a Cristo[3].

CAPO III. S. Pietro capo degli Apostoli è inviato a predicare. — Cammina sopra le onde. — Bella risposta data al Salvatore. Anno 31 di Gesù Cristo.
            Partito Gesù dalla casa di Pietro, si incamminò verso la solitudine, sopra un monte, per fare orazione. Pietro e gli altri discepoli, che a quel punto erano cresciuti in buon numero, lo seguirono; ma, giunti al luogo stabilito, Gesù comandò loro di fermarsi e, tutto solo, si ritirò in un luogo appartato. Fattosi giorno, ritornò ai discepoli. In quell’occasione il divino Maestro scelse dodici discepoli, cui diede il nome di Apostoli, che vuol dire inviati, poiché gli Apostoli erano veramente inviati a predicare il Vangelo, per allora nei soli paesi della Giudea; poi in tutto il mondo. Fra questi dodici destinò San Pietro a tenere il primo posto e a fare da capo affinché, come dice S. Girolamo, stabilito fra di loro un superiore, si togliesse ogni occasione di discordia e di scisma. Ut capite constituto schismatis tolleretur occasio[4].
            I nuovi predicatori andavano con tutto zelo ad annunciare il Vangelo, predicando ovunque la venuta del Messia e confermando le loro parole con luminosi miracoli. Poi ritornavano al divino Maestro, come per rendere conto di quanto avevano fatto. Egli li accoglieva con bontà e soleva quindi portarsi egli stesso in quel luogo dove gli Apostoli avevano predicato. Avvenne un giorno che le turbe, trasportate da ammirazione e da entusiasmo, volevano farlo re; ma egli, comandando agli Apostoli di fare tragitto all’opposta sponda del lago, si allontanò da quella buona gente e andò a nascondersi nel deserto. Gli Apostoli, secondo gli ordini del Maestro, salirono in barca per attraversare il lago. Già si avanzava la notte ed erano ormai giunti al lido, quando si levò una burrasca così terribile che la nave, agitata dalle onde e dal vento, era in procinto di affondare.
            In mezzo a quella tempesta non si immaginavano certo di poter vedere Gesù Cristo, che avevano lasciato all’opposta sponda del lago. Ma quale non fu la loro sorpresa quando lo videro a poca distanza camminare sopra le acque, con passo franco e veloce, ed avanzare verso di loro! Al primo vederlo tutti si spaventarono, temendo che fosse un qualche spettro o fantasma, e si misero a gridare. Gesù allora fece udire la sua voce e li incoraggiò dicendo: «Sono io, abbiate fede, non temete.»
            A quelle parole nessuno degli Apostoli osò parlare; soltanto Pietro, per l’impeto del suo amore verso Gesù e per accertarsi che non fosse un’illusione, disse: “Signore, se siete voi veramente, comandate che io venga a voi camminando sopra le acque.” Il Divin Salvatore disse di sì; e Pietro, pieno di fiducia, saltò fuori dalla nave e si gettò a camminare sopra le onde, come si farebbe su un selciato. Ma Gesù, che voleva provare la fede di lui e renderla più perfetta, permise di nuovo che si sollevasse un vento impetuoso, il quale, agitando le onde, minacciava di sommergere Pietro. Vedendo i suoi piedi affondare nell’acqua, ne fu spaventato e si mise a gridare: “Maestro, Maestro, aiutatemi, altrimenti io sono perduto.” Allora Gesù lo rimproverò della debolezza della sua fede con queste parole: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” Così dicendo, camminarono entrambi insieme sopra le onde finché, entrando in barca, cessò il vento e si calmò la tempesta. In questo fatto i santi Padri ravvisano i pericoli in cui si trova talvolta il Capo della Chiesa e il pronto soccorso che gli porta Gesù Cristo, suo Capo invisibile, che permette sì le persecuzioni, ma gli dà sempre vittoria.
            Qualche tempo dopo il Divin Salvatore ritornò nella città di Cafarnao con gli Apostoli, seguito da una gran folla. Mentre si tratteneva in questa città, molti gli si affollavano intorno, pregandolo di voler insegnare loro quali fossero le opere assolutamente necessarie per salvarsi. Gesù si pose a istruirli intorno alla sua celeste dottrina, al mistero della sua Incarnazione, al Sacramento dell’Eucaristia. Ma siccome quegli insegnamenti tendevano a sradicare la superbia dal cuore degli uomini, a ingenerarvi l’umiltà con l’obbligarli a credere altissimi misteri e specialmente il mistero dei misteri, la divina Eucaristia, così i suoi uditori, reputando quei discorsi troppo rigidi e severi, rimasero offesi e la maggior parte lo abbandonò.
            Gesù, vedendosi abbandonato quasi da tutti, si rivolse agli Apostoli e disse: “Vedete come molti se ne vanno? Volete forse andarvene anche voi?” A questa improvvisa interrogazione ognuno tacque. Solamente Pietro, come capo e a nome di tutti, rispose: “Signore, a chi mai andremo noi? Voi avete parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che voi siete Cristo figlio di Dio.” S. Cirillo riflette che questa interrogazione fu fatta da Gesù Cristo al fine di stimolarli a confessare la vera fede, come di fatto avvenne per la bocca di Pietro. Quale differenza fra la risposta del nostro Apostolo e le mormorazioni di certi cristiani che trovano dura e severa la santa legge del Vangelo, perché non si accomoda alle loro passioni (Ciril. in Ioann. lib. 4).

CAPO IV. Pietro confessa per la seconda volta Gesù Cristo come figlio di Dio. — È costituito capo della Chiesa, e gli sono promesse le chiavi del regno dei Cieli. Anno 32 di Gesù Cristo.
            In parecchie occasioni il divino Salvatore aveva reso palesi i disegni particolari che aveva sulla persona di Pietro; ma non si era ancora spiegato così chiaramente, come vedremo nel fatto seguente, che si può dire il più memorabile della vita di questo grande Apostolo. Dalla città di Cafarnao Gesù era andato nei dintorni di Cesarea di Filippo, città non molto distante dal fiume Giordano. Là un giorno, dopo aver pregato, Gesù si volse improvvisamente ai suoi discepoli, che erano ritornati dalla predicazione, e facendo cenno di avvicinarsi a lui prese a interrogarli così: “Chi dicono gli uomini che io sia?” “C’è chi dice,” rispondeva uno degli Apostoli, “che voi siete il profeta Elia.” “A me hanno detto,” soggiunse un altro, “che voi siete il profeta Geremia, o Giovanni Battista o qualcuno degli antichi profeti risuscitati.” Pietro non proferì parola. Riprese Gesù: “Ma voi, chi dite che io sono?” Pietro allora si avanzò e a nome degli altri Apostoli rispose: “Voi siete il Cristo, figlio del Dio vivo.” Allora Gesù: “Beato te, o Simone, figlio di Giovanni, cui non gli uomini rivelarono tali parole, ma il mio Padre celeste. D’ora in poi non ti chiamerai più Simone, ma Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la potranno vincere. Darò a te le chiavi del regno dei cieli; ciò che tu legherai in terra, sarà legato anche in cielo, e ciò che tu avrai sciolto sulla terra, sarà sciolto anche in cielo.”[5]
            Questo fatto e queste parole meritano di essere un po’ spiegate, affinché siano ben comprese. Pietro tacque finché Gesù dimostrava soltanto di voler sapere quanto dicevano gli uomini intorno alla sua persona; quando poi il divino Salvatore invitò gli Apostoli a esprimere il proprio sentimento, subito Pietro a nome di tutti parlò, perché egli già godeva una primazia, ovvero superiorità, sugli altri suoi compagni.
            Pietro, divinamente ispirato, dice: “Voi siete il Cristo,” ed era lo stesso che dire: “Voi siete il Messia promesso da Dio venuto a salvare gli uomini; siete figlio del Dio vivo,” per significare che Gesù Cristo non era figlio di Dio come le divinità degli idolatri, fatte dalle mani e dal capriccio degli uomini, ma figlio del Dio vivo e vero, cioè figlio del Padre eterno, perciò con Lui creatore e supremo padrone di tutte le cose; con ciò veniva a confessarlo come la seconda persona della SS. Trinità. Gesù, quasi per compensarlo della sua fede, lo chiama Beato, e intanto gli cambia il nome di Simone in quello di Pietro; chiaro segno che lo voleva innalzare a grande dignità. Così aveva fatto Dio con Abramo, quando lo stabilì padre di tutti i credenti; così con Sara quando le promise la prodigiosa nascita di un figlio; così con Giacobbe quando lo chiamò Israele e lo assicurò che dalla sua discendenza sarebbe nato il Messia.
            Gesù disse: “Su questa pietra fonderò la mia Chiesa;” le quali parole vogliono dire: tu, o Pietro, sarai nella Chiesa quello che in una casa è il fondamento. Il fondamento è la parte principale della casa, del tutto indispensabile; tu, o Pietro, sarai il fondamento, ossia la suprema autorità nella mia Chiesa. Sul fondamento si edifica tutta la casa, affinché, sostenendosi, duri ferma e immobile. Sopra di te, che io chiamo Pietro, come sopra una roccia o pietra fermissima, per mia virtù onnipotente io innalzo l’eterno edificio della mia Chiesa, la quale, appoggiata su di te, starà forte e invitta contro tutti gli assalti dei suoi nemici. Non vi è casa senza fondamento, non vi è Chiesa senza Pietro. Una casa senza fondamento non è opera di un sapiente architetto; una Chiesa separata da Pietro non potrà mai essere la mia Chiesa. Nelle case, le parti che non poggiano sul fondamento cadono e vanno in rovina; nella mia Chiesa chiunque si separa da Pietro precipita nell’errore e si perde.
            “Le porte dell’inferno non vinceranno mai la mia Chiesa.” Le porte dell’inferno, come spiegano i Santi Padri, significano le eresie, gli eresiarchi, le persecuzioni, i pubblici scandali e i disordini che il demonio cerca di suscitare contro la Chiesa. Tutte queste potenze infernali potranno bensì, o separatamente o riunite, muovere aspra guerra alla Chiesa e turbarne lo spirito pacifico, ma non la potranno mai vincere.
            Finalmente dice Cristo: “E ti darò le chiavi del regno dei cieli.” Le chiavi sono il simbolo della potestà. Quando il venditore di una casa porge le chiavi al compratore, s’intende che gliene dà pieno ed assoluto possesso. Parimenti quando si presentano le chiavi di una città a un Re, si vuole significare che quella città lo riconosce per suo signore. Così le chiavi del regno dei cieli, cioè della Chiesa, date a Pietro, dimostrano che egli è fatto padrone, principe e governatore della Chiesa. Perciò Gesù Cristo soggiunge a Pietro: “Tutto quello che legherai sulla terra sarà altresì legato nei cieli, e tutto quello che scioglierai in terra sarà pure sciolto in cielo.” Le quali parole indicano manifestamente l’autorità suprema data a Pietro; autorità di legare la coscienza degli uomini con decreti e leggi in ordine al loro bene spirituale ed eterno, e l’autorità di scioglierli dai peccati e dalle pene che impediscono lo stesso bene spirituale ed eterno.
            È bene qui notare che il vero Capo supremo della Chiesa è Gesù Cristo suo fondatore; S. Pietro poi esercita la suprema sua autorità facendo le funzioni, ossia le veci, di lui sulla terra. Gesù Cristo fece con Pietro, come appunto fanno i Re di questo mondo, allorché danno i pieni poteri a qualche loro ministro con ordine che ogni cosa debba dipendere da lui. Così il Re Faraone diede tal potere a Giuseppe che nessuno poteva muovere né mano né piede senza suo permesso[6].
            Si noti anche che gli altri Apostoli ricevettero da Gesù Cristo la facoltà di sciogliere e legare[7], ma questa facoltà fu loro data dopo che S. Pietro l’aveva ricevuta da solo, per indicare che egli solo era il capo destinato a conservare l’unità di fede e di morale. Gli altri Apostoli poi, e tutti i vescovi loro successori, dovevano essere sempre dipendenti da Pietro e dai Papi suoi successori, al fine di stare uniti a Gesù Cristo, che dal cielo assiste il suo Vicario e tutta la Chiesa sino alla fine dei secoli. Pietro ricevette la facoltà di sciogliere e di legare insieme con gli altri Apostoli, e così egli e i suoi successori sono uguali agli Apostoli e ai Vescovi; poi la ricevette da solo, e perciò Pietro e i Papi suoi successori sono i Capi supremi di tutta la Chiesa; non solo dei semplici fedeli, ma dei Sacerdoti e dei Vescovi tutti. Sono vescovi e pastori di Roma, e papi e pastori di tutta la Chiesa.
            Col fatto che abbiamo esposto il divino Salvatore promette di voler costituire S. Pietro capo supremo della sua Chiesa, e gli spiega la grandezza della sua autorità. Noi vedremo il compimento di questa promessa dopo la risurrezione di Gesù Cristo.

CAPO V. S. Pietro dissuade il divino Maestro dalla passione. — Va con lui sul monte Tabor. Anno di G. C. 32.
            Il divino Redentore, dopo aver fatto conoscere ai suoi discepoli come egli edificava la sua Chiesa su basi stabili, incrollabili ed eterne, volle dar loro un ammaestramento affinché ben comprendessero che egli non fondava questo suo regno, ovvero la sua Chiesa, con ricchezze o magnificenza mondana, bensì con l’umiltà, coi patimenti. Con questo proposito dunque manifestò a S. Pietro e a tutti i suoi discepoli la lunga serie dei patimenti e la morte obbrobriosa che gli Ebrei dovevano fargli soffrire in Gerusalemme. Pietro, per il grande amore che nutriva verso il suo divino Maestro, inorridì all’udire i mali cui era per essere esposta la sacra di lui persona, e trasportato dall’affetto che un tenero figlio ha per suo padre, lo trasse in disparte e prese a persuaderlo che si recasse lontano da Gerusalemme per evitare quei mali e concluse: “Lungi da voi, Signore, questi mali.” Gesù lo riprese del suo affetto troppo sensibile dicendogli: “Ritirati da me, o avversario, questo tuo parlare mi dà scandalo: tu non sai ancora gustare le cose di Dio, ma soltanto le cose umane.” “Ecco,” dice S. Agostino, “quel medesimo Pietro che poco innanzi lo aveva confessato per figlio di Dio, qui teme che egli muoia come figlio dell’uomo.”
            Nell’atto che il Redentore manifestò i maltrattamenti che doveva soffrire per mano dei Giudei, promise che alcuni degli Apostoli, prima che egli morisse, avrebbero gustato un saggio della sua gloria, e ciò per confermarli nella fede e affinché non si lasciassero avvilire quando lo vedessero esposto alle umiliazioni della passione. Pertanto, qualche giorno dopo, Gesù scelse tre Apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse sopra un monte detto comunemente Tabor. In presenza di questi tre discepoli Egli si trasfigurò, cioè lasciò trasparire un raggio della sua divinità intorno alla sacrosanta sua persona. Nello stesso momento una luce sfolgorante lo circondò e il suo volto divenne simile al chiarore del sole, e le sue vesti bianche come la neve. Pietro, allorché giunse sul monte, forse stanco del viaggio, si era posto a dormire con gli altri due; ma tutti in quel momento, destandosi, videro la gloria del loro Divino Maestro. Nel tempo stesso comparvero anche presenti Mosè ed Elia. Al vedere risplendente il Salvatore, alla comparsa di quei due personaggi e di quell’insolito splendore, Pietro sbalordito voleva parlare e non sapeva che dire; e quasi fuori di sé, riputando per nulla ogni umana grandezza in confronto di quel saggio di paradiso, si sentì ardere di desiderio di rimanere sempre là insieme con il suo Maestro. Quindi, rivolto a Gesù, disse: “O Signore, quanto è mai cosa buona lo star qui: se così vi piace, facciamo qui tre padiglioni, uno per voi, uno per Mosè e l’altro per Elia.” Pietro, come ci attesta il Vangelo, era fuori di sé e parlava senza sapere cosa dicesse. Era un trasporto d’amore per il suo Maestro e un vivo desiderio della felicità. Egli ancora parlava quando, scomparsi Mosè ed Elia, sopraggiunse una nuvola meravigliosa che avvolse i tre Apostoli. In quel momento, dal mezzo di quella nuvola, fu udita una voce che diceva: “Questi è il mio figlio diletto, in cui ho riposto le mie compiacenze, ascoltatelo.” Allora i tre Apostoli, vieppiù atterriti, caddero a terra come morti; ma il Redentore, avvicinandosi, li toccò con la mano e, facendo loro coraggio, li rialzò in piedi. Alzati gli occhi, non videro più né Mosè né Elia; c’era il solo Gesù nel suo stato naturale. Gesù comandò loro di non manifestare ad alcuno quella visione, se non dopo la sua morte e risurrezione[8]. Dopo tale fatto quei tre discepoli crebbero a dismisura in amore verso Gesù. S. Giovanni Damasceno rende ragione del perché Gesù abbia di preferenza scelto questi tre Apostoli, e dice che Pietro, essendo stato il primo a rendere testimonianza della divinità del Salvatore, meritava di essere anche il primo a poter in modo sensibile rimirare la sua umanità glorificata; Giacomo ebbe anche tale privilegio perché doveva essere il primo a seguire il suo Maestro col martirio; S. Giovanni aveva il merito verginale che lo fece degno di questo onore[9].
            La Chiesa cattolica celebra il venerabile avvenimento della trasfigurazione del Salvatore sul monte Tabor il giorno sei di agosto.

CAPO VI. Gesù alla presenza di Pietro risuscita la figlia di Giairo. — Paga per Pietro il tributo. — Ammaestra i suoi discepoli nell’umiltà. Anno di G. C. 32.
            Intanto si avvicinava il tempo in cui la fede di Pietro doveva essere messa alla prova. Perciò il divino Maestro, per infiammarlo sempre più d’amore per lui, sovente gli dava nuovi segni d’affetto e di bontà. Essendo Gesù venuto in una parte della Palestina detta terra dei Geraseni, gli si fece innanzi un principe della sinagoga di nome Giairo, pregandolo che volesse restituire la vita alla sua figlia unica di 12 anni, morta poc’anzi. Gesù volle esaudirlo; ma giunto alla casa di lui proibì a tutti di entrare, e solo condusse con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, affinché fossero testimoni di quel miracolo.
            Il giorno seguente Gesù, scostandosi alquanto dagli altri discepoli, entrava con Pietro nella città di Cafarnao per recarsi alla casa di lui. Alla porta della città i gabellieri, ossia coloro che dal governo erano posti all’esazione dei tributi e delle imposte, tirarono Pietro in disparte e gli dissero: “Il tuo Maestro paga egli il tributo?” “Certamente che sì,” rispose Pietro. Ciò detto entrò in casa, dove il Signore lo aveva preceduto. Come lo vide il Salvatore, cui ogni cosa era manifesta, lo chiamò a sé e gli disse: “Dimmi, o Pietro, chi sono quelli che pagano il tributo? Sono i figli del re, oppure gli estranei della famiglia reale?” Pietro rispose: “Sono gli estranei.” “Dunque,” riprese a dire Gesù, “i figli del re sono esenti da ogni tributo.” Il che voleva dire: “Dunque io che sono, come tu stesso hai dichiarato, il Figlio di Dio vivo, non sono obbligato a pagare nulla ai principi della terra; tuttavia questa buona gente non mi conosce come tu, e ne potrebbe prendere scandalo; perciò intendo pagare il tributo. Va al mare, getta la rete, e nella bocca del primo pesce che prenderai troverai la moneta per pagare il tributo per me e per te.” L’Apostolo eseguì quanto gli era stato comandato, e dopo qualche intervallo di tempo ritornò pieno di stupore con la moneta indicatagli dal Salvatore; e il tributo fu pagato.
            I Santi Padri ammirarono due cose in questo fatto: l’umiltà e mansuetudine di Gesù, che si sottomette alle leggi degli uomini, e l’onore che si degnò di fare all’Apostolo Pietro, eguagliandolo a sé medesimo e mostrandolo apertamente suo Vicario.
            Gli altri Apostoli, come seppero la preferenza fatta a Pietro, essendo ancora molto imperfetti nella virtù, ne ebbero invidia; perciò andavano tra loro disputando chi fra essi fosse il maggiore. Gesù, che poco per volta voleva correggerli dei loro difetti, giunti che furono alla sua presenza fece loro conoscere come le grandezze del cielo sono ben diverse da quelle della terra, e che colui il quale vuole essere primo in Cielo conviene che si faccia ultimo in terra. Disse loro poi: “Chi è il maggiore? Chi è il primo in una famiglia? Forse colui che sta seduto, o colui che serve a tavola? Certamente chi sta a tavola. Ora che vedete voi in me? Qual personaggio ho io figurato? Certo di un povero che serve a mensa.”
            Questo avviso doveva principalmente valere per Pietro, il quale nel mondo doveva ricevere grandi onori per la sua dignità, e tuttavia conservarsi nell’umiltà e nominarsi servo dei servi del Signore, come appunto sogliono appellarsi i Papi suoi successori.

CAPO VII. Pietro parla con Gesù del perdono delle ingiurie e del distacco dalle cose terrene. — Rifiuta di lasciarsi lavare i piedi. — Sua amicizia con S. Giovanni. Anno di G. C. 33.
            Un giorno il divino Salvatore si mise ad ammaestrare gli Apostoli riguardo al perdono delle offese, e avendo detto che si doveva sopportare qualunque oltraggio e perdonare qualsiasi ingiuria, Pietro rimase pieno di stupore; poiché egli era prevenuto, come tutti gli Ebrei, in favore delle tradizioni giudaiche, le quali permettevano alla persona offesa d’infliggere una pena all’offensore, chiamata la pena del taglione. Si rivolse pertanto a Gesù e disse: “Maestro, se il nemico ci facesse sette volte ingiuria e sette volte mi venisse a chiedere perdono, dovrei perdonarlo sette volte?” Gesù, il quale era venuto per mitigare i rigori della legge antica con la santità e purezza del Vangelo, rispose a Pietro che “non solamente doveva perdonare sette volte, ma settanta volte sette,” espressione che significa doversi perdonare sempre. I Santi Padri in questo fatto riconoscono primariamente l’obbligo che ciascun cristiano ha di perdonare al prossimo ogni affronto, in ogni tempo ed in ogni luogo. In secondo luogo riconoscono la facoltà data da Gesù a S. Pietro e a tutti i sacri ministri di perdonare i peccati degli uomini, qualunque ne sia la gravità e il numero, purché ne siano pentiti e promettano sincera emendazione.
            In un altro giorno Gesù ammaestrava il popolo, parlando della grande ricompensa che avrebbero ricevuto coloro che avessero disprezzato il mondo e fatto buon uso delle ricchezze, distaccando i loro cuori dai beni della terra. Pietro, che non aveva ancora ricevuto i lumi dello Spirito Santo e che più degli altri aveva bisogno di essere istruito, con la sua solita franchezza si rivolse a Gesù e gli disse: “Maestro, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e vi abbiamo seguito: abbiamo fatto quello che avete comandato; quale dunque sarà il premio che ci darete?” Il Salvatore gradì la domanda di Pietro e, mentre lodò il distacco degli Apostoli da ogni sostanza terrena, assicurò che a loro era riservato un premio particolare, perché, lasciate le loro sostanze, lo avevano seguito. “Voi,” disse, “che avete seguito me, sederete su dodici troni maestosi e, compagni nella mia gloria, giudicherete con me le dodici tribù d’Israele e con esse tutto il genere umano.”
            Non molto dopo Gesù si recò nel tempio di Gerusalemme e si mise a ragionare con Pietro della struttura di quel grandioso edificio e della preziosità delle pietre che lo adornavano. Il divino Salvatore prese allora occasione di predirne l’intera rovina dicendo: “Di questo magnifico tempio non rimarrà più pietra su pietra.” Uscito quindi Gesù dalla città e passando vicino a una pianta di fico, che era stata da lui maledetta, Pietro, meravigliato, fece notare al divino Maestro come quella pianta era già divenuta arida e secca. Era una prova della veracità delle promesse del Salvatore. Onde Gesù, per incoraggiare gli Apostoli ad avere fede, rispose che in virtù della fede avrebbero ottenuto tutto quello che avrebbero chiesto.
            La virtù, per altro, che Cristo voleva profondamente radicata nel cuore degli Apostoli e specialmente di Pietro, era l’umiltà, e di questa in molte occasioni diede loro luminosi esempi, soprattutto la vigilia della sua passione. Era quello il primo giorno della Pasqua degli Ebrei, che doveva durare sette giorni e che suole chiamarsi degli azzimi. Gesù mandò Pietro e Giovanni a Gerusalemme dicendo: “Andate e preparate le cose necessarie per la Pasqua.” Quelli dissero: “Dove volete che le andiamo a preparare?” Gesù rispose: “Entrando in città incontrerete un uomo che porta una brocca d’acqua; andate con lui, ed egli vi mostrerà un grande cenacolo messo in ordine, e lì preparate quanto occorre a questo bisogno.” Così fecero. Giunta la sera di quella notte, che era l’ultima della vita mortale del Salvatore, volendo Egli istituire il Sacramento dell’Eucaristia, premise un fatto che dimostra la purezza d’anima con cui ogni cristiano deve accostarsi a questo sacramento del divino amore, e nel contempo giova a frenare la superbia degli uomini fino alla fine del mondo. Mentre era a mensa con i suoi discepoli, verso la fine della cena, il Signore si alza da tavola, prende un asciugatoio, se lo cinge ai fianchi e versa dell’acqua in un catino, mostrando di voler lavare i piedi agli Apostoli, che seduti e meravigliati stavano guardando cosa volesse fare il loro Maestro.
            Gesù venne dunque con l’acqua a Pietro ed essendosi inginocchiato davanti a lui, gli chiede il piede da lavare. Il buon Pietro, inorridito di vedere il Figlio di Dio in quell’atto di povero servitore, memore ancora che poco prima l’aveva visto sfolgorante di luce, pieno di vergogna e quasi piangendo, disse: “Che fate, Maestro, che fate? Voi lavare a me i piedi? Non sarà mai: io non potrò mai permettere.” Il Salvatore gli disse: “Ciò che io faccio non lo comprendi ora, ma lo capirai dopo: perciò guardati bene dal contraddirmi; se io non ti laverò i piedi, tu non avrai parte con me,” cioè tu sarai privo di ogni mio bene e diseredato. A queste parole il buon Pietro fu terribilmente turbato; da una parte gli doleva di dover essere separato dal suo Maestro, non voleva disobbedirgli né contristarlo; dall’altra parte gli pareva di non poter permettere a lui un servizio così umile. Tuttavia, quando comprese che il Salvatore voleva ubbidienza, disse: “O Signore, poiché volete così, non devo né voglio resistere alla vostra volontà; fate di me ogni cosa che meglio vi piace; se non basta lavarmi i piedi, lavatemi anche le mani e la testa.”
            Il Salvatore, dopo aver compiuto quell’atto di profonda umiltà, si rivolse ai suoi Apostoli e disse loro: “Avete visto ciò che ho fatto? Se io, che sono vostro Maestro e Signore, vi ho lavato i piedi, voi dovete fare altrettanto tra di voi.” Queste parole significano che un seguace di Gesù Cristo non deve mai rifiutarsi ad alcuna opera anche umile di carità, qualora con essa si promuova il bene del prossimo e la gloria di Dio.
            Durante questa cena avvenne un fatto che riguarda in maniera particolare S. Pietro e S. Giovanni. Si è già potuto osservare come il divino Redentore portasse speciale affetto a questi due Apostoli; all’uno per la sublime dignità a cui era destinato, all’altro per la singolare candidezza dei costumi. Essi poi riamavano il loro Salvatore con il più intenso amore, ed erano stretti tra loro dai vincoli di specialissima amicizia, della quale il medesimo Redentore mostrò di compiacersi, perché fondata sulla virtù.
            Mentre dunque Gesù era a mensa con i suoi Apostoli, a metà della cena predisse che uno di essi lo avrebbe tradito. A questo avviso tutti si spaventarono, ed ognuno temendo per sé, cominciarono a guardarsi l’un l’altro dicendo: “Sono io forse?” Pietro, siccome più fervido nell’amore verso il suo Maestro, desiderava conoscere chi fosse quel traditore; voleva interrogare Gesù, ma farlo in segreto, affinché nessuno degli astanti se ne accorgesse. Quindi, senza proferir parola, fece un cenno a Giovanni perché fosse lui a fare quella domanda. Questo diletto apostolo aveva preso posto vicino a Gesù, e la sua posizione era tale che appoggiava il capo sul petto di lui, mentre il capo di Pietro appoggiava su quello di Giovanni. Giovanni appagò il desiderio del suo amico con tanta segretezza che nessuno degli Apostoli poté intendere né il cenno di Pietro, né l’interrogazione di Giovanni, né la risposta di Cristo; giacché nessuno per allora venne a sapere che il traditore fosse Giuda Iscariota, fuorché i due apostoli privilegiati.

CAPO VIII. Gesù predice la negazione di Pietro e lo assicura che non verrà meno la sua fede. — Pietro lo segue nell’orto di Getsemani. — Taglia l’orecchio a Malco. — Sua caduta, suo ravvedimento. Anno di G. C. 33.
            Si avvicinava il tempo della passione del Salvatore, e la fede degli Apostoli doveva essere messa a dura prova. Dopo l’ultima cena, quando Gesù stava per uscire dal cenacolo, si rivolse ai suoi Apostoli e disse: “Questa notte è assai dolorosa per me e di gran pericolo per tutti voi: avverranno di me tali cose che voi rimarrete scandalizzati, e non vi parrà più vero quello che avete conosciuto e che ora credete di me. Perciò vi dico che in questa notte tutti mi volterete le spalle.” Pietro, seguendo il suo solito ardore, fu il primo a rispondere: “Come? Noi tutti voltarvi le spalle? Anche se tutti costoro fossero così deboli da abbandonarvi, io certamente non lo farò mai, anzi sono pronto a morire con voi.” “Ah Simone, Simone,” rispose Gesù Cristo, “ecco che Satana ha ordito contro di voi una terribile tentazione, e vi crivellerà come si fa del frumento nel vaglio; e tu stesso in questa notte, prima che il gallo abbia cantato due volte, mi rinnegherai tre volte.” Pietro parlava guidato da un sentimento caldo d’affetto e non considerava che senza l’aiuto divino l’uomo cade in deplorevoli eccessi; perciò egli rinnovò le medesime promesse dicendo: “No, certamente; può darsi che tutti vi neghino, ma io mai.” Gesù, che ben conosceva tale presunzione di Pietro venire da inconsiderato ardore e dalla grande tenerezza verso di lui, ne ebbe compassione e gli soggiunse: “Tu cadrai certamente, o Pietro, come ti dissi; tuttavia non perderti d’animo. Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; tu poi, quando ti sarai ravveduto dalla tua caduta, conferma i tuoi fratelli: Rogavi pro te, ut non deficiat fides tua, et tu aliquando conversus, confirma fratres tuos.” Con queste parole il divino Salvatore promise un’assistenza particolare al Capo della sua Chiesa, affinché la sua fede non venga mai meno, vale a dire che come Maestro universale e nelle cose riguardanti la religione e la morale, insegnò e insegnerà sempre la verità, sebbene nella vita privata egli possa cadere in colpa, come infatti avvenne a S. Pietro.
            Intanto Gesù Cristo, dopo quella memorabile Cena Eucaristica, a notte avanzata uscì dal cenacolo con gli undici Apostoli e si avviò al monte degli Ulivi. Arrivato là, prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e si ritirò in una parte di quel monte detta Getsemani, dove era solito recarsi per pregare. Gesù si allontanò ancora dai tre Apostoli quanto un tiro di pietra e si mise a pregare. Prima però, nell’atto di separarsi da loro, li avvisò dicendo: “Vigilate e pregate, perché la tentazione è vicina.” Ma Pietro e i suoi compagni, sia per l’ora tarda, sia per la stanchezza, si sedettero per riposare e si addormentarono.
            Questo fu un nuovo fallo di Pietro, il quale doveva seguire il precetto del Salvatore, vigilando e pregando. In quel frattempo giunsero le guardie nell’orto per catturare Gesù e condurlo in prigione. Pietro, vedendoli appena, corse loro incontro per allontanarli; e vedendo che facevano resistenza, mise mano alla spada che aveva con sé e, vibrando un colpo alla ventura, tagliò l’orecchio a un servo del pontefice Caifa, chiamato Malco.
            Non erano queste le prove di fedeltà che Gesù aspettava da Pietro, né mai gli aveva insegnato di opporre forza a forza. Fu questo un effetto del suo vivo amore al divino Salvatore ma fuor di proposito; onde Gesù disse a Pietro: “Riponi la spada nel fodero, perché chi di spada ferisce, di spada perisce.” Poi, mettendo in pratica quello che aveva tante volte insegnato nelle sue predicazioni, cioè di fare del bene a chi ci fa del male, prese l’orecchio tagliato e con somma bontà lo rimise con le sue sante mani al luogo del taglio, sicché rimase sull’istante guarito.
            Pietro e gli altri Apostoli, scorgendo inutile ogni resistenza e che anzi avrebbero corso pericolo per sé medesimi, messe da parte le promesse fatte poco prima al Maestro, si diedero alla fuga e abbandonarono Gesù, lasciandolo solo nelle mani dei suoi carnefici.
            Pietro, per altro, vergognandosi della sua viltà, confuso e irresoluto, non sapeva dove andare né dove stare; perciò da lontano seguì Gesù fino all’atrio del palazzo di Caifa, capo di tutti i sacerdoti ebrei; e per la raccomandazione di un conoscente, riuscì pure a entrarvi. Gesù era là dentro in potere degli Scribi e dei Farisei, che lo avevano accusato a quel tribunale e cercavano di farlo condannare con qualche apparenza di giustizia.
            Entrato appena in quel luogo, il nostro Apostolo trovò una turba di guardie che stavano riscaldandosi al fuoco ivi acceso, e si pose anch’egli con loro. Al chiarore delle fiamme, la serva che per grazia lo aveva lasciato entrare, vedendolo pensieroso e malinconico, entrò in sospetto che egli fosse un seguace di Gesù. “Ehi,” gli disse, “tu sembri un compagno del Nazareno, non è vero?” L’Apostolo, nel vedersi scoperto in faccia a tanta gente, rimase attonito; e temendo per sé la prigione, forse anche la morte, perduto ogni coraggio, rispose: “Donna, ti sbagli; io non sono di quelli; nemmeno conosco quel Gesù di cui parli.” Ciò detto, il gallo cantò per la prima volta; e Pietro non vi pose mente.
            Dopo essersi trattenuto qualche momento in compagnia di quelle guardie, si portò nel vestibolo. Mentre ritornava presso il fuoco, un’altra serva, indicando Pietro, si fece anch’ella a dire ai circostanti: “Anche costui era con Gesù Nazareno.” Il povero discepolo, a queste parole viepiù spaventato, quasi fuori di sé, rispose di non conoscerlo né di averlo mai visto. Pietro parlava così, ma la coscienza lo rimproverava e provava i più acuti rimorsi; perciò, tutto pensieroso, con occhio torbido e passo incerto, stava, entrava e usciva senza sapere che fare. Ma un abisso conduce a un altro abisso.
            Dopo alcuni istanti, un parente di quel Malco a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio lo vide e, fissandolo bene in faccia, disse: “Certamente costui è uno dei compagni del Galileo! Tu lo sei certamente, la tua pronuncia ti tradisce. E poi non ti ho forse visto nell’orto con lui, quando tagliasti l’orecchio a Malco?” Pietro, vedendosi a così mal partito, non seppe trovare altro scampo che giurare e spergiurare di non conoscerlo. Non aveva ancora bene proferito l’ultima sillaba, quando il gallo cantò per la seconda volta.
            Quando il gallo cantò la prima volta, Pietro non vi aveva fatto attenzione; ma questa seconda volta bada al numero delle sue negazioni, richiama alla memoria la predizione di Gesù Cristo e la vede appuntino avverata. A questo ricordo si turba, si sente tutto amareggiato il cuore e, girando lo sguardo verso il buon Gesù, il suo sguardo s’incontra con quello di lui. Questa occhiata di Cristo fu un atto muto, ma insieme un colpo di grazia, che, a guisa di strale acutissimo, lo andò a ferire nel cuore, non per dargli la morte, ma per restituirgli la vita[10].
            A quel tratto di bontà e di misericordia Pietro, scosso come da un profondo sonno, si sentì gonfiare il cuore e spinto alle lacrime per il dolore. Per dare libero sfogo al pianto, uscì da quel malaugurato luogo e andò a piangere il suo fallo, invocando dalla divina misericordia il perdono. Il Vangelo ci dice solamente che: et egressus Petrus flevit amare: Pietro uscì fuori e pianse amaramente. Di questa caduta il santo Apostolo portò rimorso tutta la vita, e si può dire che da quell’ora fino alla morte non fece che piangere il suo peccato, facendone aspra penitenza. Si dice che egli avesse sempre accanto un pannolino per asciugarsi le lacrime; e che ogni volta che sentiva il gallo cantare, trasaliva e tremava, richiamando alla memoria il doloroso momento della sua caduta. Anzi, le lacrime che aveva continue gli avevano fatto due solchi sulle guance. Beato Pietro che tanto presto abbandonò la colpa e ne fece così lunga ed aspra penitenza! Beato altresì quel cristiano che, dopo aver avuto la disgrazia di seguire Pietro nella colpa, lo segue anche nel pentimento.

CAPO IX. Pietro al sepolcro del Salvatore. — Gesù gli appare. — Sul lago di Tiberiade dà tre distinti segni di amore verso Gesù che lo costituisce effettivamente capo e pastore supremo della Chiesa.
            Mentre il divino Salvatore era trascinato nei vari Tribunali e poi condotto sul Calvario a morire in Croce, Pietro non lo perse di vista, perché desiderava vedere dove andasse a finire quel luttuoso spettacolo.
            E quantunque il Vangelo non lo dica, vi sono ragioni per credere che egli si sia trovato in compagnia dell’amico suo Giovanni ai piedi della croce. Ma dopo la morte del Salvatore, il buon Pietro, tutto umiliato per il modo indegno con cui aveva corrisposto al grande amore di Gesù, pensava continuamente a lui, oppresso dal più amaro dolore e pentimento.
            Se non che questa sua umiliazione era appunto quella che attirava su Pietro la benignità di Gesù. Dopo la sua risurrezione Gesù apparve primariamente alla Maddalena e ad altre pie donne, perché esse sole erano al sepolcro per imbalsamarlo. Dopo essersi loro manifestato, soggiunse: “Andate subito, riferite ai miei fratelli e particolarmente a Pietro che mi avete visto vivo.” Pietro, che si credeva già forse dimenticato dal Maestro, al sentirsi da parte di Gesù annunciare a lui nominatamente la notizia della risurrezione, diede in un torrente di lacrime e non poteva più contenere l’allegrezza nel cuore.
            Trasportato dalla gioia e dal desiderio di vedere il Maestro risorto, egli, in compagnia dell’amico Giovanni, si mise a correre velocemente su per il monte Calvario. Il loro animo, per altro, era allora agitato da due sentimenti contrari: dalla speranza di vedere Gesù risorto e dal timore che la relazione fatta loro dalle pie donne non fosse che effetto della loro fantasia, perché da prima non capivano come egli dovesse veramente risorgere. Correvano intanto entrambi insieme; ma Giovanni, essendo più giovane e più svelto, giunse al sepolcro prima di Pietro. Tuttavia non ebbe ardire di entrare e, chinatosi alquanto all’imboccatura, vide le bende in cui era stato avvolto il corpo di Gesù. Poco dopo sopraggiunse anche Pietro il quale, fosse per l’autorità maggiore che sapeva di godere, fosse perché era di un carattere più risoluto e pronto, senza fermarsi all’esterno, entrò subito nel sepolcro, lo esaminò in tutte le sue parti ricercando e tastando dappertutto, e non vide altro che le bende e il sudario avvolto in disparte. Sull’esempio di Pietro entrò poi anche Giovanni, e furono entrambi del parere che il corpo di Gesù fosse stato tolto dal sepolcro e derubato. Poiché, sebbene desiderassero ardentemente che il divino Maestro fosse risorto, pure non credevano ancora a questa dolcissima verità. I due Apostoli, dopo aver fatto nel sepolcro tali minute osservazioni, ne uscirono e ritornarono là da dove erano partiti. Ma in quel medesimo giorno Gesù volle egli stesso visitare Pietro in persona per consolarlo con la sua presenza e, ciò che è più, apparve appunto a Pietro prima di tutti gli altri Apostoli.
            Più volte il divino Salvatore si manifestò ai suoi Apostoli dopo la risurrezione per istruirli e confermarli nella fede.
            Un giorno Pietro, Giacomo e Giovanni con alcuni altri discepoli, sia per evitare l’ozio, sia per guadagnarsi qualcosa da mangiare, andarono a pescare sul lago di Tiberiade. Salirono tutti su una barca, la allontanarono un po’ dal lido e gettarono le loro reti. Si affaticarono tutta la notte gettando le reti ora di qua, ora di là, ma tutto invano; già spuntava il giorno e nulla avevano preso. Allora comparve il Signore sul lido, dove, senza farsi riconoscere, quasi volesse comprare dei pesci: “Figlioli,” disse loro, “avete qualcosa da mangiare?” “Pueri, numquid pulmentarium habetis?” “No,” risposero; “abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso niente.” Gesù soggiunse: “Gettate la rete alla destra della nave e ne prenderete.” Fossero mossi da impulso interiore, fosse per seguire il consiglio di Colui che ai loro sguardi sembrava un esperto pescatore, gettarono giù la rete e poco dopo se la trovarono piena di tanti e così grossi pesci che a stento poterono trarla fuori. A questa pesca inaspettata Giovanni si rivolse verso colui che dal lido aveva dato quel suggerimento e, avendo riconosciuto che era Gesù, disse subito a Pietro: “È il Signore.” Pietro, udite queste parole, trasportato dal solito fervore, senza altra considerazione si getta nell’acqua e va nuotando fino alla sponda per essere il primo a salutare il Divin Maestro. Mentre Pietro si tratteneva familiarmente con Gesù, si avvicinarono anche gli altri Apostoli trascinando dietro la rete.
            Approdati, trovarono il fuoco acceso per mano stessa del Divino Salvatore e pane preparato con pesce che si arrostiva. Gli Apostoli, mossi dal desiderio di vedere il Signore, lasciarono tutti i pesci nella barca, onde il Salvatore disse loro: “Portate qua quei pesci che avete preso adesso.” Pietro, che in ogni cosa era il più pronto e ubbidiente, udito quell’ordine, salì subito nella barca e da solo tirò a terra la rete piena di 153 grossi pesci.
            Il sacro testo ci avvisa che fu un miracolo il non essersi lacerata la rete, sebbene vi fossero tanti pesci e di tale grossezza. I santi Padri ravvisano in questo fatto la divina potestà del capo della Chiesa, il quale, assistito in modo particolare dallo Spirito Santo, guida la mistica nave piena di anime da condurre ai piedi di Gesù Cristo, che le ha redente e le attende in cielo.
            Intanto Gesù aveva egli stesso preparato la refezione; e invitando gli Apostoli a sedersi sulla nuda sabbia, distribuì a ognuno del pane e del pesce che aveva arrostito. Terminata la refezione, Gesù Cristo si mise di nuovo a discorrere con S. Pietro e a interrogarlo in faccia ai compagni nella maniera seguente: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di costoro?” “Sì,” rispose Pietro, “voi sapete che vi amo.” Gesù gli disse: “Pasci i miei agnelli.” Quindi gli domandò un’altra volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” “Signore,” replicò Pietro, “voi ben sapete che vi amo.” Gesù ripeté: “Pasci i miei agnelli.” Il Signore soggiunse: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” Pietro, nel vedersi interrogato tre volte sul medesimo argomento, rimase fortemente turbato; in quel momento gli ritornarono alla mente le promesse già fatte altra volta, e che egli aveva violato, e perciò temeva che Gesù Cristo non vedesse nel suo cuore un amore molto più scarso di quello che a lui pareva di avere, e volesse come predirgli altre negazioni. Pertanto, diffidando delle proprie forze, Pietro con grande umiltà rispose: “Signore, voi sapete tutto, e perciò conoscete che vi amo.” Queste parole significavano che Pietro era sicuro in quel punto della sincerità dei suoi affetti, ma non lo era altrettanto per l’avvenire. Gesù, che conosceva il suo desiderio di amarlo e la schiettezza dei suoi affetti, lo confortò dicendo: “Pasci le mie pecore.” Con queste parole il Figlio di Dio adempiva la promessa fatta a S. Pietro di costituirlo principe degli Apostoli e pietra fondamentale della Chiesa. Infatti, gli agnelli qui significano tutti i fedeli cristiani, sparsi nelle varie parti del mondo, che devono essere sottomessi al Capo della Chiesa, così come fanno gli agnelli al loro pastore. Le pecore poi significano i vescovi e gli altri sacri ministri, i quali danno sì il pascolo della dottrina di Gesù Cristo ai fedeli cristiani, ma sempre d’accordo, sempre uniti e sottomessi al supremo pastore della Chiesa, che è il Romano Pontefice, il Vicario di Gesù Cristo sulla terra.
            Appoggiati a queste parole di Gesù Cristo, i cattolici di tutti i tempi hanno sempre creduto verità di fede che San Pietro fu costituito da Gesù Cristo suo Vicario in terra e capo visibile di tutta la Chiesa, e che ricevette da lui la pienezza di autorità sugli altri apostoli e su tutti i fedeli. Questa autorità passò nei Romani Pontefici suoi successori. Ciò fu definito come dogma di fede nel concilio fiorentino nell’anno 1439, con le seguenti parole: “Noi definiamo che la santa sede Apostolica e il Romano Pontefice è il successore del principe degli Apostoli, il vero Vicario di Cristo e il capo di tutta la Chiesa, il maestro e padre di tutti i cristiani, e che a lui nella persona del beato Pietro fu dato dal nostro Signor Gesù Cristo pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa Universale.”
            Notano inoltre i santi Padri che il divino Redentore ha voluto che Pietro dicesse tre volte pubblicamente che l’amava, quasi per riparare lo scandalo che aveva dato negandolo tre volte.

CAPO X. Infallibilità di S. Pietro e dei suoi successori
            Il divino Salvatore diede all’Apostolo Pietro il supremo potere nella Chiesa, vale a dire il primato di onore e di giurisdizione, che noi vedremo ben presto da lui esercitato. Ma affinché, quale capo della Chiesa, egli potesse esercitare convenientemente questa suprema autorità, Gesù Cristo lo munì ancora di una prerogativa singolare, cioè dell’infallibilità. Essendo questa una delle più importanti verità, credo bene di aggiungere qualcosa in conferma e dichiarazione della dottrina che in tutti i tempi la Chiesa cattolica ha professato intorno a questo dogma.
            Prima di tutto, è necessario capire cosa si intenda per infallibilità. Per essa si intende che il Papa, quando parla ex cathedra, ossia adempiendo all’ufficio di Pastore o di Maestro di tutti i cristiani, e giudica le cose riguardanti la fede o i costumi, non può, per la divina assistenza, cadere in errore, quindi né ingannarsi né ingannare gli altri. Si noti pertanto che l’infallibilità non si estende a tutte le azioni, a tutte le parole del Papa; non gli compete come uomo privato, ma soltanto come Capo, Pastore, Maestro della Chiesa, e quando definisce qualche dottrina riguardante la fede o la morale e intende obbligare tutti i fedeli. Inoltre, non si deve confondere l’infallibilità con l’impeccabilità; infatti Gesù Cristo a Pietro e ai suoi successori ha promesso la prima nell’istruire gli uomini, ma non la seconda, nella quale non li volle privilegiare.
            Ciò premesso, diciamo che una delle verità meglio provate è proprio quella dell’infallibilità dottrinale, da Dio concessa al Capo della Chiesa. Le parole di Gesù Cristo non possono venir meno, perché sono parole di Dio. Ora, Gesù Cristo disse a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la potranno vincere. Io ti darò le chiavi del regno dei Cieli, e tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra sarà sciolto anche nei cieli.”
            Secondo queste parole, le porte[11], ossia le potenze infernali, tra cui tiene il primo posto l’errore e la menzogna, non potranno mai prevalere né contro la Pietra, né contro la Chiesa che vi è sopra fondata. Ma se Pietro, come Capo della Chiesa, errasse in cose di fede e di costume, sarebbe come se mancasse il fondamento. Mancato questo, cadrebbe l’edificio, ossia la Chiesa stessa, e così il fondamento e la fabbrica dovrebbero dirsi vinti e abbattuti dalle porte infernali. Ora ciò, dopo le suddette parole, non è possibile, eccetto che si voglia bestemmiare affermando che fallaci furono le promesse del divino Fondatore: cosa orribile non solo per i cattolici, ma per gli stessi scismatici ed eretici.
            Inoltre, Gesù Cristo assicurò che sarebbe stato sancito in cielo tutto quello che Pietro, quale Capo della Chiesa, avrebbe legato o sciolto, approvato o condannato in terra. Orbene, siccome in cielo non può essere approvato l’errore, così si deve necessariamente ammettere che il Capo della Chiesa sia infallibile nei suoi giudizi, nelle sue decisioni emanate in qualità di Vicario di Gesù Cristo, così che egli, quale maestro e giudice di tutti i fedeli, non approvi e non condanni se non ciò che può essere egualmente approvato o condannato in cielo; e questo porta all’infallibilità.
            La quale appare ancora più manifesta nelle parole che Gesù Cristo rivolse a Pietro quando gli comandò di confermare nella fede gli altri Apostoli: “Simone, Simone,” gli disse, “ecco che Satana ha chiesto di vagliarvi come si fa con il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli.” Gesù Cristo dunque prega che la fede del Papa non venga meno; ora è impossibile che la preghiera del Figlio di Dio non sia esaudita. Ancora: Gesù comandò a Pietro di confermare nella fede gli altri pastori e a questi di ascoltarlo; ma se non gli avesse comunicato anche l’infallibilità dottrinale, lo avrebbe messo nel pericolo di ingannarli e trascinarli nel baratro dell’errore. Può credersi che Gesù Cristo abbia voluto lasciare la Chiesa e il suo Capo in tanto pericolo?
            Infine, il divino Redentore dopo la sua Risurrezione stabilì Pietro Pastore supremo del suo gregge, cioè della sua Chiesa, affidandogli in cura gli agnelli e le pecore: “Pasci i miei agnelli,” gli disse, “pasci le mie pecore.” Istruisci, ammaestra gli uni e le altre guidandoli a pascoli di vita eterna. Ma se Pietro in materia di dottrina errasse, o per ignoranza o per malizia, allora egli sarebbe come un pastore che conduce gli agnelli e le pecore a pascoli avvelenati, che invece della vita darebbe loro la morte. Ora, può supporsi che Gesù Cristo, il quale per salvare le sue pecorelle diede tutto sé stesso, abbia voluto stabilire loro un pastore simile?
            Dunque, secondo il Vangelo, l’Apostolo Pietro ebbe il dono dell’infallibilità:
            I. Perché è Pietra fondamentale della Chiesa di Gesù Cristo;
            II. Perché i suoi giudizi devono essere confermati anche nel cielo;
            III. Perché Gesù Cristo pregò per la sua infallibilità, e la sua preghiera non può fallire;
            IV. Perché deve confermare nella fede, pascere e governare non solo i semplici fedeli, ma gli stessi pastori.
            È utile ora aggiungere che insieme con l’autorità suprema sopra tutta la Chiesa, il dono dell’infallibilità passò da Pietro nei suoi successori, cioè nei Romani Pontefici.
            Anche questa è una verità di fede.
            Gesù Cristo, come abbiamo visto, diede più ampio potere e munì del dono dell’infallibilità San Pietro, al fine di provvedere all’unità e all’integrità della fede nei suoi seguaci. “Fra dodici uno viene eletto,” riflette il massimo dottore San Girolamo, “affinché, stabilito un Capo, sia tolta ogni occasione di scisma: Inter duodecim unus eligitur, ut, capite constituto, schismatis tolleretur occasio.”[12] “Il primato si conferisce a Pietro,” scrisse San Cipriano, “affinché una si dimostri la Chiesa, ed una la cattedra di verità.[13]
            Ciò posto, diciamo: il bisogno di unità e di verità non esisteva solamente al tempo degli Apostoli, ma anche nei secoli successivi; anzi, si accrebbe vieppiù questo bisogno con l’estendersi della Chiesa stessa e con il venir meno degli Apostoli, privilegiati da Gesù Cristo di doni straordinari per la promulgazione del Vangelo. Secondo dunque l’intenzione del divino Salvatore, l’autorità e l’infallibilità del primo Papa non doveva cessare alla sua morte, ma trasmettersi a un altro, così perpetuarsi nella Chiesa.
            Questa trasmissione appare chiarissima soprattutto dalle parole di Gesù Cristo a Pietro, con le quali lo stabiliva base, fondamento della Chiesa. È manifesto che il fondamento deve durare tanto quanto l’edificio; essendo impossibile questo senza quello. Ma l’edificio, che è la Chiesa, deve durare sino alla fine del mondo, avendo promesso lo stesso Gesù di essere con la sua Chiesa sino alla consumazione dei secoli: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.” Dunque sino alla consumazione dei secoli deve durare il fondamento che è Pietro; ma poiché Pietro è morto, l’autorità e l’infallibilità devono ancora sussistere in qualcun altro. Esse di fatto sussistono nei suoi successori nella Sede di Roma, cioè sussistono nei Romani Pontefici. Perciò si può dire che Pietro vive tuttora e giudica nei suoi successori. Così infatti si esprimevano i legati della Sede Apostolica, con l’applauso del generale Concilio di Efeso nell’anno 431: “Chi fino a questo tempo, e sempre nei suoi successori, vive ed esercita il giudizio.”
            Per questa ragione fin dai primi secoli della Chiesa, sorgendo questioni religiose, si faceva ricorso alla Chiesa di Roma, e le sue decisioni e i suoi giudizi si tenevano per regola di fede. Basti per ogni prova le parole di Sant’Ireneo, Vescovo di Lione, morto martire nell’anno 202. “A confondere,” egli scrisse, “tutti coloro che in qualsiasi modo per vana gloria, per cecità o per malizia si radunano in conciliaboli, ci basterà loro indicare la tradizione e la fede che la maggiore e la più antica di tutte le chiese, la Chiesa nota a tutto il mondo, la Chiesa Romana, fondata e costituita dai gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo, ha annunciato agli uomini e trasmesso fino a noi per mezzo della successione dei suoi vescovi. Infatti, a questa Chiesa, a causa del suo preminente principato, deve ricorrere ogni Chiesa, ossia tutti i fedeli di qualunque parte essi siano.[14]
            Riguardo all’infallibilità del Papa, alcuni eretici, tra cui i protestanti e i cosiddetti vecchi cattolici, la negano dicendo che solo Dio è infallibile.
            Noi non neghiamo che Dio solo è infallibile per natura; ma diciamo che egli può concedere il dono dell’infallibilità anche a un uomo, assistendolo in modo che non prenda abbaglio. Dio solo può fare veri miracoli; eppure sappiamo dalla stessa Sacra Scrittura che molti uomini ne fecero, e di strepitosi. Essi li operarono non per virtù propria, ma per virtù divina loro comunicata. Così il Papa non è infallibile per natura sua, ma per virtù di Gesù Cristo che ha voluto così per il bene della Chiesa.
            Del resto, poi, i protestanti e i loro seguaci, che credono ancora al Vangelo, non devono fare tanto rumore perché noi cattolici teniamo per infallibile un uomo, quando ci fa da supremo ed universale maestro; infatti essi ancora con noi, senza credere di far torto a Dio, ne ritengono per infallibili almeno quattro, che sono gli Evangelisti Matteo, Marco, Luca e Giovanni; anzi, ritengono per infallibili tutti gli scrittori sacri tanto del Nuovo quanto del Vecchio Testamento. Ora, se si può, anzi si deve, credere all’infallibilità di quegli uomini che ci tramandarono per iscritto la parola di Dio, che cosa può impedirci dal credere all’infallibilità di un altro uomo destinato a conservarcela intatta e spiegarcela a nome di Dio medesimo?
            La ragione stessa ci suggerisce che è cosa convenientissima che Gesù Cristo concedesse il dono dell’infallibilità al suo Vicario, al Maestro di tutti i fedeli. E che? Se un padre saggio e amorevole ha figli da far istruire, non è vero che sceglie il maestro più dotto e più sapiente che possa trovare? Non è vero ancora che, se questo padre potesse dare a quel maestro il dono di non ingannare mai il figlio né per ignoranza né per malizia, glielo comunicherebbe di cuore? Orbene, tutti gli uomini, specialmente i cristiani, sono figli di Dio; il Papa ne è il gran Maestro da lui stabilito. Ora, Dio poteva conferirgli il dono di non cadere mai in errore quando li istruisce. Chi dunque può ragionevolmente ammettere che questo ottimo Padre non abbia fatto ciò che faremmo noi miseri?
            In tutti i secoli e da tutti i veri cattolici fu costantemente creduta l’infallibilità del successore di Pietro. Ma in questi ultimi tempi sorsero alcuni eretici a impugnarla; anzi, dalla mancanza di una espressa definizione presero occasione di porla in dubbio anche alcuni cattolici male avvisati. Pertanto, il 18 luglio 1870, il Concilio Vaticano, composto da oltre 700 Vescovi presieduti dall’immortale Pio IX, per premunire i fedeli da ogni errore, definì solennemente l’infallibilità pontificia come dogma di fede con queste parole: “Noi definiamo che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, ossia adempiendo all’ufficio di Pastore e Maestro di tutti i cristiani, e per la sua suprema autorità apostolica definisce qualche dottrina della fede e dei costumi da tenersi da tutta la Chiesa, a causa della divina assistenza a lui promessa nella persona del Beato Pietro, gode della stessa infallibilità della quale il divin Redentore volle fornire la sua Chiesa nel definire le dottrine della fede e dei costumi. Perciò, queste definizioni del Romano Pontefice sono per sé stesse, e non per il consenso della Chiesa, irriformabili. Se qualcuno oserà contraddire a questa nostra definizione, sia scomunicato.”
            Dopo questa definizione, chi negasse l’infallibilità pontificia commetterebbe grave disobbedienza alla Chiesa, e se fosse ostinato nel suo errore egli non apparterrebbe più alla Chiesa di Gesù Cristo, e noi dovremmo evitarlo come eretico. “Chi non ascolta la Chiesa,” dice il Vangelo, “sia per te come un pagano e un pubblicano,” cioè scomunicato.

CAPO XI. Gesù predice a S. Pietro la morte di croce. — Promette assistenza alla Chiesa sino alla fine del mondo. — Ritorno degli Apostoli nel cenacolo. Anno di G. C. 33.
            Dopo che S. Pietro comprese che le ripetute domande del Salvatore non erano presagio di caduta, ma erano la conferma dell’alta autorità che gli aveva promessa, ne fu consolato. E siccome Gesù sapeva che a Pietro stava molto a cuore di glorificare il suo divino Maestro, volle predirgli il genere di supplizio con cui avrebbe terminato la sua vita.
            Perciò, immediatamente dopo le tre proteste di amore che gli aveva fatto, prese a parlargli così: “In verità, in verità, ti dico, quando eri più giovane ti vestivi da te e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, un altro, cioè il carnefice, ti cingerà, vale a dire ti legherà, e tu stenderai le mani ed egli ti condurrà dove non vuoi.” Con queste parole, dice il Vangelo, veniva a significare con quale morte avrebbe Pietro glorificato Dio, cioè con l’essere legato a una croce e coronato del martirio. Pietro, vedendo che Gesù gli dava un’autorità suprema e a lui solo prediceva il martirio, si dimostrò sollecito di domandare che ne sarebbe stato del suo amico Giovanni e disse: “E di costui che ne sarà?” A cui Gesù rispose: “Che importa a te di costui? Se io volessi che rimanesse fino al mio ritorno, a te che importa? Tu fa’ ciò che ti dico e seguimi.” Allora Pietro adorò i decreti del Salvatore e non osò fare ulteriori domande a quel proposito.
            Gesù Cristo apparve molte volte a San Pietro e agli altri Apostoli; e un giorno si manifestò sopra un monte dove erano presenti più di 500 discepoli. In un’altra occasione, dopo aver dato loro a conoscere il supremo ed assoluto potere che egli aveva in cielo e in terra, conferì a S. Pietro e a tutti gli Apostoli la facoltà di rimettere i peccati dicendo: “Come il Padre mio ha mandato me, così io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete. Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis, retenta sunt. Andate, predicate il Vangelo a tutte le creature; ammaestratele e battezzatele nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Chi crederà e riceverà il battesimo sarà salvo, chi non crederà sarà condannato. Ho ancora molte cose da dirvi, che al presente non potete ancora comprendere. Ma lo Spirito Santo, che manderò su di voi tra pochi giorni, vi insegnerà ogni cosa. Non perdetevi d’animo. Voi sarete condotti dinanzi ai tribunali, dinanzi ai magistrati e ai medesimi re. Non datevi pena di ciò che dovrete rispondere; lo Spirito di verità, che il Padre celeste vi manderà in mio nome, vi metterà le parole in bocca e vi suggerirà ogni cosa. Tu poi, o Pietro, e voi tutti miei Apostoli, non pensate che io vi lasci orfani; no, io sarò con voi tutti i giorni sino alla fine dei secoli: Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi.”
            Disse ancora molte cose ai suoi Apostoli; poi, nel quarantesimo giorno dalla sua risurrezione, raccomandando loro di non partire da Gerusalemme fin dopo la venuta dello Spirito Santo, li condusse sul monte degli Ulivi. Là li benedisse e cominciò a sollevarsi in alto. In quel momento comparve una risplendente nuvola che lo circondò e lo tolse ai loro sguardi.
            Stavano ancora gli Apostoli con gli occhi rivolti al cielo, come chi è rapito in dolce estasi, quando due Angeli in sembianze umane, magnificamente vestiti, si avvicinarono e dissero: “Uomini di Galilea, perché state qui guardando il cielo? Quel Gesù, che partendo ora da voi è andato in cielo, ritornerà nella stessa maniera in cui l’avete visto salire.” Ciò detto, disparvero; e quella devota schiera partì dal monte degli Ulivi e rientrò in Gerusalemme per aspettare la venuta dello Spirito Santo, secondo il comando del divino Salvatore.

CAPO XII. S. Pietro surroga Giuda. — Venuta dello Spirito Santo. — Miracolo delle lingue. Anno di G. C. 33.
            Abbiamo finora considerato Pietro solamente nella sua vita privata; ma presto lo vedremo percorrere una carriera assai più gloriosa, dopo che avrà ricevuto i doni dello Spirito Santo. Ora osserviamo come egli cominciò a esercitare l’autorità di Sommo Pontefice, di cui era stato investito da Gesù Cristo.
            Dopo l’ascensione del divino Maestro, S. Pietro, gli Apostoli e molti altri discepoli si ritirarono nel cenacolo, che era un’abitazione situata sulla parte più elevata di Gerusalemme, detta monte Sion. Qui, in numero di circa 120 persone, con Maria Madre di Gesù, passavano le giornate in orazione, attendendo la venuta dello Spirito Santo.
            Un giorno, mentre erano impegnati nelle sacre funzioni, Pietro si levò in mezzo a loro e, intimando silenzio con la mano, disse: “Fratelli, è necessario che si adempia ciò che lo Spirito Santo predisse per bocca del profeta Davide intorno a Giuda, il quale fu guida di quelli che arrestarono il Divin Maestro. Egli, al pari di voi, era stato eletto allo stesso ministero; ma prevaricò, e con il prezzo delle sue iniquità fu comprato un campo; ed egli si impiccò, e squarciandosi per mezzo versò le viscere sulla terra. Il fatto si rese pubblico a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e quel campo ricevette il nome di Aceldama, cioè campo di sangue. Ora, di lui appunto fu scritto nel libro dei Salmi: ‘Divenga la sua dimora deserta, e non vi sia chi abiti in essa; e in luogo di lui un altro gli subentri nel vescovado.[15]’ Perciò è necessario che tra coloro i quali furono insieme con noi per tutto il tempo che dimorò con noi Gesù Cristo, cominciando dal battesimo di Giovanni fino a quel giorno in cui, partendo da noi, è salito al cielo, è necessario, dico, che tra costoro se ne scelga uno, il quale sia con noi testimone della sua risurrezione per l’opera a cui siamo mandati.”
            Tutti tacquero alle parole di Pietro, poiché tutti lo consideravano come capo della Chiesa ed eletto da Gesù Cristo a fare le sue veci in terra. Pertanto furono presentati due, cioè Giuseppe, chiamato anche Barsabba (che aveva per soprannome il Giusto), e Mattia. Ravvisando in entrambi egual merito ed eguale virtù, i sacri elettori rimisero a Dio la scelta. Prostrati dunque si misero a pregare così: “Voi, Signore, che conoscete il cuore di tutti, mostrateci quale dei due avete eletto per occupare il posto di Giuda prevaricatore.” In quel caso fu giudicato bene di usare con l’orazione anche la sorte per conoscere la volontà di Dio. Al presente la Chiesa non adopera più questo mezzo, avendo moltissime altre vie per riconoscere coloro che sono chiamati al ministero dell’altare. Gettarono dunque la sorte e questa cadde su Mattia, il quale fu annoverato con gli altri undici Apostoli, e riempì così il dodicesimo posto che era rimasto vacante.
            Questo è il primo atto di autorità Pontificia che esercitò S. Pietro; autorità non solo di onore, ma di giurisdizione, quale esercitarono in ogni tempo i Papi suoi successori.
            Abbiamo considerato in Pietro una fede viva, umiltà profonda, ubbidienza pronta, carità fervente e generosa; ma queste belle qualità erano ancora ben lontane dal metterlo in grado di esercitare l’alto ministero a cui era destinato. Egli doveva vincere l’ostinazione degli Ebrei, distruggere l’idolatria, convertire uomini dati a tutti i vizi, e stabilire in tutta la terra la fede di un Dio Crocifisso. Il conferimento di questa forza, di cui Pietro abbisognava per una così grande impresa, era riservato a una grazia speciale da infondersi mediante i doni dello Spirito Santo, che doveva scendere su di lui, per illuminargli la mente e infiammargli il cuore con un inaudito prodigio.
            Questo miracoloso avvenimento è dai Sacri libri riferito come segue: era il giorno di Pentecoste, cioè il cinquantesimo dopo la risurrezione di Gesù Cristo, il decimo da che Pietro era nel cenacolo in orazione con gli altri discepoli, quando improvvisamente all’ora terza, circa le nove del mattino, si udì sul monte Sion un grande strepito simile al rumoreggiare del tuono accompagnato da un vento gagliardo. Quel vento investì la casa dove erano i discepoli, che ne fu per ogni parte ripiena. Mentre ognuno andava ripensando la causa di quel fragore, apparvero fiammelle che, a guisa di lingue di fuoco, andavano a posarsi sul capo di ciascuno dei presenti. Erano quelle fiamme simbolo del coraggio e dell’infiammata carità con cui gli Apostoli avrebbero dato mano alla predicazione del Vangelo.
            In questo momento Pietro divenne un uomo nuovo; si trovò illuminato a tal punto da conoscere i più alti misteri, e provò in sé stesso un coraggio e una forza tali che le più grandi imprese gli sembravano un nulla.
            In quel giorno si celebrava a Gerusalemme una grande festa dagli Ebrei, e moltissimi vi erano accorsi dalle più svariate parti del mondo. Alcuni di loro parlavano latino, altri greco, altri egiziano, arabo, siriaco, altri ancora persiano e così via.
            Ora, al rumore del gagliardo vento, corse intorno al cenacolo una grande moltitudine di quella gente di tante lingue e nazioni, per sapere che cosa fosse accaduto. A quella vista escono gli Apostoli e si fanno loro incontro per parlare.
            E qui cominciò a operarsi un miracolo mai udito; infatti, gli Apostoli, umanamente rozzi, in modo che sapevano appena la lingua del paese, si misero a parlare delle grandezze di Dio nelle lingue di tutti coloro che erano accorsi. Un tale fatto riempì di alto stupore gli uditori, i quali, non sapendosene dare ragione, andavano dicendosi l’un l’altro: “Che sarà mai questo?”

CAPO XIII. Prima predica di Pietro. Anno di G. C. 33.
            Mentre la maggior parte ammirava l’intervento della potenza divina, non mancarono alcuni maligni che, soliti disprezzare ogni cosa santa, non sapendo più che dire, andavano chiamando gli Apostoli ubriachi. Sciocchezza veramente ridicola; poiché l’ubriachezza non fa parlare la lingua ignota, ma fa dimenticare o bistrattare la propria lingua. Fu allora che San Pietro, pieno di santo ardore, cominciò a predicare per la prima volta Gesù Cristo.
            A nome di tutti gli altri Apostoli si avanza di fronte alla moltitudine, alza la mano, intima silenzio e comincia a parlare così: “Uomini Giudei e voi tutti che abitate Gerusalemme, aprite le orecchie alle mie parole e sarete illuminati su questo fatto. Questi uomini non sono affatto ubriachi come voi pensate, perché siamo soltanto alla terza ora del mattino, in cui siamo soliti essere digiuni. Ben altra è la causa di quanto vedete. Oggi si è in noi verificata la profezia del profeta Gioele, il quale disse così: ‘Avverrà negli ultimi giorni, dice il Signore, che io spanderò il mio Spirito sugli uomini; e i vostri figli e le vostre figlie profeteranno; i vostri giovani avranno delle visioni e i vostri vecchi dei sogni. Anzi, in quei giorni spanderò il mio spirito sui miei servi e sulle mie serve, e diventeranno profeti, e farò prodigi in cielo e in terra. Ed avverrà che chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvo.’
            “Ora,” continuò Pietro, “ascoltate, o figli di Giacobbe: quel Signore, nel cui nome chi crederà sarà salvo, è quel medesimo Gesù Nazareno, quell’uomo grande a cui Dio rendeva testimonianza con una moltitudine di miracoli che operò, come voi stessi avete visto. Voi faceste morire quell’uomo per mano degli empi e così, senza saperlo, serviste ai decreti di Dio, che voleva salvare il mondo con la sua morte. Dio, peraltro, lo ha risuscitato dalla morte, come aveva predetto il profeta Davide con queste parole: ‘Tu non mi lascerai nel sepolcro, né permetterai che il tuo santo provi la corruzione.’
            “Notate,” soggiunse Pietro, “notate, o Giudei, che Davide non intendeva parlare di sé, perché voi ben sapete che egli è morto e il suo sepolcro è rimasto fra noi fino al giorno d’oggi; ma essendo egli profeta e sapendo che Dio gli aveva promesso con giuramento che dalla sua discendenza sarebbe nato il Messia, profetizzò anche la sua risurrezione, dicendo che egli non sarebbe lasciato nel sepolcro e che il suo corpo non avrebbe provato la corruzione. Questi dunque è Gesù Nazareno, che Dio ha risuscitato dalla morte, di cui noi siamo testimoni. Sì, noi l’abbiamo visto tornato in vita, l’abbiamo toccato e abbiamo mangiato con lui.
            “Egli dunque, essendo stato innalzato dalla virtù del Padre nel cielo ed avendo ricevuto da lui l’autorità di mandare lo Spirito Santo, secondo la sua promessa poco fa ha mandato su di noi questo divino Spirito, della cui virtù vedete in noi una prova così manifesta. Che poi Gesù sia salito al cielo, lo dice lo stesso Davide con queste parole: ‘Il Signore disse al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi.’ Ora voi ben sapete che Davide non salì al cielo per regnare. È Gesù Cristo che salì al cielo: a lui dunque, e non a Davide, furono appropriate quelle parole. Sappia dunque tutto il popolo d’Israele che quel Gesù che avete crocifisso fu da Dio costituito Signore di tutte le cose, re e Salvatore del suo popolo, e nessuno può salvarsi senza avere fede in lui.”
            Tale predicazione di Pietro avrebbe dovuto inasprire gli animi dei suoi uditori, a cui rimproverava l’enorme delitto commesso contro la persona del divino Salvatore. Ma era Dio che parlava per bocca del suo ministro, e perciò la predicazione di lui produsse effetti meravigliosi. Quindi, agitati come da un fuoco interno, effetto della grazia di Dio, da tutte le parti andavano esclamando con cuore veramente contrito: “Che cosa dobbiamo fare?” S. Pietro, osservando che la grazia del Signore operava nei loro cuori e che già essi credevano in Gesù Cristo, disse loro: “Fate penitenza e ognuno, in nome di Gesù Cristo, riceva il battesimo; così otterrete la remissione dei peccati e riceverete lo Spirito Santo.”
            L’Apostolo continuò a istruire quella moltitudine, animando tutti a confidare nella misericordia e bontà di Dio, che desidera la salvezza degli uomini. Il frutto di questa prima predica corrispose all’ardente carità del predicatore. Circa 3.000 persone si convertirono alla fede di Gesù Cristo e furono dagli Apostoli battezzate. Così cominciavano a compiersi le parole del Salvatore quando disse a Pietro che per l’avvenire non sarebbe più pescatore di pesci, ma pescatore di uomini. Sant’Agostino assicura che Santo Stefano protomartire fu convertito in questa predica.

CAPO XIV. S. Pietro guarisce uno storpio. — Sua seconda predica. Anno di G. C. 33.
            Poco dopo questa predica, all’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, Pietro e il suo amico Giovanni, come per ringraziare Dio dei benefici ricevuti, andavano insieme al tempio per fare orazione. Giunti a una porta del tempio detta “Speciosa” ovvero “Bella”, trovarono un uomo storpio di entrambi i piedi fin dalla nascita. Non potendosi reggere, egli era lì trasportato per vivere chiedendo elemosina a coloro che venivano nel luogo santo. Quello sfortunato, quando vide i due Apostoli vicini a lui, chiese loro la carità, come faceva con tutti. Pietro, così ispirato da Dio, guardandolo fisso, gli disse: “Guarda verso di noi.” Egli guardava, e nella speranza di avere qualcosa non batteva palpebra. Allora Pietro: “Ascolta, o buon uomo, io non ho né oro né argento da darti; quello che ho te lo do. Nel nome di Gesù Nazareno alzati e cammina.” Quindi lo prese per mano al fine di sollevarlo, come in simili casi aveva visto fare dal divino Maestro. In quel momento lo storpio si sentì rafforzare le gambe, irrobustire i nervi e acquistare forze al pari di qualunque altro uomo più sano. Sentendosi guarito, fece un salto, si mise a camminare e, saltellando di gioia e lodando Dio, entrò con i due Apostoli nel tempio. Tutta la gente, che era stata testimone del fatto e vedeva lo storpio camminare da sé, non poté non riconoscere in quella guarigione un vero miracolo. Il linguaggio dei fatti è più efficace di quello delle parole. Perciò la moltitudine, avendo saputo che era stato S. Pietro a restituire la sanità a quel miserabile, in gran folla si strinse intorno a lui e a Giovanni, desiderando tutti di ammirare con i propri occhi chi sapeva fare opere così stupende.
            È questo il primo miracolo che, dopo l’Ascensione di Gesù Cristo, venne operato dagli Apostoli, ed era conveniente che lo facesse Pietro, poiché egli teneva fra tutti la prima dignità nella Chiesa. Ma Pietro, nel vedersi circondato da tanta gente, stimò bella occasione di rendere a Dio la gloria dovuta e di glorificare nel contempo Gesù Cristo nel cui nome era stato operato il prodigio.
            “Figli d’Israele,” disse loro, “perché tanto vi meravigliate di questo fatto? Perché tenete così fissi gli occhi su di noi, quasi che per nostra virtù avessimo fatto camminare quest’uomo? Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri, ha glorificato il suo Figlio Gesù, quel Gesù che voi avete tradito e negato di fronte a Pilato, quando egli giudicava di rilasciarlo come innocente. Voi dunque avete avuto l’ardire di negare il Santo e il Giusto, e avete fatto istanza che fosse liberato dalla morte Barabba, ladro e omicida, e rinnegando il Giusto, il Santo, e l’autore della vita lo avete fatto morire. Ma Dio lo ha risuscitato dalla morte, e noi ne siamo testimoni, poiché l’abbiamo visto più volte, l’abbiamo toccato e abbiamo mangiato con lui. Ora, in virtù del suo nome, in forza di quella fede che viene da lui, è stato guarito questo zoppo che voi vedete e conoscete; è Gesù che l’ha restituito in perfetta sanità davanti a tutti voi. Ora io so bene che il vostro delitto e quello dei vostri capi, quantunque non abbia scusa sufficiente, fu commesso per ignoranza. Ma Dio, che aveva fatto predire dai suoi profeti che il Messia doveva patire tali cose, ha permesso che ciò voi verificaste senza volerlo, così che il decreto della misericordia di Dio ha avuto il suo compimento. Rientrate in voi stessi dunque e fate penitenza, affinché vi siano cancellati i vostri peccati e così possiate poi presentarvi con sicurezza della vostra salvezza davanti al tribunale di questo stesso Gesù Cristo che io vi ho predicato, e da cui tutti dovremo essere giudicati.
            “Queste cose,” proseguì Pietro, “furono da Dio predette; credete dunque ai suoi profeti e fra tutti credete a Mosè, che è il maggiore di essi. Che dice egli? ‘Il Signore,’ dice Mosè, ‘farà sorgere un profeta come me, e a lui crederete in tutto quello che vi dirà. Chiunque non ascolterà ciò che dice questo profeta sarà sterminato dal suo popolo.’
            “Questo diceva Mosè e parlava di Gesù. Dopo Mosè, a cominciare da Samuele, tutti i profeti che vennero predissero questo giorno e le cose che sono avvenute. Tali cose e le grandi benedizioni che sono predette appartengono a voi. Voi siete i figli dei profeti, delle promesse e delle alleanze che Dio fece già con i nostri padri dicendo ad Abramo, che è il ceppo della discendenza dei giusti: ‘In te e nella tua stirpe saranno benedette tutte le generazioni del mondo.’ Egli parlava del Redentore, di quel Gesù Figlio di Dio discendente da Abramo; quel Gesù che Dio ha risuscitato dalla morte e che ci comanda di predicarvi la sua parola prima che la predichiamo a ogni altro popolo, portandovi per mezzo nostro la promessa benedizione, affinché vi convertiate dai vostri peccati e abbiate la vita eterna.”
            A questa seconda predica di S. Pietro seguirono numerosissime conversioni alla fede. Cinquemila uomini chiesero il battesimo, sicché il numero dei convertiti in due sole prediche ascendeva già a ottomila persone, senza contare le donne e i fanciulli.

CAPO XV. Pietro è messo con Giovanni in prigione e ne viene liberato.
            Il nemico del genere umano, che vedeva distruggersi il suo regno, cercò di suscitare una persecuzione contro la Chiesa nel medesimo suo inizio. Mentre Pietro predicava, sopraggiunsero i sacerdoti, i magistrati del tempio e i sadducei, i quali negavano la risurrezione dei morti. Costoro si mostravano sommamente infuriati perché Pietro predicava al popolo la risurrezione di Gesù Cristo.
            Impazienti e pieni di collera interruppero la predica di Pietro, gli misero le mani addosso e lo condussero insieme con Giovanni in prigione, con l’intento di discutere con l’uno e con l’altro il giorno seguente. Ma temendo le proteste del popolo, non fecero loro alcun male.
            Fattosi giorno, si radunarono tutti i principali della città; cioè tutto il supremo magistrato della nazione si raccolse a concilio per giudicare i due Apostoli, come se fossero i più scellerati e i più formidabili uomini del mondo. In mezzo a quella imponente assemblea furono introdotti Pietro e Giovanni, e con essi lo storpio da loro guarito.
            Fu dunque loro fatta solennemente questa domanda: “Con quale potere e in nome di chi avete voi guarito quello storpio?” Allora Pietro, pieno dello Spirito Santo, con un coraggio veramente degno del capo della Chiesa, prese a parlare nella seguente maniera:
            “Principi del popolo, e voi dottori della legge, ascoltate. Se in questo giorno veniamo accusati e ci si forma un processo per un’opera ben fatta quale è la guarigione di quest’infermo, sappiate tutti, e lo sappia tutto il popolo d’Israele, che costui, il quale vedete qui alla vostra presenza sano e salvo, ha ottenuto la sanità nel nome del Signore Gesù Nazareno; quel medesimo che voi metteste in croce e che Dio ha fatto risorgere dalla morte a vita. Questa è quella pietra della fabbrica che da voi fu rigettata e che ora è divenuta la Pietra angolare. Nessuno può avere salvezza se non in lui, né vi è altro nome sotto il cielo dato agli uomini fuori di questo, nel quale si possa avere salvezza.”
            Questo parlare franco e risoluto del principe degli Apostoli produsse profonda impressione nell’animo di tutti coloro che componevano l’assemblea, in modo che, ammirando il coraggio e l’innocenza di Pietro, non sapevano a quale partito appigliarsi. Volevano punirli, ma il grande credito che il miracolo poco prima operato aveva loro fatto acquistare in tutta la città faceva temere tristi conseguenze.
            Tuttavia, volendo prendere qualche risoluzione, fecero uscire i due Apostoli dal luogo del concilio e convennero di proibire loro, sotto pene severissime, di non parlare mai più in futuro delle cose passate, né mai più nominare Gesù Nazareno, affinché venisse a perdersene perfino la memoria. Ma sta scritto che sono inutili gli sforzi degli uomini quando sono contrari al volere di Dio.
            Pertanto, ricondotti i due Apostoli in mezzo al concilio, come udirono intimarsi quella severa minaccia, lungi dallo spaventarsi, con fermezza e costanza maggiore di prima Pietro rispose:
            “Orsù, decidete voi stessi se la giustizia e la ragione permettano di obbedire piuttosto a voi che a Dio. Noi non possiamo fare a meno di palesare quello che abbiamo udito e visto.”
            Allora quei giudici, vieppiù confusi, non sapendo né che rispondere né che fare, presero la risoluzione di mandarli per questa volta impuniti, proibendo loro soltanto di non predicare più Gesù Nazareno.
            Appena lasciati liberi, Pietro e Giovanni andarono subito a trovare gli altri discepoli, i quali erano in grande inquietudine per la loro prigionia. Come poi ebbero udito il racconto di quanto era avvenuto, ognuno rese grazie a Dio, pregandolo di voler dare forza e virtù di predicare la divina parola a fronte di qualsiasi pericolo.
            Se i cristiani dei giorni nostri avessero tutti il coraggio dei fedeli dei primi tempi e, superando ogni rispetto umano, professassero intrepidi la loro fede, certamente non si vedrebbe tanto disprezzo della nostra santa religione, e forse tanti che cercano di mettere in burla la religione e i sacri ministri sarebbero costretti a venerarla insieme con i suoi ministri.

CAPO XVI. Vita dei primi Cristiani. — Fatto di Anania e Saffira. — Miracoli di S. Pietro. Anno di Gesù Cristo 34.
            Per le prediche di S. Pietro e per lo zelo degli altri Apostoli, il numero dei fedeli era grandemente cresciuto.
            Nei giorni stabiliti si radunavano insieme per le sacre funzioni. E la Sacra Scrittura dice precisamente che quei fedeli erano perseveranti nella preghiera, nell’ascoltare la parola di Dio e nel ricevere con frequenza la santa comunione, a segno che fra tutti formavano un cuor solo e un’anima sola per amare e servire Dio Creatore.
            Molti poi, per il desiderio di staccare interamente il cuore dai beni della terra e pensare unicamente al cielo, vendevano le loro sostanze e le portavano ai piedi degli Apostoli, affinché ne facessero quell’uso che meglio credevano a favore dei poveri. La Sacra Scrittura fa uno speciale encomio di un certo Giuseppe, soprannominato Barnaba, che fu poi fedele compagno di S. Paolo Apostolo. Costui vendette un campo che possedeva e ne portò generosamente il prezzo intero agli Apostoli. Molti, seguendo l’esempio di lui, andavano a gara per dare segno del loro distacco dalle cose terrene, in maniera che in breve quei fedeli formavano una sola famiglia, di cui Pietro era capo visibile. Tra di loro non vi erano poveri, perché i ricchi condividevano le loro sostanze con i bisognosi.
            Tuttavia, anche in quei tempi felici vi furono dei fraudolenti, i quali, guidati da spirito di ipocrisia, tentarono di ingannare S. Pietro e mentire allo Spirito Santo. La qual cosa ebbe le più funeste conseguenze. Ecco come il sacro testo ci espone il terribile avvenimento.
            Certo Anania con sua moglie Saffira fecero a Dio promessa di vendere un loro podere e, al pari degli altri fedeli, portarne il prezzo agli Apostoli affinché lo distribuissero secondo i vari bisogni. Eseguirono essi puntualmente la prima parte della promessa, ma l’amore dell’oro li condusse a violare la seconda.
            Essi erano padroni di tenersi il campo oppure il prezzo, ma fatta la promessa erano obbligati a mantenerla, poiché le cose che si consacrano a Dio o alla Chiesa diventano sacre e inviolabili.
            D’accordo pertanto tra di loro, ritennero per sé una parte del prezzo e portarono l’altra a S. Pietro con l’intenzione di fargli credere che questa fosse l’intera somma ricavata dalla vendita. Pietro ebbe speciale rivelazione dell’inganno e, appena Anania comparve al suo cospetto, senza dargli tempo di proferire parola, con tono autorevole e grave si fece a rimproverarlo così: “Perché ti sei lasciato sedurre dallo spirito di Satana fino a mentire allo Spirito Santo, trattenendo una porzione del prezzo di quel tuo campo? Non era esso in tuo potere prima di venderlo? E dopo averlo venduto, non era a tua disposizione tutta la somma ricavata? Perché dunque hai concepito questo malvagio disegno? Devi perciò sapere che hai mentito non agli uomini, ma a Dio.” A quel tono di voce, a quelle parole, Anania, come colpito da un fulmine, cadde morto sull’istante.
            Appena passate tre ore, venne anche a presentarsi a Pietro Saffira, senza nulla sapere della luttuosa fine del marito. L’Apostolo usò maggiore compassione verso di costei e volle darle spazio di penitenza interrogandola se quella somma fosse l’intero prodotto della vendita di quel campo. La donna, con intrepidezza e temerità uguale a quella di Anania, con un’altra bugia confermò la bugia di suo marito. Perciò, ripresa da S. Pietro con lo stesso zelo e con la medesima forza, cadde anch’ella sull’istante e spirò. Giova sperare che un così terribile castigo temporale avrà contribuito a far loro risparmiare il castigo eterno nell’altra vita. Una pena così esemplare era necessaria per insinuare venerazione per il cristianesimo a tutti quelli che venivano alla fede e procurare rispetto al principe degli Apostoli, come anche per dare un esempio del modo terribile con cui Dio punisce lo spergiuro e nello stesso tempo ammaestrarci a essere fedeli alle promesse fatte a Dio.
            Questo fatto, unitamente ai molti miracoli che Pietro operava, fece sì che si raddoppiasse il fervore tra i fedeli e si dilatasse la fama delle sue virtù.
            Tutti gli Apostoli operavano miracoli. Un ammalato che fosse stato in contatto con alcuno degli Apostoli era subito guarito. S. Pietro poi spiccava sopra ogni altro. Era tale la fiducia che tutti avevano in lui e nelle sue virtù, che da tutte le parti, anche da paesi lontani, venivano a Gerusalemme per essere spettatori dei suoi miracoli. Talvolta avveniva che egli era attorniato da tale quantità di storpi e da tanti ammalati che non era più possibile poterglisi avvicinare. Perciò portavano gli infermi su lettucci nelle pubbliche piazze e nelle strade, in modo che, passando di là S. Pietro, almeno l’ombra del suo corpo giungesse a toccarli: la qual cosa era sufficiente per far guarire ogni genere di infermità. Sant’Agostino assicura che un morto, sul quale era passata l’ombra di Pietro, immediatamente risuscitò.
            I Santi Padri ravvisano in questo fatto l’adempimento della promessa del Redentore ai suoi Apostoli, dicendo che essi avrebbero operato miracoli anche maggiori di quelli che egli stesso aveva giudicato opportuno operare nel corso della sua vita mortale[16].

CAPO XVII. S. Pietro di nuovo messo in prigione. — È da un angelo liberato. Anno di Gesù Cristo 34.
            La Chiesa di Gesù Cristo acquistava ogni giorno nuovi fedeli. La moltitudine dei miracoli unita alla santa vita di quei primi cristiani faceva sì che persone di ogni grado, età e condizione corressero in folla per chiedere il Battesimo e così assicurare la loro eterna salvezza. Ma il principe dei sacerdoti e i sadducei si rodevano di rabbia e di gelosia; né sapendo quale mezzo usare per impedire la propagazione del Vangelo, presero Pietro e gli altri Apostoli e li chiusero in prigione. Ma Dio, per dimostrare anche questa volta che sono vani i progetti degli uomini quando sono contrari ai voleri del Cielo, e che Egli può fare quel che vuole e quando lo vuole, mandò in quella notte medesima un angelo che, aperte le porte della prigione, li trasse fuori dicendo loro: “In nome di Dio andate e con sicurezza predicate nel tempio, in presenza del popolo, le parole di vita eterna. Non temete né i comandi né le minacce degli uomini.”
            Gli Apostoli, vedutisi così prodigiosamente favoriti e difesi da Dio, secondo l’ordine avuto, di buon mattino si recarono al tempio a predicare e ammaestrare il popolo. Il principe dei sacerdoti, che desiderava castigare severamente gli Apostoli, per dare una solennità al processo, convocò il Sinedrio, gli anziani, gli scribi e tutti quelli che avevano qualche autorità sul popolo. Poi mandò a prendere gli Apostoli perché dalla prigione fossero condotti lì.
            I ministri, ovvero gli sgherri, ubbidirono agli ordini dati. Vanno, aprono il carcere, entrano, e non vi trovano anima viva. Fanno immediatamente ritorno all’assemblea e, pieni di meraviglia, annunciano la cosa così: “Abbiamo trovato il carcere chiuso e guardato con tutta diligenza; le guardie tenevano fedelmente il loro posto, ma, avendolo aperto, non vi abbiamo trovato alcuno.” Udito ciò, non sapevano più a quale partito appigliarsi.
            Mentre stavano consultando su ciò che dovessero deliberare, sopraggiunge uno dicendo: “Non lo sapete? Quegli uomini che metteste ieri in prigione sono ora nel tempio a predicare con maggior fervore di prima.” Allora si sentirono più che mai ardere di rabbia contro gli Apostoli; ma il timore di inimicarsi il popolo li trattenne, perché avrebbero corso il rischio di essere lapidati.
            Il prefetto del tempio si offrì di aggiustare egli stesso tale faccenda col migliore espediente possibile. Andò là dove erano i predicatori e con buone maniere, senza usare violenza alcuna, li invitò a venire con sé e li condusse nel mezzo dell’assemblea.
            Il sommo sacerdote, rivolgendosi a loro, disse: “Sono appena alcuni giorni che noi vi abbiamo strettamente proibito di parlare di questo Gesù Nazareno, e intanto voi avete riempito la città di questa nuova dottrina. Sembra che vogliate riversare su di noi la morte di quell’uomo e farci odiare da tutta la gente come colpevoli di quel sangue. Come osaste fare ciò?”
            “Ottimamente ci pare aver fatto,” rispose Pietro anche a nome degli altri Apostoli, “perché bisogna piuttosto ubbidire a Dio che agli uomini. Quello che predichiamo è una verità a noi messa in bocca da Dio, e noi non temiamo di dirla a voi in questa veneranda assemblea.” Qui Pietro ripeté quello che altre volte aveva detto intorno alla vita, passione e morte del Salvatore; concludendo sempre che era loro impossibile tacere quelle cose che, secondo gli ordini ricevuti da Dio, dovevano predicare.
            A quelle parole degli Apostoli, pronunciate con tanta fermezza, non avendo che opporre, smaniavano di rabbia e già pensavano di farli morire. Ma ne furono distolti da un certo Gamaliele, che era uno dei dottori della legge lì radunati. Costui, considerato bene ogni cosa, fece uscire per breve tempo gli Apostoli, poi, levatosi in piedi, disse in piena assemblea: “O Israeliti, ponete bene mente a ciò che state per fare riguardo a questi uomini; perché se questa è opera degli uomini, cadrà da sé stessa, come avvenne con tanti altri; ma se l’opera è di Dio, potrete voi forse impedirla e distruggerla, o vorrete opporvi a Dio?” Tutta l’assemblea si acquietò e seguì il suo consiglio.
            Fatti dunque rientrare gli Apostoli, prima li fecero battere; poi ordinarono loro che assolutamente non parlassero più di Gesù Cristo. Ma essi partirono dal concilio pieni di allegria, perché erano stati fatti degni di patire qualcosa per il nome di Gesù Cristo.

CAPO XVIII. Elezione dei sette diaconi. — S. Pietro resiste alla persecuzione di Gerusalemme. — Va in Samaria. — Suo primo scontro con Simon Mago. Anno di G. C. 35.
            La moltitudine dei fedeli che abbracciavano la fede occupava talmente lo zelo degli Apostoli, che essi, dovendo attendere alla predicazione della divina parola, all’istruzione dei nuovi convertiti, all’orazione, all’amministrazione dei sacramenti, non potevano più occuparsi degli affari temporali. Tale cosa era causa di malcontento presso alcuni cristiani, quasi che nella distribuzione delle sovvenzioni fossero tenuti in poca considerazione o disprezzati. Di ciò informati S. Pietro e gli altri Apostoli, risolsero di porvi rimedio.
            Convocarono pertanto una numerosa assemblea di fedeli e, facendo loro intendere come essi non dovevano tralasciare le cose del sacro loro ministero per occuparsi dei sussidi temporali, proposero l’elezione di sette diaconi, i quali, conosciuti per il loro zelo e per la loro virtù, attendessero all’amministrazione di certe cose sacre, come l’amministrazione del Battesimo, dell’Eucaristia; e nello stesso tempo avessero cura della distribuzione delle elemosine e delle altre cose materiali.
            Tutti approvarono quel proposito; quindi S. Pietro e gli altri Apostoli imposero le mani ai nuovi eletti e li destinarono ciascuno ai propri uffici. Con l’aggiunta di questi sette diaconi, oltre ad aver provveduto ai bisogni temporali, si moltiplicarono anche gli operai evangelici, e quindi maggiori conversioni. Dei sette diaconi fu celebre santo Stefano, che per la sua intrepidezza a sostenere la verità del Vangelo, fu ucciso con la lapidazione fuori della città. Egli è comunemente appellato Protomartire, cioè primo martire, che dopo Gesù Cristo abbia dato la vita per la fede. La morte di santo Stefano fu l’inizio di una grande persecuzione suscitata dagli Ebrei contro tutti i seguaci di Gesù Cristo, la quale cosa obbligò i fedeli a disperdersi qua e là per varie città e in diversi paesi.
            Pietro con gli altri Apostoli rimase in Gerusalemme sia per confermare i fedeli nella fede, sia per mantenere viva relazione con quelli che erano in altri paesi dispersi. Al fine poi di evitare il furore dei Giudei, egli si teneva nascosto, noto solamente ai seguaci del Vangelo, uscendo peraltro dalla sua segreta abitazione qualora ne scorgesse il bisogno. Intanto un editto dell’imperatore Tiberio Augusto in favore dei cristiani e la conversione di S. Paolo fecero cessare la persecuzione. E fu allora che si conobbe come la provvidenza di Dio non permetta alcun male senza ricavarne del bene; poiché si servì della persecuzione per diffondere il Vangelo in altri luoghi, e si può dire che ciascun fedele era un predicatore di Gesù Cristo in tutti quei paesi dove andava a rifugiarsi. Fra quelli che furono costretti a fuggire da Gerusalemme, vi fu uno dei sette diaconi di nome Filippo.
            Egli andò nella città di Samaria, dove con la predicazione e con i miracoli fece molte conversioni. Giunta a Gerusalemme la notizia che un numero straordinario di Samaritani erano venuti alla fede, gli Apostoli risolsero di inviare là alcuni che amministrassero il Sacramento della Cresima e supplissero a quelli che i Diaconi non avevano l’autorità di amministrare. Furono quindi destinati per quella missione Pietro e Giovanni: Pietro perché, come capo della Chiesa, ricevesse nel grembo di essa quella straniera nazione e unisse i Samaritani ai Giudei; Giovanni poi come speciale amico di S. Pietro e illustre fra gli altri per miracoli e santità.
            C’era in Samaria un certo Simone di Gitone, soprannominato Mago, vale a dire stregone. Costui, a forza di ciance e di incantesimi, aveva ingannato molti, millantandosi di essere qualcosa di straordinario. Affermando blasfemamente, diceva che egli era la virtù di Dio, la quale si dice grande. La gente pareva impazzita per lui e gli correva dietro acclamandolo quasi fosse una cosa divina. Essendosi un giorno trovato presente alla predicazione di Filippo ne fu commosso, e domandò il Battesimo per operare anche egli le meraviglie che generalmente i fedeli operavano dopo aver ricevuto questo Sacramento.
            Giunti là Pietro e Giovanni si misero ad amministrare il Sacramento della Confermazione, imponendo le mani come fanno i Vescovi d’oggigiorno. Simone, vedendo che con l’imposizione delle mani ricevevano anche il dono delle lingue e di fare miracoli, pensò che sarebbe stato per lui gran fortuna se avesse potuto operare le medesime cose. Fattosi dunque vicino a Pietro tirò fuori una borsa di denaro e gliela offrì pregandolo che gli volesse anche concedere la potestà di fare miracoli e di dare lo Spirito Santo a coloro cui egli avesse imposto le mani.
            S. Pietro, vivamente sdegnato di tale empietà, e rivolto a lui: “Scellerato,” gli disse, “sia con te il tuo denaro in perdizione, poiché tu hai creduto che per denaro si possano comprare i doni dello Spirito Santo. Affrettati a far penitenza di questa tua malvagità e prega Dio che ti voglia concedere il perdono.”
            Simone, temendo che accadesse a lui ciò che era accaduto ad Anania e Saffira, tutto spaventato rispose: “È vero: pregate anche voi per me affinché in me non si verifichi tale minaccia.” Queste parole sembrano dimostrare che egli fosse pentito, ma non era: non pregò gli Apostoli di impetrargli da Dio misericordia, bensì di tenere da lui lontano il flagello. Passato il timore del castigo, egli ritornò ad essere quel di prima, cioè mago, seduttore, amico del demonio. Noi lo vedremo in altri scontri con Pietro.
            I due Apostoli Pietro e Giovanni, come ebbero amministrato il Sacramento della Cresima ai nuovi fedeli della Samaria e li ebbero rafforzati nella fede che poco prima avevano ricevuto, dato loro il saluto di pace, partirono da quella città. Passarono per molti luoghi predicando Gesù Cristo, reputando poca ogni fatica purché contribuisse a propagare il Vangelo e guadagnare anime al cielo.

CAPO XIX. S. Pietro fonda la cattedra di Antiochia; ritorna in Gerusalemme. — È visitato da S. Paolo. Anno di Gesù Cristo 36.
            S. Pietro, ritornato da Samaria, dimorò qualche tempo in Gerusalemme, poi andò a predicare la grazia del Signore in vari paesi. Mentre con zelo degno del principe degli Apostoli visitava le chiese che si andavano qua e là fondando, venne a sapere che Simon Mago da Samaria si era recato ad Antiochia per spargere là le sue imposture. Egli allora risolse di portarsi in quella città per dissipare gli errori di quel nemico di Dio e degli uomini. Giunto in quella capitale, diede subito mano a predicare il Vangelo con grande zelo, e riuscì a convertire tal numero di gente alla fede, che i fedeli cominciarono là ad essere chiamati cristiani, vale a dire seguaci di Gesù Cristo.
            Fra i personaggi illustri che per le prediche di S. Pietro si convertirono fu S. Evodio. Al primo arrivo di Pietro egli lo invitò a casa sua, e il santo Apostolo gli si affezionò, gli procurò la necessaria istruzione e, vedendolo adorno delle necessarie virtù, lo consacrò sacerdote, poi vescovo, perché facesse le sue veci in tempo di sua assenza, e perché gli succedesse poi in quella sede vescovile.
            Quando Pietro voleva dare inizio alla predicazione in quella città incontrava grave ostacolo da parte del governatore, che era un principe di nome Teofilo. Costui fece mettere in prigione il santo Apostolo come inventore di una religione contraria alla religione dello stato. Volle pertanto venire a disputa intorno alle cose che predicava, e sentendolo dire che Gesù Cristo, per amore degli uomini, era morto in croce, disse: “Costui è matto, non bisogna più ascoltarlo.” Affinché poi fosse reputato come tale, per scherno gli fece tagliare i capelli per metà, lasciandogli un cerchio intorno al capo in modo di corona. Quello che allora fu fatto per disprezzo, ora gli ecclesiastici lo usano per onore, e si chiama chierica o tonsura, che ricorda la corona di spine posta sul capo al Divin Salvatore.
            Quando Pietro si vide trattato a quel modo pregò il governatore che si degnasse ascoltarlo un’altra volta. Essendogli tale cosa concessa, Pietro gli disse: “Tu, o Teofilo, ti scandalizzi per avermi udito dire che il Dio che io adoro morì in croce. Già ti avevo detto che si era fatto uomo, ed essendo uomo non dovevi tanto meravigliarti che egli fosse morto, poiché il morire è proprio dell’uomo. Sappi per altro che egli morì in croce di sua volontà, perché con la sua morte voleva dare la vita a tutti gli uomini facendo pace fra il suo Eterno Padre e il genere umano. Ma siccome ti dico che egli morì, così ti assicuro che egli risuscitò per virtù propria, avendo prima risuscitato molti altri morti.” Teofilo, udendo dire che aveva fatto risuscitare dei morti, si acquietò e, con aria di meraviglia, soggiunse: “Tu dici che questo tuo Dio risuscitò dei morti; ora, se tu in suo nome farai risuscitare un mio figlio, che morì alcuni giorni fa, io crederò a quanto mi predichi.” L’Apostolo accettò l’invito, andò alla tomba del giovane e, in presenza di molto popolo, fece una preghiera e in nome di Gesù Cristo lo richiamò a vita[17]. La qual cosa fu causa che il governatore e tutta la città credessero in Gesù Cristo.
            Teofilo divenne in breve fervoroso cristiano e, in segno di stima e venerazione verso S. Pietro, gli offrì la sua casa perché ne facesse quell’uso che meglio desiderava. Quell’edificio fu ridotto a forma di chiesa, dove si radunava il popolo per assistere al divino sacrificio e per udire le prediche del santo Apostolo. Al fine poi di poterlo ascoltare con maggiore comodità e profitto gli alzarono lì una cattedra dalla quale il santo dava le sacre lezioni.
            È bene qui notare che S. Pietro per lo spazio di tre anni, per quanto poteva, risiedeva in Gerusalemme come capitale della Palestina, dove i Giudei potevano più facilmente avere con lui relazione. L’anno trentaseiesimo di Gesù Cristo, sia per la persecuzione di Gerusalemme, sia per preparare la strada alla conversione dei Gentili, venne a stabilire la sua sede in Antiochia: cioè stabilì la città di Antiochia come sua ordinaria dimora e come centro di comunione con le altre Chiese cristiane.
            Pietro governò questa Chiesa di Antiochia sette anni, finché, così ispirato da Dio, trasferì la sua cattedra a Roma, come noi racconteremo a suo tempo.
            Lo stabilimento della santa Sede in Antiochia è particolarmente narrato da Eusebio di Cesarea, da S. Girolamo, da S. Leone il Grande e da un gran numero di scrittori ecclesiastici. La Chiesa cattolica celebra questo avvenimento con una particolare solennità il 22 febbraio.
            Mentre S. Pietro da Antiochia si era recato a Gerusalemme, ricevette una visita che certamente gli fu di grande consolazione. S. Paolo, che era stato convertito alla fede con uno strepitoso miracolo, sebbene fosse stato istruito da Gesù Cristo e da lui stesso mandato a predicare il Vangelo, tuttavia volle recarsi da S. Pietro per venerare in lui il capo della Chiesa e da lui ricevere quegli avvisi e quelle istruzioni che fossero state opportune. S. Paolo stette in Gerusalemme con il principe degli Apostoli quindici giorni. Il quale tempo bastò per lui, giacché oltre alle rivelazioni ricevute da Gesù Cristo aveva passato la sua vita nello studio delle sante Scritture e dopo la sua conversione si era indefessamente occupato nella meditazione e nella predicazione della parola di Dio.

CAPO XX. S. Pietro visita parecchie Chiese. — Guarisce Enea paralitico. — Risuscita la defunta Tabita. Anno di G. C. 38.
            San Pietro era stato dal divino Salvatore incaricato di conservare nella fede tutti i cristiani; e siccome molte Chiese si andavano fondando ora qua ora là dagli Apostoli, dai Diaconi e da altri discepoli, così San Pietro, per mantenere l’unità di fede e per esercitare la potestà suprema conferitagli dal Salvatore, mentre teneva la sua ordinaria dimora ad Antiochia, andava a visitare personalmente le chiese che in quel tempo erano già state fondate e si andavano fondando. In certi luoghi confermava i fedeli nella fede, altrove consolava quelli che avevano sofferto nella passata persecuzione, qua amministrava il sacramento della Cresima, dappertutto poi ordinava pastori e vescovi, i quali, dopo la sua partenza, continuassero ad aver cura delle chiese e del gregge di Gesù Cristo.
            Passando da una città all’altra pervenne ai santi che abitavano in Lidda, città distante circa venti miglia da Gerusalemme. I cristiani dei primi tempi, per la vita virtuosa e mortificata che tenevano, erano chiamati santi, e con questo nome dovrebbero potersi chiamare i cristiani d’oggigiorno che, al pari di quelli, sono chiamati alla santità.
            Giunto alle porte della città di Lidda, Pietro incontrò un paralitico di nome Enea. Costui era colpito da paralisi e completamente immobile nelle membra, e da otto anni non si era più mosso dal suo lettuccio. Pietro, come lo vide, senza essere affatto pregato, rivolgendosi a lui disse: “Enea, il Signore Gesù Cristo ti ha guarito; alzati e da te stesso rifatti il letto.” Enea si levò in piedi sano e robusto come se non fosse mai stato infermo. Molti si trovarono presenti a questo miracolo, che in breve si divulgò per tutta la città e nel vicino paese detto Saron. Tutti quegli abitanti, mossi dalla bontà divina che in maniera sensibile dava segni della sua potenza infinita, credettero in Gesù Cristo ed entrarono nel grembo della Chiesa.
            A poca distanza da Lidda vi era Ioppe, un’altra città posta sulle rive del mar Mediterraneo. Qui dimorava una vedova cristiana di nome Tabita, la quale, per le sue elemosine e per molte opere di carità, era universalmente chiamata la madre dei poveri. Avvenne in quei giorni che ella cadde ammalata e, dopo breve malattia, morì, lasciando in tutti il più vivo dolore. Secondo l’uso di quei tempi, le donne lavarono il suo cadavere e lo posarono sopra il terrazzo per fargli a suo tempo la sepoltura.
            Ora, per la vicinanza di Lidda, essendosi in Ioppe sparsa la notizia del miracolo operato nella guarigione di Enea, furono là mandati due uomini a pregare Pietro che volesse venire a vedere la defunta Tabita. Intesa la morte di quella virtuosa discepola di Gesù Cristo e il desiderio dei cristiani che andasse là per farla risuscitare, Pietro partì subito con loro. Giunto a Ioppe, i discepoli lo condussero sul terrazzo e, mostrandogli il cadavere di Tabita, gli raccontavano le molte buone opere di quella santa donna e lo pregavano che la volesse risuscitare.
            I poveri e le vedove, come seppero la venuta di Pietro, corsero piangendo a pregarlo che volesse restituire loro la buona madre. “Vedi,” dice una, “questo abito fu opera della sua carità”; “questa tunica, i calzari di quel ragazzo,” altre soggiungevano, “sono tutte cose donate da lei.” Alla vista di tanta gente che piangeva, di tante opere di carità che si andavano raccontando, Pietro ne fu intenerito. Si alzò in piedi e, voltosi al cadavere, disse: “Tabita, io ti comando in nome di Dio, alzati.” Tabita in quell’istante aprì gli occhi e, avendo visto Pietro, si mise a sedere e a parlare con lui. Pietro, presala per mano, la rialzò e, chiamati i discepoli, restituì loro la sospirata madre sana e salva. Grandissimo fu il giubilo che si levò in tutta la casa; da tutte le parti piangevano di gioia, parendo a quei buoni cristiani di aver riacquistato un tesoro in quella sola donna, che veramente era la consolazione di tutti. Da questo fatto imparino i poveri ad essere riconoscenti a chi porge loro elemosina. Imparino i ricchi che cosa voglia dire essere pietosi e generosi verso i poveri.

CAPO XXI. Dio rivela a S. Pietro la vocazione dei Gentili. — Va in Cesarea e battezza la famiglia di Cornelio Centurione. Anno di G. C. 39.
            Iddio aveva più volte fatto predire dai suoi profeti che alla venuta del Messia tutte le nazioni sarebbero state chiamate alla conoscenza del vero Dio.
            Lo stesso divin Salvatore aveva dato espresso comando ai suoi Apostoli, dicendo: “Ite, docete omnes gentes” (andate, ammaestrate tutte le nazioni). Gli stessi predicatori del Vangelo avevano già ricevuto alcuni non giudei alla fede, come avevano fatto con l’Eunuco della regina Candace e con Teofilo governatore d’Antiochia; ma questi erano fatti particolari, e gli Apostoli fino allora avevano quasi esclusivamente predicato il Vangelo agli Ebrei, aspettando dal Signore avviso speciale dell’epoca in cui dovessero senza eccezione ricevere alla fede anche i gentili e i pagani. Tale rivelazione doveva certamente esser fatta a San Pietro, capo della Chiesa. Ecco come il sacro testo espone questo memorabile avvenimento.
            In Cesarea, città della Palestina, abitava un certo Cornelio, centurione, ovvero ufficiale di una coorte, corpo di 100 soldati, che apparteneva alla legione italica, così chiamata perché composta di soldati italiani.
            La Sacra Scrittura gli fa un elogio dicendo che egli era un uomo religioso e timorato di Dio; queste parole vogliono dire che egli era gentile, ma che aveva abbandonato l’idolatria nella quale era nato, adorava il vero Dio, faceva molte elemosine e orazioni, e viveva religiosamente secondo il dettame della retta ragione.
            Iddio, infinitamente misericordioso, che non manca mai, con la sua grazia, di venire in soccorso di chi fa quel che può dal canto suo, mandò un angelo a Cornelio per istruirlo su ciò che doveva fare. Stava questo buon soldato facendo orazione quando vide comparirsi dinanzi un angelo sotto la sembianza di un uomo vestito di bianco. “Cornelio,” disse l’angelo. Egli, preso da paura, fissò in lui gli sguardi dicendo: “Chi siete voi, o Signore; che volete?” Allora l’angelo: “Iddio si è ricordato delle tue elemosine; le tue orazioni sono giunte al suo trono; e volendo appagare i tuoi desideri, mi ha mandato per indicarti la via della salvezza. Perciò manda a Ioppe e cerca di un tale Simone soprannominato Pietro. Egli dimora presso un altro Simone, conciatore di pelli, che ha la casa vicino al mare. Da questo Pietro saprai tutto ciò che è necessario per salvarti.” Non tardò Cornelio a obbedire alla voce del Cielo e, chiamati a sé due domestici e un soldato, persone tutte che temevano Iddio, raccontò la visione e comandò che si recassero immediatamente a Ioppe per il fine indicatogli dall’angelo.
            Partirono costoro sull’istante e, camminando tutta la notte, giunsero a Ioppe sul mezzogiorno del giorno seguente, poiché la distanza fra queste due città è di circa 40 miglia. Poco prima che vi giungessero, S. Pietro ebbe anch’egli una meravigliosa rivelazione, con la quale veniva confermato che anche i gentili erano chiamati alla fede. Stanco dalle sue fatiche, il santo Apostolo in quel giorno era venuto a casa del suo ospite per ristorarsi e, secondo il solito, si recò prima in una camera posta nel piano superiore per fare orazione. Mentre pregava, gli parve di vedere il cielo aperto e dal mezzo calare giù fino a terra un certo arnese a guisa di ampio lenzuolo, che, sostenuto nelle sue quattro estremità, formava come un grande vaso pieno d’ogni sorta di animali quadrupedi, serpenti e volatili, i quali tutti, secondo la legge di Mosè, erano considerati immondi; cioè non potevano essere mangiati né offerti a Dio.
            Nello stesso tempo udì una voce che disse: “Su, Pietro, uccidi e mangia.” Attonito l’Apostolo a quel comando, rispose: “Non sia mai che io mangi animali immondi, dai quali mi sono sempre astenuto.” La voce soggiunse: “Non chiamare immondo ciò che Iddio ha purificato.” Dopo essergli stata per tre volte ripetuta la stessa visione, quel vaso misterioso si alzò verso il cielo e disparve.
            I Santi Padri riconoscono figurati in questi animali immondi i peccatori e tutti quelli che, invischiati nel vizio e nell’errore, per mezzo del sangue di Gesù Cristo sono purificati e ricevuti in grazia.
            Mentre Pietro stava meditando quale cosa volesse mai significare quella visione, giunsero i tre messaggeri. In quel momento Dio glieli fece conoscere e gli comandò di scendere a incontrarli, mettersi in loro compagnia e andare con loro senza alcun timore. Sceso egli dunque e vedutoli, disse: “Eccomi, io sono colui che voi cercate. Qual è il motivo della vostra venuta?”
            Udita la visione di Cornelio e la ragione del loro viaggio, comprese subito il significato di quel misterioso lenzuolo; perciò li accolse benignamente e li fece dimorare con sé quella notte. La mattina seguente, accompagnato da sei discepoli, partì da Ioppe con i messaggeri ed, in numero di dieci, presero il cammino verso Cesarea.
            Dopo due giorni Pietro, con tutta la sua comitiva, giunse in quella città dove con grande ansia lo attendeva il centurione. Questi, per maggiormente onorare il suo ospite, aveva convocato i suoi parenti e amici, affinché potessero anch’essi partecipare delle celesti benedizioni che all’arrivo di Pietro sperava di ottenere dal Cielo. Quando il buon centurione, secondo l’ordine di Dio, mandò a chiamare Pietro per intendere da lui i divini voleri, dovette certamente formarsi una grande idea di lui, reputandolo un personaggio sublime e non simile agli altri uomini. Perciò, entrando Pietro in casa sua, gli si fece incontro e gli si gettò ai piedi in atto di adorarlo. Pietro, pieno di umiltà, lo rialzò immediatamente, avvisandolo che egli era al pari di lui un semplice uomo. Continuando poi a parlare, entrarono nel luogo dell’adunanza.
            Là, alla presenza di tutti, Pietro raccontò l’ordine da Dio ricevuto di conversare con i gentili e di non più giudicarli come abominevoli e profani. “Ora io sono qui da voi,” concluse; “ditemi pertanto quale sia la ragione per cui mi avete chiamato.” Cornelio obbedì all’invito di Pietro, si alzò in piedi e raccontò quanto gli era accaduto quattro giorni prima, protestando che egli e tutti quelli lì radunati erano prontissimi ad eseguire ogni cosa che, per commissione divina, avesse loro comandato. Allora Pietro, spiegando il carattere di Apostolo del Signore, depositario fedele della religione e della fede, prese a istruire nei principali misteri del Vangelo tutta quella onorevole assemblea.
            Continuava Pietro il suo discorso quando lo Spirito Santo scese visibilmente su Cornelio e i suoi familiari, e in maniera sensibile comunicò loro il dono delle lingue, per cui essi cominciarono a magnificare Iddio cantandone le lodi. S. Pietro, vedendo operarsi lì quasi lo stesso prodigio avvenuto nel cenacolo di Gerusalemme, esclamò: “Vi è forse alcuno che possa impedire che noi battezziamo costoro, i quali hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?” Quindi, rivolto ai suoi discepoli, ordinò che li battezzassero tutti. La famiglia di Cornelio fu la prima di Roma e d’Italia che abbracciò la fede.
            S. Pietro, dopo averli tutti battezzati, ritardò la sua partenza da Cesarea; si fermò qualche tempo per appagare le pie istanze di Cornelio e di tutti quei nuovi battezzati che di ciò lo pregavano insistentemente. Pietro approfittò di quel tempo per predicare il Vangelo in quella città, e tale ne fu il frutto che egli risolse di assegnare un pastore a quella moltitudine di fedeli. Questi fu S. Zaccheo, di cui si parla nel Vangelo, il quale perciò fu consacrato primo vescovo di Cesarea[18].
            Questo fatto, cioè l’aver ammesso alla fede i gentili, cagionò una certa gelosia tra i fedeli di Gerusalemme, né mancarono quelli che disapprovarono pubblicamente quanto aveva fatto S. Pietro. Per la qual cosa egli giudicò bene di recarsi in quella città, per disingannare gli illusi e far conoscere che quanto aveva operato era per ordine di Dio. Giunto a Gerusalemme, alcuni si presentarono a lui parlandogli arditamente così: “Perché sei andato da uomini non circoncisi ed hai mangiato con essi?” Pietro, alla presenza di tutti i fedeli radunati, senza far conto di quella interrogazione, diede loro ragione di quanto aveva fatto, cominciando dalla visione avuta in Ioppe, del vaso ripieno di ogni sorta di animali immondi, dell’ordine ricevuto da Dio di cibarsi di essi, della ripugnanza che mostrò a obbedire per timore di contraddire alla legge, e della voce che si fece di nuovo udire di non più chiamare immondo ciò che era stato da Dio purificato. Poi espose minutamente quanto era avvenuto in casa di Cornelio e come, in presenza di molti, era disceso lo Spirito Santo. Allora tutta quell’assemblea, riconoscendo la voce del Signore in quella di Pietro, si acquietò e lodò Iddio che avesse esteso i limiti della sua misericordia.

CAPO XXII. Erode fa decapitare S. Giacomo il Maggiore e mettere S. Pietro in prigione. — Ma ne è liberato da un Angelo. — Morte di Erode. Anno di G. C. 41.
            Mentre la parola di Dio, predicata con tanto zelo dagli Apostoli e dai discepoli, produceva frutti di vita eterna fra gli Ebrei e fra i Gentili, la Giudea era governata da Erode Agrippa, nipote di quell’Erode che aveva comandato la strage degli innocenti.
            Dominato da spirito di ambizione e di vanagloria, desiderava perdutamente di guadagnarsi l’affetto del popolo. Gli Ebrei, e specialmente quelli che erano in qualche autorità, seppero valersi di questa sua propensione per muoverlo a perseguitare la Chiesa e cercare gli applausi dei perversi Giudei nel sangue dei cristiani. Cominciò egli col far mettere in prigione l’Apostolo S. Giacomo per farlo poi condannare al patibolo. Questi è S. Giacomo Maggiore, fratello di S. Giovanni Evangelista, fedele amico di Pietro, che ebbe con lui molti segni speciali di benevolenza dal Salvatore.
            Questo coraggioso Apostolo, dopo la discesa dello Spirito Santo, predicò il Vangelo nella Giudea; poi (come narra la tradizione) andò in Spagna, dove convertì alcuni alla fede. Ritornato in Palestina, fra gli altri convertì un certo Ermogene, uomo celebre; la qual cosa dispiacque molto a Erode, e gli servì di pretesto per farlo mettere in prigione. Condotto innanzi ai tribunali, dimostrò tanta fermezza nel rispondere e confessare Gesù Cristo che il giudice ne rimase meravigliato. Il suo stesso accusatore, commosso da tanta costanza, rinunciò al giudaismo e si dichiarò pubblicamente cristiano, e come tale venne anch’egli condannato a morte. Mentre entrambi erano condotti al supplizio, egli si rivolse a San Giacomo e gli domandò perdono di ciò che aveva detto e fatto contro di lui. Il santo Apostolo, dandogli un’affettuosa occhiata, gli disse “pax tecum” (la pace sia con te). Quindi lo abbracciò e lo baciò protestando che di tutto cuore lo perdonava, anzi che come fratello lo amava. Di qui si vuole che abbia avuto origine il segno di pace e di perdono, che suole usarsi fra i cristiani e specialmente nel sacrificio della santa Messa.
            Dopo di che quei due generosi confessori della fede ebbero tagliata la testa, e andarono a congiungersi eternamente in Cielo.
            Una tale morte contristò molto i fedeli, ma rallegrò al sommo i Giudei, i quali, con la morte dei capi della religione, pensavano di porre fine alla religione stessa. Erode, vedendo che la morte di S. Giacomo era piaciuta ai Giudei, pensò di procurare loro un più dolce spettacolo col fare imprigionare S. Pietro, per poi lasciarlo in balia del loro cieco furore. E poiché correva la settimana degli azzimi, che per gli Ebrei è tempo di giubilo e di preparazione alla Pasqua, non volle funestare la pubblica gioia col supplizio di un uomo preteso reo. Carico perciò di catene lo fece condurre in mezzo a due custodi e ordinò che fosse con tutta cautela custodito dentro un’oscura prigione fino al termine di quella solennità. Diede poi ordine rigoroso che fossero posti a guardia sedici soldati, i quali notte e giorno vegliassero alternativamente a custodia della prigione di ferro che si apriva su un viottolo della città. Certamente sapeva quel re come Pietro fosse già stato altre volte posto in prigione e uscitone in maniera del tutto meravigliosa, e non voleva che gli accadesse di nuovo una cosa simile. Ma tutte queste cautele, porte ferrate, catene, custodi e guardie non servirono ad altro che a dar maggior risalto all’opera di Dio.
            Siccome l’arma più potente lasciata dal Salvatore ai cristiani è la preghiera, così i fedeli, privati del loro comune padre e pastore, si radunarono insieme piangendo la prigionia di S. Pietro e porgendo di continuo preghiere a Dio, affinché lo liberasse dall’imminente pericolo. Sebbene queste loro orazioni fossero ferventissime, nondimeno piacque al Signore di esercitare per qualche giorno la loro fede e la pazienza per far vieppiù conoscere gli effetti della onnipotenza divina.
            Era già la notte precedente al giorno fissato per la morte di Pietro. Egli era tutto rassegnato alle divine disposizioni, egualmente preparato a vivere o a morire per la gloria del suo Signore; perciò, nel buio di quell’orrida prigione, dimorava con la maggior tranquillità dell’animo suo. Dormiva Pietro, ma per lui vegliava Colui che ha promesso di assistere la sua Chiesa. Era mezzanotte ed ogni cosa era in profondo silenzio, quando improvvisamente una luce sfolgorante illumina tutto quel carcere. Ed ecco un angelo mandato da Dio scuote Pietro, lo risveglia dicendogli: “Presto, alzati.” A tali parole entrambe le catene si sciolsero e gli caddero dalle mani. Allora l’angelo continuò: “Mettiti subito gli abiti addosso e i calzari ai piedi.” S. Pietro fece ogni cosa, e l’angelo proseguì dicendogli: “Mettiti ancora sulle spalle il mantello e seguimi.” Pietro obbedì; ma gli pareva che tutto fosse un sogno e che egli fosse fuori di sé. Intanto, le porte della prigione trovandosi aperte, egli ne usciva seguendo l’angelo che gli andava innanzi. Passate le prime e le seconde guardie, senza che dessero il minimo segno di vederli, giunsero alla porta di ferro di enorme grossezza, che, uscendo dall’edificio delle carceri, dava adito in città. Quella porta si aprì da sé medesima. Usciti dunque, camminarono un poco insieme finché l’angelo disparve. Allora Pietro, riflettendo su sé stesso: “Ora,” disse, “mi accorgo che il Signore ha veramente mandato il suo angelo a liberarmi dalle mani di Erode e dal giudizio che gli Ebrei aspettavano che egli facesse di me.” Considerato poi bene il luogo dove era, andò direttamente alla casa di una certa Maria, madre di Giovanni, soprannominato Marco, dove molti fedeli stavano radunati in orazione supplicando Iddio che si degnasse di venire in soccorso del capo della sua Chiesa.
            Giunto San Pietro a quella casa, si mise a bussare alla porta. Una fanciulla, di nome Rosa, andò per vedere chi fosse. “Chi c’è?” disse lei. E Pietro: “Sono io, apri.” La fanciulla, riconoscendone bene la voce, quasi fuor di sé per la gioia, non badò più ad aprire la porta e, lasciandolo fuori, corse a darne avviso ai padroni. “Non sapete? È Pietro.” Ma essi dissero: “Tu vaneggi, Pietro è in prigione e non può trovarsi qui a quest’ora.” Ma lei continuava ad asserire che era veramente lui. Essi allora soggiunsero: “Colui che hai visto o udito sarà forse il suo angelo, che nella sua forma è venuto a darci qualche notizia.” Mentre costoro discutevano con la fanciulla, Pietro continuava a bussare più forte dicendo: “Ehi, aprite.” Questo li spinse a correre in fretta ad aprire, e si accorsero che era veramente Pietro.
            A tutti sembrava un sogno, e ciascuno pensava di vedere un morto risuscitato. Alcuni chiedevano chi l’avesse liberato, altri quando, alcuni erano impazienti di sapere se si fosse operato qualche prodigio.
            Allora Pietro, per appagarli tutti, fatto cenno con la mano che stessero in silenzio, raccontò per ordine quanto era avvenuto con l’angelo e come lo aveva liberato dalla prigione. Ognuno piangeva di tenerezza e, lodando Dio, lo ringraziavano del favore che aveva fatto loro.
            Pietro, non ritenendo più sicura la sua vita a Gerusalemme, disse a quei discepoli: “Andate e riferite queste cose a Giacomo (il Minore, vescovo di Gerusalemme) e agli altri fratelli, e liberateli dalla preoccupazione in cui si trovano a causa mia. Per quanto mi riguarda, ritengo opportuno partire da questa città e andarmene altrove.”
            Quando fu sparsa la notizia che Dio aveva così prodigiosamente salvato il capo della Chiesa, tutti i fedeli ne furono vivamente consolati.
            La Chiesa cattolica celebra la memoria di questo glorioso avvenimento il primo di agosto sotto il titolo di Festa di San Pietro in Vincoli.
            Ma che ne fu di Erode e delle sue guardie? Quando si fece giorno, le guardie che nulla avevano né udito né visto, andarono di buon mattino a visitare la prigione; quando poi non trovarono più Pietro, rimasero presi dal più profondo sbigottimento. La cosa fu subito riferita a Erode, il quale ordinò di cercare San Pietro, ma non gli fu possibile trovarlo. Allora, sdegnato, fece processare i soldati e li fece tutti condannare a morte, forse per sospetto di negligenza o di infedeltà, avendo trovate aperte tutte le porte della prigione.
            Ma l’infelice Erode non tardò molto a pagare il prezzo delle ingiustizie e dei tormenti fatti patire ai seguaci di Gesù Cristo. Per alcuni affari politici egli era andato da Gerusalemme nella città di Cesarea, e mentre godeva degli applausi con cui il popolo follemente lo adulava, chiamandolo Dio, in quell’istante medesimo fu colpito da un angelo del Signore; venne portato fuori della piazza e, fra indicibili dolori, divorato dai vermi, spirò.
            Questo fatto dimostra con quanta sollecitudine Dio viene in aiuto dei suoi servi fedeli, e dà un terribile avvertimento ai malvagi. Questi devono grandemente temere la mano di Dio, che severamente punisce anche nella presente vita coloro che disprezzano la religione o nelle cose sacre o nella persona dei suoi ministri.

CAPO XXIII. Pietro a Roma. — Vi trasferisce la cattedra apostolica. — Sua prima lettera. — Progresso del Vangelo. Anno 42 di Gesù Cristo.
            L’Apostolo San Pietro, dopo essere fuggito da Gerusalemme seguendo gli impulsi dello Spirito Santo, decise di trasferire la Santa Sede a Roma.
            Pertanto, dopo aver tenuto la sua cattedra in Antiochia sette anni, partì alla volta di Roma. Nel suo viaggio predicò Gesù Cristo nel Ponto e nella Bitinia, che sono due vaste province dell’Asia Minore. Proseguendo il suo viaggio, predicò il santo Vangelo in Sicilia e a Napoli, dando a questa città per vescovo Sant’Aspreno. Finalmente giunse a Roma nell’anno quarantadue di Gesù Cristo, mentre regnava un imperatore di nome Claudio.
            Pietro trovò quella città in uno stato veramente deplorevole. Era, dice San Leone, un immenso mare d’iniquità, una sentina di tutti i vizi, una selva di bestie frementi. Le strade, le piazze erano seminate di statue di bronzo e di pietra adorate come Dei, e dinanzi a quegli orridi simulacri si bruciavano incensi e si facevano sacrifici. Il demonio stesso era onorato con nefande sozzure; le azioni più vergognose erano reputate atti di virtù. Si aggiungano le leggi che proibivano ogni nuova religione. I sacerdoti idolatri e i filosofi erano anche gravi ostacoli. Inoltre, si trattava di predicare una religione che disapprovava il culto di tutti gli Dei, condannava ogni sorta di vizi e comandava le più sublimi virtù.
            Tutte queste difficoltà, anziché arrestare lo zelo del Principe degli Apostoli, lo accesero ancor più nel desiderio di liberare quella miserabile città dalle tenebre di morte. San Pietro dunque, appoggiato al solo aiuto del Signore, entrò in Roma per formare della metropoli dell’impero la prima sede del sacerdozio, il centro del Cristianesimo.
            La fama, peraltro, delle virtù e dei miracoli di Gesù Cristo era già ivi pervenuta. Pilato ne aveva mandato relazione all’imperatore Tiberio, il quale, commosso nel leggere la santa vita e la morte del Salvatore, aveva deciso di annoverarlo fra gli Dei Romani. Ma il Signore del cielo e della terra non volle essere confuso con le stupide divinità dei pagani; e dispose che il senato romano respingesse la proposta di Tiberio come opposta alle leggi dell’impero[19].
            Pietro cominciò a predicare il Vangelo agli Ebrei che abitavano allora in Trastevere, cioè in una parte della città di Roma posta al di là del Tevere. Dalla sinagoga degli Ebrei passò a predicare ai Gentili, i quali con trasporto di vera gioia correvano ansiosi per ricevere il Battesimo. Il loro numero divenne così grande, e la loro fede così viva, che San Paolo poco dopo ebbe a consolarsi con i Romani scrivendo queste parole: “La vostra fede è annunziata”, cioè fa parlar di sé, estende la sua fama per tutto il mondo[20]. Né solamente sul basso popolo cadevano le benedizioni del cielo, ma anche su persone di prima nobiltà. Si vedevano uomini elevati alle prime cariche di Roma abbandonare il culto dei falsi Dei per mettersi sotto il soave giogo di Gesù Cristo. Eusebio, vescovo di Cesarea, dice che i ragionamenti di Pietro erano così robusti e si insinuavano con tanta dolcezza negli animi degli uditori, che diveniva padrone dei loro affetti e tutti rimanevano come incantati dalle parole di vita che gli uscivano dalla bocca e non si saziavano di ascoltarlo. Così grande era il numero di quelli che chiedevano il Battesimo, che Pietro, aiutato da altri suoi compagni, lo amministrava sulle rive del Tevere, nello stesso modo in cui San Giovanni Battista lo aveva amministrato su quelle del Giordano[21].
            Giunto a Roma, Pietro abitò il sobborgo detto Trastevere, a poca distanza dal luogo dove fu poi edificata la Chiesa di Santa Cecilia. Di qui nacque la speciale venerazione che i Trasteverini tuttora conservano verso la persona del Sommo Pontefice. Fra i primi a ricevere la fede vi fu un senatore di nome Pudente, che aveva occupato le più sublimi cariche dello Stato. Egli diede in sua casa ospitalità al Principe degli Apostoli, ed egli ne approfittava per celebrare i divini Misteri, amministrare ai fedeli la Santa Eucaristia e spiegare le verità della fede a quelli che lo venivano ad ascoltare. Quella casa fu ben presto cambiata in un tempio consacrato a Dio sotto il titolo del Pastore; è il più antico tempio cristiano di Roma, e si crede che sia quel medesimo che attualmente è detto di San Pudenziana. Quasi contemporaneamente fu fondata un’altra Chiesa dal medesimo Apostolo, che si vuole essere quella che oggigiorno si chiama San Pietro in Vincoli.
            San Pietro, vedendo come Roma fosse così ben disposta a ricevere la luce del Vangelo, e nel tempo stesso un luogo molto adatto per tenere relazione con tutti i paesi del mondo, stabilì la sua cattedra in Roma, vale a dire stabilì che Roma fosse centro e luogo di sua speciale dimora, ove dalle varie nazioni cristiane potessero e dovessero ricorrere nei dubbi di religione e nei vari loro bisogni spirituali. La Chiesa cattolica celebra la festa dello stabilimento della cattedra di San Pietro in Roma il 18 gennaio.
            Bisogna qui ricordare bene che per sede o cattedra di San Pietro non si intende la sedia materiale, ma si intende l’esercizio di quella suprema autorità che egli aveva ricevuto da Gesù Cristo, specialmente quando gli disse che quanto egli avrebbe legato o sciolto sopra la terra, sarebbe altresì stato legato o sciolto in cielo. Si intende l’esercizio di quell’autorità conferitagli da Gesù Cristo di pascolare il gregge universale dei fedeli, sostenere e conservare gli altri pastori nell’unità di fede e di dottrina come hanno sempre fatto i sommi pontefici da San Pietro fino al regnante Leone XIII.
            Poiché le occupazioni che San Pietro aveva a Roma non gli permettevano più di potersi recare a visitare le chiese che in vari paesi aveva fondato, scrisse una lunga e sublime lettera indirizzata specialmente ai cristiani che abitavano nel Ponto, nella Galazia, nella Bitinia e nella Cappadocia, che sono province dell’Asia Minore. Egli, come padre amoroso, dirige il discorso ai suoi figli per animarli ad essere costanti nella fede che aveva loro predicato e li avvisa specialmente di guardarsi dagli errori che gli eretici, fin da quei tempi, andavano spargendo contro la dottrina di Gesù Cristo.
            Conclude poi questa lettera con le seguenti parole: “Voi, o seniori, cioè vescovi e sacerdoti, io vi scongiuro di pascere il gregge di Dio, che da voi dipende, governandolo non forzatamente, ma di buona voglia; non per amor di vile guadagno, ma con animo volenteroso e facendovi modello del vostro gregge. Voi poi, o giovani, voi tutti o cristiani, siate soggetti ai sacerdoti con vera umiltà, perché Dio resiste ai superbi e dà grazia agli umili. Siate temperanti e vegliate perché il demonio vostro nemico, come leone che rugge, va in giro cercando chi divorare, ma voi resistetegli coraggiosamente nella fede.
            Vi salutano i cristiani che sono in Babilonia (cioè in Roma) e vi saluta poi in modo particolare Marco, mio figlio in Cristo.
            La grazia del Signore a tutti voi che vivete in Gesù Cristo. Così sia.[22]
            I Romani che avevano con gran fervore abbracciato la fede predicata da Pietro, manifestarono a San Marco, fido discepolo dell’Apostolo, il vivo desiderio che mettesse per iscritto quello che Pietro predicava. San Marco di fatto aveva accompagnato il Principe degli Apostoli in parecchi viaggi e lo aveva udito a predicare in molti paesi. Pertanto, da quanto aveva udito nelle prediche e nei familiari colloqui dal suo maestro, ed in modo tutto speciale illuminato e ispirato dallo Spirito Santo, era realmente in grado di appagare i pii desideri di quei fedeli. Perciò si accinse a scrivere il Vangelo, vale a dire un fedele racconto delle azioni del Salvatore; ed è quello che abbiamo oggi sotto il nome di Vangelo secondo San Marco.
            San Pietro da Roma mandò vari suoi discepoli in diverse parti d’Italia e in molti paesi del mondo. Inviò Sant’Apollinare a Ravenna, San Trofimo in Gallia e precisamente nella città di Arles, donde il Vangelo si propagò negli altri paesi della Francia; mandò San Marco ad Alessandria d’Egitto a fondare in suo nome quella chiesa. Così la città di Roma, capitale di tutto il Romano Impero, la città di Alessandria, che era la prima dopo Roma, quella di Antiochia, capitale di tutto l’Oriente, ebbero per fondatore il Principe degli Apostoli, e divennero perciò le tre prime sedi patriarcali, tra cui fu per più secoli ripartito il dominio del mondo cattolico, salva sempre la dipendenza dei patriarchi alessandrino e antiocheno dal Pontefice Romano, capo di tutta la Chiesa, pastore universale, centro di unità. Mentre San Pietro mandava tanti suoi discepoli a predicare altrove il Vangelo, egli a Roma ordinava sacerdoti, consacrava vescovi, tra cui aveva scelto San Zino per vicario a fare le sue veci nelle occasioni in cui qualche grave affare lo avesse obbligato ad allontanarsi da quella città.

CAPO XXIV. San Pietro al concilio di Gerusalemme definisce una questione. — San Giacomo conferma il suo giudizio. Anno di Gesù Cristo 50.
            Roma era l’ordinaria dimora del Principe degli Apostoli, ma le sue cure dovevano estendersi a tutti i fedeli cristiani. Perciò, qualora fossero insorte difficoltà o questioni riguardo a cose di religione, mandava qualche suo discepolo, o scriveva lettere in proposito e talvolta andava egli stesso di persona, come appunto fece nell’occasione in cui ad Antiochia nacque una questione tra i Giudei e i Gentili.
            Gli Ebrei credevano che, per essere buoni cristiani, fosse necessario ricevere la circoncisione e osservare tutte le cerimonie di Mosè. I Gentili rifiutavano di sottomettersi a questa pretesa degli Ebrei, e la cosa venne a tal punto che ne derivava grave danno e scandalo tra i semplici fedeli e tra gli stessi predicatori del Vangelo. Pertanto, San Paolo e San Barnaba giudicarono bene di ricorrere al giudizio del capo della Chiesa e degli altri Apostoli, affinché con la loro autorità sciogliessero ogni dubbio.
            San Pietro pertanto si recò da Roma a Gerusalemme per convocare un concilio generale. Poiché se il Signore ha promesso la sua assistenza al capo della Chiesa, affinché la sua fede non venga meno, lo assiste certamente anche quando sono riuniti con lui i principali pastori della Chiesa; tanto più che Gesù Cristo ci assicurò di trovarsi di fatto in mezzo a quelli che, in numero anche solo di due, si fossero radunati nel suo nome. Giunto dunque il Principe degli Apostoli in quella città, invitò tutti gli altri Apostoli e tutti quei primari pastori che poté avere; quindi Paolo e Barnaba, accolti in concilio, esposero in piena assemblea la loro ambasciata a nome dei Gentili di Antiochia; mostrarono le ragioni e i timori di una parte e dell’altra, chiedendo la loro deliberazione per la quiete e la sicurezza delle coscienze. “Vi sono”, diceva San Paolo, “alcuni della setta dei Farisei, i quali hanno creduto e asseriscono essere necessario che, come gli Ebrei, anche i Gentili siano circoncisi e debbano osservare la legge di Mosè, se vogliono ottenere la salvezza.”
            Quella veneranda assemblea prese ad esaminare questo punto; e dopo matura discussione sulla materia proposta, levatosi Pietro prese a parlare così: “Fratelli, ben sapete come Dio elesse me per far conoscere ai Gentili la luce del Vangelo e le verità della fede, come avvenne di Cornelio Centurione e di tutta la sua famiglia. Ora, Dio che conosce i cuori degli uomini ha reso testimonianza a quei buoni Gentili mandando su di loro lo Spirito Santo, come aveva fatto su di noi, e nessuna differenza ha fatto tra noi e loro, mostrando che la fede li aveva purificati dalle impurità che prima li escludevano dalla grazia. Dunque, la cosa è chiara: senza circoncisione i Gentili sono giustificati per la fede in Gesù Cristo. Perché pertanto vogliamo tentare Dio, quasi provocandolo a darci una prova più sicura della sua volontà? Perché imporre a questi nostri fratelli Gentili un giogo che con fatica noi e i nostri padri abbiamo potuto portare? Quindi noi crediamo che per la sola grazia del nostro Signore Gesù Cristo tanto gli Ebrei quanto i Gentili debbano essere salvati.”
            Dopo la sentenza del Vicario di Gesù Cristo, tacque e si acquietò tutta quell’assemblea. Paolo e Barnaba confermarono quanto aveva detto Pietro, raccontando le conversioni e i miracoli che Dio si era compiaciuto di operare per mano loro fra i Gentili che avevano convertito al Vangelo.
            Come Paolo e Barnaba ebbero finito di parlare, San Giacomo, vescovo di Gerusalemme, confermò il giudizio di Pietro dicendo: “Fratelli, ora prestate attenzione anche a me. Ben disse Pietro che da principio Dio fece grazia ai Gentili, formando un popolo solo che glorificasse il suo santo nome. Ora ciò è confermato dalle parole dei profeti, le quali noi vediamo in questi fatti avverate. Per la qual cosa io giudico con Pietro che i Gentili non debbano essere inquietati dopo che si sono convertiti a Gesù Cristo; solamente mi pare doversi ordinare loro che, per riguardo alla debole coscienza dei fratelli Ebrei e per agevolare l’unione fra questi due popoli, venga proibito di mangiare cose sacrificate agli idoli, carni soffocate, il sangue; e proibita sia altresì la fornicazione.”
            Quest’ultima cosa, cioè la fornicazione, non occorreva proibirla essendo affatto contraria ai dettami della ragione e vietata dal sesto articolo del Decalogo. Fu peraltro rinnovata tale proibizione riguardo ai Gentili, perché nel culto alle loro false divinità pensavano che fosse cosa lecita, anzi gradita, fare offerte di cose immonde e oscene.
            Il giudizio di San Pietro così confermato da San Giacomo piacque a tutto il concilio; perciò di comune accordo determinarono di eleggere persone autorevoli da mandare ad Antiochia con Paolo e Barnaba. A questi, in nome del concilio, furono consegnate lettere che contenevano le decisioni prese. Le lettere erano di questo tenore: “Gli Apostoli e sacerdoti fratelli ai fratelli Gentili che sono in Antiochia, in Siria, in Cilicia, salute. Avendo noi inteso che alcuni venendo da qui hanno turbato e angustiato le vostre coscienze con idee arbitrarie, è parso bene a noi qui riuniti di scegliere e mandare a voi Paolo e Barnaba, uomini a noi carissimi, che la loro vita sacrificarono ed esposero a pericolo per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Con essi mandiamo Sila e Giuda, i quali consegnandovi le nostre lettere vi confermeranno a voce le medesime verità. Infatti è stato giudicato dallo Spirito Santo e da noi di non imporvi alcun altro obbligo, eccetto quello che dovete osservare, cioè di astenervi dalle cose sacrificate agli idoli, dalle carni soffocate, dal sangue e dalla fornicazione. Dalle quali cose astenendovi farete bene. State in pace.”
            Questo fu il primo concilio generale a cui presiedette San Pietro, dove, come Principe degli Apostoli e capo della Chiesa, definì la questione con l’assistenza dello Spirito Santo. Così da ogni fedele cristiano deve credersi che le cose definite dai concili generali riuniti e confermati dal Sommo Pontefice, Vicario di Gesù Cristo e successore di San Pietro, sono verità certissime, che danno i medesimi motivi di credibilità come se uscissero dalla bocca dello Spirito Santo, perché essi rappresentano la Chiesa con il suo capo, a cui Dio ha promesso la sua infallibilità sino alla fine dei secoli.

CAPO XXV. San Pietro conferisce a San Paolo e a San Barnaba la pienezza dell’Apostolato. — È avvisato da San Paolo. — Ritorna a Roma. Anno di Gesù Cristo 54.
            Dio aveva già fatto conoscere più volte che voleva mandare San Paolo e San Barnaba a predicare ai Gentili. Ma fino ad allora esercitavano il loro sacro ministero come semplici sacerdoti, e forse anche come vescovi, senza che fosse loro ancora conferita la pienezza dell’apostolato. Quando poi andarono a Gerusalemme a causa del concilio e raccontarono le meraviglie operate da Dio per mezzo loro fra i Gentili, si trattennero anche in speciali colloqui con San Pietro, Giacomo e Giovanni. Raccontarono, dice il sacro testo, grandi meraviglie a quelli che tenevano le prime cariche nella Chiesa, tra le quali erano certamente i tre Apostoli nominati, i quali si consideravano come le tre colonne principali della Chiesa. Fu in questa occasione, dice Sant’Agostino, che San Pietro, come capo della Chiesa, Vicario di Gesù Cristo e divinamente ispirato, conferì a Paolo e a Barnaba la pienezza dell’apostolato, con l’incarico di portare la luce del Vangelo ai Gentili. Così San Paolo fu elevato alla dignità di Apostolo, con la stessa pienezza di poteri che godevano gli altri Apostoli stabiliti da Gesù Cristo.
            Mentre San Pietro e San Paolo dimoravano ad Antiochia, avvenne un fatto che merita di essere riferito. San Pietro era certamente persuaso che le cerimonie della legge di Mosè non fossero più obbligatorie per i Gentili; tuttavia, quando si trovava con gli Ebrei, mangiava all’uso giudaico, temendo di disgustarli se avesse operato altrimenti. Tale condiscendenza era causa che molti Gentili si raffreddassero nella fede; quindi nasceva avversione tra Gentili ed Ebrei, e veniva a rompersi quel vincolo di carità che forma il carattere dei veri seguaci di Gesù Cristo. San Pietro ignorava le dicerie che avevano luogo per questo fatto. Ma San Paolo, accorgendosi che tale condotta di Pietro poteva generare scandalo nella comunità dei fedeli, pensò di correggerlo pubblicamente, dicendo: “Se tu, essendo Giudeo, hai conosciuto per la fede di poter vivere come i Gentili e non come i Giudei, perché con il tuo esempio vuoi costringere i Gentili all’osservanza della legge giudaica?” San Pietro fu molto contento di tale avviso, poiché con quel fatto veniva pubblicato di fronte a tutti i fedeli che la legge cerimoniale di Mosè non era più obbligatoria, e come colui che ad altri predicava l’umiltà di Cristo Gesù, seppe praticarla egli stesso, non dando il minimo segno di risentimento. Da allora in poi non ebbe più alcun riguardo per la legge cerimoniale di Mosè.
            Bisogna qui tuttavia notare con i Santi Padri che quanto faceva San Pietro non era male in sé, ma forniva ai cristiani motivo di discordia. Si vuole inoltre che San Pietro sia stato d’accordo con San Paolo riguardo alla correzione da farsi pubblicamente, affinché fosse viepiù conosciuta la cessazione della legge cerimoniale di Mosè.
            Da Antiochia andò a predicare in varie città, finché fu avvisato da Dio di ritornare a Roma, per assistere i fedeli in una feroce persecuzione eccitata contro i cristiani. Quando San Pietro giunse in quella città, governava l’impero Nerone, uomo pieno di vizi e per conseguenza il più avverso al cristianesimo. Egli aveva appositamente fatto appiccare il fuoco in vari punti di quella capitale, in modo che con molti cittadini rimase in gran parte consumata dalle fiamme; e rigettava poi la colpa di quella malvagia azione sui cristiani.
            Nella sua crudeltà, Nerone aveva fatto mettere a morte un virtuoso filosofo, di nome Seneca, che era stato suo maestro. La stessa sua madre perì vittima di quel figlio snaturato. Ma la gravità di questi misfatti fece una terribile impressione anche sul cuore abbrutito di Nerone, tanto che gli sembrava di vedere spettri che l’accompagnassero giorno e notte. Pertanto, cercava di placare le ombre infernali, o meglio i rimorsi della coscienza, con sacrifici. Volendo poi procurarsi qualche sollievo, fece ricercare i maghi più accreditati, per far uso della loro magia e dei loro incantesimi. Il mago Simone, quello stesso che aveva cercato di comprare da San Pietro i doni dello Spirito Santo, approfittò dell’assenza del Santo Apostolo per recarsi là e, a forza di adulazioni verso l’imperatore, mettere in discredito la religione cristiana.

CAPO XXVI. San Pietro fa risuscitare un morto. Anno di Gesù Cristo 66.
            Il mago Simone sapeva che, se avesse potuto fare qualche miracolo, si sarebbe acquistato grande credito. Quelli che San Pietro andava da ogni parte operando servivano ad accenderlo viepiù di invidia e di rabbia; perciò andava studiando qualche prestigio per farsi vedere superiore a San Pietro. Venne più volte con lui a confronto, ma ne uscì sempre pieno di confusione. E poiché si vantava di saper guarire le infermità, allungare la vita, risuscitare i morti, cose tutte che egli vedeva fatte da San Pietro, avvenne che fu invitato a fare altrettanto. Era morto un giovane di nobile famiglia e parente dell’imperatore. I suoi genitori, essendone inconsolabili, furono consigliati di ricorrere a San Pietro perché venisse a richiamarlo in vita. Altri invece invitarono Simone.
            Giunsero entrambi nello stesso momento alla casa del defunto. San Pietro di buon grado acconsentì che Simone facesse le sue prove per ridare la vita al morto; poiché sapeva che solo Dio può operare veri miracoli, né mai alcuno può vantarsi di averne operati se non per virtù divina e in conferma della religione cattolica, e che perciò sarebbero tornati inutili tutti gli sforzi dell’empio Simone. Pieno di boria e spinto dallo spirito maligno, Simone accettò pazzamente la prova; e, persuaso di vincere, propose la seguente condizione: se Pietro riesce a risuscitare il morto, io sarò condannato a morte; ma se io darò vita a questo cadavere, Pietro la paghi con la testa. Non essendoci tra gli astanti chi rifiutasse quella proposta, anzi di buon grado accettandola San Pietro, il mago si accinse all’opera.
            Si accostò al feretro del defunto e, invocando il demonio e compiendo mille altri incantesimi, parve ad alcuni che quel freddo cadavere desse qualche segno di vita. Allora i partigiani di Simone si misero a gridare che Pietro doveva morire.
            Il Santo Apostolo rideva di quella impostura e, con modestia pregando tutti a voler tacere un momento, disse: “Se il morto è risuscitato, si alzi, cammini e parli; si resuscitatus est, surgat, ambulet, fabuletur. Non è vero che egli muova il capo o dia segno di vita, è la vostra fantasia che vi fa pensare così. Comandate a Simone che si allontani dal letto; e subito vedrete svanire dal morto ogni speranza di vita.[23]
            Così fu fatto, e colui che prima era estinto continuava a giacere come un sasso privo di spirito e di moto. Allora il Santo Apostolo si inginocchiò a poca distanza dal feretro e si mise a pregare fervorosamente il Signore, supplicandolo di glorificare il suo santo nome a confusione dei malvagi e a conforto dei buoni. Dopo breve orazione, rivolto al cadavere disse ad alta voce: “Giovane, alzati; Gesù Signore ti dà la vita e la salute.”
            Al comando di questa voce, a cui la morte era avvezza a obbedire, lo spirito tornò prontamente a vivificare quel freddo corpo; e perché non sembrasse un’illusione, si alzò in piedi, parlò, camminò e gli fu fatto prendere cibo. Anzi, Pietro lo prese per mano e vivo e sano lo restituì alla madre. Quella buona donna non sapeva come esprimere la sua gratitudine verso il Santo, e lo pregò umilmente di non voler lasciare la sua casa, perché non fosse abbandonato chi era risorto per le sue mani. San Pietro la confortò dicendo: “Noi siamo servi del Signore, egli lo ha risuscitato e non lo abbandonerà mai. Non temere per tuo figlio, poiché egli ha il suo custode.”
            Rimaneva ora che il mago fosse condannato a morte, e già una folla di popolo era pronta a lapidarlo sotto una pioggia di pietre, se l’Apostolo, mosso a pietà di lui, non avesse chiesto che fosse lasciato in vita, dicendo che per lui era castigo abbastanza grande la vergogna che aveva provato. “Viva pure”, disse, “ma viva per vedere crescere e dilatarsi sempre più il regno di Gesù Cristo.”

CAPO XXVII. Volo. — Caduta. — Disperata morte di Simone Mago. Anno di Gesù Cristo 67.
            Nella risurrezione di quel giovane, il mago Simone avrebbe dovuto ammirare la bontà e la carità di Pietro, e riconoscere al contempo l’intervento della potenza divina, quindi abbandonare il demonio cui da tanto tempo serviva; ma la superbia lo rese ancor più ostinato. Animato dallo spirito di Satana, s’infuriò più che mai e risolse a qualunque costo di vendicarsi contro San Pietro. Con questo pensiero si recò un giorno da Nerone e gli disse che era disgustato dei Galilei, cioè dei cristiani, che era deciso ad abbandonare il mondo e che, per dare a tutti una prova infallibile della sua divinità, voleva salire da sé stesso al Cielo.
            A Nerone piacque assai la proposta; e poiché desiderava trovare sempre nuovi pretesti per perseguitare i cristiani, fece avvisare San Pietro, il quale secondo lui passava per un grande conoscitore di magia, e lo sfidò a fare altrettanto e a dimostrare che Simone era un bugiardo; che se ciò non avesse fatto, sarebbe egli stesso giudicato bugiardo e impostore, e come tale condannato alla decapitazione. L’Apostolo, appoggiato alla protezione del Cielo, che non manca mai di venire in difesa della verità, accettò l’invito. San Pietro dunque, senza alcun soccorso umano, si armò dello scudo inespugnabile della preghiera. Ordinò anche a tutti i fedeli che con digiuno unissero le loro preghiere alle sue. Ordinò anche a tutti i fedeli che con digiuno universale e con preghiere continue invocassero la divina misericordia. Il giorno in cui si facevano queste pratiche religiose era sabato e di qui è venuto il digiuno del sabato, che ai tempi di S. Agostino si praticava ancora a Roma in memoria di questo avvenimento.
            Al contrario il Mago Simone tutto imbaldanzito per il favore promessogli dai suoi demoni, si apparecchiava ad ordire e terminare con loro la frode, e nella sua pazzia credeva di abbattere con questo colpo la Chiesa di Gesù Cristo. Venne il giorno fissato. Immensa folla di popolo era radunata in una gran piazza di Roma. Nerone stesso con tutta la corte, abbigliato di vesti lucenti di oro e di gemme, stava seduto sopra una tribuna sotto a ricchissimo padiglione mirando e confortando quel suo campione. Si fa profondo silenzio. Appare Simone vestito come se fosse un Dio ed fingendo tranquillità mostra sicurezza di portare vittoria. Mentre si diffondeva in pomposi discorsi, improvvisamente apparve in aria un carro di fuoco, (era tutto illusione diabolica e gioco di fantasia) e ricevuto dentro il mago alla vista di tutto il popolo, il demonio lo sollevò di terra, e lo trasportò su per l’aria. Già toccava le nubi e cominciava a dileguarsi dalla vista del popolo, il quale con gli occhi levati all’insù giubilando di meraviglia e battendo le palme gridava: Vittoria! miracolo! Gloria ed onore a Simone vero figlio degli Dei!
            Pietro in compagnia di S. Paolo, senz’alcuna ostentazione si inginocchia a terra e, con le mani levate al Cielo, fervorosamente prega Gesù Cristo che voglia venire in aiuto della sua Chiesa per fare trionfare la verità davanti a quel popolo illuso. Detto, fatto: la mano di Dio onnipotente, che aveva permesso agli spiriti maligni di sollevare Simone sino a quell’altezza, tolse loro all’improvviso ogni potere, così che privi di forza dovettero abbandonarlo nel più grave pericolo e nel colmo di sua gloria. Sottratta a Simone la virtù diabolica, abbandonato al peso del pingue suo corpo si rovesciò con rovinosa caduta, e piombò giù con tale impeto a terra che sfracellandosi tutte le membra, schizzò il sangue fino sul tribunale di Nerone. Tale caduta avvenne vicino a un tempio dedicato a Romolo, dove oggi esiste la chiesa dei santi Cosma e Damiano.
            L’infelice Simone avrebbe certamente dovuto perdere la vita se San Pietro non avesse invocato Dio a suo favore. Pietro, dice San Massimo, pregò il Signore di liberarlo dalla morte sia per far conoscere a Simone la debolezza dei suoi demoni, sia perché confessando la potenza di Gesù Cristo implorasse da Lui il perdono delle sue colpe. Ma colui che da lungo tempo faceva professione di disprezzare le grazie del Signore, era troppo ostinato per arrendersi anche in questo caso in cui Dio abbondava nella Sua misericordia. Simone, divenuto l’oggetto delle beffe di tutto il popolo, pieno di confusione, pregò alcuni suoi amici di portarlo via di lì. Portato in una casa vicina, sopravvisse ancora qualche giorno; finché, oppresso dal dolore e dalla vergogna, si appigliò al disperato partito di togliersi quei miseri avanzi di vita e, gettandosi giù da una finestra, si diede così volontariamente la morte[24].
            La caduta di Simone è viva immagine della caduta di quei cristiani i quali, o rinnegando la religione cristiana o trascurando di osservarla, cadono dal grado sublime di virtù cui la fede cristiana li ha innalzati, e rovinano miseramente nei vizi e nei disordini, con disonore del carattere cristiano e della religione che professano e con danno talvolta irreparabile della loro anima.

CAPO XXVIII. Pietro è cercato a morte. — Gesù gli appare e gli predice imminente il martirio. — Testamento del santo Apostolo.
            Il supplizio toccato a Simone Mago, mentre rendeva evidente la vendetta del Cielo, contribuì assai ad accrescere il numero dei cristiani. Nerone, peraltro, vedendo una moltitudine di persone abbandonare il profano culto degli Dei per professare la religione predicata da San Pietro, ed essendosi accorto che il Santo Apostolo con la predicazione era riuscito a guadagnare persone da lui molto favorite, e quelle stesse che in corte erano strumento d’iniquità, sentì raddoppiare la rabbia contro i cristiani e prese a incrudelire vieppiù contro di loro.
            In mezzo al furore di quella persecuzione, Pietro era instancabile nell’animare i fedeli ad essere costanti nella fede fino alla morte e nel convertire nuovi Gentili, sicché il sangue dei martiri, ben lungi dall’atterrire i cristiani e diminuirne il numero, era un seme fecondo che ogni giorno li moltiplicava. Solamente gli Ebrei di Roma, forse stimolati dagli Ebrei della Giudea, si mostravano ostinati. Perciò Dio, volendo venire all’ultima prova per vincere la loro ostinazione, fece pubblicamente predire dal suo Apostolo che fra breve avrebbe suscitato un re contro quella nazione, il quale, dopo averla ridotta alle più gravi angustie, avrebbe livellato al suolo la loro città, costringendone i cittadini a morire di fame e di sete. Allora, diceva loro, si vedranno gli uni mangiare i corpi degli altri e consumarsi a vicenda, finché, venuti in preda ai vostri nemici, vedrete sotto i vostri occhi straziare crudelmente le vostre mogli, le vostre figlie e i vostri fanciulli percossi e messi a morte sopra le pietre; le vostre stesse contrade saranno dal ferro e dal fuoco ridotte in desolazione e rovina. Quelli poi che sfuggiranno alla comune sciagura saranno venduti come animali da soma e soggetti a perpetua servitù. Tali mali verranno sopra di voi, o figli di Giacobbe, perché avete gioito della morte del Figlio di Dio ed ora rifiutate di credere in Lui[25].
            Ma sapendo bene i ministri della persecuzione che si sarebbero affaticati inutilmente se non toglievano di mezzo il capo dei cristiani, si volsero contro di lui per averlo nelle mani e metterlo a morte. I fedeli, considerando la perdita che avrebbero fatto con la sua morte, studiavano ogni mezzo per impedire che egli cadesse nelle mani dei persecutori. Quando poi si accorsero che era impossibile che potesse più a lungo restare nascosto, lo consigliarono ad uscire da Roma e ritirarsi in un luogo dove fosse meno conosciuto. Pietro si rifiutava a tali consigli suggeriti dall’amor filiale e anzi ardentemente desiderava la corona del martirio. Ma, continuando i fedeli a pregarlo di far ciò per il bene della Chiesa di Dio, cioè cercare di conservarsi in vita per istruire, confermare nella fede i credenti e guadagnare anime a Cristo, infine egli acconsentì e stabilì di partire.
            Di notte prese congedo dai fedeli per sfuggire al furore degli idolatri. Ma giunto fuori della città, per la Porta Capena, detta oggi Porta San Sebastiano, gli apparve Gesù Cristo nello stesso sembiante in cui l’aveva conosciuto e per più anni frequentato. L’Apostolo, benché sorpreso da questa inaspettata apparizione, nondimeno secondo la sua prontezza di spirito si fece animo di interrogarlo dicendo: “O Signore, dove andate?” Domine, quo vadis? Rispose Gesù: “Io vengo a Roma per essere di nuovo crocifisso.” Ciò detto, disparve.
            Da quelle parole Pietro comprese che era imminente la propria crocifissione, poiché sapeva che il Signore non poteva più essere nuovamente crocifisso per sé medesimo, ma doveva essere crocifisso nella persona del suo Apostolo. In memoria di questo avvenimento, fuori della Porta San Sebastiano fu edificata una chiesa detta ancora oggi “Domine, quo vadis”, oppure “Santa Maria ad Passus”, ossia Santa Maria ai Piedi, perché il Salvatore in quel luogo, dove parlò a San Pietro, lasciò impressa su una pietra la sacra impronta dei suoi piedi. Questa pietra si conserva tuttora nella chiesa di San Sebastiano.
            Dopo quell’avviso, San Pietro tornò indietro e, interrogato dai cristiani di Roma sulla ragione del suo così pronto ritorno, raccontò loro ogni cosa. Nessuno ebbe più alcun dubbio che Pietro sarebbe stato incarcerato ed avrebbe glorificato il Signore dando per Lui la vita. Nel timore pertanto di cadere da un momento all’altro nelle mani dei persecutori e che in quei calamitosi momenti la Chiesa rimanesse priva del suo supremo pastore, Pietro pensò di nominare alcuni vescovi più zelanti, affinché uno di loro subentrasse nel Pontificato dopo la sua morte. Furono questi San Lino, San Cleto, San Clemente e Sant’Anacleto, i quali lo avevano già aiutato nell’ufficio di suoi vicari nei vari bisogni della Chiesa.
            Non contento San Pietro di aver così provveduto ai bisogni della Sede Pontificia, volle altresì indirizzare uno scritto a tutti i fedeli, come per suo testamento, cioè una seconda lettera. Questa lettera è diretta al corpo universale dei cristiani, nominando in particolare quelli del Ponto, della Galazia e di altre province dell’Asia cui aveva predicato.
            Dopo aver di nuovo accennato alle cose già dette nella sua prima lettera, raccomanda di avere sempre gli occhi su Gesù Salvatore, guardandosi dalla corruzione di questo secolo e dai piaceri mondani. Per risolverli poi a tenersi fermi nella virtù, mette loro in vista i premi che il Salvatore tiene preparati nel regno eterno del Cielo; e al contempo richiama alla memoria i terribili castighi con i quali suole Dio punire i peccatori bene spesso anche in questa vita, ma infallibilmente nell’altra con la pena eterna del fuoco. Portandosi poi col suo pensiero nel futuro, predice gli scandali che molti uomini perversi avrebbero suscitato, gli errori che avrebbero disseminato e le astuzie delle quali si sarebbero serviti per propagarli. “Ma sappiate”, egli dice, “che costoro, a somiglianza di fonti senz’acqua e di nebbie oscure agitate dai venti, sono tutti impostori e seduttori delle anime, che promettono una libertà, la quale va sempre a finire in una miserabile schiavitù, in cui si trovano avvolti essi stessi; dopo di che a loro è riservato il giudizio, la perdizione e il fuoco.”
            “Per me”, egli continua, “sono certo, secondo la rivelazione avuta da Nostro Signore Gesù Cristo, che fra poco tempo devo abbandonare questo tabernacolo del mio corpo; ma non mancherò di fare in modo che anche dopo la mia morte abbiate i mezzi per richiamare tali cose alla vostra mente. Siate certi, le promesse del Signore non mancheranno mai: verrà il giorno estremo in cui cesseranno di essere i cieli, gli elementi saranno disciolti o divorati dal fuoco, sarà consumata la terra con tutto ciò che contiene. Occupati dunque nelle opere di pietà, aspettiamo con pazienza e con piacere la venuta del giorno del Signore e, secondo le sue promesse, viviamo in modo da poter passare alla contemplazione dei cieli e al possesso di un’eterna gloria.”
            Di poi li esorta a conservarsi mondi dal peccato e a credere costantemente che la lunga pazienza che usa spesso il Signore con noi è per il nostro comune bene. Quindi raccomanda caldamente di non interpretare le Sacre Scritture con privato intendimento di ciascuno, e nota particolarmente le lettere di San Paolo, che egli chiama suo fratello carissimo, di cui dice così: “Gesù Cristo differisce la sua venuta per darvi tempo a convertirvi; le quali cose vi scrisse Paolo, nostro carissimo fratello, secondo la sapienza che gli è stata data da Dio. Così fa anche in tutte le sue lettere, ove egli parla di queste medesime cose. State però bene attenti che in queste lettere vi sono alcune cose difficili da intendere, le quali gli uomini ignoranti e instabili spiegano in senso perverso, come fanno anche delle altre parti della Sacra Scrittura, di cui si abusano a loro propria perdizione.” Le quali parole meritano di essere attentamente considerate dai protestanti, i quali vogliono affidare l’interpretazione della Bibbia a qualsiasi uomo del popolo, comunque sia rozzo e ignorante. A questi si può applicare quanto dice San Pietro, cioè che la capricciosa spiegazione della Bibbia riuscì a loro propria perdizione: ad suam ipsorum perditionem[26].

CAPO XXIX. San Pietro in prigione converte Processo e Martiniano. — Suo martirio[27]. Anno dell’Era Volgare 67.
            Finalmente era giunto il momento in cui si dovevano compiere le predizioni fatte da Gesù Cristo riguardo alla morte del suo Apostolo. Tante fatiche meritavano di essere coronate dalla palma del Martirio. Mentre un giorno si sentiva tutto ardere d’amore verso la persona del Divino Salvatore e vivamente desiderava potersi quanto prima congiungere a Lui, viene sorpreso da persecutori che subito lo legano e lo conducono in una profonda e tetra prigione detta Mamertina, dove erano soliti racchiudere i più famosi scellerati[28]. La divina provvidenza dispose che Nerone dovesse per affari di governo allontanarsi qualche tempo da Roma; così San Pietro rimase circa nove mesi in prigione. Ma i veri servi del Signore sanno promuovere la gloria di Dio in ogni tempo e in ogni luogo.
            Nell’oscurità della prigione, Pietro, esercitando le cure del suo apostolato e specialmente il ministero della divina parola, ebbe la consolazione di conquistare a Gesù Cristo i due custodi della prigione, di nome Processo e Martiniano, con altre 47 persone che si trovavano rinchiuse nel medesimo luogo.
            È fama, confermata dall’autorità di accreditati scrittori, che non essendoci là acqua per amministrare il battesimo a quei nuovi convertiti, Dio fece scaturire in quell’istante una fonte perenne, le cui acque continuano a scaturire ancora oggi. I viaggiatori che vanno a Roma si premurano di visitare la prigione Mamertina, che è ai piedi del Campidoglio, nel cui fondo scaturisce tuttora la prodigiosa fontana. Quell’edificio, tanto nella parte sotterranea quanto in quella che si eleva sopra terra, è oggetto di grande venerazione presso i cristiani.
            I ministri dell’imperatore tentarono più volte di vincere la costanza del santo Apostolo; ma, rendendosi inutile ogni loro sforzo, e per di più vedendo che, anche in catene, non cessava di predicare Gesù Cristo e così accrescere il numero dei cristiani, decisero di farlo tacere con la morte. Era un mattino quando Pietro vide aprirsi la prigione. Entrano i carnefici, lo legano strettamente e gli annunciano che doveva essere condotto al supplizio. Oh! Allora il suo cuore fu pieno di gioia. “Io godo”, esclamava, “perché presto vedrò il mio Signore. Presto andrò a trovare Colui che ho amato e da cui ho ricevuto tanti segni d’affetto e di misericordia.”
            Prima di essere condotto al supplizio, il santo Apostolo, secondo le leggi romane, dovette sottoporsi a dolorosa flagellazione; la quale cosa gli causò grande gioia, perché così diventava sempre più fedele seguace del suo divino Maestro, il quale prima di essere crocifisso fu sottoposto a simile pena.
            Anche la strada da lui percorsa andando al supplizio merita di essere notata. I Romani, conquistatori del mondo, dopo aver soggiogato qualche nazione, preparavano la pompa del trionfo su un magnifico carro nella valle o meglio nella pianura ai piedi del colle Vaticano. Di là, per la via sacra, detta anche trionfale, i vincitori ascendevano trionfanti al Campidoglio. San Pietro, dopo aver sottomesso il mondo al soave giogo di Cristo, viene anch’egli tratto fuori dal carcere e per la medesima strada condotto al luogo dove si preparavano quelle grandi solennità.
            Così celebrava anche la cerimonia del trionfo ed offriva sé stesso in olocausto al Signore, fuori della porta di Roma, come fuori di Gerusalemme era stato crocifisso il suo divino Maestro.
            Tra il colle Gianicolo[29] e il Vaticano vi era una valle dove, raccogliendosi le acque, si formava una palude. Sull’altra vetta del monte che guardava la palude, era il luogo destinato al martirio del più grande uomo del mondo. L’intrepido atleta, quando giunse al luogo del patibolo e vide la croce sulla quale era condannato a morire, pieno di coraggio e di gioia esclamò: “Salve, o croce, salvezza delle nazioni, stendardo di Cristo, o carissima croce, salve, o conforto dei cristiani. Tu sei quella che mi assicuri la via del cielo, sei quella che mi assicuri l’entrata nel regno della gloria. Tu, che un tempo vidi rosseggiante del santissimo sangue del mio Maestro, oggi sii il mio aiuto, il mio conforto, la mia salvezza.”[30]
            Tuttavia San Pietro giudicava per sé un onore troppo grande il fare una morte simile a quella del suo divino Maestro; quindi pregò i suoi crocifissori che per grazia volessero farlo morire con il capo all’ingiù. Siccome tale maniera di morire veniva a farlo patire di più, così la grazia gli fu facilmente concessa. Ma il suo corpo naturalmente non poteva tenersi sulla croce se le mani e i piedi fossero stati unicamente conficcati con i chiodi; perciò le sue sante membra furono strette con funi a quel duro tronco.
            Era stato accompagnato al luogo del supplizio da una turba infinita di cristiani e di infedeli. Quell’uomo di Dio, in mezzo agli stessi tormenti, quasi dimentico di sé stesso, consolava i primi perché non si affliggessero per lui; si adoperava per salvare i secondi esortandoli a lasciare il culto degli idoli e abbracciare il Vangelo, affinché potessero conoscere l’unico vero Dio, creatore di tutte le cose. Il Signore, che dirigeva sempre lo zelo di sì fedele ministro, lo consolò in quelle ultime agonie con la conversione di un gran numero di idolatri d’ogni condizione e d’ogni sesso[31].
            Mentre San Pietro pendeva in croce, Dio volle altresì consolarlo con una celeste visione. Gli apparvero due angeli con due corone di gigli e di rose, per indicargli che i suoi patimenti erano giunti al termine e che egli doveva essere coronato di gloria nella beata eternità[32].
            San Pietro riportava sulla croce così nobile trionfo il 29 giugno, l’anno settantesimo di Gesù Cristo e sessantasettesimo dell’era volgare. Nello stesso giorno in cui San Pietro moriva in croce, San Paolo, sotto la spada dello stesso tiranno, glorificava Gesù Cristo essendo stato decapitato. Giorno veramente glorioso per tutte le Chiese della Cristianità, ma specialmente per quella di Roma, la quale dopo essere stata fondata da Pietro e lungamente nutrita con la dottrina di entrambi questi Principi degli Apostoli, è ora consacrata dal loro martirio, dal loro sangue, e sublimata sopra tutte le chiese del mondo.
            Così, mentre era imminente la distruzione della città santa di Gerusalemme, e doveva essere arso il suo tempio, Roma, che era la capitale e la padrona di tutte le nazioni, diventava per mezzo di quei due Apostoli la Gerusalemme della nuova alleanza, la città eterna, e tanto più gloriosa della vecchia Gerusalemme, quanto la grazia del Vangelo e il sacerdozio della nuova legge sono più grandi del sacerdozio, di tutte le cerimonie e figure della legge antica.
            San Pietro fu martirizzato all’età di 86 anni, dopo un pontificato di 35 anni, 3 mesi e 4 giorni. Tre anni li trascorse specialmente in Gerusalemme. Tenne poi la sua cattedra sette anni in Antiochia, il rimanente a Roma.

CAPO XXX. Sepolcro di San Pietro. — Attentato contro il suo corpo.
            Appena San Pietro emise l’ultimo respiro, molti cristiani partirono dal luogo del supplizio piangendo la morte del supremo Pastore della Chiesa. Peraltro, San Lino, suo discepolo ed immediato successore, due sacerdoti fratelli San Marcello e Sant’Apuleio, Sant’Anacleto ed altri fervorosi cristiani si raccolsero intorno alla croce di San Pietro. Quando poi i carnefici si allontanarono dal luogo del martirio, essi deposero il corpo del santo Apostolo, lo unsero con preziosi aromi, lo imbalsamarono e lo portarono a seppellire vicino al Circo, ossia presso gli orti di Nerone sul monte Vaticano, propriamente nel luogo ove oggi tuttora si venera. Il suo corpo fu posto in un sito dove erano già stati sepolti molti martiri, discepoli dei santi Apostoli e primizie della Chiesa cattolica, i quali per ordine di Nerone erano stati esposti alle fiere, o crocifissi, o bruciati, o uccisi a forza di inauditi tormenti. San Anacleto aveva colà eretto un piccolo cimitero, in un angolo del quale innalzò una specie di oratorio ove riposa il corpo di San Pietro. Questo sito divenne celebre e tutti i papi successori di San Pietro dimostrarono sempre vivo desiderio di essere ivi sepolti.
            Poco dopo la morte di San Pietro, vennero a Roma alcuni cristiani dall’Oriente, i quali, reputando essere per loro un gran tesoro possedere le reliquie del santo Apostolo, risolsero di farne acquisto. Ma, sapendo che sarebbe stato inutile cercare di comprarle con denaro, pensarono di rubarle, quasi come cosa loro propria, e riportarle in quei luoghi da dove il santo era venuto. Andarono perciò coraggiosamente al sepolcro, estrassero di là il corpo e lo portarono alle catacombe, che sono un luogo scavato sottoterra, detto attualmente di San Sebastiano, con l’intento di mandarlo in Oriente appena si fosse presentata l’opportunità.
            Dio, peraltro, che aveva chiamato quel grande Apostolo a Roma perché la rendesse gloriosa col martirio, dispose anche che il suo corpo fosse conservato in quella città e rendesse quella chiesa la più gloriosa del mondo. Pertanto, quando quegli Orientali andarono per compiere il loro disegno, si sollevò un temporale con un turbine così gagliardo, che per il rumoreggiare dei tuoni e per il saettare dei fulmini furono costretti ad interrompere la loro opera.
            Si accorsero dell’accaduto i cristiani di Roma, ed in gran folla, usciti dalla città, ripresero il corpo del santo Apostolo e lo portarono nuovamente sul monte Vaticano da dove era stato tolto[33].
            Nell’anno 103, San Anacleto, divenuto Sommo Pontefice, vedendo alquanto calmate le persecuzioni contro i cristiani, a sue spese innalzò un tempietto, in modo che racchiudesse le reliquie e tutto il sepolcro lì esistente. Questa è la prima chiesa dedicata al Principe degli Apostoli.
            Questo sacro deposito rimase esposto alla venerazione dei fedeli fino alla metà del terzo secolo. Soltanto nell’anno 221, per la ferocia con cui erano perseguitati i cristiani, temendo che i corpi dei santi Apostoli Pietro e Paolo fossero profanati dagli infedeli, furono trasportati dal Pontefice nelle catacombe dette Cimitero di San Callisto, in quella parte che oggi si chiama cimitero di San Sebastiano. Ma nell’anno 255 il papa San Cornelio, a preghiera ed istanza di Santa Lucina e di altri cristiani, riportò il corpo di San Paolo sulla via di Ostia, nel sito dove era stato decapitato. Il corpo di San Pietro fu di nuovo trasportato e riposto nella primitiva tomba ai piedi del colle Vaticano.

CAPO XXXI. Tomba e Basilica di San Pietro in Vaticano.
            Nei primi secoli della Chiesa i fedeli per lo più non potevano recarsi alla tomba di San Pietro, se non con grave pericolo di essere accusati come cristiani e condotti davanti ai tribunali dei persecutori. Tuttavia vi fu sempre grande concorso di popolo, che dai più lontani paesi veniva ad invocare la protezione del Cielo alla tomba di San Pietro. Ma quando Costantino divenne padrone del Romano Impero e pose fine alle persecuzioni, allora ognuno poté liberamente mostrarsi seguace di Gesù Cristo, e la tomba di San Pietro divenne il santuario del mondo cristiano, dove da ogni angolo si veniva per venerare le reliquie del primo Vicario di Gesù Cristo. Lo stesso imperatore professava pubblicamente il Vangelo, e fra i molti segni che diede di attaccamento alla religione cattolica uno fu quello di aver fatto edificare varie chiese, e tra le altre quella in onore del Principe degli Apostoli; la quale perciò talora porta anch’essa il nome di Basilica Costantiniana, conosciuta più comunemente col nome di Basilica Vaticana.
            Pertanto, nell’anno 319, Costantino e per suo impulso e su invito di San Silvestro stabilì che il sito della nuova Chiesa fosse ai piedi del Vaticano, con il disegno che racchiudesse tutto il piccolo tempio edificato da San Anacleto e che fino a quell’epoca era stato oggetto della comune venerazione. Nel giorno in cui l’Imperatore Costantino voleva dare inizio alla santa impresa, depose sul luogo il diadema imperiale e tutte le regie insegne, quindi si prostrò a terra e sparse molte lacrime per devota tenerezza. Presa quindi la zappa si accinse a scavare con le proprie mani il terreno, dando così inizio allo scavo delle fondamenta della nuova basilica. Volle egli stesso formare il disegno e stabilire lo spazio che doveva abbracciare il nuovo tempio; e per animare a dare mano all’opera con alacrità, volle portare sulle proprie spalle dodici cofanetti di terra in onore dei dodici Apostoli. Allora fu dissotterrato il corpo di San Pietro, e alla presenza di molti fedeli e di molto clero fu collocato da San Silvestro in una grande cassa d’argento, con sopra un’altra cassa di bronzo dorato, piantata immobilmente nel suolo. L’urna che racchiudeva il sacro deposito era alta, larga e lunga cinque piedi; sopra fu posta una grande croce d’oro purissimo del peso di libbre centocinquanta, in cui erano incisi i nomi di Santa Elena e del suo figlio Costantino. Terminato quel maestoso edificio, preparata una cripta o camera sotterranea tutta ornata d’oro e di gemme preziose, circondata da una quantità di lampade d’oro e d’argento, vi collocò il prezioso tesoro: il capo di San Pietro. San Silvestro invitò molti vescovi; e i fedeli cristiani di ogni parte del mondo intervennero a questa solennità. Per incoraggiarli vie più aprì il tesoro della Chiesa, e concedette molte indulgenze. Il concorso fu straordinario; la solennità fu maestosa; era la prima consacrazione che si faceva pubblicamente con riti e cerimonie tali quali si praticano ancora oggidì nella consacrazione dei sacri edifici. La funzione si compiva nell’anno 324 al diciotto di novembre. L’urna di San Pietro così chiusa non si riaprì mai più, e fu sempre oggetto di venerazione presso tutta la cristianità. Costantino donò molte sostanze per il decoro e la conservazione di quell’augusto edificio. Tutti i sommi Pontefici gareggiarono per rendere glorioso il sepolcro del Principe degli Apostoli.
Ma tutte le cose umane si vanno consumando col tempo, e la basilica Vaticana nel secolo XVI si trovò in pericolo di rovinare. Perciò i Pontefici stabilirono di rifarla interamente. Dopo molti studi, dopo gravi fatiche e grandi spese si poté collocare la pietra fondamentale del nuovo tempio nell’anno 1506. Il grande papa Giulio II, nonostante la sua avanzata età e la profonda voragine in cui doveva discendere per giungere alla base del pilastro della cupola, volle tuttavia discendervi in persona per stabilirvi e collocare con solenne cerimonia la prima pietra. È difficile descrivere le fatiche, il lavoro, il denaro, il tempo, gli uomini che si impiegarono in questa meravigliosa costruzione.
            Il lavoro fu condotto a termine nello spazio di centoventi anni, e finalmente Urbano VIII, assistito da 22 cardinali e da tutte quelle dignità che sogliono prendere parte alle funzioni pontificie, consacrò solennemente la maestosa basilica il 18 novembre 1626, cioè nello stesso giorno in cui San Silvestro aveva consacrato l’antica basilica eretta da Costantino. In tutto questo tempo, in mezzo a tanti restauri e a tanti lavori di costruzione, le reliquie di San Pietro non subirono alcuna traslazione; né l’urna, né la sopracassa di bronzo furono smosse, neppure la cripta fu aperta. Il pavimento nuovo essendosi dovuto alquanto elevare sopra l’antico, fu disposto che esso racchiudesse la cappella primitiva e lasciasse così intatto l’altare consacrato da San Silvestro. A questo proposito si nota che, quando l’architetto Giacomo della Porta sollevava gli strati del pavimento intorno al vecchio altare per sovrapporvi il nuovo, vi scoprì la finestra che corrispondeva alla sacra urna. Calatovi dentro il lume, ravvisò la croce d’oro sovrappostavi da Costantino e da Sant’Elena sua madre. Fece subito di ogni cosa relazione al Papa, che nel 1594 era Clemente VIII, il quale in compagnia dei cardinali Bellarmino e Antoniano, si recò personalmente sul luogo e trovò quanto aveva riferito l’architetto. Il Pontefice non volle aprire né il sepolcro né l’urna; nemmeno acconsentì che alcuno si avvicinasse, anzi ordinò che l’apertura fosse chiusa con cementi. Da allora in poi non fu mai più né aperta la tomba, né alcuno si è più avvicinato a quelle reliquie venerande.
            I viaggiatori che si recano a Roma per visitare la grande basilica di San Pietro in Vaticano, al primo vederla restano come incantati; e i personaggi più celebri per ingegno e scienza, giunti nei loro paesi, non sanno darne se non una debole idea.
            Ecco quel tanto che si può con qualche facilità comprendere. Quella chiesa è abbellita dei marmi più squisiti che si siano potuti avere; la sua ampiezza e la sua elevazione giungono a un punto che sorprende l’occhio che la rimira; il pavimento, le mura, la volta sono ornati con tale maestria, che sembrano aver esausto tutti i ritrovati dell’arte. La cupola che, per così dire, sale fino alle nuvole, è un compendio di tutte le bellezze della pittura, della scultura e dell’architettura. Sopra la cupola, anzi sopra lo stesso cupolino, vi è una sfera o palla di bronzo dorato che, guardata da terra, sembra una pallottola da gioco; ma chi vi sale e vi penetra dentro vede un globo entro cui sedici persone possono comodamente stare sedute. In una parola, in questa basilica tutto è così bello, così raro e così ben lavorato che supera quanto si può immaginare nel mondo. Principi, re, monarchi e imperatori hanno contribuito ad ornare questo edificio meraviglioso, con magnifici doni da loro inviati alla tomba di San Pietro, e spesso da loro stessi portati colà dai più lontani paesi.
            Ed è appunto nel centro di un edificio così magnifico che riposano le preziose ceneri di un povero pescatore, di un uomo senza erudizione umana e senza ricchezze, la cui fortuna consisteva in una rete. E ciò fu voluto da Dio affinché gli uomini comprendano come Dio nella sua onnipotenza prende l’uomo più umile agli occhi del mondo per collocarlo sul trono glorioso a governare il suo popolo; comprenderanno anche quanto Egli onori, anche nella presente vita, i suoi servi fedeli, e si facciano così una qualche idea della gloria immensa riservata in Cielo a chi vive e muore nel suo divino servizio. Re, principi, imperatori, e i più grandi monarchi della terra sono venuti ad implorare la protezione di colui che fu tolto da una barca per essere fatto pastore supremo della Chiesa; gli eretici e gli infedeli stessi furono costretti a rispettarlo. Dio avrebbe potuto scegliere il supremo pastore della sua Chiesa fra i più grandi e i più sapienti della terra; ma allora si sarebbero forse attribuite alla loro sapienza e potenza quelle meraviglie, che Dio voleva che fossero interamente riconosciute venire dalla sua onnipotente mano.
            Solo in rarissimi casi i papi hanno permesso che le reliquie di questo grande protettore di Roma fossero trasportate altrove; perciò pochi luoghi della cristianità possono vantare di possederne: tutta la gloria è in Roma.
            Chi mai volesse scrivere i molti pellegrinaggi ivi fatti in ogni tempo, da tutte le parti del mondo e da ogni ceto di persone, la moltitudine di grazie ivi ricevute, gli strepitosi miracoli ivi operati, dovrebbe farne molti e grossi volumi.
            Intanto noi, compresi da sentimenti di sincera gratitudine, come conclusione e frutto di quanto abbiamo detto intorno alle azioni del Principe degli Apostoli, innalziamo fervorose preghiere al trono dell’Altissimo Dio; preghiamo questo suo fortunato Vicario e martire glorioso, affinché si degni volger dal Cielo uno sguardo pietoso sui presenti bisogni della sua Chiesa, si degni proteggerla e sostenerla nei gagliardi assalti che ogni giorno deve sostenere da parte dei suoi nemici, ottenga forza e coraggio ai suoi successori, a tutti i vescovi, ed a tutti i sacri ministri, affinché tutti si rendano degni del ministero da Cristo loro affidato; cosicché, dal suo celeste aiuto confortati, possano riportare copiosi frutti delle loro fatiche, promovendo la gloria di Dio e la salvezza delle anime fra i popoli cristiani.
            Fortunati quei popoli che sono uniti a Pietro nella persona dei Papi suoi successori. Essi camminano per la strada della salvezza; mentre tutti coloro che si trovano fuori di questa strada e non appartengono all’unione di Pietro non hanno speranza alcuna di salvezza. Gesù Cristo stesso ci assicura che la santità e la salvezza non possono trovarsi se non nell’unione con Pietro, sopra cui poggia l’immobile fondamento della sua Chiesa. Ringraziamo di cuore la bontà divina che ci ha fatti figli di Pietro.
            E poiché egli ha le chiavi del regno dei Cieli, preghiamolo di essere nostro protettore nei presenti bisogni, e così nell’ultimo giorno della nostra vita egli si degni di aprirci la porta della beata eternità.

APPENDICE SULLA VENUTA DI S. PIETRO A ROMA
            Sebbene le discussioni su fatti particolari possano essere considerate estranee allo storico, tuttavia la venuta di S. Pietro a Roma, che è uno dei punti più importanti della storia ecclesiastica, essendo caldamente combattuta dagli eretici di oggi, mi sembra materia di tale importanza da non dover essere omessa.
            Ciò sembra tanto più opportuno perché i Protestanti da qualche tempo nei loro libri, giornali e conversazioni cercano di farne oggetto di ragionamento, sempre con lo scopo di metterla in dubbio e screditare la nostra santa religione cattolica. Ciò essi fanno per diminuire, anzi per distruggere, se potessero, l’autorità del Papa poiché, dicono, se Pietro non è venuto a Roma, i Pontefici Romani non sono suoi successori, e perciò non eredi dei suoi poteri. Ma gli sforzi degli eretici mostrano solo quanto sia potente contro di loro l’autorità del Papa; per liberarsi della quale non si vergognano di fabbricare menzogne, pervertendo e negando la storia. Noi crediamo che questo solo fatto varrà a far conoscere la grande malafede che regna presso costoro; poiché mettere in dubbio la venuta di S. Pietro a Roma è lo stesso che dubitare se vi sia luce quando il sole risplende in pieno mezzogiorno.
            Ritengo opportuno far notare qui che fino al secolo quattordicesimo, nello spazio di circa millequattrocento anni, non si trova un autore né cattolico né eretico, il quale abbia mosso il minimo dubbio sulla venuta di S. Pietro a Roma; e noi invitiamo gli avversari a citarne uno solo. Il primo che abbia sollevato questo dubbio fu Marsilio da Padova, che vendette la sua penna all’imperatore Ludovico il Bavaro; e tutti e due, uno con le armi, l’altro con perverse dottrine, si scatenarono contro il primato del Sommo Pontefice. Tale dubbio peraltro fu da tutti considerato come ridicolo, e svanì con la morte del suo autore.
            Duecento anni dopo, nel sedicesimo secolo, sorsero gli spiriti turbolenti di Lutero e di Calvino, e dalla scuola di costoro uscirono parecchi, i quali, superando la malafede degli stessi loro maestri, cercarono di suscitare lo stesso dubbio per meglio ingannare i semplici e gli ignoranti. Chi è un po’ pratico di storia sa quale credito meriti colui che, appoggiato unicamente al suo capriccio, si mette a contraddire un fatto riferito con unanime consenso dagli scrittori di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Questa sola osservazione basterebbe da sé a rendere manifesta l’insussistenza di tale dubbio; tuttavia, affinché il lettore conosca gli autori che con la loro autorità vengono a confermare quanto asseriamo, ne citeremo alcuni. Poiché i protestanti ammettono l’autorità della chiesa dei primi quattro secoli, noi, desiderosi di compiacerli in tutto ciò che è possibile, ci serviremo di scrittori che siano vissuti in quel tempo. Alcuni di essi asseriscono che Pietro fu a Roma, ed altri attestano che vi fondò la sua sede episcopale e vi subì il martirio.
            S. Clemente Papa, discepolo di San Pietro e suo successore nel pontificato, nella sua prima lettera scritta ai Corinzi, dà come pubblica e certa la venuta di San Pietro a Roma, la sua lunga dimora lì, il martirio sofferto lì insieme con S. Paolo. Ecco le sue parole: «L’esempio di questi uomini, i quali, vivendo santamente, aggregarono una gran moltitudine di eletti e soffrirono molti supplizi e tormenti, è rimasto ottimo presso di noi.»
            S. Ignazio martire, anch’egli discepolo di S. Pietro e suo successore nel vescovado di Antiochia, venendo condotto a Roma per essere lì martirizzato, scrive ai Romani pregandoli che non vogliano impedire il suo martirio e dice:
            «Vi prego, non vi comando, come hanno fatto Pietro e Paolo: Non ut Petrus et Paulus praecipio vobis
            Lo stesso afferma Papia, coetaneo dei suddetti e discepolo di S. Giovanni Evangelista, come si può vedere in Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica, libro 2, capitolo 15.
            A poca distanza da costoro abbiamo le illustri testimonianze di S. Ireneo e di S. Dionigi, i quali hanno lungamente conosciuto e conversato con i discepoli degli Apostoli, ed erano informatissimi delle cose avvenute in seno alla Chiesa di Roma.
            S. Ireneo, vescovo di Lione e morto martire nell’anno 202, attesta che S. Matteo divulgò il suo Vangelo agli Ebrei nella loro propria lingua, mentre Pietro e Paolo predicavano a Roma e vi stabilivano la Chiesa: Petro et Paulo Romae evangelizantibus et constituentibus Ecclesiam[34]. Dopo tali testimonianze non sappiamo come osino gli eretici negare la venuta di S. Pietro a Roma. Quasi nello stesso tempo fiorirono Clemente Alessandrino, S. Caio prete di Roma, Tertulliano di Cartagine, Origene, S. Cipriano e moltissimi altri, i quali vanno d’accordo nel riferire il gran concorso dei fedeli alla tomba di S. Pietro martirizzato a Roma; e tutti, pieni di venerazione per il primato che godeva la Chiesa di Roma, dicono che da essa si devono attendere gli oracoli della eterna salvezza, perché Gesù Cristo ha promesso la conservazione della fede al suo fondatore S. Pietro[35].
            E se da questi scrittori passiamo ai luminari della Chiesa, S. Pietro di Alessandria, S. Asterio Amaseno, S. Ottato Milevitano, S. Ambrogio, S. Giovanni Crisostomo, S. Epifanio, S. Massimo Torinese, S. Agostino, S. Cirillo d’Alessandria ed altri molti, troviamo le loro testimonianze pienamente unanimi e concordi sulla verità che asseriamo; cioè che Pietro fu a Roma e vi subì il martirio. S. Ottato, vescovo di Milevi in Africa, scrivendo contro i Donatisti dice: «Non puoi negare, tu lo sai, che nella città di Roma da Pietro fu tenuta da principio la cattedra episcopale.» Per amor di brevità riportiamo solamente le parole del Dottore S. Girolamo, che fiorì nel IV secolo della Chiesa. «Pietro, principe degli Apostoli,» egli scrive, «va a Roma nel secondo anno dell’imperatore Claudio, e lì tenne la cattedra sacerdotale fino all’ultimo anno di Nerone. Seppellito a Roma nel Vaticano, presso la Via Trionfale, è celebre per la venerazione che gli rende l’universo[36].» Si aggiungano i molti martirologi delle diverse Chiese latine, che dalla più remota antichità sono pervenuti fino a noi, i diversi Calendari degli Etiopi, degli Egiziani, dei Siri, i menologi dei Greci; le stesse liturgie di tutte le Chiese cristiane sparse nei vari paesi della cristianità; dappertutto si trova registrata la verità di questo racconto.
            Che altro? Gli stessi protestanti alquanto celebri in dottrina, come il Gave, Ammendo, Pearsonio, Grozio, Usserio, Biondello, Scaligero, Basnagio e Newton con moltissimi altri, concordano che la venuta del principe degli Apostoli a Roma e la sua morte avvenuta in quella metropoli dell’universo siano un fatto incontestabile.
            È vero che né gli Atti degli Apostoli, né S. Paolo nella sua lettera ai Romani fanno menzione di questo fatto. Ma oltre che scrittori accreditati riconoscono in questi autori abbastanza chiaramente accennato tale avvenimento[37], noi osserviamo che l’autore degli Atti degli Apostoli non aveva lo scopo di scrivere le azioni di S. Pietro né degli altri Apostoli, ma soltanto quelle di S. Paolo suo compagno e maestro; e ciò quasi per fare l’apologia di questo Apostolo delle genti fra tutti il più disprezzato e calunniato dagli Ebrei. Quindi è che S. Luca, dopo aver narrato i principi della Chiesa dal capitolo XVI sino alla fine del suo libro, non scrive più di altri fuorché di Paolo e dei suoi compagni di missione. Anzi, nei suoi Atti Luca non ci narra nemmeno tutte le cose operate da Paolo, cose che sappiamo solamente dalle lettere di questo Apostolo. Infatti, ci parla egli forse dei tre naufragi sofferti dal suo maestro, della lotta che a Efeso ebbe a sostenere con le bestie, e di altre gesta di cui si fa cenno nella sua seconda lettera ai Corinzi e in quella ai Galati[38]? Ci parla forse S. Luca del martirio di Paolo, o anche solo di quelle cose che egli fece dopo la sua prima prigionia a Roma? Fa egli forse parola anche di una sola delle 14 lettere? Niente di tutto questo. Ora, quale meraviglia se lo stesso scrittore tacque molte cose operate da Pietro, tra cui la sua venuta a Roma?
            Quello che abbiamo detto sul silenzio di S. Luca vale per il silenzio di S. Paolo nella sua lettera ai Romani. Paolo, scrivendo ai Romani, non saluta Pietro; dunque, concludono i Protestanti, Pietro non fu mai a Roma. Quale stranezza di ragionamento! Tutt’al più si potrebbe dedurre che Pietro in quel tempo non si trovava a Roma; e non di più. E chi non sa che Pietro, mentre teneva la sede di Roma, se ne allontanava spesso per recarsi altrove a fondare altre Chiese nelle varie parti d’Italia? Non aveva egli fatto lo stesso quando teneva la sua sede a Gerusalemme ed ad Antiochia? Fu appunto in quell’epoca che egli viaggiò in varie parti della Palestina, e poi nell’Asia Minore, nella Bitinia, nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, ai quali tutti indirizzò specialmente la sua prima lettera. Quindi non è da supporre che egli non facesse altrettanto in Italia, la quale gli offriva una copiosissima messe. Del resto, che Pietro in Italia non si occupasse solamente di Roma, lo sappiamo da Eusebio, storico del IV secolo, il quale, scrivendo delle principali cose da lui operate, così si esprime: «Delle cose fatte da Pietro, le prove sono quelle medesime Chiese che poco dopo rifulsero, quale è per esempio la Chiesa di Cesarea in Palestina, quella di Antiochia in Siria e la Chiesa della stessa città di Roma. Perché è stato tramandato ai posteri che lo stesso Pietro costituì queste Chiese e tutte le circostanti. E così anche quelle dell’Egitto e della stessa Alessandria, benché queste non per sé stesso, ma per mezzo di Marco suo discepolo, mentre egli si occupava nell’Italia e tra le genti circostanti.[39]»
            Paolo dunque nella sua lettera ai Romani non saluta Pietro, perché sapeva che in quel tempo egli forse non si trovava a Roma. Certamente, se Pietro vi si fosse trovato, avrebbe potuto egli stesso comporre la questione sorta tra quei fedeli, la quale diede occasione a Paolo di scrivere la celebre sua lettera.
            E poi, anche se Pietro si fosse trovato in città, ben si può dire che Paolo nella sua lettera non lasciò ai fedeli di salutarlo insieme con gli altri, perché lo fece salutare a parte dal latore della medesima, o gli scrisse individualmente come usiamo noi tuttora con le persone di riguardo. Del resto, se il non aver Paolo, scrivendo ai Romani, fatto salutare Pietro provasse che Pietro non fu mai a Roma, allora dovremmo anche dire che S. Giacomo Minore non fu mai vescovo di Gerusalemme, perché Paolo, scrivendo agli Ebrei, non lo saluta affatto. Ora, tutta l’antichità proclama S. Giacomo vescovo di Gerusalemme. Nulla dunque conclude il silenzio di Paolo contro la venuta di S. Pietro a Roma.
Aggiungiamo: se dal silenzio della Sacra Scrittura riguardo alla venuta di S. Pietro a Roma si potesse ragionevolmente inferire che Pietro non è venuto a Roma, allora si potrebbe anche argomentare così: la Santa Scrittura non dice che S. Pietro sia morto; dunque S. Pietro è ancora vivo, e voi protestanti cercatelo in qualche angolo della terra.
            Vi è poi una ragione del silenzio della Sacra Scrittura sulla venuta e morte di S. Pietro a Roma, e non vogliamo tacerla. Che Pietro sia il capo della Chiesa, il pastore supremo, il maestro infallibile di tutti i fedeli, e che queste sue prerogative dovessero tramandarsi ai suoi successori fino alla fine del mondo, questo è dogma di fede, e doveva perciò essere o per mezzo della Sacra Scrittura o per mezzo della Tradizione divina rivelato, come fu; ma che egli sia venuto e morto a Roma è un fatto storico, un fatto che si poteva vedere con gli occhi, toccare con le mani; e quindi non era necessaria una testimonianza della Sacra Scrittura per accertarlo, bastando a ciò quelle prove che annunciano e accertano all’uomo tutti gli altri fatti. I protestanti che pretendono di negare la venuta di S. Pietro a Roma perché non si può provare con argomenti biblici cadono nel ridicolo. Che direbbero essi stessi di colui che negasse la venuta e la morte dell’imperatore Augusto nella città di Nola perché la Scrittura non lo dice? Se vogliamo fermarci su questo silenzio degli Atti degli Apostoli e della lettera di S. Paolo, diciamo che ciò non prova né per noi né per i protestanti. Perché la sana logica e la semplice ragione naturale ci insegnano che, quando si cerca la verità di un fatto taciuto da un autore, si deve cercare presso altri a cui spetta il parlarne. Cosa che noi abbiamo fatto abbondantemente.
            Neppure ignoriamo che Giuseppe Flavio non parla di questa venuta di S. Pietro a Roma; come neppure parla di S. Paolo. Ma che importa a lui di parlare dei cristiani? Il suo scopo era di scrivere la storia del popolo ebreo e della guerra giudaica, e non i fatti particolari avvenuti altrove. Egli parla sì di Gesù Cristo, di S. Giovanni Battista, di S. Giacomo, la cui morte è avvenuta in Palestina; ma parla forse di S. Paolo, di S. Andrea o degli altri Apostoli, che furono coronati del martirio fuori della Palestina? E non dice egli stesso di voler passare sotto silenzio molti fatti avvenuti ai suoi tempi[40]?
            E poi non è una follia fidarsi più di un ebreo che non parla, che dei primi cristiani i quali proclamano tutti a una voce S. Pietro morto a Roma, dopo avervi dimorato molti anni?
            Non vogliamo neppure omettere la difficoltà che taluno solleva sul disaccordo degli scrittori nel fissare l’anno della venuta di S. Pietro a Roma. Perché ai nostri tempi gli eruditi vanno comunemente d’accordo nella cronologia da noi seguita. Ma noi diciamo che quel disaccordo degli scrittori antichi dimostra la verità del fatto: dimostra che uno scrittore non ha copiato dall’altro, che ciascuno si serviva di quei documenti o di quelle memorie che aveva nei rispettivi paesi e che erano pubblicamente conosciuti come certi; né deve sorprenderci tal disaccordo cronologico (che è di uno o due anni più o meno) in quei tempi remoti in cui ogni nazione aveva un modo proprio di computare gli anni. Ma tutti questi autori riferiscono con franchezza tale venuta di S. Pietro a Roma e ne accennano le minute circostanze riguardanti la sua dimora e morte in quella città.
            Soggiungono ancora gli avversari contro la venuta di S. Pietro a Roma: dalla prima lettera di S. Pietro ai fedeli dell’Asia si ricava che egli fu a Babilonia. Così infatti egli si esprime nei suoi saluti: «Vi saluta la Chiesa che è raccolta in Babilonia, e Marco mio figlio». Dunque è impossibile la sua venuta a Roma. Cominciamo a dire che, anche se per Babilonia, di cui parla Pietro, si intendesse la metropoli dell’Assiria, tuttavia non si potrebbe ancora inferire che egli non abbia potuto venire, e non sia venuto a Roma. Assai lungo fu il suo pontificato, e i critici concordano nel dire che la suddetta lettera fu scritta prima dell’anno 43, o in quel torno. Difatti egli saluta ancora i fedeli a nome di Marco, il quale sappiamo da Eusebio essere stato inviato da Pietro a fondare la Chiesa di Alessandria nell’anno 43 di Gesù Cristo. Risulta perciò che Pietro, dalla data della sua lettera fino alla sua morte, ebbe per lo meno ancora 24 anni di vita. In così lungo intervallo di tempo non avrebbe potuto fare il viaggio a Roma?
            Ma abbiamo un’altra risposta da dare; ed è che Pietro parlò metaforicamente e con il nome di Babilonia intese la città di Roma, dove appunto si trovava scrivendo la sua lettera. Ciò si ricava da tutta l’antichità. Papia, discepolo degli Apostoli, dice in chiari termini che Pietro mostrò di aver scritto la sua prima lettera a Roma, mentre con traslazione di vocabolo le dà il nome di Babilonia[41]. S. Girolamo dice parimenti che Pietro, nella prima sua lettera, sotto il nome di Babilonia significò la città di Roma: Petrus in epistola prima sub nomine Babylonis figurative Romam significans, salutat vos, inquit, ecclesia quae est in Babylone collecta[42]. Né questo linguaggio era inusitato presso i cristiani. S. Giovanni dà a Roma il medesimo nome di Babilonia. Egli nella sua Apocalisse, dopo aver chiamato Roma la città dei sette colli, la città grande che regna sopra i re della terra, ne annuncia la caduta, scrivendo: Cecidit, cecidit Babylon magna: cadde, cadde la grande Babilonia[43]. Ben a ragione poi Roma poteva chiamarsi una Babilonia, perché racchiudeva nel suo seno tutti gli errori sparsi nelle varie parti del mondo che dominava.
            Pietro inoltre aveva buoni motivi per tacere il nome letterale del luogo da cui scriveva; perché essendo fuggito poco prima dalle mani di Erode Agrippa, e sapendo come tra questo re e l’imperatore Claudio passasse stretta amicizia, poteva giustamente temere qualche insidia da questi due nemici del nome cristiano, qualora la sua lettera fosse andata smarrita. Per evitare questo pericolo, dunque, la prudenza voleva che egli nel suo scritto usasse una parola nota ai cristiani e sconosciuta agli Ebrei e ai gentili. Così egli fece.
            Oltre a ciò, dalle stesse parole di Pietro si ricava un’altra prova della sua venuta a Roma. Infatti, Pietro concludendo la sua lettera dice: «Vi saluta la Chiesa… e Marco mio figlio». Dunque Marco si trovava con Pietro. Ciò posto, tutta la tradizione proclama concordemente che Marco, figlio spirituale di Pietro, suo discepolo, suo interprete, suo amanuense e direi suo segretario, fu a Roma e in questa città scrisse il Vangelo che udì predicare dallo stesso Maestro[44]. Dunque è necessario ammettere parimenti che Pietro fu a Roma con il discepolo.
            Ora possiamo giungere a questa conclusione. Per lo spazio di millequattrocento anni non vi fu mai alcuno che abbia mosso il minimo dubbio contro la venuta di S. Pietro a Roma. Al contrario, abbiamo una lunga serie di uomini celebri per santità e dottrina, che dai tempi apostolici fino a noi con la loro autorità l’hanno sempre accettata. Le liturgie, i martirologi, gli stessi nemici del cristianesimo sono d’accordo con la maggior parte dei protestanti su questo fatto.
            Dunque voi, o protestanti di oggi, contrastando la venuta di S. Pietro a Roma, vi opponete a tutta l’antichità, vi opponete all’autorità degli uomini più dotti e pii dei tempi passati; vi opponete ai martirologi, ai menologi, alle liturgie, ai calendari dell’antichità; vi opponete a quanto scrissero i vostri stessi maestri.
            Deh, protestanti, aprite gli occhi; ascoltate le parole di un amico che vi parla mosso unicamente dal desiderio del vostro bene. Molti pretendono di farsi vostra guida nella verità; ma o per malizia o per ignoranza vi ingannano. Ascoltate la voce di Dio che vi chiama al suo ovile, sotto la custodia del pastore supremo da Lui stabilito. Abbandonate ogni impegno, superate l’ostacolo del rispetto umano, rinunciate agli errori in cui uomini illusi vi hanno precipitato. Ritornate alla religione dei vostri avi, che alcuni vostri antenati abbandonarono; invitate tutti i seguaci della Riforma ad ascoltare quanto diceva ai suoi tempi Tertulliano: «Orsù dunque, o cristiano, se vuoi assicurarti nel grande affare della salvezza, fa ricorso alle Chiese fondate dagli Apostoli. Va a Roma, donde emana la nostra autorità. O Chiesa felice, dove con il loro sangue sparsero tutta la loro dottrina, dove Pietro patì un martirio simile alla passione del suo divin Maestro, dove Paolo fu coronato del martirio con aver la testa troncata, dove Giovanni, dopo essere stato immerso in una caldaia d’olio bollente, nulla patì e quindi venne esiliato nell’isola di Patmos[45]».

Terza Edizione
Torino
Libreria Salesiana Editrice 1899
[1a ed., 1856; ristamp. 1867 e 1869; 2° ed., 1884]

PROPRIETÀ DELL’EDITORE
S. Pier d’Arena – Scuola Tip. Salesiana
Ospizio S. Vincenzo de’ Paoli
(N. 1265 — M)

Visto: nulla osta per la stampa
Genova, 12 Giugno 1899
AGOSTINO Can. MONTALDO
V. Se ne permette la stampa
Genova, 15 Giugno 1899
Can. PAOLO CANEVELLO Prov. Gen.


[1] Le notizie riguardanti la vita di San Pietro sono state ricavate dal Vangelo, dagli Atti e da alcune lettere degli Apostoli, nonché da vari altri autori, le cui memorie sono riferite da Cesare Baronio nel primo volume dei suoi annali, dai Bollandisti il 18 gennaio, 22 febbraio, 29 giugno, 1º agosto e altrove. Della vita di San Pietro hanno trattato ampiamente Antonio Cesari negli Atti degli Apostoli e anche in un volume separato, Luigi Cuccagni in tre volumi consistenti, e molti altri.

[2] Sant’Ambrogio, Commento al Vangelo di Luca, libro 4.

[3] Sant’Ambrogio, opera citata.

[4] San Girolamo, Contro Gioviniano, capitolo 1, 26.

[5] Vangelo secondo Matteo, capitolo 16.

[6] Genesi, capitolo 41.

[7] Vangelo secondo Matteo, capitolo 18.

[8] Vangelo secondo Matteo, capitolo 15.

[9] San Giovanni Damasceno, Omelia sulla Trasfigurazione.

[10] San Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di Matteo.

[11] Il traslato di “porta” per “potenza”, quindi il segno per la cosa significata, deriva dal fatto che nell’antica legge e presso i popoli orientali, i principi e i giudici esercitavano generalmente il loro potere legislativo e giudiziario davanti alle porte della città (vedi III, pag. XXII, 2). Inoltre, questa parte della città era tenuta in uno stato continuo di presidio e munizione, tanto che, espugnate le porte, il resto era facilmente conquistato. Ancora oggi si dice “Porta Ottomana” o “Sublime Porta” per indicare la potenza dei Turchi.

[12] San Girolamo, Contro Gioviniano, capitolo 1, 26.

[13] Sant’Agostino, Sull’Unità della Chiesa.

[14] Sant’Ireneo, Contro le Eresie, libro III, n. 3.

[15] Salmi 68, 108.

[16] Vangelo secondo Giovanni, 14, 12.

[17] Vedi San Basilio di Seleucia e le Ricognizioni di San Clemente.

[18] Vedi Teodoreto, San Giovanni Crisostomo, San Clemente, ecc.

[19] Benedetto XIV, De Servorum Dei Beatificatione, libro I, capitolo I.

[20] Lettera ai Romani, capitolo I.

[21] Eusebio, Storia Ecclesiastica, libro II, capitolo 15.

[22] Prima Lettera di Pietro, capitolo 5.

[23] San Paciano, lettera 2.

[24] I santi Padri che raccontano il fatto di Simon Mago, tra gli altri, sono: San Massimo di Torino, San Cirillo di Gerusalemme, San Sulpicio Severo, San Gregorio di Tours, San Clemente Papa, San Basilio di Seleucia, Sant’Epifanio, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio, San Girolamo e molti altri.

[25] Lattanzio, libro 4.

[26] Epistola 2, capitolo 3.

[27] Le opinioni degli studiosi variano nel fissare l’anno del martirio del Principe degli Apostoli; ma la più probabile è quella che lo assegna all’anno 67 dell’era volgare. Infatti, San Girolamo, infaticabile indagatore e conoscitore delle cose sacre, ci informa che San Pietro e San Paolo furono martirizzati due anni dopo la morte di Seneca, maestro di Nerone. Ora, da Tacito, storico di quei tempi, sappiamo che i consoli sotto cui morì Seneca furono Silio Nerva e Attico Vestino, che tennero il consolato nell’anno 65; dunque, i due Apostoli subirono il martirio nel 67. A questo computo di anni, per il quale viene fissato il martirio in quel tempo, corrispondono i 25 anni e quasi due mesi durante i quali San Pietro tenne la sua Cattedra a Roma; numero di anni che è sempre stato riconosciuto da tutta l’antichità (vedi “Osservazioni storico-cronologiche” di Monsignor Domenico Bartolini, cardinale di Santa Chiesa: “Se l’anno 67 dell’era volgare sia l’anno del martirio dei gloriosi Principi degli Apostoli Pietro e Paolo”, Roma, Tipografia Scalvini, 1866).

[28] La catena con cui fu legato San Pietro si conserva tuttora a Roma nella chiesa detta San Pietro in Vincoli (Artano, “Vita di San Pietro”).

[29] Sulla punta più alta del Monte Gianicolo, dove Anco Marzio, quarto re di Roma, fondò la rocca gianicolense, fu edificata la chiesa di San Pietro in Montorio, nel luogo dove il santo Apostolo compì il martirio. Questo monte fu detto Gianicolo perché dedicato a Giano, custode delle porte che in latino si dicono ianuae. Si vuole che qui sia stato sepolto anche Giano, che edificò quella parte di Roma di fronte al Campidoglio. Fu detto anche Monte Aureo, dalla vicina e antica Porta Aurelia. Ora si chiama Montorio, ovvero Monte d’Oro, dal colore giallo della terra che copre questo colle, uno dei sette colli dell’antica Roma (vedi Moroni, “Chiese di San Pietro”).

[30] Bollandisti, giorno 29 giugno.

[31] Sant’Efrem Siro.

[32] Vedi Piazza Emanuele.

[33] Vedi San Gregorio Magno, epistola 30. Baronio all’anno 284.

[34] Sant’Ireneo, Contro le Eresie, libro III, capitolo 1.

[35] Caio Romano presso Eusebio; Clemente Alessandrino, Stromata, libro 7; Tertulliano, De persecutionibus; Origene presso Eusebio, libro 3; San Cipriano, lettera 52 ad Antoniano e lettera 55 a Cornelio.

[36] San Girolamo, De viris illustribus, capitolo 1.

[37] Teodoreto, vescovo di Cirro, uomo versatissimo nella storia ecclesiastica, morto nell’anno 450, commentando la Lettera di San Paolo ai Romani, laddove l’Apostolo scrive: “Desidererei vedervi, per comunicarvi qualche dono spirituale affinché siate fortificati” (Romani 1,11), aggiunge che Paolo non ha detto di volerli confermare se non perché il grande San Pietro aveva già per primo comunicato loro il Vangelo: “Perché Pietro per primo ha dato loro la dottrina evangelica, ha necessariamente aggiunto ‘per confermarvi’“ (Commento alla Lettera ai Romani).

[38] 1 Corinzi 11, 23-24; Galati 1, 17-18.

[39] Vedi Teofania.

[40] Antichità Giudaiche, libro 20, capitolo 5.

[41] Presso Eusebio, libro II, 14.

[42] San Girolamo, De viris illustribus.

[43] Apocalisse 17,5; 18,2.

[44] Vedi San Girolamo, De viris illustribus, capitolo 8.

[45] Tertulliano, De praescriptione haereticorum, capitolo 36.




Il nostro invitato: don Alphonse Owoudou, Regolatore del Capitolo

Domenica 16 febbraio 2025, a Valdocco, Torino, avrà inizio il ventinovesimo Capitolo Generale della Congregazione Salesiana. Questo evento è il principale segno di unità della Congregazione nella sua diversità. Ne parliamo con don Alphonse Owoudou, Consigliere Regionale per l’Africa-Madagascar e Regolatore del Capitolo.

Può presentarsi?
Mi chiamo Alphonse Owoudou, Salesiano di Don Bosco, originario del Camerun (visitatoria ATE) in Africa. Ad aprile 2025 festeggerò i miei 56 anni. Attualmente sono Consigliere Regionale per l’Africa-Madagascar. Prima di assumere questo ruolo all’interno del Consiglio Generale, sono stato Superiore della visitatoria ATE, Africa Tropicale Equatoriale.

Il mio percorso mi ha portato prima in Gabon come giovane sacerdote e cappellano diocesano dei giovani. Successivamente, ho proseguito gli studi di psicologia presso l’Università Pontificia Salesiana (UPS). Ho poi raggiunto Lomé, in Togo, dove avevo svolto il mio noviziato e il mio post noviziato; vi sono tornato dopo 12 anni come membro del team di formazione. Ho poi avuto la responsabilità dell’attuale Istituto Superiore Don Bosco.

Nel 2015, sono tornato in ATE per far parte del team di animazione ispettoriale. Felice di ritrovare i miei confratelli e il mio paese dopo 20 anni, ho servito inizialmente come vicario ispettoriale dal 2015 al 2017, prima di essere nominato Ispettore nel giugno 2017. Questo periodo mi ha permesso di scoprire la mia ispettoria, le sue opere e la grande comunità educativa e pastorale su un territorio di sei nazioni, ridotto in seguito a cinque con la nascita dell’ACC.

Dal CG28 nel 2020, ho l’immenso privilegio di servire come Consigliere Regionale, assicurando il legame tra i 15 ispettori l’Africa-Madagascar e il Consiglio Generale, in conformità con l’articolo 140 delle nostre Costituzioni. Questa missione mi ha permesso di scoprire e comprendere meglio la ricchezza, la complessità e la bellezza dell’Africa salesiana, una regione piena di storia, promesse, sfide e risorse.

Qual è il compito del Regolatore?
Nel contesto del Capitolo Generale, il ruolo del Regolatore è principalmente quello di garantire il coordinamento tecnico e la regolarità dei processi prima e durante il Capitolo. Presiede la Commissione Tecnica, incaricata dell’elaborazione del calendario dei lavori, del documento di lavoro preparato dalla Commissione Precapitolare, nonché delle raccomandazioni del Rettore Maggiore o del Vicario per il buon svolgimento dei Capitoli Ispettoriali e delle regole elettorali.

Assistito dal suo segretariato e dal Segretario Generale, il Regolatore si occupa anche della validazione dei delegati eletti verificando i numeri di ciascuna ispettoria, garantendo così la legittimità della loro partecipazione al Capitolo Generale. Invia agli ispettori i moduli necessari per i verbali e i modelli per i contributi provenienti dai Capitoli Ispettoriali, dai gruppi di confratelli e dai membri individuali. Una volta raccolti questi contributi, li ordina, li classifica e li prepara. Introduce i membri della Commissione Precapitolare al tema centrale del Capitolo Generale per elaborare insieme il documento che servirà da base per le riflessioni e i dibattiti durante le sessioni del Capitolo.

Il Capitolo Generale è spesso definito come “il segno principale dell’unità della Congregazione nella sua diversità”. È in questo spirito che il Regolatore deve orientare e facilitare gli scambi affinché questa unità si manifesti pienamente, grazie a una preparazione accurata e a discussioni ben strutturate.

Perché il Capitolo è così importante per la vita della Congregazione?
Il Capitolo Generale è cruciale per la vita della Congregazione perché rappresenta “il segno principale dell’unità della Congregazione nella sua diversità”. È un momento in cui i Salesiani si riuniscono per riflettere insieme su come rimanere fedeli al Vangelo, al carisma di Don Bosco e alle esigenze delle epoche e dei luoghi in cui esercitano la loro missione. Guidati dallo Spirito Santo, i Salesiani discernono la volontà di Dio per servire meglio la Chiesa e la gioventù in un momento preciso della storia.

Oltre a questa dimensione spirituale e di riflessione sulla missione, il Capitolo Generale gioca un ruolo centrale nel governo della Congregazione. È durante il Capitolo che si svolgono le elezioni o le rielezioni del Rettore Maggiore, del suo Vicario e degli altri membri del Consiglio Generale. Questo processo elettivo consente alla Congregazione di scegliere i responsabili che guideranno la missione salesiana per i prossimi anni. Queste elezioni sono fondamentali perché assicurano non solo la continuità, ma anche la vitalità e l’adattamento della Congregazione alle sfide attuali.

Il Capitolo è anche l’occasione per rivedere e adattare la missione salesiana ai tempi presenti. Ad esempio, durante il 29° Capitolo Generale, uno dei temi centrali è il “debilitarsi dell’identità carismatica” percepito all’interno della Congregazione, e sono previste discussioni per rispondere a questa preoccupazione. Inoltre, saranno affrontate anche questioni giuridiche rimaste in sospeso dal Capitolo precedente.

In sintesi, il Capitolo Generale è un tempo di discernimento, decisione e rinnovamento, che consente alla Congregazione di rispondere meglio ai bisogni del mondo di oggi, eleggendo al contempo i responsabili che guideranno questa missione nell’unità e nella fedeltà a Don Bosco.

Qual è il tema del Capitolo?
Il tema centrale del 29° Capitolo Generale è “Appassionati di Gesù Cristo, dedicati ai giovani”, con il sottotitolo “Vivere la nostra vocazione salesiana in modo fedele e profetico”. Questo tema ci invita a tornare all’essenza della nostra identità consacrata, centrata su Cristo e sui giovani. Si tratta di un appello a rinnovare il cuore stesso della vocazione salesiana, a ravvivare l’ardore spirituale e apostolico che deve animare ogni Salesiano.

Concretamente, ciò significa approfondire la nostra vita spirituale, dedicarci maggiormente alla preghiera e alla contemplazione, rimanendo fermamente impegnati con i giovani, soprattutto i più poveri e marginalizzati. Il Capitolo ci invita a essere non solo educatori e pastori, ma anche testimoni profetici del Vangelo in un mondo in cambiamento. In altre parole, non basta realizzare opere; è necessario che queste opere riflettano profondamente la nostra passione per Cristo e il nostro impegno verso i giovani.

Il tema mette anche in luce tre grandi priorità per il rinnovamento: la vita spirituale e la formazione, una collaborazione accresciuta con i laici e i membri della Famiglia Salesiana, e infine, una revisione coraggiosa delle strutture di governo della Congregazione per adattarle ai bisogni attuali della missione.

Chi sono i partecipanti?
Il 29° Capitolo Generale riunisce un totale di 226 capitolari e un team di 45 confratelli e collaboratori incaricati della logistica e di altri servizi. Concretamente, si tratta di:

14 membri del Consiglio Generale, compreso il Segretario Generale;
il Procuratore Generale e il Rettore Maggiore Emerito;
2 capitolare della Casa Generale (RMG);
2 dell’Università Pontificia Salesiana (UPS);
22 della Regione Cone Sud;
27 dell’Inter-America;
27 dell’Asia Est Oceania;
29 della Regione Mediterranea;
32 della Regione Africa;
33 dell’Asia Sud;
e, 36 i più numerosi, dell’Europa Centro-Nord.
Questi capitolari arrivano al Capitolo Generale portatori del discernimento e della speranza dei 13.544 Salesiani registrati in occasione di questo importante appuntamento. Durante il CG29, il 93% dell’assemblea sarà costituito da chierici e il 7% da confratelli coadiutori.

Quali sono le sue preoccupazioni?
Mi sento complessivamente sereno, soprattutto dopo tutto il percorso “sinodale” che abbiamo appena attraversato da quel famoso mese di luglio 2023, con una resilienza che ammiro.

Abbiamo lavorato intensamente nelle 92 ispettorie e nelle 7 regioni, così come all’interno del Consiglio Generale. Inoltre, la Commissione Tecnica, la Commissione Giuridica e la Commissione Precapitolare hanno lavorato con un grande senso di sacrificio e una flessibilità ammirevole per preparare questa importante e forse svolta unica. Sono convinto che Dio ci aiuterà ad affrontare le sfide di questo Capitolo che il Rettor Maggiore emerito, card. Àngel Fernández Artime, ha voluto profetico e portatore di rinnovamento.

Detto ciò, le mie “preoccupazioni” si allineano naturalmente a quelle di tutti i miei confratelli, le cui riflessioni sono state sintetizzate nell’Instrumentum Laboris, derivante da 244 documenti ricevuti. Tra le principali, c’è la questione dell’identità carismatica. Molti esprimono la paura che il nostro carisma salesiano perda gradualmente la sua specificità e che rischiamo di diventare simili a qualsiasi organizzazione sociale. Questo potrebbe indebolire l’efficacia della nostra missione, poiché ciò che ci rende unici è proprio la nostra capacità di unire azione sociale e testimonianza spirituale radicata nella fede. È per questo che la prima frase delle Costituzioni, come un credo, ci dice che siamo un’invenzione di Dio per la sua gloria e per la salvezza totale dei suoi figli.

C’è anche la preoccupazione per la crescente secolarizzazione e la decristianizzazione delle nostre società, non solo in Occidente. Questa realtà rende più difficile per noi, Salesiani—e scommetto che sia lo stesso per tutti i consacrati e le confessioni religiose—proclamare e vivere apertamente la fede nella sfera pubblica. Queste sfide richiedono un adattamento della nostra visione e dei nostri metodi pastorali, in particolare nell’accompagnamento dei giovani confratelli e delle nuove generazioni.

Un altro tema importante è quello dell’ecologia integrale e della cultura digitale. Il Capitolo sottolineerà certamente la necessità per noi, come hanno ripetuto i tre ultimi papi dall’inizio di questo millennio, di adattarci al mondo digitale in cui vivono i giovani oggi, integrando una maggiore attenzione all’ambiente, la nostra “casa comune”, in tutti gli aspetti della nostra missione.

Infine, c’è l’urgenza di un rinnovamento nella nostra vita spirituale, fraterna e apostolica. È importante non lasciarci assorbire esclusivamente dalle attività pratiche, ma ritrovare una vitalità spirituale al centro della nostra azione. Questo passa attraverso una preghiera più intensa, una formazione più solida e inculturata, e una migliore collaborazione all’interno della Famiglia Salesiana e con i laici, che sono chiamati a svolgere un ruolo importante nella nostra missione. Questo appello alla collaborazione non è nuovo, ma il contesto del sinodo sulla sinodalità porta un respiro più potente e meglio articolato.

Ci saranno sorprese?
Potrebbero esserci sorprese durante questo 29° Capitolo Generale, a causa dell’ampiezza della sua agenda e del desiderio espresso di prendere “decisioni coraggiose” e adottare una posizione “più profetica”. È in ogni caso ciò che molti di noi sperano.

Tra queste sorprese, uno degli aspetti chiave potrebbe riguardare la revisione delle strutture di governo e di animazione. Il Capitolo potrebbe scegliere di ripensare significativamente il Consiglio Generale, rendendolo più agile e meglio adattato ai bisogni attuali della Congregazione. Ripensare può anche significare mantenere la struttura esistente, ma viverla e gestirla meglio. Questo potrebbe includere anche una rivalutazione dei processi elettorali per garantire che i leader scelti siano il frutto di un processo più collegiale, lineare e trasparente.

Un altro punto potenzialmente significativo riguarda la sinodalità, in particolare in una collaborazione più stretta con i laici. Questo potrebbe tradursi in una governance condivisa più profonda, in linea con l’approccio “con e per i giovani”. Rafforzando questa sinodalità, la missione salesiana potrebbe non solo rinnovare il suo impegno verso i giovani, ma anche diventare veramente profetica incarnando un modello di leadership partecipativa e di corresponsabilità con i laici. Questo sarebbe un segno forte che lo spirito di comunione e collaborazione è al centro del nostro carisma.

Inoltre, come già sottolinea l’Instrumentum Laboris, ci sono forti aspettative affinché questo Capitolo sia un momento di coraggio e profezia. È probabile che il CG29, invece di moltiplicare le esortazioni, decida di focalizzarsi su alcune priorità chiave, in accordo con i segni dei tempi. Tra queste priorità, potrebbe esserci un’attenzione particolare all’attuazione e al rafforzamento del protocollo di protezione dei minori e delle persone vulnerabili, garantendo che ogni opera salesiana sia un luogo sicuro e protetto per tutti. L’educazione alla pace e alla convivenza pacifica potrebbe anche figurare tra i temi centrali, soprattutto nei contesti segnati dalla violenza o dai conflitti.

Infine, le questioni contemporanee come la missione digitale, l’ecologia integrale e la giustizia sociale potrebbero essere oggetto di decisioni audaci, tenendo conto della diversità dei contesti in cui il carisma salesiano deve esprimersi oggi. Focalizzandosi su aree concrete, il Capitolo potrebbe fornire risposte profonde e coerenti alle sfide attuali, rispettando al contempo la ricchezza delle diverse realtà locali.

Così, le decisioni prese potrebbero riflettere questa dinamica sinodale e profetica, centrata su Cristo e sul servizio dei giovani, aprendo la strada a un futuro salesiano rinnovato e fedele al suo impegno evangelico.

In sintesi:

Contesto
Il 29° Capitolo Generale della Congregazione Salesiana si terrà a Valdocco, Torino, tra il 16 febbraio e il 12 marzo 2025 e riunirà 226 capitolari per riflettere sul futuro della missione salesiana.

Ruolo del Regolatore
– coordinamento tecnico: elaborare il calendario, organizzare i lavori e preparare i documenti di base;
– validazione dei partecipanti: verificare l’eleggibilità dei delegati, garantire la loro legittimità e raccogliere i loro contributi;
– preparazione tematica: introdurre i membri della Commissione precapitolare al tema principale del Capitolo per elaborare un documento di lavoro che guiderà i dibattiti;
– garantire che gli scambi riflettano pienamente l’unità e la diversità della Congregazione, favorendo una riflessione collettiva e un discernimento spirituale.

Importanza del Capitolo
– dimensione spirituale: riflettere sulla fedeltà al carisma di Don Bosco, per rinnovare l’ardore missionario;
– dimensione di governance: eleggere i dirigenti per gli anni a venire;
– dimensione adattativa: rispondere alle sfide contemporanee, come il debilitarsi dell’identità carismatica o la crescente secolarizzazione.

Tema
Centrale: “Appassionati di Gesù Cristo, dedicati ai giovani – Vivere la nostra vocazione salesiana in modo fedele e profetico”.
Nuclei tematici:
– vita spirituale e formazione: rafforzare la preghiera, la contemplazione e la formazione spirituale;
– collaborazione con i laici: favorire una leadership condivisa con i membri della Famiglia Salesiana;
– revisione delle strutture di governance: adattare le strutture alle realtà attuali per una missione più efficace.

Sfide e problemi
– identità carismatica: riaffermare la specificità salesiana per evitare di diventare un’organizzazione sociale ordinaria;
– secolarizzazione: adattare i metodi pastorali per una proclamazione efficace della fede;
– digitale ed ecologia: integrare le questioni digitali e ambientali nella missione;
– rinnovamento spirituale e collaborazione: intensificare la preghiera e rafforzare la cooperazione con i laici e i giovani.




Il Giubileo e pratiche devote per la visita delle chiese. Dialogo

San Giovanni Bosco aveva compreso a fondo l’importanza dei Giubilei nella vita della Chiesa. Se nel 1850, a causa di varie vicissitudini storiche, non fu possibile celebrare il Giubileo, Papa Pio IX ne indisse uno straordinario in occasione della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione (8 dicembre 1854). Questo Giubileo ebbe la durata di sei mesi, dall’8 dicembre 1854 all’8 giugno 1855. Don Bosco non lasciò sfuggire l’occasione e pubblicò, proprio nel 1854, il volume “Il Giubileo e Pratiche divote per la visita delle chiese”.
Con la promulgazione dell’enciclica “Quanta Cura” e del “Syllabus errorum”, Papa Pio IX indisse un altro Giubileo straordinario, nuovamente della durata di sei mesi, dall’8 dicembre 1864 all’8 giugno 1865. Anche in quell’occasione Don Bosco propose, nelle Letture Cattoliche, i “Dialoghi intorno all’istituzione del Giubileo”.
In vista del Giubileo ordinario del 1875, Don Bosco ripubblicò il suo testo con il titolo “Il Giubileo del 1875, sua istituzione e pratiche divote per la visita delle Chiese”, sempre attento a offrire ai fedeli un sussidio per queste celebrazioni ricche di grazie straordinarie.
Presentiamo qui proprio l’ultima versione, datata 1875.

DIALOGO I. Del Giubileo in generale
            Giuliano — La riverisco, signor Prevosto, sono qui a farle esercitare un po’ di pazienza.
            Prevosto — Benvenuto, caro Giuliano, mi fate sempre piacere quando venite a vedermi, e, come ho detto più volte, sono sempre ai vostri cenni in tutto quel che posso fare per utilità spirituale di tutti i miei parrocchiani e specialmente per voi, che essendo da poco tempo venuto alla fede cattolica, avete in più cose maggior bisogno di essere istruito.
            Giul. — Mi hanno detto che il Papa ha concesso il Giubileo; io non1’ho ancor mai fatto, vorrei ora essere istruito intorno al modo di farlo bene.
            Prev. — Saviamente pensaste a cercar di farvi istruire per tempo, imperocché da quando vi siete fatto cattolico, non ebbe ancora luogo alcun Giubileo; e nella circostanza della vostra abiura non avendo parlato in proposito di questa pratica della Chiesa Cattolica, è a temere, che abbiate in capo non pochi errori. Ditemi pertanto ciò che vi sta maggiormente a cuore di sapere, ed io studierò di appagarvi facendovi quelle osservazioni che mi parranno utili per vostro spirituale vantaggio.
            Giul. — Prima di tutto avrei bisogno, che ella mi dicesse in modo facile e chiaro, che cosa voglia dire la parola Giubileo e quale senso diano i cattolici alla medesima, perché quando sgraziatamente era protestante ne udiva dire di tutti i generi contro al Giubileo e contro alle Indulgenze.
            Prev. — Due cose, o Giuliano, desiderate da me, la spiegazione della parola Giubileo, e in quale senso da noi si prenda come pratica religiosa proposta dalla Chiesa Cattolica.
            In quanto al significato della parola non occorre trattenermi molto, perciocché ci deve bastare il sapere, che cosa con essa si voglia significare. Tuttavia vi citerò le principali spiegazioni che ne danno i santi Padri.
            S. Girolamo ed altri dicono la parola Giubileo derivare da Iubal, inventore degli istrumenti musicali, oppure da Iobel che significa corno, perché l’anno del Giubileo presso agli Ebrei era pubblicato con una tromba fatta a foggia di corno di ariete.
            Alcuni altri fanno derivare Giubileo dalla parola Habil, che significa restituire con allegrezza, perché in quell’anno le cose comprate, mutuate o impegnate erano restituite al primo padrone; la qual cosa cagionava grande allegrezza.
            Altri dicono da Iobil essere derivata la parola Giubileo, che vuole anche dire allegrezza, perché in queste occasioni i buoni cristiani hanno gravi motivi di rallegrarsi pei tesori spirituali, di cui possono arricchirsi.
            Giul. — Questa è spiegazione della parola Giubileo in genere, ma io vorrei sapere come si definisca dalla Chiesa in quanto è una pratica di pietà, cui sono annesse le Indulgenze.
            Prev. — Vi appagherò di buon grado. Il Giubileo preso come pratica stabilita dalla Chiesa è una Indulgenza plenaria concessa dal Sommo Pontefice alla Chiesa universale con piena remissione di tutti i peccati a coloro, che degnamente lo acquistano, adempiendo le opere prescritte.
            Primieramente dicesi Indulgenza plenaria, per distinguerla dall’Indulgenza parziale che si suole dai Sommi Pontefici concedere a certi esercizi di cristiana pietà, a certe preghiere e a certi atti di religione.
            Questa Indulgenza dicesi straordinaria, perché si suole soltanto concedere raramente ed in casi gravi, come quando minacciano guerre, pestilenze e terremoti. Il sommo Pontefice Pio IX concede in quest’anno il Giubileo ordinario, che suole avvenire ogni venticinque anni, a fine di eccitare i fedeli cristiani di tutto il mondo a pregare pei presenti bisogni della religione e specialmente per la conversione dei peccatori, per la estirpazione delle eresie e per allontanare molti errori che taluni cercano diffondere nei fedeli cogli scritti, coi libri o con altri mezzi, che pur troppo il demonio sa suggerire a danno delle anime.
            Giul. — Godo molto della definizione che mi dà del Giubileo, ma esso è chiamato con tale diversità di nomi, che io ne rimango assai confuso — Anno santo, anno centenario, secolare, giubilare, Giubileo particolare, Giubileo universale, grande Giubileo, Indulgenza in forma di Giubileo, — ecco i nomi con cui odo chiamarsi promiscuamente il Giubileo; abbia la bontà di darmene la spiegazione.
            Prev. — Questi nomi, sebbene siano talvolta usati ad esprimere la stessa cosa, tuttavia hanno significato l’uno alquanto diverso dall’altro. —Ve ne darò breve spiegazione.
            Il Giubileo si dice anno Giubilare, anno santo perché in quell’anno (siccome vi dirò di poi) gli Ebrei dovevano cessare da ogni genere di lavoro ed occupassi esclusivamente in opere di virtù e di santità. Al che sono egualmente invitati tutti i fedeli cristiani, senza che per altro siano obbligati ad abbandonare le ordinarie loro occupazioni temporali. Si chiama anche centenario o anno centesimo, perché nella sua prima istituzione si celebrava ogni cento anni.
            Il Giubileo poi dicesi parziale, quando si concede solamente in alcuni luoghi determinati, come sarebbe in Roma, o in Santiago di Compostella nella Spagna. Questo Giubileo si appella anche generale, quando si concede ai fedeli in ogni luogo della cristianità.
            Ma è detto propriamente Giubileo Generale o Grande Giubileo, quando si celebra nell’anno, in cui è fissato dalla Chiesa. Presso gli Ebrei succedeva ogni cinquanta anni, presso ai cristiani in principio era ogni cento anni, di poi ogni cinquanta ed ora ogni venticinque.
            Il Giubileo si dice straordinario ed anche Indulgenza in forma di Giubileo, quando per qualche grave ragione si concede fuori dell’anno santo.
            I Sommi Pontefici, quando sono elevati alla loro dignità, sogliono solennizzare questo avvenimento con un’Indulgenza plenaria, ovvero un Giubileo straordinario.
            La differenza tra il grande Giubileo ed il Giubileo particolare consiste in ciò, che il primo dura un anno intero, e l’altro dura solamente una parte dell’anno. Quello per esempio che il regnante Pio IX concedette nel 1865 durò soltanto tre mesi, ma vi erano annessi i medesimi favori del presente Giubileo, che dura per tutto l’anno 1875.
            La breve spiegazione che vi ho dato di queste parole, credo che sarà ancora meglio schiarita dalle altre cose, che spero di potervi esporre in altri trattenimenti. Intanto, o amato Giuliano, persuadetevi, che il Giubileo è un gran tesoro pei cristiani, onde ben a ragione il dotto Cardinale Gaetani nel suo trattato del Giubileo (c. 15) scrisse queste belle parole: « Beato quel popolo, il quale sa che cosa sia il Giubileo; infelici coloro, che per negligenza o per inconsiderazione lo trascurano colla speranza di pervenire ad un altro (Chi desiderasse più copiose notizie intorno a quanto fu sopra brevemente accennato, potrebbe consultare: MORONI: Anno santo e Giubileo — BERGIER articolo Jubilé — L’opera: Magnum theatrum vitae humanae articolo Iubileum. — NAVARRO de Iubileo nota 1° Benzonio lib. 3, cap 4. Vittorelli — Turrecremata — Sarnelli tom. X. S. Isidoro nelle Origini lib. 5.).

DIALOGO II. Del Giubileo presso gli Ebrei
            Giul. — Ho ascoltato con piacere quello che mi ha detto intorno ai vari significati, che sogliono darsi alla parola Giubileo, e intorno ai grandi vantaggi che dal medesimo si possono ricavare. Ma questo non mi basta, qualora dovessi dare una risposta ai miei antichi compagni di religione; perché essi, prendendo la sola Bibbia per norma della loro fede, sono fissi nell’asserire, che il Giubileo è una novità nella Chiesa, di cui non esiste traccia nella Bibbia. Desidererei pertanto di essere istruito sopra questa materia.
            Prev. — Quando gli antichi vostri ministri e compagni di religione asserivano, che nella sacra Scrittura non si parla di Giubileo, essi cercavano di nascondervi la verità, o loro stessi la ignoravano.
            Prima peraltro di esporvi ciò che la Bibbia dice del Giubileo, conviene che io vi faccia notare come esiste nella Chiesa Cattolica un’autorità infallibile, che viene da Dio, ed è da Dio medesimo diretta. Ciò apparisce da molti testi della sacra Bibbia e specialmente dalle parole dette dal Salvatore a san Pietro quando lo stabili capo della Chiesa, dicendogli: — Tutto quello che legherai sopra la terra, sarà legato in cielo; tutto ciò che scioglierai in terra, sarà anche sciolto in cielo (S. Matt. 18). Perciò noi possiamo ammettere con certezza tutto quello, che questa autorità stabilisce pel bene dei cristiani senza timore di errare. Inoltre è massima ammessa da tutti i cattolici, che quando incontriamo qualche verità creduta e praticata in ogni tempo nella Chiesa, né si può trovare alcun tempo o luogo in cui sia stata instituita, noi la dobbiamo credere come rivelata da Dio medesimo e trasmessa a parole o in iscritti dal principio della Chiesa fino ai nostri giorni.
            Giul. — Questo credo anch’io; perciocché, posta l’autorità infallibile della Chiesa, nulla importa che essa proponga cose scritte nella Bibbia o tramandate per tradizione. Tuttavia io desidererei grandemente di sapere, che cosa ci sia nella Bibbia riguardo al Giubileo; e ciò tanto più desidero, perché pochi di or son un antico mio amico protestante ricominciava a motteggiarmi intorno alla novità del Giubileo di cui, egli diceva, non esiste cenno nella Bibbia.
            Prev. — Eccomi pronto ad appagare questo vostro giusto desiderio. Apriamo insieme la Bibbia e leggiamo qui nel libro del Levitico al capo XXV, e troveremo l’istituzione del Giubileo, come era praticato presso agli Ebrei.
            Il sacro testo dice cosi:
            Conterai, parlò il Signore a Mosè, sette settimane di anni, viene a dire sette volte sette, che fanno in tutto quarantanove anni; e il settimo mese ai dieci del mese, nel tempo della espiazione, farai suonare la tromba per tutto quanto il paese. E santificherai l’anno cinquantesimo, e annunzierai la remissione a tutti gli abitanti del tuo paese; perocché egli è l’anno del Giubileo. Ognuno tornerà alle sue possessioni e ognuno tornerà alla sua famiglia, perché l’anno cinquantesimo è l’anno del Giubileo. Voi non farete la semente, e non mieterete quello che sarà nato spontaneamente pei campi, e non coglierete le primizie della vendemmia per santificare il Giubileo, ma voi mungerete quello, che vi si parerà davanti. Nell’anno del Giubileo tornerà ciascuno nei suoi beni.
            Fin qui sono parole del Levitico, intorno alle quali credo, che non occorra lunga spiegazione per farvi comprendere quanto antica sia la istituzione del Giubileo, cioè fin dai primi tempi che gli Ebrei erano per entrare nella Terra Promessa, circa l’anno del mondo 2500.
            Del Giubileo si parla poi ancora in tanti altri luoghi della Bibbia; come nello stesso libro del Levitico, al cap. XXVII; nel libro dei Numeri, al cap. XXXVI, in quello di Giosuè al cap. VI. Ma vi basti ciò che ne abbiamo detto, che è per sé troppo chiaro.
            Giul. — Mi ha fatto molto piacere a farmi vedere queste parole della Bibbia, e godo molto che la Bibbia, non solo parli del Giubileo, ma ne comandi l’osservanza a tutti gli Ebrei. Desidero per altro che mi spieghi alquanto diffusamente le parole del sacro testo, per conoscere qual fine abbia avuto Iddio nel comandare il Giubileo.
            Prev. — Dalla Bibbia apparisce chiaro qual fine abbia avuto Iddio nel comandare a Mosè l’osservanza del Giubileo. Innanzitutto Iddio, che è tutta carità, voleva che quel popolo si abituasse ad essere benigno e misericordioso verso il prossimo; perciò nell’anno del Giubileo erano rimessi tutti i debiti. Quelli che avevano venduto od impegnato case, vigne, campi od altre cose, in quell’anno riprendevano tutto come primi padroni; gli esiliati facevano ritorno alla loro patria, e gli schiavi senza alcun riscatto erano lasciati in libertà. In questa maniera si impedivano i ricchi di fare acquisti fuori di misura, i poveri potevano conservare il retaggio dei loro antenati, e s’impediva la schiavitù cotanto praticata in quei tempi appresso le nazioni pagane. Inoltre, dovendo il popolo cessare dalle occupazioni temporali, poteva occuparsi liberamente un anno intero nelle cose risguardanti il divin culto, e cosi ricchi e poveri, schiavi e padroni si univano in un cuor solo ed in un’anima sola a benedire e ringraziare il Signore dei benefizi ricevuti.
            Giul. — Forse non sarà a proposito, ma mi nasce una difficoltà: se nell’anno del Giubileo non si seminava, né si raccoglievano i frutti dei campi, di che cosa la gente poteva cibarsi?
            Prev. — In quella occasione, cioè nell’anno del Giubileo, avveniva un fatto straordinario, che è un vero miracolo. Nell’anno precedente il Signore faceva produrre dalla terra tale abbondanza di ogni sorta di frutti, che bastavano per tutto l’anno 49 e 50 e parte del 51. Nel che dobbiamo ammirare la bontà di Dio, il quale, mentre comanda di occuparci delle cose che riguardano al suo divin culto, pensa egli medesimo a tutto ciò, che può abbisognarci pel corpo. Questa massima fu di poi confermata più volte nel Vangelo, specialmente quando Gesù Cristo disse: Non vogliate essere solleciti per dimani, dicendo: Che mangeremo? Che beveremo? Di che ci copriremo? Quaerite primum regnum Dei et iustitiam eius et haec omnia adiicientur vobis. Cercate in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e le altre cose vi saranno aggiunte.
            Giul. — Altro dubbio mi nasce in questo momento: l’anno del Giubileo è ancora presentemente preceduto da’ quell’abbondanza in qualche luogo della terra?
            Prev. — No, o Giuliano, l’abbondanza materiale del Giubileo ebraico durò presso a quel popolo soltanto fino alla venuta del Messia; d’allora in poi, essendosi avverato ciò che figurava il Giubileo antico, cessò quell’abbondanza materiale per dare luogo all’abbondanza di grazie e di benedizioni, che i cristiani possono godere nella santa Cattolica Religione.
            Giul. — Sono assai soddisfatto di quanto mi ha detto (Sopra questa materia si possono consultare CALMET DELL’ AQUILA Diz. Biblico all’articolo Giubileo. — MENOCHIO: Dell’anno cinquantesimo del Giubileo degli Ebrei).

DIALOGO III. Il Giubileo presso i Cristiani
            Giul. — Procurerò di ritenere a mente come il Giubileo era praticato presso agli Ebrei, e come esso sia sorgente di celesti benedizioni in tempi determinati. Ora desidererei ancor di sapere se nel Nuovo Testamento si faccia menzione di Giubileo; perché, se esiste qualche testo a questo proposito, i protestanti sono belli e suonati e dovranno per forza convenire, che i cattolici praticano il Giubileo seguendo il Vangelo.
            Prev. — Sebbene ad ogni cristiano debba bastare che una verità sia registrata in qualunque parte della Bibbia, perché sia per lui regola di fede, tuttavia in questo caso possiamo abbondantemente essere appagati e coll’autorità del Vecchio e con autorità del Nuovo Testamento.
            S. Luca al capo quarto (v. 19) racconta il seguente fatto del Salvatore. Essendo Gesù andato in Nazaret sua patria, gli fu presentata la Bibbia perché ne spiegasse qualche brano al popolo. Egli apri il libro del profeta Isaia e fra le altre applicò a sé stesso le parole seguenti: Lo spirito del Signore mi mandò ad annunziare agli schiavi la liberazione e ai ciechi la ricuperazione della vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a predicar l’anno accettevole del Signore ed il giorno della retribuzione.
            Dalle quali parole, o Giuliano, voi conoscete come il Salvatore ricorda il Giubileo antico, che era tutto materiale e lo nobilita in senso morale, dicendo, che egli annunziava il vero anno della retribuzione, anno gradevole nel quale coi suoi miracoli, colla sua passione e morte avrebbe data la vera libertà ai popoli schiavi del peccato coll’abbondanza di grazie e di benedizioni, che si hanno nella cristiana religione (V. MARTINI in San Luca).
            Anche san Paolo nella seconda lettera ai Corinti parla di questo tempo accettevole, del tempo della salvezza e della santificazione (c. 6, 2).
            Dalle quali parole e da altri fatti del Nuovo Testamento veniamo a conchiudere: 1° Che il Giubileo antico, il quale era tutto materiale, passò di fatto nella legge nuova tutto spirituale. 2° La libertà che il popolo di Dio dava agli schiavi, figurava la compiuta liberazione, che noi acquisteremo colla grazia di Dio, cui mercè siamo liberati dalla dura schiavitù del demonio. 3°. Che l’anno della retribuzione, ovvero del Giubileo, fu confermato nel Vangelo, ricevuto dalla Chiesa e praticato seconda il bisogno dei fedeli, e secondo che le opportunità dei tempi lo permettevano.
            Giul. — Mi persuado sempre più di una verità, che credo fermamente, perché registrata nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Ora desidererei ancora di sapere come questa pratica religiosa siasi conservata nella Chiesa Cattolica.
            Prev. — È questa una cosa di grande importanza, ed io procurerò di soddisfarvi. Siccome l’anno del Giubileo presso agli Ebrei era un anno di remissione e di perdono, cosi fu anche istituito l’anno del Giubileo presso i cristiani, in cui si, concedono grandissime indulgenze, ossia remissione e perdono dei peccati. Di qui avvenne che l’anno del Giubileo presso ai cristiani fu detto anno santo, sia per le molte opere di pietà che i cristiani sogliono esercitare in quell’anno; sia pei grandi favori celesti che in tale congiuntura ognuno si può procacciare.
            Giul. — Non è questo che io voglio dire; io vorrei udire a raccontare il modo con cui questo Giubileo fu introdotto presso ai cristiani.
            Prev. — Per comprendere come il Giubileo è stato introdotto e conservato presso i cristiani, bisogna che io vi noti una credenza religiosa seguita dai primi tempi della Chiesa. Essa consisteva in una grande venerazione che nell’anno del Giubileo, detto nel Vangelo anno di retribuzione, e da san Paolo anno accettevole, tempo di salute, si potesse acquistare una indulgenza plenaria, ovvero la remissione di ogni soddisfazione dovuta a Dio pei peccati. Si vuole che il primo Giubileo sia stato concesso dagli stessi santi Apostoli nell’anno 50 dell’era volgare (V. Scaligero e Petavio).
            I primi Pontefici, che succedettero a s. Pietro nel governo della Chiesa, continuarono a mantenere viva tale pratica religiosa, concedendo grandi favori a quelli che in determinati tempi si recassero in Roma a visitare la chiesa, dove era sepolto il corpo di s. Pietro (V. Rutilio, De Iubileo. Laurea, Navarro, Vittorelli ed altri).
            Imperciocché fu sempre persuasione presso ai cristiani, anche dei primi secoli, che in determinati tempi visitando la chiesa di S. Pietro in Vaticano, dove era stato sepolto il corpo di quel principe degli Apostoli, si guadagnassero straordinari favori spirituali, che noi chiamiamo indulgenze.
            I favori celesti che si speravano, il gran rispetto che tutti i cattolici nutrivano pel glorioso san Pietro, il desiderio di visitare la chiesa, le catene ed il sepolcro del principe degli Apostoli, traeva gente da tutte parti del mondo. In certi anni si vedevano vecchi, giovani, ricchi e poveri partire da lontanissimi paesi, superare i più gravi disagi delle strade per recarsi a Roma, nella piena persuasione di ottenere grandissime indulgenze.
            S. Gregorio Magno, desiderando di secondare lo spirito religioso nei cristiani, e volendo nel tempo stesso regolare il frequente loro concorso a Roma, nel secolo sesto stabili che ogni cento anni si potesse guadagnare l’Indulgenza plenaria, ovvero Giubileo da tutti quelli, che nell’anno secolare, detto anche anno santo, si portassero a Roma per visitare la Basilica Vaticana, dove era stato sepolto il principe degli Apostoli.
            Giul. — Qui incontro una difficoltà: ho letto in alcuni libriccini, che il Giubileo fu instituito solamente nell’anno 1300 da un Papa di nome Bonifacio VIII; e secondo quello che ella dice, sarebbe molto più antico.
            Prev. — So anch’io, che ci sono alcuni libretti stampati, i quali asseriscono essere Bonifacio VIII autore del Giubileo; ma ciò dicono inesattamente, perciocché questo Pontefice fu piuttosto il primo a pubblicare con Bolla l’anno santo, ossia l’Indulgenza plenaria del Giubileo; ma in questa Bolla medesima assicura, che egli non fece altro che stabilire per iscritto quello che già si praticava universalmente presso ai cristiani.

DIALOGO IV. Prima pubblicazione solenne del Giubileo, ovvero anno santo
            Giul. — Questa prima pubblicazione del Giubileo o dell’anno santo è un fatto tanto grave e solenne che io desidererei di udirlo raccontare corredato delle più notabili sue circostanze.
            Prev. — Poiché vi piacciono i racconti, credo opportuno di esporre le cagioni che indussero il Pontefice Bonifacio VIII a pubblicar con solennità speciale una Bolla intorno al primo Giubileo solenne. — Correva l’anno 1300, quando una straordinaria quantità di gente dello Stato Romano e forestiera accorse a Roma in tanto numero che pareva essersi colà aperte le porte del cielo. Sul cominciar del mese di gennaio c’era tale folla di popoli per le vie di quella città, che appena si poteva camminare. A quel fatto commosso il Pontefice comandò, che venisse ricercato quanto si poteva trovare a questo riguardo nelle memorie antiche; e poi fece chiamare alcuni dei più vecchi colà accorsi per sapere da che fossero mossi. Tra gli altri fu un nobile e ricco savoiardo dell’età di centosette anni. Il Papa stesso, alla presenza di parecchi Cardinali, il volle interrogare cosi: Quanti anni avete? — Centosette. — Perché siete venuto a Roma? — Per guadagnare le grandi Indulgenze. — Chi ve lo disse? — Mio padre. — Quando? — Cento anni fa mio padre mi portò seco lui a Roma, e mi disse che ogni cento anni in Roma si potevano ottenere grandissime Indulgenze, e che se io fossi ancora stato vivo di lì a cento anni, non avessi trascurato di recarmi a visitare la Basilica del principe degli Apostoli.
            Dopo costui furono anche fatti venire altri individui vecchi e giovani di varie nazioni, i quali, interrogati dal medesimo Sommo Pontefice, tutti erano d’accordo nell’asserire che avevano sempre inteso a dire, che ogni anno secolare andando a visitare la Basilica di S. Pietro avrebbero lucrato grandi Indulgenze colla remissione di tutti i peccati. In vista di quella universale e costante persuasione il Papa promulgò una Bolla con cui confermava quanto fino allora erasi praticato per tradizione orale. Uno scrittore di quei tempi, famigliare col Pontefice Bonifacio, assicura aver udito quel Papa a dire, che egli era stato mosso a pubblicare la sua Bolla dalla credenza divulgata e ammessa in tutto il mondo cristiano, cioè che fin dalla nascita di Cristo si soleva concedere una grande Indulgenza in ogni anno secolare (Giovanni Cardinale Monaco).
            Giul. — Giacché io vedo che ella ha letto molto, mi porti qualche brano di quella Bolla, affinché io possa essere ben istruito intorno a questa pratica universale della Chiesa.
            Prev. — Sarebbe troppo lunga il riportarvela tutta, io ne recherò il principio, e credo che per voi basterà. Ecco quali sono le parole del Pontefice: «Una fedele e antica tradizione di uomini da lungo tempo vissuti assicura, che a quelli i quali vengono a visitare l’onorevole Basilica del principe degli Apostoli in Roma, sono concesse grandi Indulgenze e remissione dei peccati. Noi pertanto, che per dovere del nostro uffizio desideriamo e ci adoperiamo con tutto l’animo di procurare la salute delle anime, colla nostra autorità apostolica approviamo e confermiamo tutte le Indulgenze mentovate, e le rinnoviamo autenticandole col presente nostro scritto.» Dopo di che il Papa espone i motivi che lo indussero a concedere tali Indulgenze, e quali siano le obbligazioni da adempiersi da coloro che le vogliono acquistare.
            Conosciuta la Bolla del Papa, è incredibile l’entusiasmo che si destò da ogni parte per fare il pellegrinaggio a Roma. Dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Spagna, dalla Germania venivano in folla i pellegrini di ogni età, condizione, nobili e sovrani. Il numero dei forestieri a Roma giunse fino a due milioni contemporaneamente. La qual cosa avrebbe prodotto una grave carestia, se il Papa non avesse per tempo provveduto al bisogno, facendo venire viveri da altri paesi.
            Giul. — Ora comprendo benissimo quanto nella Chiesa sia antica la pratica del Giubileo, ma quello che celebriamo oggidì, mi pare assai diverso; sia perché se ne parla più spesso, sia perché non si va più a Roma per acquistarlo.
            Prev. — Mi fate opportuna osservazione; e a questo proposito vi dirò che il Giubileo, secondo la Bolla di papa Bonifacio, doveva avere luogo ogni cento anni; ma siccome tale spazio di tempo è troppo lungo e troppo breve è la vita dell’uomo, perché tutti ne possano approfittare, cosi da un Papa di nome Clemente VI fu ridotto ad ogni cinquant’anni, come appunto era quello degli Ebrei. Poi un altro Pontefice di nome Gregorio XI lo restrinse ad ogni trentatré anni in memoria dei trentatré anni della vita del Salvatore; finalmente il Papa Paolo Secondo, per fare in modo che quelli eziandio, che muoiono giovani, potessero acquistare l’Indulgenza del Giubileo, stabili che avesse luogo ogni venticinque anni. Così nella Chiesa fu praticato fino ad oggidì. Inoltre l’obbligazione di recarsi a Roma impediva che molti o per distanza, o per età, o per malattia potessero approfittare dei favori spirituali del Giubileo. Per la qual cosa i romani Pontefici concedettero la medesima Indulgenza, ma invece dell’obbligazione di recarsi a Roma, sogliono imporre alcune obbligazioni da adempiersi da quelli che vogliono fare il santo Giubileo.
            Noi abbiamo già nella storia ecclesiastica registrati 20 anni santi, ossia venti anni in cui fu pubblicato dai Pontefici in tempi diversi il favore del Giubileo.
            L’ultimo di quelli, che vennero celebrati, fu celebrato da Leone XII l’anno 1825. Doveva parimenti pubblicarsi l’anno 1850, ma le pubbliche turbolenze di quell’ epoca non permisero di poterlo fare. Ora stiamo celebrando quello del Sommo Pontefice Pio IX, che è veramente l’anno santo del 1875.
            Giul. — Il presente Giubileo perché fu concesso dal Papa?
            Prev. — Quello che il Papa concede presentemente, è un Giubileo ordinario. I motivi poi di questo Giubileo sono la conversione dei peccatori, e particolarmente degli eretici; la pace fra i principi cristiani ed il trionfo della santa Cattolica Religione sopra l’eresia; e per aggiunta il santo Padre si è proposto anche il fine di ottenere da Dio lumi particolari per conoscere molte proposizioni erronee che da qualche tempo si vanno spargendo tra fedeli con grave danno della fede e con pericolo di eterna dannazione per molti. Il Papa nella sua Enciclica dà ragione di quanto fa; ed in fine prescrive le opere da eseguirsi per l’acquisto delle sante Indulgenze.
            Giul. — Pare a lei, signor Prevosto, che le cose di religione vadano tanto male? Gli eretici si convertono di quando in quando in gran numero alla Cattolica Religione; il Cattolicismo trionfa e progredisce molto nelle missioni straniere.
            Prev. — È vero, mio buon Giuliano, che la Religione Cattolica prospera assai nelle missioni straniere; è vero altresì che da alcuni anni in qua, molti ebrei, eretici, particolarmente protestanti, rinunziarono ai loro errori per abbracciare la santa Cattolica Religione, ed appunto per questi progressi il demonio fa tutti i suoi sforzi per sostenere e spargere l’eresia e l’empietà. Del resto in quante maniere oggidì la religione è disprezzata in pubblico ed in privato, nei discorsi, nei giornali, nei libri! Non vi è cosa santa e veneranda che non sia presa di mira e non sia censurata e motteggiata. Prendete, io vi do la lettera che il Papa scrive a tutti i Vescovi della cristianità, leggetela con vostro comodo; in essa vi sono accennati gli sforzi che l’inferno fa contro la Chiesa in questi tempi, quali favori si possono godere nella circostanza del Giubileo, e quali cose si devono fare per acquistarli. Intanto voi ritenete ben a mente che il Giubileo fu un’istituzione divina; fu Iddio che lo comandò a Mosè. Questa istituzione passò presso ai cristiani, e fu praticata nei primi tempi della Chiesa con qualche modificazione, finché Bonifacio VIII la stabilì regolarmente con una Bolla. Altri Pontefici poi la ridussero alla forma, con cui si osserva oggidì Perciò noi pratichiamo una cosa da Dio comandata, è la facciamo perché è dalla Chiesa ordinata pei nostri bisogni particolari; quindi vi dobbiamo essere solleciti di approfittarne, e professare sentimenti di somma gratitudine verso Dio, che in tante maniere dimostra il suo vivo desiderio, che approfittiamo dei suoi favori, e che pensiamo alla salute dell’anima nostra; e dobbiamo nel tempo stesso professare viva venerazione al Vicario di Gesù Cristo, adempiendo colla massima sollecitudine quanto egli prescrive, a fine di procacciarci i celesti favori (Trattano più diffusamente, quanto fu sopra esposto, il Card. GAETANI: Dell’anno centesimo. — MANNI: Storia dell’anno santo — ZACCARIA: Dell’anno santo).

DIALOGO V. Delle Indulgenze
            Giul. — Siamo ad un punto difficile, di cui ho sempre udito a parlare male dagli antichi miei compagni di eresia, voglio dire delle Indulgenze. Di esse pertanto desidererei essere istruito, appianandomi quelle difficoltà che si presenteranno alla mente mia.
            Prev. — Non mi stupisco che i vostri antichi compagni di eresia abbiano parlato e parlino tuttodì con disprezzo delle Indulgente, perciocché dalle Indulgenze i protestanti tolsero pretesto di separarsi dalla Chiesa Cattolica. Quando voi, o mio Giuliano, avrete una giusta idea delle Indulgenze, ne sarete certamente soddisfatto, e benedirete la divina misericordia, che ci porge un mezzo così facile per guadagnarci i divini tesori.
            Giul. — Mi spieghi adunque che cosa siano queste Indulgenze, ed io mi adopererò per trarne frutto.
            Prev. — Per farvi comprendere ciò che voglia dire Indulgenza, è bene che riteniate come il peccato produca due amarissimi effetti nell’anima nostra: la colpa che ci priva della grazia e dell’amicizia di Dio, e la pena che ne consegue, e che impedisce l’ingresso al paradiso. Questa pena è di due sorta: una eterna, l’altra temporale. La colpa insieme colla pena eterna ci viene totalmente rimessa, mediante i meriti infiniti di Gesù Cristo, nel Sacramento della Penitenza, purché ci accostiamo a riceverlo còlle debite disposizioni. Siccome poi la pena temporale non ci viene sempre tutta rimessa nel detto Sacramento, cosi rimane in grande parte a soddisfare in questa vita per mezzo delle opere buone e della penitenza; ovvero nell’altra per mezzo del fuoco del purgatorio. Egli è su questa verità che erano fondate le penitenze canoniche così severe, che la Chiesa nei primi secoli faceva imporre ai peccatori pentiti. Tre, sette, dieci, sino a quindici e vent’anni di digiuni in pane ed acqua, di privazioni e di umiliazioni, talvolta per tutta intiera la vita; ecco ciò che la Chiesa imponeva per un solo peccato, ed essa non credeva che quelle soddisfazioni sorpassassero la misura di cui il peccatore era debitore alla giustizia di Dio. E chi può mai misurare l’ingiuria che la colpa fa al sommo Iddio e la malizia del peccato? Chi può mai penetrare i profondissimi eterni segreti e sapere quanto la giustizia divina esiga da noi in questa vita per soddisfare i nostri debiti? quanto ci toccherà stare nel fuoco del purgatorio? Ad abbreviare il tempo che ci toccherebbe rimanere in quel luogo di purgazione e ad alleviare la penitenza che dovremmo fare nella vita presente, tendono i tesori delle sante Indulgenze: e queste sono come un cambio delle severe penitenze canoniche quali per molti anni, e talvolta per intiera la vita, come dissi, la Chiesa nei primi tempi usava d’infliggere ai peccatori pentiti.
            Giul. — Mi pare cosa ragionevole, che dopo il perdono del peccato rimanga ancora a soddisfarsi la divina giustizia mediante qualche penitenza; ma che cosa propriamente sono le Indulgenze?
            Prev. — Le Indulgenze sono la remissione della pena temporale dovuta pei nostri peccati, il che si fa per mezzo dei tesori spirituali da Dio affidati alla Chiesa.
            Giul. — Che cosa sono questi tesori spirituali della Chiesa?
            Prev. — Questi tesori spirituali sono i meriti infiniti di nostro Signor Gesù Cristo, quelli della ss. Vergine Maria e dei Santi, come appunto professiamo nel Simbolo degli Apostoli, allorché diciamo: Io credo la Comunione dei Santi. Poiché essendo infiniti, i meriti di Gesù Cristo sovrabbondanti quelli di Maria santissima, che, concepita senza macchia e vissuta senza peccato, nulla perciò pei suoi peccati doveva alla divina giustizia; i Martiri poi ed altri Santi avendo coi loro patimenti, in unione di quelli di Gesù Cristo, soddisfatto più di quanto bisognava per proprio conto: tutte queste soddisfazioni al cospetto di Dio sono quale un tesoro inesauribile, che il Romano Pontefice dispensa secondo l’opportunità dei tempi e secondo i bisogni dei cristiani.
            Giul. — Qui siamo alla grande difficoltà: la Sacra Scrittura non ci parla di Indulgenze. Chi adunque può accordare le Indulgenze?
            Prev. — La facoltà di dispensare le sante Indulgenze risiede nel sommo Pontefice. Poiché in ogni società, in ogni governo, una delle più nobili prerogative del Capo dello Stato è il diritto di far grazie e di commutare le pene. Ora il sommo Pontefice, rappresentante di Gesù Cristo in terra, Capo della grande Società Cristiana, senza dubbio ha diritto di far grazia, di commutare, di rimettere in tutto o in parte le pene incorse pel peccato, in favore di quelli che di cuore fanno ritorno a Dio.
            Giul. — Sopra quali cose si fonda questo potere del sommo Pontefice?
            Prev. — Questo potere, ossia autorità del sommo Pontefice nel dispensare le Indulgenze, è appoggiato sopra le medesime parole di Gesù Cristo. Nell’atto, che egli deputava san Pietro a governare la Chiesa, gli disse queste parole: «Ti darò le chiavi del regno dei cieli, tutto ciò che tu scioglierai sopra la terra, sarà pure sciolto in cielo, e ciò che tu legherai in terra, sarà similmente legato in cielo.» La quale facoltà abbraccia senza dubbio un diritto di poter concedere ai cristiani tutto ciò che può contribuire al bene delle anime loro.
            Giul. — Ma queste parole mi paiono magiche; esse costituiscono san Pietro capo della Chiesa, gli danno la facoltà di rimettere i peccati, la facoltà di fare precetti, di concedere le Indulgenze, e ciò tutto in quelle poche parole!
            Prev. — Le parole dette da Gesù Cristo a san Pietro conferiscono un pieno ed assoluto potere, e questo pieno ed assoluto potere costituisce san Pietro Capo della Chiesa, Vicario di Gesù Cristo, dispensatore di tutti i favori celesti, perciò anche delle sante Indulgenze. Ciò apparisce dacché il Signore gli diede le chiavi del regno dei cieli: Tibi dabo claves regni coelorum; e dalle parole con cui comandò a san Pietro di pascolare, cioè di dispensare ai cristiani ciò che le persone e i tempi avrebbero richiesto da lui pel bene spirituale ed eterno: le quali parole del Salvatore vengono a conchiudere che il potere dato a san Pietro ed ai suoi successori, esclude ogni dubbio sulla facoltà di concedere le Indulgenze.
            Giul. — Capisco benissimo che con queste parole il Salvatore abbia dato specialmente a san Pietro grandi poteri, tra i quali la facoltà di rimettere i peccati; ma non posso comprendere, che sia stata data la facoltà di dispensare le Indulgenze.
            Prev. — Se comprendete benissimo che con quelle parole il Salvatore abbia dato specialmente a san Pietro (come con altre simili diede pure agli altri Apostoli) la facoltà di rimettere i peccati, cioè di perdonare la pena eterna, dovremo dire che non sia stata data facoltà di rimettere la pena temporale per mezzo delle Indulgenze, che in confronto di quella si può dire infinitamente minore?
            Giul. — É vero, è vero: mi dica solo se quelle parole siano state intese in questo senso dagli Apostoli.
            Prev. — Questa è cosa certa, e posso addurvi più fatti notati nella Bibbia; io mi limito ad accennarvene un solo. Questo è di san Paolo, e riguarda ai fedeli di Corinto. Fra quei fervorosi cristiani un giovine aveva commesso un peccato grave, per cui meritò di essere scomunicato. Egli tosto si dimostrò pentito, esternando vivissimo il desiderio di farne la dovuta penitenza. Allora i Corinti pregarono san Paolo, che lo volesse assolvere. Questo Apostolo usò indulgenza, vale a dire lo liberò dalla scomunica, e lo restituì in grembo alla Chiesa, sebbene per la gravezza del peccato, e secondo la disciplina in quel tempo in vigore, avesse dovuto rimanere ancora molto tempo separato dalla Chiesa. Dalle quali parole e da altre del medesimo san Paolo, apparisce che egli stesso legava ed assolveva, cioè usava rigore ed indulgenza, a seconda di come giudicava tornare a maggior vantaggio delle anime.
            Giul. — Sono assai contento di ciò che mi ha narrato delle Indulgenze, come appunto si contiene nella sacra Scrittura. Io sono pienamente sicuro e tranquillo in credere che Iddio ha dato alla Chiesa la facoltà di dispensare le Indulgenze. Mi farebbe per altro assai piacere a dirmi se la dispensa di queste abbia sempre avuto luogo nella Chiesa, perciocché i protestanti dicono che nei primi tempi non si parlava di Indulgenze.
            Prev. — Anche in ciò la sbagliano i protestanti, e la Storia ecclesiastica è piena di fatti, i quali dimostrano la divina istituzione delle Indulgenze e l’uso costante delle medesime fin dai primi tempi della Chiesa. E poiché io so che vi piacciono molto i fatti, cosi voglio raccontarvene alcuni in conferma di quanto vi dico.
            Giul. — I fatti mi piacciono assai, più ancora delle ragioni, e se ne racconterà molti, mi farà gran piacere.
            Prev. — Dopo il tempo degli Apostoli continuò l’uso delle Indulgenze. Nel primo secolo dell’era volgare abbiamo il fatto accennato; nel secondo secolo leggiamo che nel tempo della persecuzione, quando qualche peccatore faceva ritorno alla Chiesa, prima era obbligato a confessare i suoi peccati, quindi gli s’imponeva un tempo fra cui, se si esercitava con fervore in opere di penitenza, avrebbe ottenuto Indulgenza, vale a dire gli sarebbe abbreviato il tempo della penitenza. Per ottenere ciò con maggior facilità si raccomandava a quelli che erano condotti al martirio, di pregare il vescovo, oppure di scrivergli un biglietto, supplicandolo a voler loro usare indulgenza in vista dei patimenti dei martiri e cosi conceder ad essi pace con Dio e colla Chiesa (Tertulliane, Ad maj. 1, I).
            Nel secolo terzo san Cipriano, scrivendo ai fedeli detenuti in carcere, li avvisa di non intercedere troppo facilmente l’Indulgenza per quelli che la domandano, ma d’aspettare che essi diano sufficienti segni di dolore e di pentimento delle proprie colpe. Dalle quali parole apparisce che nei tempi di san Cipriano erano in uso le Indulgenze, e che il santo raccomandava ai martiri, che andassero cauti a non interporre la loro mediazione presso i Vescovi, se non per quelli che si mostrassero sinceramente pentiti (Ep. 21, 22, 23).
            Nel secolo quarto, nell’anno 325, fu radunato un Concilio generale nella città di Nicea, in cui si trattarono più cose riguardanti al bene universale della Chiesa. Venendosi poi a parlare delle Indulgenze, vi si stabili, che coloro i quali fanno penitenza possano ottenere Indulgenza dal Vescovo; e che i più negligenti debbano fare la loro penitenza pel tempo stabilito. Il che non è altro se non concedere l’Indulgenza a quelli e negarla a questi (Concilio Nicea, canone 11, 12).
            Nei tempi posteriori i fatti sono senza numero. S. Gregorio Magno in una lettera scritta al Re dei Visigoti mandò una piccola chiave che aveva toccato il corpo di san Pietro, ed aveva dentro di sé un po’ di limatura delle catene con cui era stato legato quel santo Apostolo, affinché, dice il Papa, ciò che aveva servito a legare il collo dell’Apostolo quando andava al martirio, vi assolva da tutti i vostri peccati. Il che i santi Padri interpretano nel senso d’Indulgenza plenaria, che il Papa mandava insieme con quella chiave benedetta.
            San Leone Papa, nell’anno ottocentotre, essendosi con gran comitiva di cardinali, di arcivescovi, prelati, recato dall’Imperatore Carlo Magno, fu dal pio sovrano ricevuto colla massima pompa. Quel monarca domandò ed ottenne come favore particolare che dedicasse il palazzo reale di Aquisgrana (Aix-la-Chapelle) alla beata Vergine, e che lo arricchisse di molte indulgenze da lucrarsi da coloro che fossero andati a visitarlo. Se volete che io vi racconti ancora altri fatti, potrei recitarvi quasi tutta la Storia ecclesiastica e segnatamente la Storia delle Crociate, nelle quali circostanze i Papi concedevano l’Indulgenza plenaria a quelli che si arruolavano per andare in Palestina a liberare i Luoghi Santi.
            Per conclusione e conferma di quanto ho detto finora, vi espongo qui la dottrina della Chiesa Cattolica intorno alle Indulgenze come fu definita nel Concilio Tridentino:
            «La facoltà di dispensare le Indulgenze essendo stata da Cristo concessa alla Chiesa, di questa facoltà la Chiesa se ne è fin da remotissimi tempi servita; perciò il sacrosanto Concilio comanda ed insegna doversi ritenere che le Indulgenze sono utili alla salute del cristiano, come è provato dall’autorità dei Concili. Chi poi dice che le Indulgenze sono inutili, o nega che nella Chiesa vi sia la facoltà di dispensarle, sia anatema: sia scomunicato (Sess. 25, cap. 21).»
            Giul. — Basta, basta, se la facoltà di dispensare le Indulgenze fu data da Dio alla Chiesa, fu praticata dagli Apostoli, e dai loro tempi è sempre stata in uso nella Chiesa in ogni secolo fino ai nostri giorni, dobbiamo dire schiettamente che i protestanti sono in grave errore quando si fanno a censurar la Chiesa Cattolica, perché dispensa le sante Indulgenze, quasi che l’uso delle medesime non sia stato praticato nei primi tempi della Chiesa.

DIALOGO VI. Acquisto delle Indulgenze
            Prev. — Mentre noi ammiriamo la bontà di Dio nel dispensare le sante Indulgenze, nel concedere celesti tesori che non diminuiscono, né diminuiranno mai tuttoché se ne spandano, come un immenso oceano che non soffre diminuzione per quanta acqua si attinga, dobbiamo tuttavia adempire alcune obbligazioni per lo acquisto delle medesime. Innanzitutto, è bene sottolineare che non essere in libertà di ciascun cristiano di servirsi di questi divini tesori a suo piacimento; ne godrà solamente quando, come ed in quella maggiore o minore quantità, che la santa Chiesa ed il sommo Pontefice determina. Quindi le Indulgenze si distinguono comunemente in due classi: le parziali, ovvero di alcuni giorni, mesi od anni, e plenarie. Per esempio, dicendo: Gesù mio, misericordia, si guadagnano cento giorni di Indulgenza. Quando si dice: Maria, aiuto dei cristiani, pregate per noi, se ne lucrano 300 giorni. Ogni volta poi che si accompagna il Viatico ad un infermo, si possono guadagnare sette anni d’Indulgenza. Queste indulgenze sono parziali.
            L’Indulgenza plenaria è quella, per la quale ci viene rimessa tutta la pena, di cui pei nostri peccati siamo debitori con Dio; tale appunto è quella, che il Papa concede nell’occorrenza di questo Giubileo. Lucrando questa indulgenza, voi tornate ad essere dinanzi a Dio, come eravate quando siete nato, quando cioè siete stato battezzato; a segno che, se uno morisse dopo aver lucrato l’Indulgenza del Giubileo, andrebbe al paradiso senza toccare le pene del purgatorio.
            Giul. — Io desidero di tutto cuore di guadagnare questa Indulgenza plenaria; mi notifichi soltanto qual cosa io debba fare.
            Prev. — Per lucrare questa, come ogni altra Indulgenza, si ricerca anzitutto che uno sia in grazia di Dio, perché colui il quale dinanzi a Dio è reo di colpa grave e di pena eterna, certamente non è, né può essere capace di ricevere la remissione della pena temporale. È pertanto ottimo consiglio che ciascun cristiano, il quale desideri di acquistar indulgenze quando e come sono concesse, si accosti al Sacramento della confessione, procurando di eccitarsi ad un vero dolore, e fare un fermo proponimento di non più offendere Dio in avvenire.
            La seconda condizione è l’adempimento di quanto il romano Pontefice prescrive. Imperocché la santa Chiesa nell’aprire il tesoro delle sante Indulgenze, obbliga sempre i fedeli a qualche opera buona da farsi in tempo e luogo determinato. E ciò per preparare il nostro cuore ad accogliere quei favori straordinari, che la misericordia di Dio ci tiene preparati. Cosi per acquistare l’Indulgenza di questo Giubileo il sommo Pontefice vuole che ognuno si accosti ai Sacramenti della Confessione e della Comunione, visiti devotamente quattro chiese per 15 volte di seguito o alternativamente, pregando secondo la sua intenzione, per l’esaltazione e prosperità della nostra santa madre Chiesa, per la estirpa zione dell’eresia, per la pace e concordia dei principi cristiani, per la pace ed unità di tutto il popolo cristiano.
            Giul. — Bastano queste cose per guadagnare l’Indulgenza del Giubileo?
            Prev. — Non bastano queste due cose, ma ce ne manca ancor una, che è la principale. Si richiede che si detestino tutti i peccati anche veniali, e di più si deponga l’affetto a tutti ed a ciascuno dei medesimi. E ciò noi faremo certamente, se ci disporremo a praticare quelle cose, che il confessore c’imporrà, ma sopra tutto se faremo una ferma ed efficace risoluzione di non voler mai più commettere alcun peccato, se ne eviteremo le occasioni e praticheremo i mezzi per non più ricadere. Il sommo Pontefice Clemente VI per eccitare i cristiani di tutto il mondo all’acquisto del Giubileo, diceva: «Gesù Cristo colla sua grazia e colla sovrabbondanza dei meriti di sua passione lasciò alla Chiesa militante qui in terra un infinito tesoro non nascosto entro un lenzuolo, né sotterrato in un campo, ma lo commise da dispensarsi salutevolmente ai fedeli, lo commise al beato Pietro, che porta le chiavi del cielo, ed ai suoi successori Vicari di Gesù Cristo in terra; al quale tesoro somministrano amminicolo i meriti della beata Madre di Dio e di tutti gli eletti (Clem. VI. DD. cut.)»
            Ora, o mio caro Giuliano, avete imparato quanto è necessario per acquistare questa Indulgenza plenaria, e poiché fra le altre cose è prescritto di fare una visita a quattro chiese, così io vi metterò qui le occorrenti pratiche devote, che vi potranno servire in ciascuna di tali visite (Chi desiderasse istruirsi vie più intorno alle sante indulgenze potrebbe consultare il MORONI articolo: Indulgenze. Magnum Theatrum vitae humanae. Artic. Indulgentia. — BERGIER Indulgenze. — FERRARI in Biblioteca).

Per maggior comodità vengono qui riassunte le intenzioni della Chiesa nel promulgare questo Giubileo, i favori concessi durante il medesimo e le condizioni per acquistare l’Indulgenza Plenaria.

INTENZIONI DELLA CHIESA NEL PROMULGARE IL GIUBILEO
            Le intenzioni della Chiesa nell’invitarci a prender parte al Giubileo, sono: 1° di rinnovare la memoria della nostra Redenzione e di eccitarci perciò ad una viva gratitudine verso il Divin Salvatore; 2° di ravvivare in noi i sentimenti di fede, di religione e di pietà; 3° di premunirci mercè i più abbondanti lumi che il Signore largisce in questo tempo di salute, contro gli errori, l’empietà, la corruzione e gli scandali che da tutte parti ne attorniano; 4° di ridestare ed accrescere lo spirito di preghiera che è l’arma del cristiano; 5° di eccitarci alla penitenza del cuore, a emendare i costumi e a redimere con buone opere i peccati, che ci attirarono l’ira di Dio; 6° di ottenere mediante questa conversione dei peccatori e il maggior perfezionamento dei giusti, che Iddio anticipi nella sua misericordia il trionfo della Chiesa in mezzo alla crudele guerra che le fanno i suoi nemici.
            A queste intenzioni dobbiamo noi pure associarci nelle nostre preghiere.

FAVORI SPECIALI CONCESSI NEL TEMPO DEL GIUBILEO
            Onde incoraggiare i peccatori a partecipare al Giubileo, è dato in tutto quest’anno santo ad ogni confessore la facoltà di assolvere da qualsiasi peccato anche riservato al Vescovo od al Papa; nonché di commutare in altre opere di pietà i voti, di quasi ogni specie, che uno avesse fatto e che non potesse osservare.
            Ognuno poi, adempiendo alle condizioni qui sotto indicate, può in questa circostanza acquistare non solo la remissione di tutti i suoi peccati, ma anche l’Indulgenza Plenaria, vale a dire la remissione di tutta la pena temporale che ancora gli rimarrebbe a scontare in questo mondo o nel purgatorio.
            Tale indulgenza è applicabile alle anime del Purgatorio, ma si può acquistare una volta sola nel corso del Giubileo.
            Il tempo del Giubileo è cominciato col 1° Gennaio e finisce col 31 Dicembre 1875.

CONDIZIONI PER ACQUISTARE L’INDULGENZA DEL GIUBILEO
            1° Confessarsi colle dovute disposizioni, meritando l’assoluzione con un vero pentimento.
            2° Accostarsi degnamente alla Comunione: quelli che non fossero ancora ammessi potranno farsela commutare in un’opera pia dal confessore. Non basta una sola Comunione a soddisfare in pari tempo al precetto pasquale e ad acquistare il Giubileo.
            3° Visitare per quindici giorni di seguito od interpolati quattro Chiese con intenzione di acquistare il Giubileo; la qual intenzione basta metterla una volta da principio. La visita deve esser fatta a tutte quattro le Chiese (Per Torino sono designate le Chiese di s. Giovanni, della Consolata, dei ss. Martiri e di s. Filippo. Negli altri luoghi ciascuno si consigli col proprio parroco o direttore) nello stesso giorno. Si può però calcolare per un giorno solo il tempo dai primi vespri di un giorno fino a tutto il giorno seguente; così, per esempio, da mezzo giorno d’oggi a tutto dimani si può calcolare un giorno solo. Non basterebbe visitare una Chiesa per giorno. Però in caso di grave impedimento i confessori hanno facoltà di modificare le visite od anche commutarle in altre opere pie. Le visite possono farsi prima o dopo la Confessione e Comunione, od anche frammezzo. Non è necessario, ma è sommamente desiderabile che si facciano in stato di grazia, cioè senza peccato mortale sulla coscienza.
            Non sono prescritte preghiere speciali nel far queste visite, e può bastare che uno si trattenga circa un quarto d’ora in ciascuna Chiesa recitando gli Atti di Fede, di Speranza, ecc. con cinque Pater, Ave e Gloria, pregando secondo l’intenzione della Chiesa e del Papa.
            Per comodo però dei devoti si mettono qui alcune considerazioni che possono servire di lettura nel fare queste visite.

VISITA ALLA PRIMA CHIESA. La confessione
            Un tratto grande della misericordia di Dio verso i peccatori lo abbiamo nel Sacramento dalla Confessione. Se Dio avesse detto di perdonarci i peccati solamente col Battesimo, e non più quelli che per disgrazia si sarebbero commessi dopo aver ricevuto questo Sacramento, oh! quanti cristiani se ne andrebbero alla eterna perdizione! Ma Iddio conoscendo la nostra miseria stabili un altro Sacramento, con cui ci sono rimessi i peccati commessi dopo il Battesimo. E questo il Sacramento della Confessione. Ecco come parla il Vangelo: Otto giorni dopo la sua risurrezione Gesù apparve ai suoi discepoli e loro disse: La pace sia con voi, Come il Padre celeste mandò me, cosi io mando voi, cioè la facoltà datami dal Padre Celeste di fare quanto è bene per la salvezza delle anime, la medesima io do a voi. Di poi il Salvatore soffiando sopra di loro disse: Ricevete lo Spirito Santo, quelli a cui rimetterete i peccati, saranno rimessi; quelli a cui li riterrete, saranno ritenuti. Ognuno comprende che le parole ritenere o non ritenere vogliono dire dare o non dare l’assoluzione. Questa è la grande facoltà data da Dio ai suoi Apostoli e ai loro successori nell’ amministrazione dei Santi Sacramenti.
            Da queste parole del Salvatore nasce una obbligazione ai sacri Ministri di ascoltare le confessioni, e nasce ugualmente l’obbligazione pel cristiano di confessare le sue colpe, affinché si conosca quando si deve dare o non dare l’assoluzione, quali consigli suggerire per rimediare al male fatto, dare insomma tutti quei paterni avvisi che sono necessari per riparare ai mali della vita passata e non commetterli più in avvenire.
            Né la confessione fu cosa praticata solamente in qualche tempo e in qualche luogo. Appena gli Apostoli cominciarono a predicare il Vangelo, tosto cominciò a praticarsi il Sacramento della Penitenza. Leggiamo che quando s. Paolo predicava in Efeso, molti fedeli che già avevano abbracciata la fede, venivano ai piedi degli Apostoli e confessavano i loro peccati. Confitentes et annunciantes actus suos. Dal tempo degli Apostoli fino a noi fu sempre osservata la pratica di questo augusto Sacramento. La Chiesa Cattolica condannò in ogni tempo come eretico chiunque ebbe ardimento di negare questa verità. Neppure vi è alcuno il quale se ne sia potuto dispensare. Ricchi e poveri, servi e padroni, re, monarchi, imperatori, sacerdoti, vescovi, i medesimi Sommi Pontefici, tutti devono piegare le ginocchia ai piè d’un sacro ministro per ottenere il perdono di quelle colpe, che per avventura avessero commesse dopo il Battesimo. Ma ohimè! quanti cristiani approfittano male di questo Sacramento! Chi si accosta senza fare l’esame, altri si confessano con indifferenza, senza dolore o senza proponimento; altri poi tacciono cose importanti in confessione, o non adempiono le obbligazioni imposte dal confessore. Costoro prendono la cosa più santa e più utile per servirsene a rovina di loro medesimi. S. Teresa ebbe a questo proposito una tremenda rivelazione. Ella vide che le anime cadevano giù all’inferno come cade la neve d’inverno sul dorso delle montagne. Spaventata di quella visione domandò a Gesù Cristo la spiegazione, e n’ebbe in risposta, che coloro andavano alla perdizione per le confessioni mal fatte in vita loro.
            Per animarci poi ad andarci a confessare con piena sincerità consideriamo che il sacerdote, che ci attende nel tribunale di penitenza, ci attende a nome di Dio e a nome di Dio perdona i peccati degli uomini. Se vi fosse un reo condannato a morte per grave delitto, e nell’atto di essere condotto al patibolo si presentasse a lui il ministro del re dicendo: La tua colpa è perdonata; il re ti fa grazia della vita, e ti accoglie fra’ suoi amici, e perché tu non dubiti di quanto dico, ecco il decreto che mi autorizza a rivocarti la sentenza di morte, quali sentimenti di gratitudine e di amore non esprimerebbe questo colpevole verso il re e verso il suo ministro! Ciò avviene appunto di noi. Noi siamo veri colpevoli che peccando abbiamo meritata la pena eterna dell’inferno. Il ministro del Re dei re a nome di Dio nel tribunale di penitenza ci dice: Iddio mi manda a voi per assolvervi dalle vostre colpe, per chiudervi l’inferno, aprirvi il Paradiso, per restituirvi in amicizia con Dio. Affinché poi non dubitiate della facoltà a me data, ecco un decreto segnato dal medesimo Gesù Cristo, che mi autorizza a richiamare da voi la sentenza di morte. Il decreto viene espresso così: Quelli, a cui rimetterete i peccati, sono rimessi; quelli a cui li riterrete, sono ritenuti. Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis, quorum retinueritis, retenta sunt. Con quale stima e venerazione dobbiamo accostarci verso di un ministro che a nome di Dio può farci tanto bene ed impedirci tanto male!
            Un motivo poi tutto speciale ci deve animare a dire ogni colpa al confessore, ed è che in occasione di Giubileo egli ha facoltà di assolvere da qualunque peccato anche riservato. Chiunque avesse incorse censure, scomuniche ed altre pene ecclesiastiche può essere assolto da qualunque confessore senza ricorrere né al Vescovo né al Papa.
            Né ci tenga lontani dalla confessione il timore che il confessore sia per rivelare ad altri le cose udite in confessione. No, questo non fu mai per lo passato, né mai lo sarà per 1’ avvenire. Un buon padre tiene senza dubbio sotto segreto le confidenze dei suoi figli. Il confessore è un vero padre spirituale; perciò anche umanamente parlando egli tiene sotto rigoroso segreto quanto gli palesiamo. Ma vi è di più; un precetto assoluto, naturale, ecclesiastico e divino stringe il confessore a tacere qualsiasi cosa udita in confessione. Si trattasse anche d’impedire un grave male, di liberare sé stesso e tutto il mondo dalla morte, egli non può servirsi di una notizia avuta in confessione, a meno che il penitente gli doni espressa facoltà di parlarne. Va dunque, o cristiano, va spesso da questo amico, più sovente andrai da lui, più ti assicurerai di camminare per la via del cielo; più sovente andrai da lui, ti verrà sempre più confermato il perdono dei tuoi peccati, e ti verrà assicurata quella eterna felicità promessa da quel medesimo Gesù Cristo, che diede un sì grande potere ai suoi ministri. Non ti ritenga la moltitudine, né la gravezza delle colpe. Il sacerdote è ministro della misericordia di Dio, che è infinita. Perciò egli può assolvere qualsiasi numero di peccati, comunque siano gravi. Portiamo soltanto il cuore umiliato e contrito, e poi avremo certo il perdono. Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies:

PREGHIERA
            O Gesù mio, che siete morto in croce per me, io vi ringrazio di tutto cuore, che non mi abbiate fatto morire in peccato; sin da questo momento io mi converto a voi, vi prometto di lasciare il peccato e di osservare fedelmente i vostri comandamenti per tutto quel tempo che mi lascerete in vita. Sono pentito di avervi offeso; per l’avvenire vi voglio amare e servire fino alla morte. Vergine SS. Madre mia, aiutatemi in quell’ultimo punto di vita. Gesù, Giuseppe, Maria, spiri in pace con voi l’anima mia! — Tre Pater, Ave e Gloria.

VISITA ALLA SECONDA CHIESA. La santa Comunione
            Comprendi, o cristiano, che vuol dire fare la santa comunione? Vuol dire accostarsi alla mensa degli angeli per ricevere il corpo, il sangue, l’anima e la divinità di nostro Signor Gesù Cristo, che viene dato in cibo all’anima nostra sotto alle specie del pane e del vino consacrato. Alla Messa, al momento che il sacerdote proferisce sul pane e sul vino le parole della consacrazione, il pane ed il vino diventano corpo e sangue di Gesù Cristo. Le parole usate dal nostro divin Salvatore nell’istituire questo Sacramento sono: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue: Hoc est corpus meum, hic est calix sanguinis mei.
            Queste parole usano i sacerdoti a nome di Gesù Cristo nel sacrificio della Santa Messa. Perciò quando noi andiamo a fare la Comunione riceviamo il medesimo Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità, cioè vero Dio e vero uomo, vivo come è in cielo. Non è la sua immagine, nemmeno la sua figura, come è una statua, un crocifisso, ma è Gesù Cristo medesimo siccome è nato dall’Immacolata Vergine Maria e per noi morto sulla croce. Gesù Cristo medesimo ci assicurò di questa sua reale presenza nella santa Eucaristia quando disse: Questo è il mio corpo, che sarà dato per la salvezza degli uomini: Corpus quod pro vobis tradetur. Questo è quel pane vivo che discese dal Cielo: Hic est panis vivus qui de coelo descendit. Il pane che io darò è la mia carne. La bevanda che io darò è il mio vero sangue. Chi non mangia di questo mio corpo e non beve di questo sangue non ha con sé la vita.
            Gesù avendo istituito questo Sacramento pel bene delle anime nostre desidera che noi vi ci accostiamo sovente. Ecco le parole con cui egli ci invita: «Venite a me tutti, o voi, che siete stanchi ed oppressi ed io vi solleverò: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos. Altrove diceva agli Ebrei: I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono; ma colui che mangia il cibo figurato nella manna, quel cibo che io do, quel cibo che è il mio corpo e il mio sangue, egli più non morrà in eterno. Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue egli abita in me ed io in lui; imperocché la mia carne è un vero cibo, e il mio sangue una vera bevanda.» Chi mai potrebbe resistere a questi amorevoli inviti del divin Salvatore? Per corrispondere a questi inviti, i cristiani dei primi tempi andavano ogni giorno ad ascoltare la parola di Dio ed ogni giorno si accostavano alla santa comunione. Egli è in questo sacramento che i martiri trovavano la loro fortezza, le vergini il loro fervore, i santi il loro coraggio.
            E noi con quale frequenza ci accostiamo a questo cibo celeste? Se esaminiamo i desideri di Gesù Cristo e il nostro bisogno, dobbiamo comunicarci assai sovente. Siccome la manna ogni giorno servi di cibo corporale agli Ebrei in tutto il tempo che vissero nel deserto finché furono condotti nella terra promessa, cosi la santa Comunione dovrebbe essere il nostro conforto, il cibo quotidiano nei pericoli di questo mondo per guidarci alla vera terra promessa del Paradiso. S. Agostino dice così: Se ogni giorno domandiamo a Dio il pane corporale, perché non procureremo anche cibarci ogni giorno del pane spirituale colla santa Comunione? S. Filippo Neri incoraggiava i cristiani a confessarsi ogni otto giorni e a comunicarsi anche più spesso secondo l’avviso del confessore. Finalmente la santa Chiesa manifesta il vivo desiderio della frequente Comunione nel Concilio Tridentino, ove dice: «Sarebbe cosa sommamente desiderabile che ogni fedele cristiano si mantenesse in tale stato di coscienza da poter fare non solo spiritualmente, ma sacramentalmente la santa comunione ogni volta che interviene alla santa Messa.»
            Taluno dirà: Io sono troppo peccatore. Se tu sei peccatore procura di metterti in grazia col Sacramento della Confessione, e poi accostati alla santa Comunione, e ne avrai grande aiuto. Un altro dirà: Mi comunico di rado per avere maggior fervore. E questo un inganno. Le cose che si fanno di rado per lo più si fanno male. D’altronde essendo frequenti i tuoi bisogni, frequente deve essere il soccorso per l’anima tua. Alcuni soggiungono: Io sono pieno d’infermità spirituali e non oso comunicarmi sovente. Risponde Gesù Cristo: Quelli che stanno bene non hanno bisogno del medico: perciò quelli che sono maggiormente soggetti ad incomodi, loro è mestieri essere sovente visitati dal medico. Coraggio adunque, o cristiano, se tu vuoi fare un’azione la più gloriosa a Dio, la più gradevole a tutti i santi del cielo, la più efficace per vincere le tentazioni, la più sicura a farti perseverare nel bene, ella è certamente la santa Comunione.

PREGHIERA
            Perché mai, o Gesù mio, la vostra Chiesa, mia madre, vuol ch’io giubili in quest’anno? Vi è forse un motivo di gioia più che in altri tempi? Ah! L’essere voi qui in terra, il poterci unire a Voi nella santa Comunione non è egli un motivo sopra ogni altro da farci giubilare continuamente? Per me non vedo altro che rallegri il mio cuore fuori di Voi, vero sposo della Chiesa trionfante, solo consolatore e fortificatore della Chiesa militante. Ma come dunque si stabilì di destinare al giubilo un anno in particolare? Ah, pur troppo, o Gesù mio, che di questo gran bene della Comunione non ne facciamo quel caso che ne dovremmo fare! pur troppo che ci dimentichiamo facilmente di questo incomprensibile tesoro, per il che la vostra sposa, la nostra madre tenerissima, è costretta di quando in quando a risvegliar la nostra attenzione per farci tornare a voi. Ecco, ecco il perché vuol essa ch’io giubili. Non vuol già ch’io giubili solo in quest’ anno, ma con questo mezzo vuol richiamarmi a Voi, che mai avrei dovuto perdere e da cui mai avrei dovuto allontanarmi. Deh! legatemi a Voi nella santa comunione con tale vincolo che non si sciolga mai più in eterno. Tre Pater, Ave e Gloria.

VISITA ALLA TERZA CHIESA. La limosina
            Un mezzo molto efficace, ma assai trascurato dagli uomini per guadagnarci il paradiso è la limosina. Per limosina io intendo qualunque opera di misericordia esercitata verso il prossimo per amor di Dio. Iddio dice nella santa scrittura, che la limosina ottiene il perdono dei peccati, quando anche fossero in grande moltitudine Charitas operit multitudinem peccatorum. Il divin Salvatore dice nel Vangelo così: Quod superest date pauperibus. Ciò che sopravanza ai vostri bisogni datelo ai poveri. Chi ha due vesti ne dia una al bisognoso e chi ha già oltre il necessario, ne faccia parte a chi ha fame (Luca 3). Dio ci assicura che quanto facciamo pei poveri, egli lo considera come fatto a sé medesimo: tutto quello dice G. C., che farete ad uno de’ miei fratelli più infelici, lo avete fatto a me (Matt. 25). Desiderate poi che Dio vi perdoni i peccati e vi liberi dalla morte eterna? Fate limosina. Eleemosyna ab omni peccato et a morte liberat. Volete impedire che la vostra anima vada alle tenebre dell’inferno? Fate limosina. Eleemosyna non partietur animam ire ad tenebras (Tob. 4). Insomma ci assicura Iddio che la limosina è un mezzo efficacissimo per ottenere il perdono dei nostri peccati, farci trovare misericordia agli occhi suoi e condurci alla vita eterna. Eleemosyna est quae purgat a peccato, facit invenire misericordiam et vitam aeternam.
            Se dunque desideri che Iddio usi misericordia a te, comincia tu ad usarla verso i poveri. Tu dirai: io faccio quel che posso. Ma bada bene che il Signore ti dice di dare ai poveri tutto il superfluo: quod superest date pauperibus. Perciò io ti dico che sono superflui quegli acquisti e quegli aumenti di ricchezze, che tu fai di anno in anno. Superflua quella squisitezza che tu procuri per gli oggetti di tavola, dei pranzi, dei tappeti, degli abiti che potrebbero servire per chi ha fame, per chi ha sete, e a coprire i nudi.  Superfluo quel lusso nei viaggi, nei teatri, nei balli ed altri divertimenti dove si può dire che va a terminare il patrimonio dei poveri.
            Pare opportuno di notare qui l’interpretazione che alcuni danno al precetto del superfluo non certamente secondo le parole di Gesù Cristo: E un consiglio, dicono essi, perciò, data una parte del superfluo in limosina, possiamo spendere il resto a nostro piacimento. Io rispondo che il Salvatore non fissò alcuna parte; le sue parole sono positive, chiare e senza distinzione: Quod superest date pauperibus. Date il superfluo ai poveri. Affinché poi ognuno fosse persuaso che la severità del suo comando era motivata dall’abuso che molti ne fanno e per cui corrono grave rischio di perdersi eternamente; volle aggiungere queste altre parole: E più facile che un cammello passi pel foro di un ago, che un ricco si salvi, condannando cosi i vani pretesti con cui i possessori di sostanze temporali studiano di esimersi dal dare il superfluo ai poveri.
            Taluno poi dice con verità: Io non ho ricchezze. Se non hai ricchezze, dà quello che puoi. Per altro non ti mancano mezzi e modi per far limosina. Non vi sono infermi da visitare, da assistere, da vegliare? Non vi sono giovani abbandonati da accogliere, istruire, albergare in tua casa, se puoi, o almeno condurli dove possono imparare la scienza della salute? Non vi sono peccatori da ammonire, dubbiosi da consigliare, afflitti da consolare, risse da calmare, ingiurie da perdonare? Vedi con quanti mezzi tu puoi fare limosina e meritarti la vita eterna! Di più non puoi tu fare qualche preghiera, qualche confessione, comunione, recitare un rosario, ascoltare una messa in suffragio delle anime del purgatorio, per la conversione dei peccatori, o perché siano illuminati gli infedeli e vengano alla fede? Non è eziandio una grande limosina mandare alle fiamme libri perversi, diffondere libri buoni e parlare quanto puoi in onore della nostra santa Cattolica Religione?
            Altro motivo ancora, che deve eccitarti a fare limosina, è quello che accenna il Salvatore nel Santo Vangelo. Egli dice cosi: Voi non darete ai poveri un bicchiere di acqua fresca, senza che il Padre celeste ve ne dia la mercede. Di tutto quello che darete ai poveri, ne avrete il centuplo nella vita presente ed una ricompensa nella vita eterna. Di modo che il dare qualche cosa ai poveri nella vita presente è un moltiplicare, ovvero è un dare a mutuo del cento per uno anche nella vita presente, riserbandoci poi Iddio la piena ricompensa nell’altra vita.
            Ecco la ragione per cui si vedono tante famiglie dare copiose limosino da tutte lo parti e crescere sempre di ricchezze in ricchezze e di prosperità in prosperità. La ragione la dice Iddio: date ai poveri, e ne sarà dato a voi: date, et dabitur vobis. Vi sarà dato il centuplo nella vita presente, e la vita eterna nell’altra: centuplum accipiet in hac vita et vitam aeternam possidebit.

PREGHIERA
            O Gesù mio, sono pienamente convinto della necessità che io ho di fare elemosina, ma come farò io, che di veri beni, vale a dire spirituali, ho tale penuria che appena appena vivo? Come pregherò io per gl’infedeli e per gli eretici se appena languidamente credo alle verità dalla vostra s. Chiesa insegnate? Come pregherò pei peccatori, se io stesso amo il peccato? Come pregherò per la Vostra Chiesa, pel Vostro Vicario, se mi accorgo quasi appena che essi sono perseguitati, tanto io sono accecato dalle mondane occupazioni? Ah, Signore! pel vostro ss. Cuore vi scongiuro a volermi fare un po’ d’elemosina, donarmi un po’ di quella carità che animava i vostri primitivi discepoli, di quella carità che ferveva nei cuori dei santi Giovanni elemosinario, Francesco Saverio, Vincenzo de’ Paoli; in quello della B. Margherita Alacoque; allora sì che tutto quel ch’ io ho sarà di tutti i miei fratelli, e, per quanto sta da me, celebrerò veramente l’anno del giubileo, facendo parte a chi n’ è senza dei beni da Voi ricevuti, onde cosi meco goda e giubili delle vostre ricchezze. Tre Pater, Ave e Gloria.

VISITA ALLA QUARTA CHIESA. Pensiero della salute
            Agli occhi della fede il pensiero della salvezza è la cosa più essenziale, ma in faccia al mondo è il più trascurato. Mentre pertanto tu sei in questa chiesa, o cristiano, porta il tuo sguardo sopra di un Crocifisso, e ascolta ciò che Gesù ti dice. Egli scioglie la sua lingua e ti parla cosi: una cosa sola, o uomo, ti è necessaria: salvar l’anima: unum est necessarium. Se tu acquisti onori, gloria, ricchezze, scienze e che poi non salvi l’anima, tutto è perduto per te. Quid prodest homini si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? (Matt. 16, 26).
            Questo pensiero ha determinato tanti giovani a lasciare il mondo, tanti ricchi a dispensare ai poveri le loro ricchezze, tanti missionari ad abbandonare la patria, andare in lontanissimi paesi, tanti martiri a dare la vita per la fede. Tutti costoro pensavano che se perdevano l’anima, niente loro avrebbero giovato tutti i beni del mondo per la vita eterna. Per questo motivo s. Paolo eccitava i cristiani a pensare seriamente al negozio della salute: «Vi preghiamo, egli scrive, o fratelli, affinché badiate al grande negozio della salute» (Thess. 10, 4).
            Ma di qual negozio parla qui s. Paolo? Parlava, dice s. Girolamo, di quel negozio che importa tutto, negozio che se va fallito, è perduto il regno eterno del Paradiso, e non rimane più altro che essere gittati in una fossa di tormenti, che non avranno più fine.
            Aveva perciò ragione s. Filippo Neri di chiamar pazzi tutti coloro, che in questa vita attendono a procacciarsi onori e impieghi lucrosi, ricchezze e poco attendono a salvarsi l’anima. Ogni perdita di roba, di riputazione, di parenti, di sanità, anche della vita, può ripararsi in questa terra; ma con qual bene del mondo, con qual fortuna si può riparare alla perdita dell’anima? Ascolta, o cristiano, è Gesù Cristo che ti chiama: ascolta la voce di lui. Egli vuole concederti misericordia o perdono de’ tuoi peccati, e la remissione della pena pei medesimi peccati dovuta. Ritieni però ben fisso nella mente che colui il quale oggi non pensa a salvarsi, egli corre grave rischio di essere dimani coi dannati in inferno e di essere perduto per tutta la eternità.
            Ma considera che in questo momento, mentre tu sei in chiesa a pensare all’anima tua, tanti muoiono e forse vanno all’inferno. Quanti dal principio del mondo fino ai nostri giorni morirono di ogni età e di ogni condizione e se ne andarono eternamente perduti! Può darsi che avessero volontà di dannarsi? Io non credo che alcuno di loro avesse questa intenzione. L’inganno fu nel differire la loro conversione; morirono in peccato, ed ora sono dannati. Tien bene a niente questa massima: l’uomo in questo mondo fa molto se si salva, e sa molto se ha la scienza della salute; ma fa nulla se perde l’anima, e sa nulla se ignora quelle cose che lo possono eternamente salvare.

PREGHIERA
            O mio Redentore, voi avete speso il vostro sangue per comperare l’anima mia, ed io l’ho tante volte perduta col peccato! Vi ringrazio che mi diate ancor tempo di mettermi in grazia vostra. O mio Dio, io sono pentito di avervi offeso, fossi morto prima e non avessi mai disgustato un Dio sì buono come siete voi. Si, mio Dio, io vi offro tutto me stesso, nascondo le mie iniquità nelle vostre sacratissime piaghe, e so con certezza, o mio Dio, che voi non sapete disprezzare un cuore che si umilia e si pente. O Maria, rifugio dei peccatori, soccorrete un peccatore che a voi si raccomanda e in voi confida. — Tre Pater, Ave e Gloria, colla giaculatoria: Gesù mio, misericordia.

Con permesso dell’Autorità ecclesiastica.




I precedenti delle missioni salesiane (1/5)

Il 150° anniversario delle missioni salesiane si terrà l’11 novembre 2025. Crediamo possa essere interessante raccontare ai nostri lettori una breve storia dei precedenti e delle prime fasi di quella che sarebbe diventata una sorta di epopea missionaria salesiana in Patagonia. Lo facciamo in cinque puntate, con l’aiuto di inedite fonti che ci permettono di correggere le tante imprecisioni passate alla storia.

            Sgombriamo subito il campo: si dice e si scrive che don Bosco volesse partire per le missioni tanto da seminarista, che da giovane sacerdote. Non è documentato. Se studente di 17 anni (1834) fece la domanda di entrare tra i frati Francescani Riformati del convento degli Angeli a Chieri che avevano missioni, la richiesta, a quanto pare, era stata avanzata soprattutto per motivi economici. Se dieci anni dopo (1844), al momento di lasciar il “Convitto Ecclesiastico” in Torino, fu tentato di entrare nella Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, cui erano appena state affidate missioni in Birmania (Myanmar), è però vero che quella missionaria, per la quale aveva forse anche intrapreso qualche studio di lingue estere, era solo per il giovane sacerdote Bosco una delle possibilità di apostolato che gli si aprivano davanti. In entrambi i casi don Bosco seguì immediatamente il consiglio, prima, di don Comollo di entrare in seminario diocesano e, dopo, di don Cafasso, di continuare a dedicarsi ai giovani di Torino. Anche nel ventennio 1850-1870, impegnato com’era nel progettare una continuità della sua “opera degli Oratori”, nel dare un fondamento giuridico alla società salesiana che stava avviando e nella formazione spirituale e pedagogica dei primi salesiani, tutti giovani del suo Oratorio, non era certo in condizione di poter dar seguito ad eventuali aspirazioni missionarie personali o degli stessi suoi “figli”. Dell’andata sua o dei salesiani in Patagonia neanche l’ombra, benché lo si trovi scritto su carta o sul web.

Acuirsi della sensibilità missionaria
            Ciò non toglie che la sensibilità missionaria in don Bosco, ridotta probabilmente a deboli spunti e vaghe aspirazioni negli anni di formazione sacerdotale e del primo sacerdozio, si acuì notevolmente lungo gli anni. La lettura degli Annali della Propagazione della Fede gli offriva infatti una buona informazione sul mondo missionario, tanto da ricavarne episodi per alcuni suoi libri e da lodare papa Gregorio XVI che incentivava l’espandersi del vangelo nei remoti angoli della terra ed approvava nuovi Ordini religiosi con finalità missionarie. Notevole influenza don Bosco poté ricevere dal canonico G. Ortalda, direttore del Consiglio diocesano dell’Associazione di Propaganda Fide per 30 anni (1851-1880) ed anche promotore di “Scuole Apostoliche” (una sorta di seminario minore per vocazioni missionarie). Nel dicembre 1857 aveva pure lanciato il progetto di un’Esposizione a favore delle Missioni Cattoliche affidate ai seicento Missionari Sardi. Don Bosco ne era informatissimo.
            L’interesse missionario poté crescere in lui nel 1862 al momento della solennissima canonizzazione in Roma dei 26 protomartiri di giapponesi e nel 1867 in occasione della beatificazione di oltre duecento martiri giapponesi, celebrata questa con solennità pure a Valdocco. Sempre nella città papale nel corso dei lunghi soggiorni degli anni 1867, 1869 e 1870 poté rendersi conto di altre iniziative missionarie locali, come la fondazione del Pontificio seminario dei santi apostoli Pietro e Paolo per le missioni straniere.
            Il Piemonte con quasi il 50% dei missionari italiani (1500 con 39 vescovi) si poneva all’avanguardia in tale ambito e a Torino venne in visita nel novembre 1859 il francescano monsignor Luigi Celestino Spelta, Vicario Apostolico di Hupei. Non visitò l’Oratorio, lo fece invece nel dicembre 1864 don Daniele Comboni che proprio in Torino diede alle stampe il Piano di rigenerazione per l’Africa con l’intrigante progetto di evangelizzare l’Africa attraverso gli africani.
            Don Bosco ebbe uno scambio di idee con lui, che nel 1869 tentò, senza esito, di associarlo al suo progetto e l’anno dopo lo invitò a mandargli qualche prete e laico per dirigere un istituto al Cairo e così prepararlo alle missioni in Africa, al cui centro contava di affidare ai Salesiani un Vicariato apostolico. A Valdocco la richiesta, non accolta, fu sostituita dalla disponibilità ad accettare ragazzi da educare in vista delle missioni. Colà però il drappello di algerini raccomandati da monsignor Charles Martial Lavigerie trovò difficoltà, per cui furono mandati a Nizza Marittima, in Francia. La richiesta nel 1869 dello stesso arcivescovo di avere aiutanti salesiani in un orfanotrofio di Algeri in momento di emergenza non fu accolta. Così come dal 1868 era sospesa la petizione del missionario bresciano Giovanni Bettazzi di mandare dei salesiani a dirigere un erigendo istituto di arti e mestieri, nonché un piccolo seminario minore, nella diocesi di Savannah (Georgia, USA). Le proposte altrui, tanto di direzione di opere educative in “territori di missione”, quanto di diretta azione in partibus infidelium, potevano essere anche appetibili, ma don Bosco non avrebbe mai rinunciato né alla sua piena libertà di azione – che forse vedeva compromessa nelle proposte altrui pervenutegli – né soprattutto al suo peculiare lavoro con i giovani, per i quali al momento era impegnatissimo a sviluppare la società salesiana appena approvata (1869) oltre i confini torinesi e piemontesi. Insomma fino al 1870 don Bosco, pur teoricamente sensibile alle necessità missionarie, coltivava altri progetti in sede nazionale.

Quattro anni di richieste non accolte (1870-1874)
            Il tema missionario e le importanti questioni che vi si riferivano furono oggetto di attenzione nel corso del Concilio Vaticano I (1868-1870). Se il documento Super Missionibus Catholicis non fu mai presentato in assemblea generale, la presenza in Roma di 180 vescovi di “terre di missioni” e le informazioni positive sul modello di vita religiosa salesiana, diffuse fra loro da alcuni vescovi piemontesi, diedero occasione a Don Bosco di incontrarne molti e anche di essere da loro contattato, tanto in Roma che in Torino.
            Qui il 17 novembre 1869 fu ricevuta la delegazione cilena, con l’arcivescovo di Santiago e il vescovo di Concepción. Nel 1870 fu la volta di mons. D. Barbero, Vicario Apostolico a Hyderabad (India), già conosciuto da Don Bosco, che gli chiese delle suore disponibili per l’India. A Valdocco si recò nel luglio 1870 il domenicano mons. G. Sadoc Alemany, arcivescovo di San Francisco in California (USA), che chiese ed ottenne dei Salesiani per un ospizio con scuola professionale (poi mai realizzato). Visitarono pure Valdocco il francescano mons. L. Moccagatta, Vicario Apostolico di Shantung (Cina) e il suo confratello mons. Eligio Cosi poi suo successore. Nel 1873 fu la volta del milanese mons. T. Raimondi che offrì a Don Bosco la possibilità di andare a dirigere scuole cattoliche nella Prefettura apostolica di Hong Kong. La trattativa, durata oltre un anno, per vari motivi si arenò, così come nello stesso 1874 rimase sulla carta anche un progetto di nuovo seminario del succitato don Bertazzi per Savannah (USA). Lo stesso avvenne in quegli anni per fondazioni missionarie in Australia ed in India, per le quali Don Bosco intavolò con i singoli vescovi trattative, da lui date talora come concluse alla Santa Sede, mentre in realtà erano solo progetti in fieri.
            In quei primi anni settanta, con un personale costituito da poco più di due decine di persone (fra preti, chierici e coadiutori), un terzo delle quali con voti temporanei, sparsi in sei case difficilmente Don Bosco avrebbe potuto mandarne alcune in terra di missione. Tanto più che le missioni estere offertegli fino a quel momento fuori Europa presentavano serie difficoltà di lingua, cultura e tradizioni non neolatine e il tentativo a lungo condotto di disporre di giovane personale di lingua inglese anche con l’aiuto del rettore del collegio irlandese di Roma, mons. Toby Kirby, erano andato fallito.

(continua)

Foto d’epoca: il porto di Genova, 14 novembre 1877.




Il fazzoletto della purezza (1861)

            Il 16 giugno D. Bosco diede per fioretto ai giovani di fare qualche preghiera speciale, affinché Dio faccia ravvedere quei del scimmione, che disse giungere appena al numero plurale: e la sera del 18 raccontò la seguente storiella, o specie di sogno, come la definì altra volta. Il modo però che teneva nel raccontare era sempre tale, che di lui poté ripetere Ruffino, che ne tenne memoria, ciò che diceva Baruch delle visioni di Geremia: “Egli pronunziava colla sua bocca tutte queste parole come se le leggesse, ed io le scriveva nel libro coll’inchiostro”. (Baruch XXXVI).
            D. Bosco adunque così parlava.

            Era la notte del 14 al 15 del mese. Quando fui coricato appena preso un po’ di sopore, sento un gran colpo sulla lettiera, come di uno che con un asse vi battesse sopra. Balzai seduto sul letto: mi venne subito alla mente il fulmine: guardai di qua e di là, ma nulla vidi. Perciò persuaso di aver sognato e che nulla vi fosse di reale, mi tornai a coricare.
            Ma non appena ricominciava ad addormentarmi, ecco un secondo colpo mi ferisce le orecchie e mi scuote. Allora mi rizzo di nuovo sui cuscini, scendo dal letto, cerco, guardo sotto il letto, sotto il tavolino e nei cantoni della camera, ma non vidi niente. Allora mi rassegnai nelle mani del Signore; presi l’acqua benedetta e mi coricai. Fu allora che la mia mente si portò di qua e di là e vidi quello che ora son per narrare.
            Mi parve di essere sul pulpito della nostra chiesa in atto di dar principio alla predica. I giovani erano tutti seduti ai loro posti collo sguardo fisso in me, ed aspettavano attenti che io parlassi. Io però non sapeva quale argomento dovessi trattare, ed in qual maniera incominciare la predica. Per quanto faticassi colla memoria, la mia mente rimaneva sterile e vuota. Stetti così un po’ di tempo confuso ed angosciato, non essendomi mai accaduto un simile imbroglio dopo tanti anni che predico: ed ecco che in un istante vedo questa nostra chiesa convertirsi in una gran valle. Cercava le mura della chiesa e non le vedeva più e non vedeva pia nessun giovane. Io era fuori di me per la meraviglia e non sapeva persuadermi di quel cambiamento di scena.
            – Ma che cosa è mai questo? dissi fra me: un momento fa io ero in chiesa, in pulpito ed ora mi trovo in questa valle! Sogno? Che faccio io? – Mi risolsi allora di procedere per quella valle. Camminai alquanto e mentre cercava qualcheduno per esprimergli la mia meraviglia e chiedere spiegazioni, vidi un bel palazzo con molti grandi balconi o vasti terrazzi, come si vogliono chiamare, i quali formavano un sol tutto mirabile. Innanzi al palazzo si stendeva una piazza. In un angolo di questa, a destra, scopersi un gran numero di giovani affollati, i quali stavano d’intorno ad una Signora, che distribuiva a ciascheduno un fazzoletto. Costoro preso il fazzoletto salivano poi e si disponevano schierati un dopo l’altro su quel lungo terrazzo con balaustrata.
            Io pure mi avvicinai a quella Signora e udii che, nell’atto di consegnare i fazzoletti, diceva a tutti i singoli giovani queste parole:
            – Non distenderlo mai quando tira vento: ma se il vento ti sorprende, quando tu l’avessi disteso, volgiti subito a destra, non mai a sinistra.
            Io osservava tutti quei giovani, ma in quel momento non ne conobbi nessuno. Finita la distribuzione dei fazzoletti, quando tutti furono sul terrazzo, fecero un dopo l’altro una lunga fila e stavano là ritti senza dir parola. Io continuava ad osservare e vidi un giovane che incominciava a trar fuori il suo fazzoletto e lo spiegava e poi gli altri giovani a poco a poco, successivamente trar fuori il proprio e spiegarlo, finché li vidi tener tutti il fazzoletto disteso. Esso era molto largo, ricamato in oro con un lavoro di grandissimo pregio e vi si leggevano queste parole anch’esse in oro, che lo occupavano tutto: – Regina virtutum (Regina delle virtù).
            Quand’ecco incominciò da settentrione cioè a sinistra, a spirare bene un po’ d’aria, poi a farsi più forte e finalmente a levarsi il vento. Appena ebbe incominciato questo vento vidi alcuni di quei giovani piegare subito il fazzoletto e nasconderlo: altri voltarsi dal fianco destro. Ma una parte stette immobile col fazzoletto spiegato.
            Dopoché questo vento erasi fatto gagliardo, incominciò a comparire e stendersi una nuvola che ben presto velò tutto il cielo, quindi levarsi il turbine, scoppiare un gran temporale e rombare spaventosamente il tuono: poi cadere la grandine, dopo la pioggia, e finalmente la neve.
            Intanto molti giovani stavano col fazzoletto disteso: e la grandine vi batteva dentro trapassandolo da parte a parte; ed anche la pioggia le cui gocciole pareva che avessero la punta; come pure lo foravano i fiocchi di neve. In un momento tutti quei fazzoletti furono guasti e crivellati, sicché più nulla avevano di bello.
            Questo fatto destò in me tale stupore, che non sapeva quale spiegazione dargli. Il peggio si è che avvicinatomi a quei giovani che prima non aveva conosciuti, adesso, avendo guardato con maggior attenzione, li riconobbi tutti distintamente. Erano i miei giovani dell’Oratorio. Fattomi ancor più dappresso andava interrogandoli:
            – Che cosa fai tu qui! Sei il tale?
            – Si che son qui! Veda! c’è anche il tale, il tale, il tal’altro.
            Andai allora là dove era quella Signora che distribuiva i fazzoletti. Quivi stavano alcuni altri uomini e domandai loro:
            – Che cosa vuol dire tutto questo?
            Quella Signora voltasi a me rispose:
            – Non hai visto quello che vi era scritto in quei fazzoletti?
            – Sì: Regina virtutum.
            – Non sai perché?
            – Sì che lo so.
            – Ebbene; quei giovani esposero la virtù della purità al vento delle tentazioni. Alcuni al primo accorgersene subito fuggirono e sono quelli che nascosero il fazzoletto; altri sorpresi e non avendo avuto tempo a nasconderlo si volsero a destra e sono coloro che nel pericolo ricorrono al Signore, voltando le spalle al nemico. Altri poi stettero col fazzoletto aperto all’impeto della tentazione che li fece cadere nei peccati.
            A questo spettacolo restai corrucciato ed era per disperarmi vedendo quanto pochi erano quelli, che avevano conservata la bella virtù. Ruppi per tanto in un pianto doloroso e quando potei calmarmi, chiesi:
            – Ma, come va che i fazzoletti rimasero forati, non solo dalla tempesta, ma anche dalla pioggia e dalla neve? Queste gocce, quei fiocchi di neve non indicano forse i peccati piccoli, ossia veniali?
            – E non sai che in questo non datur parvitas materiae? (non vi è mai materia lieve?) Tuttavia non affannarti; vieni a vedere!
            Uno di quelli uomini si avanzò davanti al balcone, fece segno colla mano a quei giovani e gridò:
            – A destra!
            Quasi tutti i giovani si volsero a destra, ma alcuni non si mossero dal luogo ed il loro fazzoletto, finì con essere interamente lacero. Allora io vidi il fazzoletto di quelli i quali si erano voltati a destra divenir molto stretto, tutto rappezzato e cucito, in modo però che non si scorgeva più nessun buco. Erano tuttavia in così cattivo stato che facevano pietà. Non avevano più regolarità alcuna. Gli uni si vedevano lunghi tre palmi, altri due, altri uno.
            Quella Signora intanto soggiungeva:
            – Ecco quelli che ebbero la disgrazia di perdere la bella virtù, ma ci rimediarono colla confessione. Gli altri poi che non si mossero, sono quelli che continuano nel peccato e forse, forse, andranno alla perdizione.
            In fine poi mi disse:
            – Nemini dicito, sed tantum admone (Non dirlo a nessuno, ma solo ammonisci).
(MB VI, 972-975)




Intervista al nuovo superiore don Vincentius Prastowo

Don Vincentius Prastowo è il nuovo ispettore salesiano per l’Indonesia, Paese che con i suoi 279 milioni di abitanti e oltre 700 lingue si colloca al quarto posto nel mondo per popolazione. L’Indonesia è lo Stato-arcipelago più grande del pianeta, formato da 17.508 isole, e ospita la comunità musulmana più numerosa al mondo. La presenza salesiana in questa nazione risale al 1985, pur considerando che la prima esperienza nell’attuale Timor Est ebbe inizio già nel 1927. Lo abbiamo intervistato.

Puoi presentarti?
Mi chiamo Vincentius Prastowo. Sono nato il 28 novembre 1980 a Magelang, Giava Centrale. Sono la seconda generazione della mia famiglia ad abbracciare la fede cattolica. I miei genitori sono stati i primi nella nostra famiglia allargata a ricevere il sacramento del battesimo, una decisione che ha cambiato profondamente il corso delle nostre vite. Da loro, ho conosciuto Gesù Cristo e i valori cattolici che mi sono stati trasmessi fin dall’infanzia. Ho frequentato una scuola primaria cattolica gestita dalle Suore dell’Immacolata Concezione (SPM), dove la mia fede è cresciuta attraverso l’educazione religiosa, le attività liturgiche e le interazioni ravvicinate con le suore religiose.

Qual è la storia della tua vocazione?
Il mio interesse per la vita religiosa è iniziato durante l’adolescenza, ispirato dai sacerdoti gesuiti che servivano nella mia parrocchia. La loro genuina dedizione al servizio, la profondità intellettuale e la spiritualità profonda hanno lasciato un’impressione duratura su di me. Questa ispirazione mi ha portato a continuare la mia formazione al Seminario Minore Stella Maris a Bogor, gestito dai Francescani, dal 1994 al 1998.
Al seminario, non solo ho imparato teologia e filosofia di base, ma ho anche approfondito la mia comprensione della vita di preghiera, della disciplina e della vita comunitaria. Questi anni sono stati fondamentali nel plasmare il mio cammino e chiarire il mio desiderio di perseguire una vita di servizio a Dio e agli altri.

Come hai incontrato i salesiani?
Ogni anno, il Seminario Stella Maris ospitava visite di varie congregazioni religiose, introducendo i seminaristi a diverse spiritualità e missioni. Durante una di queste visite, ho incontrato il Padre Jose Llopiz Carbonell e il Padre Andress Calejja, due sacerdoti salesiani che venivano frequentemente al seminario. Portavano calendari annuali con l’immagine di Maria, Aiuto dei Cristiani, che ha immediatamente catturato la mia attenzione.
Attraverso conversazioni con loro, sono diventato curioso riguardo alla missione salesiana e ho deciso di esplorare ulteriormente la loro comunità. La mia curiosità mi ha portato a visitare regolarmente la comunità salesiana a Giacarta ogni fine anno. Sono rimasto profondamente colpito dal loro approccio all’educazione e dal loro impegno nell’accompagnare i giovani. Non predicavano solo la fede; la praticavano facendo da mentori a giovani provenienti da contesti umili.
Il calore e l’amore che ho sperimentato nella comunità salesiana hanno infine consolidato la mia decisione di scegliere questo cammino.

Quali sono state le difficoltà che hai incontrato?
Scegliere il cammino salesiano non è stato privo di sfide. La mia formazione iniziale si è svolta a Timor Est, una regione coinvolta in un conflitto politico all’epoca a causa della sua lotta per l’indipendenza dall’Indonesia. La situazione ha creato tensioni significative, sia per me che per la mia famiglia. I miei genitori erano profondamente preoccupati per la mia sicurezza e hanno persino suggerito di considerare una congregazione “più sicura”.
Tuttavia, la mia determinazione era ferma. Credevo che questa vocazione fosse la vita che Dio aveva pianificato per me. In mezzo al conflitto in corso, ho affrontato numerose prove, tra cui la minaccia di violenza, l’adattamento culturale e la nostalgia per la mia famiglia. Eppure, in ogni difficoltà, ho trovato forza attraverso la preghiera e la protezione di Dio.
Questa esperienza mi ha insegnato a superare la paura e ha rafforzato la mia convinzione. Una delle mie più grandi gioie è stata la libertà e il coraggio di determinare la mia vocazione, nonostante gli ostacoli lungo il cammino.

Come salesiano, ho realizzato le immense sfide affrontate dalle comunità nelle regioni insulari dell’Indonesia. La nostra nazione, composta da migliaia di isole, si confronta con disparità nell’accesso all’istruzione e alle opportunità economiche. Nelle aree remote, i bisogni più urgenti dei giovani sono un’istruzione di qualità e l’accesso a lavori dignitosi.
Credo fermamente che la collaborazione tra i governi centrali e locali sia essenziale per alleviare la povertà in queste regioni. Dare priorità allo sviluppo delle infrastrutture educative, offrire borse di studio per bambini svantaggiati e creare opportunità lavorative eque sono passi vitali.
Come parte della comunità salesiana, mi sento chiamato a contribuire a questi sforzi, specialmente attraverso programmi di educazione professionale volti a dare potere ai giovani con competenze che li preparino per il mercato del lavoro e promuovano l’autosufficienza.

Come è il vostro lavoro salesiano nel contesto del paese?
L’Indonesia è conosciuta come il paese con la più grande popolazione musulmana al mondo. Tuttavia, sono grato che il suo popolo sia generalmente moderato e aperto alla diversità. In questo contesto, i salesiani lavorano in aree prevalentemente musulmane con uno spirito di fratellanza e collaborazione. La nostra missione cerca di costruire ponti attraverso l’educazione e il servizio, rispettando le credenze individuali mentre si difendono valori universali come amore, giustizia e pace.
Questa consapevolezza della diversità è un tesoro che dobbiamo continuare a celebrare. Nella vita quotidiana, impariamo a rispettarci e a lavorare insieme con varie comunità. Credo che la diversità culturale, religiosa e tradizionale dell’Indonesia sia una benedizione che deve essere preservata e apprezzata.

Come vedi il futuro dei giovani e l’educazione salesiana?
Si prevede che l’Indonesia sperimenti un boom demografico a partire dal 2030. Ciò significa un significativo aumento della popolazione in età lavorativa, presentando sia opportunità che sfide. Sebbene questa crescita offra il potenziale per un avanzamento economico, comporta anche rischi di disoccupazione diffusa se non gestita bene.
Come comunità focalizzata sull’educazione, i salesiani svolgono un ruolo cruciale nel preparare i giovani ad affrontare il futuro. Ci concentriamo sulla formazione professionale che si allinea alle esigenze dell’industria, promuovendo al contempo un forte carattere e disciplina. Uno dei nostri principali progetti è elevare la dignità dei giovani nelle isole remote dotandoli di competenze per l’era digitale e tecnologica.
Per prosperare nell’era 5.0, i giovani indonesiani hanno bisogno di adattabilità, creatività e capacità di collaborazione. I programmi di formazione che offriamo mirano a soddisfare queste esigenze, dando potere ai giovani non solo per competere nel mercato del lavoro, ma anche per diventare agenti di cambiamento nelle loro comunità.

Quale posto occupa nella tua vita Maria Ausiliatrice?
Maria ha sempre occupato un posto speciale nel mio cammino. Fin dall’infanzia, l’ho conosciuta e amata attraverso le preghiere del Rosario spesso recitate nel nostro quartiere. La sua immagine come Maria, Aiuto dei Cristiani, mi ha continuamente rafforzato e guidato attraverso le sfide della vita.
Nella tradizione salesiana, la devozione a Maria è altamente enfatizzata. Crediamo che sia sempre presente, accompagnandoci e proteggendoci in ogni passo del nostro cammino. Le mie esperienze personali confermano che attraverso la preghiera e affidandoci a Maria, difficoltà apparentemente insormontabili possono essere superate.

Che cosa diresti ai giovani in questo momento?
Ai giovani, il mio messaggio è questo: non perdete mai la speranza. Non lasciate che difficoltà, sfide o ostacoli schiaccino i vostri sogni. Credete che ci sia sempre una via da seguire, specialmente quando ci appoggiamo a Dio e cerchiamo l’intercessione di Maria.
La vita è un dono pieno di opportunità. Non temete di uscire dalla vostra zona di comfort, affrontare sfide e perseguire la vostra vera vocazione. In ogni viaggio, Dio fornisce la forza, e Maria sarà sempre presente come una madre amorevole e fedele.
Che i giovani indonesiani possano alzarsi, crescere e diventare agenti di cambiamento, portando speranza alla nazione e al mondo. Camminiamo insieme nella fede, nell’amore e nel servizio.

don Vincentius Prastowo
Ispettore dell’Indonesia




Intervista al nuovo ispettore don Simon Zakerian

Ha emesso la sua Prima Professione a Damasco l’8 settembre 2002 e la Professione Perpetua ad Aleppo il 2 Agosto 2008. È stato ordinato sacerdote nella sua città natale, Qamishli l’11 settembre 2010.
Dopo la formazione iniziale, ha servito l’Ispettoria in diversi ministeri, occupandosi di varie responsabilità. Dal 2010 al 2014 ad Aleppo, in Siria, ha servito come collaboratore pastorale; dal 2015 al 2017 a Damasco ha servito come Direttore. Dal 2017 al 2018 ad Alessandria, in Egitto, ha ricoperto ancora il ruolo di Direttore e, dal 2018 a luglio 2024 ad Al – Fidar e El Houssoum, in Libano, sempre con la responsabilità di Direttore. A livello ispettoriale ha servito come consigliere delegato della Pastorale Giovanile per circa 12 anni, finendo questo servizio a giugno 2024 e poi iniziando il nuovo servizio il 6 luglio 2024 come ispettore.
L’Ispettoria del Medio Oriente comprende Palestina – Israele, Siria, Egitto e Libano.

Puoi presentarti?
Sono nato in Siria, in una città che si chiama al-Qamishli (a nord est della Siria), il 2 luglio 1978 da una famiglia armena, e come tutti gli armeni della diaspora ha sopravvissuto al genocidio ottomano del 1915, quando i miei nonni sono scappati e sono arrivati fino a Qamishli.
Mio papà si chiama Aram e mia mamma Araxi; siamo una famiglia di due fratelli e sei sorelle.

Chi ti ha raccontato per primo la storia di Gesù?
La mia famiglia ha sempre avuto una profonda fede cristiana che i miei mi hanno trasmesso fin da quando ero bambino, anche con l’aiuto di mia nonna che mi parlava di Gesù. Anche la Chiesa Armena mi è stata di aiuto perché da piccolo facevo il chierichetto e servivo la messa.  Poi ho cominciato a frequentare l’oratorio di don Bosco nella mia città, fin dalla quinta elementare. Siccome mi piaceva molto giocare a calcio, ho continuato a frequentare il don Bosco per anni e poi piano piano la mia appartenenza all’oratorio è cresciuta sempre di più facendomi coinvolgere non solo in attività sportive ma anche in quelle di animazione e servizio.

Qual è la storia della tua vocazione?
La mia vocazione è nata da un desiderio che Dio ha messo nel mio cuore. Quando servivo la messa mi dicevo: quando diventerò grande sarò anch’io sull’altare come questo sacerdote.  Dopo avere conosciuto i Salesiani, questo desiderio è maturato sempre di più e l’esempio dei Salesiani, che erano con noi in cortile, in chiesa e nei vari momenti della nostra vita, mi ha fatto pensare seriamente alla mia vita e al suo senso. Così ho iniziato a riflettere più profondamente e a chiedermi il perché della mia esistenza e il senso della mia vita. Ho perciò incominciato a domandarmi come potevo discernere la mia vocazione, a chiedermi che cosa volesse Dio da me. Con questi pensieri, con la preghiera e con il servizio ho camminato alla ricerca della volontà del Signore per me.
A Qamishli c’era un missionario italiano che era sempre con noi in cortile; organizzava i tornei di calcio, incoraggiava, ci accompagnava in chiesa per vivere la santa messa e l’adorazione eucaristica, e ci faceva vedere i film sulla vita dei santi per poi spingerci a fare opere di carità e servizio nell’oratorio e fuori. La sua testimonianza mi ha fatto riflettere che potevo anch’io vivere e fare come lui. Così con il suo aiuto e quello di altri salesiani ho iniziato il mio discernimento. Ho amato la vita di quel salesiano perché era vicino Dio, alla gente e ai giovani come don Bosco con una vita gioiosa e bella, semplice e profonda. Si capiva che il suo non era un lavoro ma una vocazione divina!

Come ha reagito la tua famiglia?
La mia è una famiglia semplice e all’inizio non voleva che io lasciassi la casa, ma poi ha capito che era una chiamata del Signore e così mi è stato permesso di iniziare il cammino. Da quel momento in poi la mia famiglia ha sempre incoraggiato la mia vocazione con l’affetto e la preghiera.

Quali sono state le sfide più grandi?
La sfida più grande è stata lasciare il mondo per seguire Cristo nella vita consacrata. Questo non è stato facile, perché la mia vita era legata a tanti amici e al calcio. Ero un calciatore, e giocavo in una squadra della mia città di serie A, quindi lasciare tutto questo è stato faticoso.

Qual è la tua esperienza più bella?
Devo però dire che una volta iniziato il cammino ho sperimentato quanto dice Gesù nel vangelo che chi segue Lui avrà in cambio tanti fratelli, sorelle, amici, confratelli, giovani e laici con cui condividere la vita e la missione. Questo è veramente un dono bellissimo.

Come sono i giovani del luogo?
I giovani della nostra ispettoria, sono degli eroi, sono stupendi. Come dico sempre a tutti, sono loro i veri protagonisti della storia delle nostre terre, perché hanno sempre vissuto in situazioni molto difficili e di guerra, perché hanno imparato a vivere in queste situazioni come cristiani e come testimoni, con tanta fede e speranza. Per me erano e sono ancora un esempio bellissimo.

Che cosa si potrebbe fare di più e meglio?
Il futuro dei giovani nelle nostre terre oggi è molto ambiguo e non facile, ma loro possono fare tanto, e prego Dio, che ci conceda la pace, perché possano costruire un futuro in queste terre e guardare al domani con speranza e senza paura perché Lui è con noi e non ci abbandona.

Quale posto occupa nella tua vita Maria Ausiliatrice?
Nelle nostre case del Medio Oriente siamo abituati noi salesiani insieme ai giovani a invocare molto spesso Maria Ausiliatrice, perché sappiamo che è stata Lei ad aiutare don Bosco soprattutto nei momenti più faticosi.  E noi proprio in questi momenti di guerra non cessiamo di chiedere la sua intercessione materna, Lei il nostro rifugio, Lei la Madonna dei tempi difficili come diceva don Bosco.

Che cosa diresti ai giovani in questo momento?
Dico ai giovani di non aver paura della vita e delle difficoltà, ma di affrontare tutto con amore e speranza; non da soli, ma con Dio e con i fratelli e le sorelle, perché insieme possiamo cambiare noi stessi e il mondo; così hanno vissuto e fatto i nostri santi e il nostro padre fondatore don Bosco. Invito perciò i giovani ad aprire il cuore alla chiamata di Dio, a non essere indifferenti quando ascoltano la Sua voce… non indurite il cuore!
E concludo dicendo a me stesso e a tutti i giovani, le stesse parole di papa Francesco nella Cristus Vivit: “Lui vive e ti vuole vivo!”

don Simon ZAKERIAN
ispettore Medio Oriente




In memoriam. Cardinale Angelo Amato, sdb

La Chiesa universale e la Famiglia Salesiana hanno salutato per l’ultima volta, il 31 dicembre 2024, il Cardinale Angelo Amato, S.D.B., Prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi. Nato a Molfetta (in provincia di Bari, Italia) l’8 giugno 1938, egli ha servito a lungo la Santa Sede ed è stato un punto di riferimento per la teologia, la ricerca accademica e la promozione della santità nella Chiesa. Le esequie, presiedute il 2 gennaio 2025 dal Cardinale Giovanni Battista Re, Decano del Collegio Cardinalizio, si sono tenute all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro. Al termine, il Santo Padre Francesco ha presieduto il rito dell’”Ultima Commendatio” e della “Valedictio”, rendendo il proprio omaggio a questo illustre figlio di san Giovanni Bosco.
Di seguito un profilo biografico che ne ripercorre la vita, le tappe più significative della sua formazione, le esperienze accademiche e pastorali, fino alla sua missione di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

Le origini e la scelta salesiana
Angelo Amato nacque a Molfetta l’8 giugno 1938, primo di quattro figli di una famiglia di costruttori navali. Cresciuto in un ambiente che ne favorì lo spirito di impegno e responsabilità, compì i primi studi presso le scuole elementari dirette dalle suore alcantarine e dalle suore salesiane dei Sacri Cuori, a Molfetta. Successivamente, proseguì con la scuola media e, intravvedendo un possibile futuro nella carriera marittima, si iscrisse all’Istituto nautico di Bari, nella sezione dei capitani di lungo corso. Fu proprio durante il terzo anno di studi, nell’ottobre del 1953, che maturò la decisione di intraprendere la via del sacerdozio: lasciò l’Istituto nautico e fece ingresso nell’aspirantato salesiano di Torre Annunziata.
La sua vocazione religiosa, dunque, si inserì fin dall’inizio nella Famiglia Salesiana. Dopo un periodo di prova, effettuò il noviziato a Portici Bellavista dal 1955 al 1956. Il 16 agosto 1956, giorno che la tradizione salesiana riserva alla prima professione dei novizi, emise i voti religiosi diventando salesiano di Don Bosco. Da quel momento, la sua vita sarebbe stata profondamente legata al carisma salesiano, con particolare attenzione ai giovani e all’educazione.
Terminato il noviziato, Angelo Amato frequentò lo studentato filosofico di San Gregorio di Catania, dove ottenne il diploma liceale classico (nel 1959) e, a seguire, la licenza in Filosofia presso l’allora Pontificio Ateneo Salesiano di Roma (oggi Università Pontificia Salesiana). Nel 1962 emise la professione perpetua, consolidando definitivamente la sua appartenenza alla Congregazione salesiana. In quegli stessi anni svolse il tirocinio pratico al collegio salesiano di Cisternino (Brindisi), insegnando lettere nella scuola media: un’esperienza che lo mise fin da subito a contatto con l’apostolato giovanile e l’insegnamento, due dimensioni che segneranno tutta la sua missione.

L’ordinazione sacerdotale e gli studi teologici
La tappa successiva del percorso di Angelo Amato fu lo studio della Teologia nella Facoltà teologica dell’Università Salesiana, sempre a Roma, dove conseguì la licenza in Teologia. Ordinato sacerdote il 22 dicembre 1967, decise di specializzarsi ulteriormente e si iscrisse alla Pontificia Università Gregoriana. Nel 1974 vi ottenne il dottorato in Teologia, entrando così a far parte del corpo docente universitario. L’ambito teologico lo affascinava profondamente, e ciò si sarebbe riflesso nella grande mole di pubblicazioni e saggi di cui fu autore nel corso della sua carriera accademica.

L’esperienza in Grecia e la ricerca sul mondo ortodosso
Una fase determinante nella formazione di padre Angelo Amato fu il soggiorno in Grecia, a partire dal 1977, promosso dall’allora Segretariato per l’Unità dei Cristiani (oggi Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani). Inizialmente trascorse quattro mesi nella residenza ateniese dei gesuiti, dove si dedicò allo studio del greco moderno, sia scritto sia parlato, in vista dell’iscrizione all’Università di Salonicco. Ammesso ai corsi, ottenne una borsa di studio dal Patriarcato di Costantinopoli, grazie alla quale poté soggiornare al Monì Vlatadon (Vlatadon Monastery), sede di un istituto di studi patristici (Idrima ton Paterikon Meleton) e di una ricchissima biblioteca specializzata in teologia ortodossa, arricchita dai microfilm dei manoscritti del Monte Athos.
Presso l’Università di Salonicco seguì corsi di storia dei dogmi con il professore Jannis Kaloghirou e di dogmatica sistematica con Jannis Romanidis. Parallelamente, portò avanti un importante studio sul sacramento della penitenza nella teologia greco ortodossa dal XVI al XX secolo: la ricerca, sostenuta dal noto patrologo greco Konstantinos Christou, fu pubblicata nel 1982 nella collana «Análekta Vlatádon». Questo periodo di scambio ecumenico e di conoscenza approfondita del mondo cristiano orientale arricchì notevolmente la formazione di Amato, rendendolo un esperto di teologia ortodossa e delle dinamiche di dialogo tra Oriente e Occidente.

Il ritorno a Roma e l’impegno accademico all’Università Pontificia Salesiana
Rientrato a Roma, Angelo Amato assunse l’incarico di professore di Cristologia nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Salesiana. Le sue doti di studioso e la sua chiarezza espositiva non passarono inosservate: fu nominato Decano della stessa Facoltà di Teologia per due mandati (1981-1987 e 1994-1999). Inoltre, tra il 1997 e il 2000 ricoprì il ruolo di Vice-Rettore dell’Università.
In quegli anni egli maturò ulteriore esperienza all’estero: nel 1988 fu inviato a Washington per approfondire la teologia delle religioni e per completare il suo manuale di cristologia. Parallelamente al lavoro accademico, ebbe ruoli di consulenza per diversi organismi della Santa Sede: fu consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e dei Pontifici Consigli per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e per il Dialogo Interreligioso. Svolse anche l’incarico di consigliere presso la Pontificia Accademia Mariana Internazionale, sottolineando il suo interesse per la mariologia, tipico della spiritualità salesiana incentrata su Maria Ausiliatrice.
Nel 1999 venne nominato prelato segretario della ristrutturata Pontificia Accademia di Teologia e direttore della neonata rivista teologica «Path». Inoltre, tra il 1996 e il 2000, fece parte della commissione teologico-storica del Grande Giubileo dell’Anno 2000, dando così un apporto significativo all’organizzazione delle celebrazioni giubilari.

Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede e l’episcopato
Il 19 dicembre 2002 arrivò una nomina di grande rilievo: Papa Giovanni Paolo II lo designò Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, elevandolo contestualmente alla dignità arcivescovile e assegnandolo alla sede titolare di Sila, con il titolo personale di Arcivescovo. Ricevette l’ordinazione episcopale il 6 gennaio 2003, nella Basilica Vaticana, dalle mani dello stesso Giovanni Paolo II (oggi San Giovanni Paolo II).
In questo ruolo, Monsignor Angelo Amato collaborò con il Prefetto dell’epoca, il Cardinale Joseph Ratzinger (futuro Benedetto XVI). Compito del Dicastero fu, ed è, quello di promuovere e tutelare la dottrina cattolica in tutto il mondo. Durante il suo mandato, il neo-Arcivescovo continuò ad avere un approccio accademico, coniugando le sue competenze specialistiche in teologia con il servizio ecclesiale rivolto all’ortodossia della fede.

Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e la porpora cardinalizia
Un ulteriore passo in avanti nella carriera ecclesiastica giunse il 9 luglio 2008: Papa Benedetto XVI lo nominò Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in sostituzione del Cardinale José Saraiva Martins. In questo dicastero, Monsignor Amato fu responsabile di seguire l’iter di beatificazione e canonizzazione dei Servi di Dio, il discernimento sulle virtù eroiche, i miracoli e la testimonianza di quanti, nel corso della storia, sono divenuti santi e beati della Chiesa Cattolica.
Nel Concistoro del 20 novembre 2010, Benedetto XVI lo creò Cardinale, assegnandogli la Diaconia di Santa Maria in Aquiro. Il nuovo porporato poté così prendere parte al conclave del marzo 2013, che vide l’elezione di Papa Francesco. Durante il pontificato di quest’ultimo, il Cardinale Amato fu confermato “donec aliter provideatur” come Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi (19 dicembre 2013), proseguendo la propria attività sino al 31 agosto 2018, quando rassegnò le dimissioni per raggiunti limiti di età, lasciando un’impronta duratura grazie al numero di beatificazioni e canonizzazioni esaminate in quegli anni.

L’impegno per la Chiesa locale: l’esempio di don Tonino Bello
Una particolare testimonianza del legame del Cardinale Amato con la sua terra d’origine si ebbe nel novembre 2013, quando egli si recò nella Cattedrale di Molfetta per la chiusura della fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione di don Tonino Bello (1935-1993). Quest’ultimo, Vescovo di Molfetta dal 1982 al 1986, fu figura amatissima per il suo impegno a favore della pace e dei poveri. In quell’occasione, il Cardinale Amato mise in risalto come la santità non sia appannaggio di pochi eletti, bensì una vocazione universale: tutti i credenti, ispirati dalla persona e dal messaggio di Cristo, sono chiamati a vivere profondamente la fede, la speranza e la carità.

Ultimi anni e la morte
Dopo aver lasciato la guida della Congregazione delle Cause dei Santi, il Cardinale Angelo Amato continuò a offrire il proprio servizio alla Chiesa, partecipando ad eventi, cerimonie e rendendo disponibile la sua profonda conoscenza teologica. Il suo impegno fu sempre contrassegnato da un tratto umano di grande finezza, da un evidente rispetto per l’interlocutore e da un’umiltà che spesso colpiva chiunque lo incontrasse.
Il 3 maggio 2021, la sua diaconia di Santa Maria in Aquiro venne elevata pro hac vice a titolo presbiteriale, onorando ulteriormente la sua lunga e fedele dedizione al ministero ecclesiale.
La morte del porporato, sopraggiunta il 31 dicembre 2024 a 86 anni, ha lasciato un vuoto nella Famiglia Salesiana e nel Collegio Cardinalizio, ora costituito da 252 cardinali, di cui 139 elettori e 113 non elettori. L’annuncio della sua scomparsa ha suscitato reazioni di cordoglio e di riconoscenza in tutto il mondo ecclesiale: l’Università Pontificia Salesiana, in particolare, ne ha ricordato i lunghi anni di insegnamento come docente di Cristologia, il suo duplice mandato di Decano della Facoltà di Teologia, nonché il periodo in cui rivestì la carica di Vice-Rettore dell’ateneo.

Un’eredità di fedeltà e ricerca della santità
Guardando alla figura del Cardinale Angelo Amato, non si possono non cogliere alcuni tratti che ne hanno caratterizzato il ministero e la testimonianza. Anzitutto, il suo profilo di religioso salesiano: la fedeltà ai voti, il profondo legame con il carisma di san Giovanni Bosco, l’attenzione ai giovani, alla formazione intellettuale e spirituale, rappresentano una linea guida costante nella sua vita. In secondo luogo, la vasta produzione teologica, in particolare in ambito cristologico e mariologico, e il suo contributo al dialogo con il mondo ortodosso, di cui fu studioso appassionato.
Indubbiamente, il servizio alla Santa Sede come Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e cardinale, sottolinea l’importanza del suo ruolo nella promozione e nella tutela della dottrina cattolica, nonché nella valorizzazione dei testimoni di santità. Il Cardinale Amato fu testimone privilegiato della ricchezza spirituale che la Chiesa universale ha espresso lungo i secoli, e fu parte attiva nel riconoscimento di figure che rappresentano un faro per il popolo di Dio.
Inoltre, la partecipazione a un conclave (quello del 2013), la sua vicinanza a grandi Papi come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, e la sua collaborazione con numerosi dicasteri testimoniano un servizio a trecentosessanta gradi, in cui si fondono la dimensione accademica e l’esercizio pastorale di governo nella Chiesa.
La morte del Cardinale Angelo Amato lascia un’eredità di dottrina, di sensibilità ecumenica e di amore per la Chiesa. La diocesi di Molfetta, che già aveva potuto sperimentare la sua partecipazione al processo di beatificazione di don Tonino Bello, lo ricorda come uomo di fede e pastore instancabile, capace di unire le esigenze della disciplina teologica a quelle della carità pastorale. La Famiglia Salesiana, in particolare, coglie in lui il frutto di un carisma ben vissuto, intriso di quella “carità educativa” che da Don Bosco in poi accompagna il percorso di tanti consacrati e sacerdoti nel mondo, sempre a servizio dei più giovani e dei più bisognosi.
Oggi, la Chiesa lo affida alla misericordia del Signore, nella certezza che, come lo stesso Pontefice ha affermato, il Cardinale Amato, “servo buono e vigilante”, possa contemplare il volto di Dio nella gloria dei santi che egli stesso ha contribuito a riconoscere. La sua testimonianza, resa concreta da una vita donata e da una profonda preparazione teologica, resta come segno e incoraggiamento per tutti coloro che desiderano servire la Chiesa con fedeltà, mitezza e dedizione, fino al termine del loro pellegrinaggio terreno.
In questo modo, il messaggio di speranza e di santità che ha animato ogni sua azione trova compimento: chi semina nel solco dell’obbedienza, della verità e della carità, raccoglie un frutto che diviene bene comune, ispirazione e luce per le generazioni future. Ed è questa, in definitiva, l’eredità più bella che il Cardinale Angelo Amato lascia alla sua famiglia religiosa, alla diocesi di Molfetta e all’intera Chiesa.

E non possiamo trascurare l’eredità scritturistica che il Cardinale Angelo Amato ci ha lasciato. Presentiamo a continuazione un elenco, sicuramente non completo delle sue pubblicazioni.


























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































Anno



Titolo



Info



1



1974



I
pronunciamenti tridentini sulla necessità della confessione
sacramentale nei canoni 6-9 della sessione XIV (25 novembre 1551)



Saggio
di ermeneutica conciliare



2



1975



Problemi
attuali di cristologia



Conferenze
della facoltà teologica Salesiana 1974-1975



3



1976



La
Chiesa locale: prospettive teologiche e pastorali



Conferenze
della Facoltà teologica salesiana 1975-1976



4



1977



Cristologia
metaecclesiale?



Considerazioni
sulla cristologia “metadogmatica” di E. Schillebeeckx



5



1977



Il
Gesù storico



Problemi
e interpretazioni



6



1977



Temi
teologico-pastorali







7



1978



Annuncio
cristiano e cultura contemporanea







8



1978



Studi
di cristologia patristica attuale



A
proposito di due recenti pubblicazioni di Alois Grillmeier



9



1979



Il
sacramento della penitenza nelle “Risposte” del
patriarca Geremia II ai teologi luterani di Tübingen
(1576,1579,1581)







10



1980



Annunciare
Cristo ai giovani



(coautore)



11



1980



Il
Cristo biblico-ecclesiale



Proposta
di una sintesi criteriologica sui contenuti essenziali
dell’annuncio cristologico contemporaneo



12



1980



Il
Cristo biblico-ecclesiale latinoamericano



Il
modulo cristologico “religioso-popolare” di Puebla



13



1980



La
figura di Gesù Cristo nella cultura contemporanea



Il
Cristo nel conflitto delle interpretazioni



14



1980



Selezione
orientativa sulle pubblicazioni cristologiche in Italia







15



1980



L’enciclica
del dialogo rivisitata



A
proposito del Colloquio internazionale di studio sull’”Ecclesiam
suam
” di
Paolo VI (Roma, 24-26 ottobre 1980)



16



1981



Il
Salvatore e la Vergine-Madre: la maternità salvifica di
Maria e le cristologie contemporanee



Atti
del 3º Simposio mariologico internazionale (Roma, ottobre
1980)



17



1981



La
risurrezione di Gesù nella teologia contemporanea







18



1981



Mariologia
in contesto



Un
esempio de teologia inculturata: “Il volto meticcio di Maria
di Guadalupe” (Puebla n.446)



19



1982



Il
sacramento della penitenza nella teologia greco-ortodossa



Studi
storico-dogmatici, sec. XVI-XX



20



1983



Inculturazione-Contestualizzazione:
teologia in contesto



Elementi
di bibliografia scelta



21



1983



La
dimension “thérapeutique” du sacrement de la
pénitence dans la théologie et la praxis de l’Église
gréco-orthodoxe







22



1984



Come
conoscere oggi Maria







23



1984



Inculturazione
e formazione salesiana



Dossier
dell’incontro di Roma, 12-17 settembre 1983 (coautore)



24



1984



Maria
e lo Spirito Santo



Atti
del 4º Simposio Mariologico Internazionale (Roma, ottobre,
1982)



25



1985



Come
collaborare al progetto di Dio con Maria



Princìpi
e proposte



26



1987



La
Madre della misericordia







27



1988



Gesù
il Signore



Saggio
di cristologia



28



1989



Essere
donna



Studi
sulla lettera apostolica “Mulieris
dignitatem

di Giovanni Paolo II (coautore)



29



1990



Cristologia
e religioni non cristiane



Problematica
e attualità: considerazioni introduttive



30



1991



Come
pregare con Maria







31



1991



Studio
dei Padri e teologia dogmatica



Riflessioni
a partire dall’Istruzione della Congregazione per
l’educazione cattolica del 10 novembre 1989 (=IPC)



32



1991



Verbi
revelati ‘accommodata praedicatio’ lex omnis
evangelizationis”

(GS n.44)



Riflessioni
storico-teologiche sull’inculturazione



33



1992



Angeli
e demoni Il dramma
della storia tra il bene e il male







34



1992



Dio
Padre – Dio Madre



Riflessioni
preliminari



35



1992



Il
mistero di Maria e la morale cristiana







36



1992



Il
posto di Maria nella “Nuova evangelizzazione”







37



1993



Cristologia
della Secunda
Clementis



Considerazioni
iniziali



38



1993



Lettera
cristologica dei primi concili ecumenici







39



1994



Trinità
in contesto







40



1996



Maria
presso la Croce, volto misericordioso di Dio per il nostro tempo



Convegno
mariano delle Serve di Maria Riparatrici, Rovigo, 12-15 settembre
1995



41



1996



Tertio
millennio adveniente
:
Lettera apostolica di Giovanni Paolo II



Testo
e commento teologico pastorale



42



1996



Vita
consecrata
. Una
prima lettura teologica







43



1997



Alla
ricerca del volto di Cristo: … ma voi chi dite che io sia?



Atti
della XXVII Settimana teologica diocesana, Figline Valdarno, 2-5
settembre 1997



44



1997



Gesù
Cristo verità di Dio e ricerca dell’uomo



Cristologia



45



1997



La
catechesi al traguardo. Studi sul Catechismo della Chiesa
cattolica



(coautore)



46



1997



Super
fundamentum Apostolorum



Studi
in onore di S. Em. il cardinale A.M. Javierre Ortas (coautore)



47



1998



El
Evangelio del Padre







48



1998



Gesù
Cristo morto e risorto per noi consegna lo Spirito



Meditazioni
teologiche sul mistero pasquale (coautore)



49



1998



Il
Vangelo del Padre







50



1998



Una
lettura cristologica della “Secunda
Clementis



Esistenza
di influssi paolini?



51



1999



Evangelización,
catequesis, catequistas



Una
nueva etapa para la Iglesia del tercer milenio



52



1999



La
Vergine Maria dal Rinascimento a oggi







53



1999



Missione
della Chiesa e Chiesa in missione]. Gesù Cristo, Verbo del
Padre



Ambito
II



54



1999



La
Chiesa santa, madre di figli peccatori



Approccio
ecclesiologico ed implicanze pastorali



55



2000



Dominus
Iesus
: l’unicità
e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e
della Chiesa



Dichiarazione



56



2000



Gesù
Cristo e l’unicità della mediazione



(coautore)



57



2000



Gesù
Cristo, speranza del mondo



Miscellanea
in onore di Marcello Bordoni



58



2000



La
Vierge dans la catéchèse, hier et aujourd’hui



Communications
présentées à la 55e Session de la Société
française d’études mariales, Sanctuaire
Notre-Dame-de-la-Salette, 1999 (coautore)



59



2000



Maria
e la Trinità



Spiritualità
mariana ed esistenza cristiana



60



2000



Maria
nella catechesi ieri e oggi



Un
sintetico sguardo storico



61



2001



Crescere
nella grazia e nella conoscenza di Gesù







62



2002



Dichiarazione
Dominus
Iesus
” (6
agosto 2000)



Studi
(coautore)



63



2003



Maria
Madre della speranza



Per
una inculturazione della speranza e della misericordia. [Parte
componente di monografia]



64



2005



La
Madre del Dio vivo a servizio della vita



Atti
del 12. Colloquio internazionale di mariologia, Santuario del
Colle, Lenola (Latina), 30 Maggio – 1° giugno 2002 (coautore)



65



2005



Lo
sguardo di Maria sul mondo contemporaneo



Atti
del XVII Colloquio internazionale di mariologia, Rovigo, 10-12
settembre 2004



66



2005



Maria,
sintesi di valori



Storia
culturale della mariologia (coautore)



67



2007



Sui
sentieri di Clotilde Micheli fondatrice delle Suore degli Angeli
adoratrici della SS. Trinità



Spiritualità
e promozione umana (coautore)



68



2007



San
Francesco Antonio Fasani apostolo francescano e culture
dell’Immacolata







69



2007



Il
vescovo maestro della fede



Sfide
contemporanee al magistero della verità



70



2008



Gesù,
identità del cristianesimo Conoscenza
ed esperienza







71



2008



La
Dominus Iesus
e le religioni







72



2009



Catholicism
and secularism in contemporary Europe







73



2009



Futuro
presente Contributi
sull’enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI



(coautore)



74



2009



La
santità dei papi e di Benedetto XIII







75



2009



Maria
di Nazaret. Discepola e testimone della parola







76



2009



Reflexiones
sobre la cristología contemporánea







77



2010



I
santi nella Chiesa







78



2010



Il
celibato di Cristo nelle trattazioni cristologiche contemporanee



Rassegna
critico-sistematico



79



2010



Il
celibato di Gesù







80



2010



Il
santo di Dio. Cristologia e santità







81



2011



Dialogo
interreligioso Significato
e valore







82



2011



I
santi si specchiano in Cristo







83



2011



Istruzione
Sanctorum
mater



Presentazione



84



2011



Le
cause dei santi



Sussidio
per lo “Studium



85



2011



Maria
la Theotokos.
Conoscenza ed esperienza







86



2012



I
santi testimoni della fede







87



2012



Santa
Ildegarda di Bingen







88



2012



Santi
e beati. Come
procede la Chiesa







89



2012



Testi
mariani del secondo millennio



(coautore)



90



2013



I
santi evangelizzano



Contributo
nel Sinodo dei Vescovi dell’ottobre 2012, che documenta
l’indispensabile natura evangelizzatrice dei Santi, che
grazie alla loro esemplare condotta cristiana, nutrita di fede,
speranza e carità, diventano così dei punti di
riferimento per la Chiesa Cattolica e per i fedeli di tutto il
mondo e tutte le culture, orientandoli verso una vita di santità.
Il volume è diviso in due parti: nella prima si trovano le
riflessioni dottrinali sul concetto di Santità e sulle
cause dei Santi, la seconda parte raccoglie invece omelie, lettere
e relazioni, tenute nell’arco del 2012, che descrivono la
vita e l’operato di Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio



91



2013



Il
Paradiso: di che si tratta?







92



2014



Accanto
a Giovanni Paolo II



Gli
amici e i collaboratori raccontano (coautore)



93



2014



I
santi profeti di speranza







94



2014



La
Santissima Eucaristia nella fede e nel diritto della Chiesa



(coautore)



95



2014



San
Pietro Favre







96



2014



Sant’Angela
da Foligno







97



2015



I
santi: apostoli di Cristo risorto







98



2015



Gregorio
di Narek. Dottore della Chiesa







99



2015



Beato
Oscar Romero







100



2015



Santa
Maria dell’incarnazione







101



2015



San
Joseph Vaz







102



2015



I
Santi apostoli di Cristo risorto







103



2016



I
santi: messaggeri di misericordia







104



2016



Misericordiosi
come il Padre



Esperienze
di misericordia nel vissuto di santità



105



2017



I
santi, ministri della carità



Contiene
considerazioni sulla carità e una galleria di uomini e
donne (santi, beati, venerabili e servi di Dio) esemplari per
l’esercizio eroico di questa energia divina che è la
carità



106



2017



Il
messaggio di Fatima tra carisma e profezia



Atti
del Forum Internazionale di Mariologia (Roma 7-9 maggio 2015)



107



2018



I
santi e la Madre di Dio







108



2019



Perseguitati
per la fede



Le
vittime del nazionalsocialismo in Europa centro-orientale



109



2019



Sufficit
gratia mea



Miscellanea
di studi offerti a Sua Em. il Card. Angelo Amato in occasione del
suo 80º genetliaco



110



2019



Un’inedita
Sicilia. Eventi e personaggi da riscoprire







111



2020



Il
segreto di Tiffany Grant







112



2021



Iesus
Christus heri et hodie, ipse et in saecula



Raccolta
di contributi promossa dalla Pontificia Università
Salesiana per il Card. Angelo Amato, in occasione del suo 80º
genetliaco



113



2021



Dici
l’anticu… La cultura popolare nel paese del Gattopardo.
Proverbi di Palma di Montechiaro







114



2023



Una
Sicilia ancora da scoprire. Eventi e personaggi inediti











Intervista al nuovo ispettore don Milan Ivančević

La Croazia salesiana rappresenta una parte della Congregazione Salesiana, degna di particolare attenzione. In un paese che conta quasi 4 milioni di abitanti, stanno emergendo numerose vocazioni, non solo tra i salesiani, ma anche tra le Figlie di Maria Ausiliatrice. Recentemente, la comunità ha accolto un nuovo ispettore salesiano: don Milan Ivančević. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo e vogliamo offrire la sua testimonianza.

Puoi presentarti?
Milan Ivančević, salesiano, nato il 25 ottobre 1962, a Šlimac (Rama – Prozor, BiH). Di tre fratelli e tre sorelle, ho 29 nipoti. Ho terminato le scuole elementari e superiori nella mia città natale. Dopo aver studiato matematica e fisica a Mostar e due anni di insegnamento in una scuola elementare, sono entrato nella comunità salesiana nell’autunno del 1989. Ho preso i voti permanenti l’8 settembre 1997 e sono stato ordinato sacerdote il 27 giugno 1998.
Come sacerdote salesiano ho svolto i seguenti servizi:
– 1998 – 1999: Vicario parrocchiale nella parrocchia di Maria Ausiliatrice a Knežija;
– 1999 – 2002: insegnante di religione a Žepče;
– 2002 – 2003: consigliere della Comunità per l’Educazione delle Vocazioni Salesiane a Podsused;
– 2003 – 2005: studio specialistico a Roma presso UPS, (licenza in spiritualità);
– 2005 – 2006: consigliere della Comunità per l’Educazione delle Vocazioni Salesiane a Podsused;
– 2006 – 2015: direttore nella stessa comunità e membro del Consiglio ispettoriale;
– 2015 – 2021: direttore della comunità salesiana di Žepče e direttore del KŠC Don Bosco;
– 2021 – 2024: parroco e direttore della comunità a Spalato;
– 2024 –: ispettore.

Chi ti ha raccontato per primo la storia di Gesù?
Mia madre mi ha insegnato i primi passi nella fede, con la parola e con l’esempio. Più tardi, crescendo, anche tutti gli altri membri della famiglia ci hanno formato nella fede, perché in famiglia c’era la preghiera regolare: preghiera del mattino e della sera, prima e dopo i pasti.
Abitavamo in un villaggio a 7 km dalla chiesa, ma andavamo regolarmente alla Santa Messa domenicale. Tutto era intriso di fede ma anche di tanta sofferenza. La mia zona ha sofferto molto durante la seconda guerra mondiale. In un giorno la madre, quando aveva solo 11 anni, perse due fratelli che furono uccisi dai cetnici (serbi) nell’autunno del 1942 solo perché croati. Quella ferita segnò la famiglia per tutta la vita insieme alla povertà.

Come hai conosciuto Don Bosco / i salesiani?
Ho sentito parlare dei Salesiani abbastanza tardi. Durante i miei studi di matematica, ho espresso il desiderio a mia zia, ormai defunta, che era una suora in Germania, di voler diventare prete. Mi ha fornito quattro indirizzi dalla Germania a cui è possibile rivolgersi in relazione alla vocazione al sacerdozio. Tra questi il discorso dei Salesiani in Germania. Così ho cominciato a corrispondere con loro, e le lettere sono state tradotte dal salesiano croato don Franjo Crnjaković, che allora lavorava in Germania. Quando i tempi furono maturi per entrare in comunità, si presentò il problema di non conoscere la lingua tedesca. Poi don Franjo mi ha mandato l’indirizzo dei salesiani di Zagabria e così sono diventato salesiano croato.

Avevi fino gli studi superiori in matematica. Perché salesiano?
Amavo la matematica e lavorare con i bambini a scuola. Mi è piaciuto aiutare i giovani a risolvere problemi di matematica. Fin dalla mia infanzia, la vocazione sacerdotale in qualche modo covava in me. La prima che ricordo è stata un’esperienza con un parente anziano che era tra i pochi parenti a ricevere una pensione. Quando ero in terza elementare, un giorno mi vide felice per i miei ottimi voti e mi disse: “Promettimi che studierai per diventare prete, e d’ora in poi ti darò 5 stoi di ciascuna delle mie pensioni” (valore attuale 10 euro). E ovviamente l’ho promesso perché per me da bambino era un grande valore. Molti anni dopo, quando già lavoravo in una scuola ed ero vicino alla decisione di entrare in comunità, fui al suo funerale e sulla tomba aperta lo ringraziai e gli promisi che mi sarei fatto prete. Tra i bambini a cui insegnavo matematica c’erano anche quelli abbandonati dai genitori. Osservare la loro situazione mi ha aiutato a decidere di intraprendere la strada del servizio ai giovani come salesiano.

La gioia più bella e la fatica più grande
Le esperienze della confessione mi rendono felice soprattutto. Quando vedo davanti a me la trasformazione dell’anima umana e riconosco me stesso come il mezzo attraverso il quale avviene, essa non può essere paragonata a nulla sulla terra, è un evento celeste. Soprattutto quando si tratta di giovani, ma in queste situazioni ogni anima è giovane perché è bella. E ciò che mi ferisce di più è la disperazione dei bambini e dei giovani quando i loro genitori si separano. Sono sempre profondamente commosso dalla loro sofferenza. E anche la consapevolezza di quando le persone prendono alla leggera la decisione di abortire. Mi viene la pelle d’oca a causa della cecità in cui le persone non sono consapevoli di quanto grande sia l’errore che stanno commettendo. Queste cose penetrano nel profondo dell’umanità e la mettono in discussione.

Quali sono le necessità locali più urgenti e dei giovani? Che cosa si potrebbe fare di più e meglio?
Il bisogno più urgente della nostra popolazione è ridare speranza alle persone affinché non abbiano paura della vita e rafforzare le persone nella fede che Dio guida e sostiene questo mondo. La vita è tanto più bella e ricca quando è intrisa di fede, perché proprio nella fede essa ha un significato evidente e può trovare sempre motivi di gioia. La cultura moderna ruba questo valore ai giovani e lo sostituisce con valori di breve durata, che si consumano facilmente e velocemente, lasciando un vuoto nell’anima. Abbiamo la fortuna che un gran numero di giovani riescano a coltivare e vivere la propria fede, a volte anche controcorrente. Ma purtroppo molti sono ancora lontani dalla fede e cercano un senso in qualcosa di più piccolo di loro.
Forse potremmo uscire ancora di più e iniziare a cercare i randagi. Ma è necessario uscire preparati, se portiamo solo le nostre forze riusciremo un po’, ma se andiamo avanti con la forza di Dio, allora Lui fa molto per le nostre piccole cose. Penso che nei nostri cuori, che sono consacrati a Dio, abbiamo bisogno di recuperare quell’amore originario e testimoniare con rinnovata forza che Dio è realmente vivo e che ci invita a partecipare alla sua vita. E questo non può essere nascosto, le anime lo vedono.

Come vedi il futuro?
Il futuro, come il presente, è nelle mani di Dio. La Bibbia ci insegna che il mondo è in buone mani. Ecco perché non dobbiamo avere paura. “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31). È vero che i cambiamenti avvengono a una velocità incredibile, il mondo diventa sempre più piccolo perché tutto è facile e veloce da raggiungere. Culture e tradizioni si mescolano e nessuno può immaginare quali saranno le conseguenze. Ma se abbiamo fiducia nel Signore, che è la fonte della vita, Egli porterà tutto al bene. Sta a noi ascoltare, discernere e cercare il nostro posto e il nostro ruolo in ciò che Egli ci chiede. E se siamo su quella strada, allora siamo pronti alle meravigliose sorprese che il Signore sta preparando per noi.

Quale posto occupa nella tua vita Maria Ausiliatrice?
Maria, la Madre di Gesù, ha un posto importante nella mia vita. Mia madre ci ha indicato la presenza della Madonna per tutta la sua vita e ha sussurrato e pregato il rosario fino al suo ultimo respiro. Faccio anche volentieri pellegrinaggi ai santuari della Madonna e testimonio come il suo sguardo infonde speranza nelle persone. Don Bosco ci ha lasciato la devozione a Maria Ausiliatrice e ci ha promesso che vedremo cosa sono i miracoli se avremo fiducia infantile nell’Immacolata Ausiliatrice. Il mistero del Natale e dell’Eucaristia non può essere compreso senza immergersi nel profondo, e il modo più semplice per riuscirci è pregare il rosario.

Che cosa diresti ai giovani in questo momento?
Il mio messaggio ai giovani è che non abbiano paura di essere credenti, anche se la moda la chiama arretratezza. E infatti nessuno è interessato al nostro domani quanto Dio, che nei suoi comandamenti ci dà la forza per il futuro. Ci prepara per il futuro con i suoi comandamenti. Se ogni giorno cerchiamo di armonizzare la nostra vita secondo il Decalogo, allora possiamo già dire di noi stessi: beati quelli che vengono dietro di noi perché avranno delle persone davanti a loro. Perciò giovani, siate coraggiosi, non abbiate paura della vita, è il dono più bello di Dio.

Milan Ivančević, sdb
ispettore CRO