Andrea Beltrami profilo virtuoso (1/2)

            Il venerabile don Andrea Beltrami (1870-1897) è espressione emblematica di una dimensione costitutiva non solo del carisma salesiano, ma del cristianesimo: la dimensione oblativa e vittimale, che in chiave salesiana incarna le esigenze del “caetera tolle”. Una testimonianza che, sia per la sua singolarità, sia per ragioni in parte legate a letture datate o tramandate attraverso una certa vulgata, è andata scomparendo dalla visibilità del mondo salesiano. Resta il fatto che il messaggio cristiano presenta intrinsecamente aspetti incompatibili con il mondo e se ignorati rischiano di rendere infecondo lo stesso messaggio evangelico e, nello specifico, il carisma salesiano, non salvaguardato nelle sue radici carismatiche di spirito di sacrificio, di faticosa laboriosità, di rinunce apostoliche. La testimonianza di don Andrea Beltrami è paradigmatica di tutto un filone della santità salesiana che, partendo dai tre santi Andrea Beltrami, beato Augusto Czartoryski, beato Luigi Variara, continua nel tempo con altre figure di famiglia quali la beata Eusebia Palomino, la beata Alexandrina Maria da Costa, la beata Laura Vicuña, senza dimenticare la numerosa schiera dei martiri.

1. Radicalità evangelica

1.1. Radicale nella scelta vocazionale
            A Omegna (Novara), sulle rive del lago d’Orta, il 24 giugno 1870, nacque Andrea Beltrami. Ricevette in famiglia un’educazione profondamente cristiana, che fu poi sviluppata nel collegio salesiano di Lanzo ove entrò nell’ottobre del 1883. Qui maturò la sua vocazione. A Lanzo, un giorno ebbe la grande fortuna di incontrare Don Bosco. Rimastone affascinato, gli nacque dentro una domanda: «Perché non potrei essere anch’io come lui? Perché non spendere anch’io la vita per la formazione e la salvezza dei giovani?». Nel 1885, Don Bosco gli disse: «Andrea, diventa anche tu salesiano!». Nel 1886 ricevette l’abito chiericale da Don Bosco a Foglizzo e il 29 ottobre 1886 iniziava l’anno di noviziato con un proposito: «Voglio farmi santo». Tale proposito non fu formale, ma diventò ragione di vita. Specialmente don Eugenio Bianchi, suo maestro di noviziato, nella relazione che fece a Don Bosco, lo descrive come perfetto in ogni virtù. Tale radicalità fin dal noviziato si espresse nell’obbedienza ai superiori, nell’esercizio della carità verso i compagni, nell’osservanza religiosa da essere definito “Regola personificata”. Il 2 ottobre 1887, a Valsalice (Torino) Don Bosco riceveva i voti religiosi di Andrea: era diventato salesiano e intraprese subito gli studi per prepararsi al sacerdozio.
            Colpisce molto la fermezza e la determinazione nella risposta alla chiamata del Signore, segno del valore che egli attribuiva alla sua vocazione: «La grazia della vocazione fu per me una grazia, affatto singolare, invincibile, irresistibile, efficace. Il Signore mi aveva messo in cuore una ferma persuasione, un intimo convincimento che la sola via a me conveniente era farmi salesiano; era una voce di comando che non ammetteva replica, che toglieva ogni ostacolo alla quale non avrei potuto resistere anche se avessi voluto, e perciò avrei superato mille difficoltà, ancorché si fosse trattato di passare sul corpo di mio padre e di mia madre, come fece la Chantal che passò sul corpo del suo figlio”. Queste espressioni molto forti e forse poco piacevoli al nostro palato; sono come il preludio a una storia vocazionale vissuta con una radicalità non facile né da comprendere e tanto meno da accettare.

1.2. Radicale nel cammino formativo
            Un aspetto interessante e rivelativo di un agire prudenziale è la capacità di lasciarsi consigliare e correggere e diventare a sua volta capace di correzione e di consiglio: «Mi getto come un bambino nelle braccia sue abbandonandomi interamente alla sua direzione. Ella mi conduca per la via della perfezione, io sono risoluto con la grazia di Dio, di superare qualunque difficoltà, di fare qualunque sforzo per seguire i suoi consigli»; così al suo direttore spirituale don Giulio Barberis. Nell’esercizio dell’insegnamento e dell’assistenza «parlava sempre con calma e serenità… prima leggeva attentamente i regolamenti dei medesimi uffici… le norme ed il regolamento sull’assistenza e sul modo di far scuola… acquistò presto la conoscenza di ciascuno dei propri allievi, dei loro bisogni individuali, quindi si fece tutto a tutti ed a ciascuno». Nella correzione fraterna si lasciava ispirare da principi cristiani e interveniva ponderando bene le parole ed esprimendo chiaramente il suo pensiero.

            Risale a questo periodo la conoscenza del principe polacco Augusto Czartoryski da poco entrato in Congregazione, con il quale Andrea si legò d’amicizia: studiavano insieme le lingue straniere e si aiutavano a salire verso la vetta della santità. Quando Augusto si ammalò, i superiori pregarono Andrea di stargli vicino e di aiutarlo. Trascorsero insieme le vacanze estive negli istituti salesiani di Lanzo, Penango d’Asti, Alassio. Augusto, che intanto era arrivato al sacerdozio, era per Andrea angelo custode, maestro ed esempio eroico di santità. Don Augusto si spegnerà nel 1893 e don Andrea dirà di lui: “Ho curato un santo”. Quando poi a sua volta don Beltrami si ammalerà della stessa malattia, tra le probabili cause bisognerà annoverare anche questa dimestichezza di vita con l’amico infermo.

1.3. Radicale nella prova
            La sua malattia iniziò in modo brutale il 20 febbraio 1891 quando, in seguito ad un viaggio molto faticoso e durante i giorni di rigido inverno, si manifestarono i primi sintomi di un male che ne avrebbe minato la salute e lo avrebbe condotto alla tomba. Se tra le cause vi sono le fatiche scolastiche e i contatti con il principe Czartoryski affetto da tale malattia, meritano di essere ricordati sia lo sforzo ascetico che l’offerta vittimale. Circa tale lotta ingaggiata con il proprio uomo vecchio testimonia il suo compaesano e compagno di noviziato Giulio Cane: «Ebbi sempre la convinzione che il servo di Dio abbia preso la scossa più grave alla sua salute dalla forma violenta e costante con cui s’impose di rinnegare ogni suo moto volontario per farsi direi schiavo della volontà del Superiore, nel quale egli vedeva quella di Dio. Solo chi poté conoscere il servo di Dio negli anni della sua adolescenza e giovinezza, dallo spirito impulsivo, ardente, quasi ribelle ad ogni freno, e che sa come sia proprio della gente dei Beltrami Manera, il carattere tenace alle proprie opinioni, può farsi un chiaro concetto dello sforzo che il servo di Dio ebbe ad imporsi per dominare se stesso. In poi dalle conversazioni avute col servo di Dio mi feci questa convinzione: che Egli, diffidando di poter vincersi a gradi nel suo carattere, abbia fatto, fino dai primi mesi del suo Noviziato, il proposito della radicale rinunzia del suo volere, delle sue tendenze, delle sue aspirazioni. Tutto ciò ottenne con una costante vigilanza su se stesso per non venir mai meno al suo proposito. È impossibile che una tale lotta interna non abbia contribuito, più che le fatiche dello studio e dell’insegnamento, a minare la salute del servo di Dio». Davvero il giovane Beltrami prese alla lettera le parole del Vangelo: «Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12).

            Visse la sua sofferenza con letizia interiore: «Il Signore mi vuole sacerdote e vittima: che c’è di più bello?». La sua giornata iniziava con la Santa Messa, in cui egli univa le sue sofferenze al Sacrificio di Gesù presente sull’altare. La meditazione diventava contemplazione. Ordinato sacerdote da mons. Cagliero, si diede tutto alla contemplazione e all’apostolato della penna. D’una tenacia di volontà a tutta prova, con un desiderio veementissimo della santità, consumò la sua esistenza nel dolore e nel lavoro incessante. «La missione che Dio mi affida è di pregare e di soffrire”, diceva. “Io sono contento e felice e faccio sempre festa. Né morire, né guarire, ma vivere per soffrire: nei patimenti ho trovato la vera contentezza», fu il suo motto. Ma la sua vocazione più vera era la preghiera e la sofferenza: essere vittima sacrificale con la Vittima divina che è Gesù. Lo rivelano i suoi scritti luminosi e ardenti: «È pur bello nelle tenebre, quando tutti riposano, tenere compagnia a Gesù, alla tremula luce della lampada davanti al Tabernacolo. Si conosce allora la grandezza infinita del suo amore». «Chiedo a Dio lunghi anni di vita per soffrire ed espiare, riparare. Io sono contento e faccio sempre festa perché lo posso fare. Né morire né guarire, ma vivere per soffrire. Nella sofferenza sta la mia gioia, la sofferenza offerta con Gesù in croce». «Mi offro vittima con Lui, per la santificazione dei sacerdoti, per gli uomini del mondo intero».

2. Il segreto
            Nel suo testo fondamentale per comprendere la vicenda di don Andrea Beltrami, don Giulio Barberis situa la santità del giovane salesiano nell’orbita di quella di Don Bosco, apostolo della gioventù abbandonata. Per fama di santità e di segni don Barberis parla di don Beltrami come «splendente come astro insigne… che tanta luce sparse di buon esempio e tanto ci incoraggiò al bene con le sue virtù!». Si tratterà quindi di cogliere di quale esemplarità di vita si tratti e in quale misura sia di incoraggiamento a quanti la guardano. La testimonianza di don Barberis si fa ancora più stringente e in forma molto ardita dichiara: «Io sono da oltre 50 anni nella Pia Società Salesiana; sono stato oltre 25 anni Maestro dei novizi: quanti santi confratelli ho conosciuto, quanti buoni giovani sono passati sotto di me in questo tempo! Quanti fiori eletti si compiacque il Signore trapiantare nel giardino salesiano in Paradiso! Eppure, se io ho da dire tutto il mio pensiero, sebbene non intenda far paragoni, mia convinzione si è, che nessuno abbia sorpassato in virtù e santità il carissimo nostro don Andrea». E nel processo affermò: «Sono persuaso che sia una grazia straordinaria che volle fare Iddio alla Congregazione fondata dall’impareggiabile don Giovanni Bosco, affinché noi cercando di imitarlo, possiamo raggiungere nella Chiesa lo scopo che ebbe il venerabile Don Bosco nel fondarla». L’attestazione, condivisa da tanti, è basata sia su una conoscenza approfondita della vita dei santi, sia su una famigliarità con don Beltrami di oltre dieci anni.
            Ad uno sguardo superficiale la luce di santità del Beltrami parrebbe in contrasto con la santità di Don Bosco di cui dovrebbe essere un riflesso, ma una lettura attenta consente di cogliere un segreto ordito su cui è intessuta l’autentica spiritualità salesiana. Si tratta di quella parte nascosta, non visibile, che tuttavia costituisce l’ossatura portante della fisionomia spirituale ed apostolica di Don Bosco e dei suoi discepoli. L’ansia del “Da mihi animas” si nutre dell’ascetica del “caetera tolle”; la parte frontale del personaggio misterioso del famoso sogno dei dieci diamanti, con le gemme della fede, speranza, carità, lavoro e temperanza, esige che nella parte posteriore corrispondano quelle dell’obbedienza, povertà, premio, castità, digiuno. La breve esistenza di don Beltrami è densa di un messaggio che rappresenta il lievito evangelico che fa fermentare tutta l’azione pastorale ed educativa tipica della missione salesiana e senza il quale l’azione apostolica è destinata ad esaurirsi in uno sterile e inconcludente attivismo. «La vita di don Beltrami, passata tutta nascosta in Dio, tutta nella preghiera, nei patimenti, nelle umiliazioni, nei sacrifizi, tutta in un lavoro nascosto ma costante, in una carità eroica, sebbene ristretta in un piccolo cerchio secondo la sua condizione, in un complesso mi pare tanto ammirabile da far dire: la fede ha operato sempre dei prodigi, ne opera anche oggidì, come certamente ne opererà finché il mondo duri».
            Si tratta di una consegna totale ed incondizionata di sé al progetto di Dio che motiva l’autentica radicalità della sequela evangelica, vale a dire di ciò che sta alla base, a fondamento di un’esistenza vissuta come risposta generosa ad una chiamata. Lo spirito con cui don Beltrami visse la sua vicenda è bene espresso da questa testimonianza riportata da un suo compagno che mentre lo commiserava per la sua malattia fu interrotto dal Beltrami in questi termini: «Lascia, disse, Dio sa quel che fa; ad ognuno accettare il suo posto ed in quello essere veramente Salesiano. Voi altri sani lavorate, io ammalato soffro e prego», così convinto di essere vero imitatore di Don Bosco.
            Certo non è facile cogliere tale segreto, tale perla preziosa. Non lo fu per don Barberis che pure lo conobbe in modo serio per ben dieci anni come direttore spirituale; non lo fu nella tradizione salesiana che gradualmente ha emarginato tale figura; non lo è nemmeno per noi oggi e per tutto un contesto culturale e antropologico che tende ad emarginare il messaggio cristiano, soprattutto nel suo nucleo di opera redentiva che passa attraverso lo scandalo dell’umiliazione, della passione e della croce. «Descrivere le singolari virtù d’un uomo vissuto sempre chiuso in una casa religiosa, e, negli anni più importanti, in una cameretta, senza pur poter scendere le scale, per ragion della sua malattia, d’un uomo poi d’una tal umiltà che fece scomparire accuratamente tutti quei documenti che avrebbero potuto far conoscere le sue virtù, e che cercava non trapelasse ombra degli alti sensi di sua pietà; di uno che, a chi voleva e a chi non voleva, si protestava gran peccatore accennando a’ suoi innumerevoli peccati, mentre invece era sempre stato tenuto il migliore in qualunque scuola e collegio si fosse presentato, è opera non pure difficile, ma quasi impossibile». La difficoltà a cogliere il profilo virtuoso dipende dal fatto che tali virtù non erano né appariscenti, né suffragate da particolari fatti esteriori da attirare l’attenzione o suscitare ammirazione.

(continua)




Don Rinaldi ai Becchi

Il beato don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, è ricordato come una figura straordinaria, capace di unire in sé le qualità di Superiore e Padre, insigne maestro di spiritualità, pedagogia e vita sociale, oltre che guida spirituale impareggiabile. La sua profonda ammirazione per don Bosco, che ebbe il privilegio di conoscere personalmente, lo rese una viva testimonianza del carisma del fondatore. Consapevole dell’importanza spirituale dei luoghi legati all’infanzia di don Bosco, don Rinaldi dedicò particolare attenzione a visitarli, riconoscendone il valore simbolico e formativo. In questo articolo, ripercorriamo alcune delle sue visite al Colle Don Bosco, alla scoperta del legame speciale che lo univa a questi luoghi santi.

Per il santuarietto di Maria Ausiliatrice
            Con l’inaugurazione del Santuarietto di Maria Ausiliatrice, voluto davanti alla Casetta di don Bosco da don Paolo Albera, e precisamente dal due agosto 1918, quando Mons. Morganti, Arcivescovo di Ravenna, assistito dai nostri Superiori Maggiori, benedisse solennemente la chiesa e le campane, ebbe inizio la presenza stabile dei Salesiani ai Becchi. In quel giorno c’era pure don Filippo Rinaldi, Prefetto Generale, e, con lui, don Francesco Cottrino, primo direttore della nuova casa.
            D’allora in poi le visite di don Rinaldi ai Becchi si rinnovarono ogni anno a ritmo serrato, vera espressione del suo grande affetto al buon padre don Bosco e del suo vivissimo interessamento per l’acquisto e l’appropriata sistemazione dei luoghi memorabili della fanciullezza del Santo.
            Dalle scarne notizie di cronaca della casa salesiana dei Becchi si possono facilmente dedurre la cura e l’amore con cui don Rinaldi promosse e seguì personalmente i lavori necessari a rendere onore a don Bosco ed appropriato servizio ai pellegrini.
            Nel 1918, dunque, don Rinaldi, dopo la sua venuta ai Becchi per la benedizione della chiesa, vi ritornò il 6 ottobre assieme al Card. Cagliero per la Festa del Santo Rosario, e ne approfittò per avviare le trattative dell’acquisto della Casa Cavallo retrostante a quella di don Bosco.

Cura dei lavori per la casetta
            Nel 1919 furono due le visite di don Rinaldi ai Becchi: quella del 2 giugno e quella del 28 settembre, tutte e due in vista dei restauri da effettuare nella zona storica del Colle.
            Tre invece furono le visite nel 1920: quella del 16-17 giugno, per trattare l’acquisto della casa Graglia e del prato dei fratelli Bechis; quella dell’11 settembre per visitare i lavori e la proprietà dei Graglia; e, infine, quella del 13 dello stesso mese, per presenziare alla stesura dello strumento notarile di acquisto della medesima casa Graglia.
            Due furono le visite del 1921: il 16 marzo, con l’Arch. Valotti, per il progetto di una strada che conducesse al Santuario e di un Pilone e di un Capannone per pellegrini sulla piazzetta; il 12-13 settembre, con l’Arch. Valotti ed il Cav. Melle, per lo stesso scopo.
            Nel 1922 don Rinaldi fu di nuovo ai Becchi due volte: il 4 maggio con il Card. Cagliero, don Ricaldone, don Conelli e tutti i Membri del Capitolo Generale (inclusi i Vescovi Salesiani), per pregare presso la Casetta dopo la sua elezione a Rettor Maggiore; ed il 28 settembre con i suoi più diretti collaboratori.
            Vi giunse poi il 10 giugno 1923 per celebrare la Festa di Maria Ausiliatrice. Presiedette ai Vespri nel santuario, fece la predica ed impartì la benedizione eucaristica. Nell’Accademia che seguì, presentò la Croce «Pro Ecclesia et Pontifice» al sig. Giovanni Febbraro, nostro benefattore. Vi ritornò poi in ottobre con il Card. G. Cagliero per la festa del Santo Rosario, celebrando la Santa Messa alle ore 7 e portando il SS. nella processione eucaristica cui seguì la Benedizione impartita dal Cardinale.
            Il 7 settembre 1924 don Rinaldi guidò ai Becchi il Pellegrinaggio dei Padri di Famiglia e de-gli Exallievi delle Case di Torino. Celebrò la Santa Messa, fece la predica e poi, dopo colazione, partecipò al Concerto organizzato per l’occasione. Ritornò ancora il 22 ottobre dello stesso anno assieme a don Ricaldone, ed ai sigg. Valotti e Barberis, per risolvere la spinosa questione della strada al santuario che implicava difficoltà da parte dei proprietari dei terreni adiacenti.
            Ben tre volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1925: il 21 maggio per lo scoprimento della lapide a don Bosco, e poi il 23 luglio ed il 19 settembre, accompagnato questa volta nuovamente dal Card. Cagliero.
            Il 13 maggio 1926 don Rinaldi guidò un pellegrinaggio di circa 200 soci dell’Unione Insegnanti don Bosco, celebrando la Santa Messa e presiedendo alla loro adunanza. Il 24 luglio dello stesso anno ritornò, assieme a tutto il Capitolo Superiore, alla guida del pellegrinaggio dei Direttori delle Case d’Europa; e, di nuovo, il 28 agosto con il Capitolo Superiore ed i Direttori delle case d’Italia.

Ristrutturazione del centro storico
            Tre altre visite di don Rinaldi ai Becchi risalgono al 1927: quella del 30 maggio con don Giraudi ed il sig. Valotti per definire i lavori edilizi (costruzione del portico ecc.); quella del 30 agosto con don Tirone e con i Direttori degli Oratori festivi; e quella del 10 ottobre con don Tirone ed i giovani missionari di Ivrea. In quest’ultima occasione don Rinaldi esortò il Direttore di allora, don Fracchia, a collocare piante dietro la casa Graglia e nel prato del Sogno,
            Quattro volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1928: — Il 12 aprile con don Ricaldone per l’esame dei lavori eseguiti e di quelli in corso. — Il 9-10 giugno con don Candela e don V. Bettazzi per la Festa di Maria Ausiliatrice e per l’inaugurazione del Pilone del Sogno. In quest’occasione cantò la Santa Messa e, dopo i Vespri e la Benedizione eucaristica pomeridiana, benedisse il Pilone del Sogno ed il nuovo Portico, dirigendo a tutti dalla veranda la sua parola. Alla sera assistette alla luminaria. — Il 30 settembre giunse con don Ricaldone e don Giraudi per visitare la località «Gaj». — L’8 ottobre ritornò alla testa del pellegrinaggio annuale dei giovani missionari della casa di Ivrea. Fu in quell’anno che don Rinaldi manifestò il desiderio dell’acquisto della villa Damevino per adibirla ad alloggio per pellegrini o, meglio ancora, destinarla ai Figli di Maria aspiranti missionari.
            Ben sei furono le visite ai Becchi nel 1929: — La prima, del 10 marzo, con don Ricaldone, fu per visitare la villa Damevino e la casa Graglia (la prima delle quali venne poi acquistata quello stesso anno). Essendo ormai imminente la beatificazione di don Bosco, don Rinaldi volle pure che si allestisse un altarino al Beato nella cucina della Casetta (il che fu poi eseguito più tardi, nel 1931). — La seconda, del 2 maggio, fu pure una visita di studio, con don Giraudi, il sig. Valotti ed il pittore prof. Guglielmino. — La terza, del 26 maggio, fu per partecipare alla festa di Maria Ausiliatrice. — La quarta, del 16 giugno, la fece con il Capitolo Superiore e con tutti i Membri del Capitolo Generale per la Festa di don Bosco. — La quinta, del 27 luglio, fu una breve visita con don Tirone e Mons. Massa. — La sesta, infine, fu con Mons. Mederlet ed i giovani missionari della Casa di Ivrea, per i quali don Rinaldi non nascondeva le sue predilezioni.
            Nel 1930 don Rinaldi venne ancora due volte ai Becchi: il 26 giugno per una breve visita di ricognizione delle varie località; ed il 6 agosto, con don Ricaldone, il sig. Valotti ed il cav. Sartorio, per la ricerca dell’acqua (trovata poi da don Ricaldone in due punti, a 14 e a 11 metri di distanza dalla fonte chiamata Bacolla).
            L’anno 1931, che fu l’anno della sua morte, avvenuta il 5 dicembre, don Rinaldi giunse ai Becchi almeno tre volte: Il 19 luglio, di pomeriggio. In quell’occasione raccomandò di fare la commemorazione di don Bosco il 16 di ogni mese o la domenica seguente. Il 16 settembre, quando approvò e lodò il campo di ricreazione preparato per i giovani della Comunità. Il 25 settembre, e fu l’ultima, quando, con don Giraudi ed il sig. Valotti, esaminò il progetto degli alberi da piantare nella zona (sarà eseguito più tardi, nel 1990, quando cominciò la realizzazione del progetto di alberazione di 3000 piante sui vari versanti del Colle dei Becchi, proprio nell’anno della sua beatificazione).
            Non calcolando eventuali visite precedenti, sono quindi 41 le visite fatte da don Rinaldi ai Becchi tra il 1918 e il 1931.




Quarto sogno missionario in Africa e Cina (1885)

La medesima Provvidenza non cessava di squarciare ogni tanto dinanzi agli occhi di Don Bosco il velo del futuro sui progressi della Società Salesiana nel campo sconfinato delle Missioni. Anche nel 1885 un sogno rivelatore venne a manifestargli quali fossero i disegni di Dio nel remoto avvenire. Don Bosco lo narrò e commentò a tutto il Capitolo la sera del 2 luglio; Don Lemoyne si affrettò a scriverlo.

            Mi parve di essere innanzi ad una montagna elevatissima, sulla cui vetta stava un Angelo splendentissimo per luce, sicché illuminava le contrade più remote. Intorno al monte vi era un vasto regno di genti sconosciute.
            L’Angelo colla destra teneva sollevata in alto una spada che splendeva come fiamma vivissima e colla sinistra mi indicava le regioni all’intorno. Mi diceva: Angelus Arfaxad vocat vos ad proelianda bella Domini et ad congregandos populos in horrea Domini (L’Angelo di Arfaxad vi chiama a combattere le battaglie del Signore ed a radunare i popoli nei granai del Signore). La sua parola però non era come le altre volte in forma di comando, ma a modo di proposta.
            Una turba meravigliosa di Angeli, di cui non ho saputo o potuto ritenere il nome, lo circondava. Fra questi vi era Luigi Colle, al quale faceva corona una moltitudine di giovanetti, a cui egli insegnava a cantare lodi a Dio, cantando lui stesso.
            Intorno alla montagna, ai piedi di essa, e sopra i suoi dorsi abitava molta gente. Tutti parlavano fra di loro, ma era un linguaggio sconosciuto ed io non intendeva. Solo capiva ciò che diceva l’Angelo. Non posso descrivere quello che ho visto. Sono cose che si vedono, s’intendono, ma non si possono spiegare. Contemporaneamente vedeva oggetti separati, simultanei, i quali trasfiguravano lo spettacolo che mi stava dinanzi. Quindi ora mi pareva la pianura della Mesopotamia, ora un altissimo monte; e quella stessa montagna su cui era l’Angelo di Arfaxad ad ogni istante prendeva mille aspetti, fino a sembrare ombre vagolanti quelle genti che l’abitavano.
            Innanzi a questo monte e in tutto questo viaggio mi sembrava di essere sollevato ad una altezza sterminata, come sopra le nuvole, circondato da uno spazio immenso. Chi può esprimere a parole quell’altezza, quella larghezza, quella luce, quel chiarore, quello spettacolo? Si può godere, ma non si può descrivere.
            In questa e nelle altre vedute vi erano molti che mi accompagnavano e m’incoraggiavano, e facevano animo anche ai Salesiani, perché non si fermassero nella loro strada. Fra costoro che calorosamente mi tiravano, a così dire, per mano affinché andassi avanti, vi era il caro Luigi Colle e schiere di Angeli, i quali facevano eco ai cantici di quei giovanetti che stavano a lui d’intorno.
            Quindi mi parve di essere nel centro dell’Africa in un vastissimo deserto ed era scritto in terra a grossi caratteri trasparenti: Negri. Nel mezzo vi era l’Angelo di Cam, il quale diceva: – Cessabit maledictum (è finita la maledizione) e la benedizione del Creatore discenderà sopra i riprovati suoi figli e il miele e il balsamo guariranno i morsi fatti dai serpenti; dopo saranno coperte le turpitudini dei figliuoli di Cam.
            Quei popoli erano tutti nudi.
            Finalmente mi parve d’essere in Australia.
            Qui pure vi era un Angelo, ma non aveva nessun nome. Egli guidava e camminava e faceva camminare la gente verso il mezzodì. L’Australia non era un continente, ma un aggregato di tante isole, i cui abitanti erano di carattere e di figura diversa. Una moltitudine di fanciulli che colà abitavano, tentavano di venire verso di noi, ma erano impediti dalla distanza e dalle acque che li separavano. Tendevano però le mani stese verso Don Bosco ed i Salesiani, dicendo: -Venite in nostro aiuto! Perché non compite l’opera che i vostri padri hanno incominciata? – Molti si fermarono; altri con mille sforzi passarono in mezzo ad animali feroci e vennero a mischiarsi coi Salesiani, i quali io non conosceva, e si misero a cantare: Benedictus qui venit in nomine Domini (benedetto colui che viene nel nome del Signore, Ps 118,26; Mt 21,9; et passim). A qualche distanza si vedevano aggregati di isole innumerabili; ma io non ne potei discernere le particolarità. Mi pare che tutto questo insieme indicasse che la divina Provvidenza offriva una porzione del campo evangelico ai Salesiani, ma in tempo futuro. Le loro fatiche otterranno frutto, perché la mano del Signore sarà costantemente con loro, se non demeriteranno dei suoi favori.
            Se potessi imbalsamare e conservare vivi un cinquanta Salesiani di quelli che ora sono fra di noi, da qui a cinquecento anni vedrebbero quali stupendi destini ci riserba la Provvidenza, se saremo fedeli.
            Di qui a centocinquanta o duecento anni i Salesiani sarebbero padroni di tutto il mondo.
            Noi saremo ben visti sempre, anche dai cattivi, perché il nostro campo speciale è di tal fatta da tirare le simpatie di tutti, buoni ed empi. Potrà essere qualche testa matta che ci voglia distrutti, ma saranno progetti isolati e senza appoggio degli altri.
            Tutto sta che i Salesiani non si lascino prendere dall’amore delle comodità e quindi rifuggano dal lavoro. Mantenendo anche solo le nostre opere già esistenti, e non dandosi al vizio della gola, avranno caparra di lunga durata.
            La Società Salesiana prospererà materialmente, se procureremo di sostenere e di estendere il Bollettino, l’opera dei Figli di Maria Ausiliatrice, e l’estenderemo. Sono così buoni tanti di questi figliuoli! La loro istituzione è quella che ci darà valenti Confratelli risoluti nella loro vocazione.

            Queste sono le tre cose che Don Bosco vide più distintamente, che meglio ricordò e che narrò la prima volta; ma, come espose successivamente a Don Lemoyne, egli aveva visto assai più. Aveva visto tutti i paesi, nei quali i Salesiani sarebbero stati chiamati con l’andare del tempo, ma in una visione fugace, facendo un rapidissimo viaggio, in cui, partito da un punto, là era ritornato. Diceva essere stato come un lampo; tuttavia nel percorrere quello spazio immenso aver distinto in un attimo regioni, città, abitanti, mari, fiumi, isole, costumi e mille fatti che s’intrecciavano e cambiamenti simultanei di spettacoli impossibili a descriversi. Di tutto perciò il fantasmagorico itinerario serbava appena un ricordo indistinto ne sapeva più farne una particolareggiata descrizione. Gli era sembrato di aver con sé molti, che incoraggiavano lui e i Salesiani a non mai arrestarsi per via. Fra i più animati a spronare perché si andasse sempre avanti, appariva Luigi Colle, del quale scriveva al padre il 10 agosto: “Il nostro amico Luigi mi ha condotto a fare una gita nel centro dell’Africa, terra di Cam, diceva egli, e nelle terre di Arfaxad ossia in Cina. Se il Signore vorrà che ci troviamo insieme, ne avremo delle cose da dire”.
            Percorse una zona circolare intorno alla parte meridionale della sfera terrestre. Ecco la descrizione del viaggio, secondo che Don Lemoyne asserisce averla udita dalla sua bocca. Partì da Santiago del Cile e vide Buenos Aires, S. Paolo nel Brasile, Rio de Janeiro, Capo di Buona Speranza, Madagascar, Golfo Persico, sponde del Mar Caspio, Sermaar, monte Ararat, Senegal, Ceylon, Hong-Hong, Macao sull’entrata di un mare sterminato e davanti all’alta montagna da cui si scopriva la Cina; poi l’Impero Cinese, l’Australia, le isole Diego Ramirez; si chiuse infine la peregrinazione con il ritorno a Santiago del Cile. Nel fulmineo giro Don Bosco distingueva isole, terre e nazioni sparse sui vari gradi e molte regioni poco abitate e sconosciute. Dei nomi di tante località vedute nel sogno più non ricordava con esattezza i nomi; Macao, per esempio, la chiamava Meaco. Delle parti più meridionali dell’America fece parola con il capitano Bove; ma questi, non avendo passato il capo di Magellano per mancanza di mezzi e perché costretto poi da diversi affari a tornar indietro, non gli poté fornire alcuno schiarimento.
            Dobbiamo dire qualche cosa di quell’enigmatico Arfaxad. Prima del sogno Don Bosco non sapeva chi fosse; dopo invece ne parlava con certa frequenza. Incaricò il chierico Festa di cercare in dizionari biblici, in storie e geografie, in periodici, per scoprire con quali popoli della terra quel supposto personaggio avesse avuto rapporti. Finalmente si credette d’aver trovato la chiave del mistero nel primo volume del Rohrbacher, il quale asserisce che da Arfaxad discendono i Cinesi.
            Il suo nome compare nel capo decimo del Genesi, dove si fa la genealogia dei figli di Noè, che si divisero il mondo dopo il diluvio. Al versetto 22 si legge: Filii Sem Aelam et Assur et Arphaxad et Lud et Gether et Mes. Qui, come in altre parti del grande quadro etnografico, i nomi propri designano individui che furono padri di popoli, con riferimento pure alle contrade dai medesimi popolate. Così Aelam che significa paese alto, accenna all’Elimaide che con la Susiana divenne poi provincia della Persia; Assur è il padre degli Assiri. Sul terzo nome gli esegeti non vanno d’accordo nel determina e il popolo a cui si riferisce. Alcuni, come il Vigouroux (tanto per citarne uno dei più alla mano), assegnano ad Arfaxad la Mesopotamia. In ogni modo, essendo elencato fra progenitori di schiatte asiatiche e precisamente dopo due di essi che popolarono il lembo più orientale della terra descritta nel documento mosaico, si può arguire che anche Arphaxad stia a indicare una popolazione da collocarsi al seguito delle precedenti, propagatasi poi sempre più verso l’Oriente. Non parrebbe dunque improbabile che nell’Angelo di Arfaxad sia da vedere quello dell’India e della Cina.
            Don Bosco si fissò particolarmente sulla Cina e diceva sembrargli che colà fra non molto sarebbero stati chiamati i Salesiani, una volta anzi aggiunse:
            – Se io avessi venti Missionari da spedire in Cina, è certo che vi riceverebbero un’accoglienza trionfale nonostante la persecuzione. – Perciò d’allora in poi s’interessava assai per tutto quello che poteva riguardare il celeste impero.
            A questo sogno mostrava di pensare sovente, ne discorreva volentieri e ravvisava in esso una conferma dei sogni precedenti sulle Missioni.
(MB XVII 643-645)




Un cuore grande come i lidi del mare

Un tempo nuovo ci è donato: dal Cuore di Dio al cuore dell’umanità, nello specchio del gran cuore di don Bosco.

Cari amici e lettori, in questo numero di dicembre mi rivolgo a voi con i migliori auguri di un anno nuovo! Di un tempo nuovo che ci è donato da vivere con intensità e con “novità di vita” e faccio mio, come augurio propizio ed opportuno, il dono che il Santo Padre ci ha fatto nei giorni scorsi: lettera Enciclica Dilexit Nos sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo.
Noi salesiani siamo abituati a cantare: «Dio ti ha dato un cuore grande / come la sabbia del mare. / Dio ti ha donato il suo spirito: / ha liberato il tuo amore».
Papa Pio XI, che ben lo conosceva, disse che don Bosco aveva una “bellissima particolarità”: era “un grande amatore di anime” e le vedeva «nel pensiero, nel cuore, nel sangue di Nostro Signore Gesù Cristo». Del resto nello stemma della nostra Congregazione c’è un cuore ardente.
Papa Francesco si introduce così al n.2 della Dilexit Nos: “per esprimere l’amore di Gesù si usa spesso il simbolo del cuore. Alcuni si domandano se esso abbia un significato tuttora valido. Ma quando siamo tentati di navigare in superficie, di vivere di corsa senza sapere alla fine perché, di diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato a cui non interessa il senso della nostra esistenza, abbiamo bisogno di recuperare l’importanza del cuore”.
Come è forte questa indicazione del nostro Papa per indicarci un modo nuovo di vivere, in un tempo nuovo che ci è donato, l’anno che verrà.
Al n. 21, Papa Francesco scrive: “il nucleo di ogni essere umano, il suo centro più intimo, non è il nucleo dell’anima ma dell’intera persona nella sua identità unica, che è di anima e corpo. Tutto è unificato nel cuore, che può essere la sede dell’amore con tutte le sue componenti spirituali, psichiche e anche fisiche. In definitiva, se in esso regna l’amore, la persona raggiunge la propria identità in modo pieno e luminoso, perché ogni essere umano è stato creato anzitutto per l’amore, è fatto nelle sue fibre più profonde per amare ed essere amato”.
Ed aggiunge al numero 27 della stessa Lettera Enciclica: “davanti al Cuore di Gesù vivo e presente, la nostra mente, illuminata dallo Spirito, comprende le parole di Gesù. Così la nostra volontà si mette in moto per praticarle. Ma ciò potrebbe rimanere una forma di moralismo autosufficiente. Sentire e gustare il Signore e onorarlo è cosa del cuore. Solo il cuore è capace di mettere le altre facoltà e passioni e tutta la nostra persona in atteggiamento di riverenza e di obbedienza amorosa al Signore”.
Non mi dilungo oltre, sperando di avervi stuzzicato a leggere questa splendida Lettera Enciclica che non è solo un dono grande per vivere in modo nuovo il tempo che ci è donato, e già sarebbe sufficiente; è anche un’indicazione profondamente “salesiana”.
Quanto don Bosco ha scritto e lavorato nella diffusione proprio della devozione al Sacro Cuore di Gesù, come amore divino che accompagna la nostra realtà umana.

Una magnifica spinta
Nelle Memorie Biografiche al volume VIII, 243 – 244, troviamo così scritto, riferito a don Bosco: “la devozione al S. Cuore, che nel suo animato aveva ardentissima, animava tutte le sue opere, dava efficacia ai suoi discorsi familiari, alle sue prediche, e all’esercizio del suo ministero, sicché ne restavamo tutti incantati e persuasi (dice la testimonianza di don Bonetti). Parve altresì che il Sacro Cuore cooperasse anche con soprannaturali aiuti al compimento della sua ardua missione”.
Questa testimonianza della devozione di don Bosco al Sacro Cuore si identifica “plasticamente” con la Basilica omonima costruita da don Bosco a Roma su richiesta del Papa del tempo.
L’edificio materiale rimanda e richiama tutti noi alla “monumentale” devozione di don Bosco al Sacro Cuore. Come per la Madonna così per il Sacro Cuore, la devozione di don Bosco si manifesta nelle chiese che ha costruito. Perché la devozione al Sacro Cuore è l’Eucarestia, il culto Eucaristico.
Il cuore di don Bosco in costante amore con l’Eucarestia è una magnifica spinta personale per rendere vivo e vero questo nel nuovo anno. Un vero e profondo augurio di buon anno nuovo vissuto in pienezza. Come prosegue il canto: «Hai formato uomini / dal cuore sano e forte: / li hai mandati per il mondo ad annunciare / il Vangelo della gioia».

Mi piace concludere questo breve messaggio, augurando a tutti di cuore un buon anno nuovo, con l’immagine che Papa Francesco riporta nelle prime pagine dell’enciclica, rifacendosi agli insegnamenti di sua nonna sul significato del nome dei dolci di carnevale, le “busie”… perché nella cottura l’impasto si gonfia e rimane vuoto…quindi ha una esteriorità a cui corrisponde un vuoto dentro; sembrano da fuori ma non sono, son “busie”.
Che l’anno nuovo sia per tutti noi pieno e ricco di sostanza, concretizzando nell’accoglienza di Dio che viene in mezzo a noi.
La Sua venuta porti pace e verità, ciò che si vede da fuori corrisponda a ciò che c’è dentro!
Auguri di cuore a tutti voi!




La vita secondo lo Spirito in Mamma Margherita (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Esodo verso il sacerdozio del figlio
            Dal sogno dei nove anni, quando è la sola ad intuire la vocazione del figlio, «chissà che non abbia a diventare prete», è la più convinta e tenace sostenitrice della vocazione del figlio, affrontando per questo umiliazioni e sacrifici: «Sua madre allora, che voleva secondarlo a costo di qualunque sacrifizio, non esitò a prendere la risoluzione di fargli frequentare le scuole pubbliche di Chieri nell’anno seguente. Quindi si diede premura di trovar persone veramente cristiane presso le quali potesse collocarlo in pensione». Margherita segue con discrezione il cammino vocazionale e formativo di Giovanni, tra gravi strettezze economiche.
            Lo lascia sempre libero nelle sue scelte e non condiziona per nulla il suo cammino verso il sacerdozio, ma quando il parroco cerca di convincere Margherita perché Giovanni non intraprenda una scelta di vita religiosa, così da garantirle una sicurezza economica e un aiuto, subito raggiunge il figlio e pronuncia delle parole che resteranno scolpite tutta la vita nel cuore di Don Bosco: «Io voglio solamente che tu esamini attentamente il passo che vuoi fare, e che poi seguiti la tua vocazione senza guardar ad alcuno. Il parroco voleva che io ti dissuadessi da questa decisione, in vista del bisogno che potrei avere in avvenire del tuo aiuto. Ma io dico: in queste cose non c’entro, perché Dio è prima di tutto. Non prenderti fastidio per me. Io da te non voglio niente; niente aspetto da te. Ritieni bene: sono nata in povertà, sono vissuta in povertà, voglio morire in povertà. Anzi te lo protesto. Se tu ti risolvessi allo stato di prete secolare e per sventura diventassi ricco, io non verrò a farti neppure una sola visita, anzi non porrò mai più piede in casa tua. Ricordalo bene!».
            Ma in questo cammino vocazionale non manca di essere forte nei confronti del figlio, ricordandogli, in occasione della partenza per il seminario di Chieri, le esigenze legate alla vita sacerdotale: «Giovanni mio, tu hai vestito l’abito sacerdotale; io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l’abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare quest’abito! Deponilo tosto. Amo meglio avere un povero contadino, che un figlio prete trascurato nei suoi doveri». Don Bosco non dimenticherà mai queste parole di sua madre, espressione sia della coscienza della dignità sacerdotale, che frutto di una vita profondamente retta e santa.
            Il giorno della Prima Messa di Don Bosco ancora una volta Margherita si rende presente con parole ispirate dallo Spirito, sia esprimendo il valore autentico del ministero sacerdotale, che la consegna totale del figlio alla sua missione senza alcuna pretesa o richiesta: «Sei prete; dici la Messa; da qui avanti sei adunque più vicino a Gesù Cristo. Ricordati però che incominciare a dir Messa vuol dire cominciar a patire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. Sono sicura che tutti i giorni pregherai per me, sia ancora io viva, o sia già morta; ciò mi basta. Tu da qui innanzi pensa solamente alla salute delle anime e non prenderti nessun pensiero di me». Lei rinuncia completamente al figlio per offrirlo al servizio della Chiesa. Ma perdendolo lo ritrova, condividendo la sua missione educativa e pastorale tra i giovani.

5. Esodo dai Becchi a Valdocco
            Don Bosco aveva apprezzato e riconosciuto i grandi valori che aveva attinti nella sua famiglia: la sapienza contadina, la sana furbizia, il senso del lavoro, l’essenzialità delle cose, l’industriosità nel darsi da fare, l’ottimismo a tutta prova, la resistenza nei momenti di sfortuna, la capacità di ripresa dopo le batoste, l’allegria sempre e comunque, lo spirito di solidarietà, la fede viva, la verità e l’intensità degli affetti, il gusto per l’accoglienza e l’ospitalità; tutti beni che aveva trovato a casa sua e che lo avevano costruito in quel modo. È talmente segnato da questa esperienza che, quando pensa a un’istituzione educativa per i suoi ragazzi non vuole altro nome che quello di “casa” e definisce lo spirito che avrebbe dovuto improntarla con l’espressione “spirito di famiglia”. E per dare l’impronta giusta chiede a Mamma Margherita, ormai anziana e stanca, di lasciare la tranquillità della sua casetta in collina, per scendere in città e prendersi cura di quei ragazzi raccolti dalla strada, quelli che le daranno non poche preoccupazioni e dispiaceri. Ma lei va ad aiutare Don Bosco e a fare da mamma a chi non ha più famiglia e affetti. Se Giovanni Bosco impara alla scuola di Mamma Margherita l’arte di amare in modo concreto, generoso, disinteressato e verso tutti, la mamma condividerà fino in fondo e fino alla fine la scelta del figlio di dedicare la vita per la salvezza dei giovani. Questa comunione di spirito e di azione tra figlio e madre segna l’inizio dell’opera salesiana, coinvolgendo tante persone in questa divina avventura. Dopo aver raggiunto una situazione di tranquillità, accetta, non più giovane, di abbandonare la quieta vita e la sicurezza dei Becchi, per recarsi a Torino in una zona periferica e in una casa spoglia di tutto. È una vera ripartenza nella sua vita!

            Don Bosco dunque, dopo aver pensato e ripensato come uscire dalle difficoltà, andò a parlarne col proprio Parroco di Castelnuovo, esponendogli la sua necessità e i suoi timori.
                – Hai tua madre! Rispose il Parroco senza esitare un istante: falla venire con te a Torino.
Don Bosco, che aveva preveduto questa risposta, volle fare alcune riflessioni, ma Don Cinzano gli replicò:
                – Piglia con te tua madre. Non troverai nessuna persona più adatta di lei all’opera. Sta tranquillo; avrai un angelo al fianco! Don Bosco ritornò a casa convinto dalle ragioni postegli sott’occhio dal Prevosto. Tuttavia lo trattenevano ancora due motivi. Il primo era la vita di privazioni e di mutate abitudini, alle quali la madre avrebbe naturalmente dovuto andare soggetta in quella nuova posizione. La seconda proveniva dalla ripugnanza che egli provava nel proporre alla madre un ufficio che l’avrebbe resa in certo qual modo dipendente da lui. Per Don Bosco sua mamma era tutto, e col fratello Giuseppe, era abituato a tenere per legge indiscutibile ogni suo desiderio. Tuttavia dopo aver pensato e pregato, vedendo che non rimaneva altra scelta, concluse:
                – Mia madre è una santa e quindi posso farle la proposta!
Un giorno dunque la prese in disparte e così le parlò:
                – Io ho deciso, o madre, di far ritorno a Torino fra i miei cari giovanetti. D’ora innanzi non stando più al Rifugio avrei bisogno di una persona di servizio; ma il luogo dove mi toccherà abitare in Valdocco, per causa di certe persone che vi dimorano vicino, è molto rischioso, e non mi lascia tranquillo. Ho dunque bisogno di avere al mio fianco una salvaguardia per levar via ai malevoli ogni motivo di sospetto e di chiacchiere. Voi sola mi potreste togliere da ogni timore; non verreste volentieri a stare con me? A questa uscita non attesa la pia donna rimase alquanto pensosa, e poi rispose:
                – Mio caro figlio, tu puoi immaginare quanto costi al mio cuore l’abbandonare questa casa, tuo fratello e gli altri cari; ma se ti pare che tal cosa possa piacere al Signore io sono pronta a seguirti. Don Bosco l’assicurò, e ringraziatala, concluse:
                – Disponiamo dunque le cose, e dopo la festa dei Santi partiremo. Margherita si recava ad abitare col figlio, non già per condurre una vita più comoda e dilettevole, ma per dividere con lui stenti e pene a sollievo di più centinaia di ragazzi poveri ed abbandonati; vi si recava, non già attirata da cupidigia di guadagno, ma dall’amor di Dio e delle anime, perché sapeva che la parte di sacro ministero, presa ad esercitare da Don Bosco, lungi dal porgergli risorsa o lucro di sorta, lo obbligava a spendere i propri beni, e inoltre a cercare elemosina. Ella non si arrestò; anzi, ammirando il coraggio e lo zelo del figlio, si sentì maggiormente stimolata a farsene compagna ed imitatrice, sino alla morte.

            Margherita vive all’oratorio portando quel calore materno e la saggezza di una donna profondamente cristiana, la dedizione eroica al figlio in tempi difficili per la sua salute e la sua incolumità fisica, esercitando in tal modo un’autentica maternità spirituale e materiale verso il figlio sacerdote. Infatti si stabilisce a Valdocco non solo per cooperare all’opera iniziata dal figlio, ma anche per fugare ogni occasione di maldicenza che potesse sorgere dalla vicinanza di locali equivoci.
            Lascia la tranquilla sicurezza della casa di Giuseppe per avventurarsi con il figlio in una missione non facile e rischiosa. Vive il suo tempo in una dedizione senza riserve per i giovanetti «di cui erasi costituita madre». Ama i ragazzi dell’oratorio come suoi figli e si adopera per il loro benessere, la loro educazione e la vita spirituale, dando all’oratorio quel clima famigliare che fin dalle origini sarà una caratteristica delle case salesiane. «Se esiste la santità delle estasi e delle visioni, esiste anche quella delle pentole da pulire e delle calze da rammendare. Mamma Margherita fu una santa così».
            Nei rapporti con i ragazzi ebbe un comportamento esemplare, distinguendosi per la sua finezza di carità e la sua umiltà nel servire, riservandosi le occupazioni più umili. Il suo intuito di madre e di donna spirituale risulta nel riconoscere in Domenico Savio un’opera straordinaria della grazia.
            Anche all’oratorio tuttavia non mancano situazioni di prova e quando ci fu un momento di tentennamento per la durezza dell’esperienza, dovuta a una vita molto esigente, lo sguardo al Crocifisso additato dal figlio basta a infonderle energie nuove: «Da quell’istante più non isfuggì dal suo labbro una parola di lamento. Parve anzi d’allora in poi insensibile a quelle miserie».
            Bene riassume don Rua la testimonianza di Mamma Margherita all’oratorio, con la quale visse quattro anni: «Donna veramente cristiana, pia, di cuore generoso e coraggiosa, prudente, che tutta si consacrò alla buona educazione dei suoi figli e della sua famiglia adottiva».

6. Esodo verso la casa del Padre
            Era nata povera. Visse povera. Morì povera con indosso l’unico abito che usava; in tasca 12 lire destinate a comprarne uno nuovo, che mai acquistò.
            Anche nell’ora della morte è rivolta al figlio amato e lo lascia con parole degne della donna saggia: «Abbi grande confidenza con quelli che lavorano con te nella vigna del Signore… Sta’ attento che molti invece della gloria di Dio cercano l’utilità propria… Non cercare né eleganza né splendore nelle opere. Cerca la gloria di Dio, abbi per base la povertà di fatto. Molti amano la povertà negli altri, ma non in sé stessi. L’insegnamento più efficace è fare noi per i primi quello che comandiamo agli altri».
            Margherita, che aveva consacrato Giovanni alla Vergine Santissima, a Lei lo aveva affidato agli inizi degli studi, raccomandandogli la devozione e la propagazione dell’amore a Maria, ora lo rassicura: «La Madonna non mancherà di guidare le cose tue».
            Tutta la sua vita fu un dono totale di sé. Sul letto di morte può dire: «Ho fatto tutta la mia parte». Muore a 68 anni nell’oratorio di Valdocco il 25 novembre 1856. Al cimitero l’accompagnano i ragazzi dell’oratorio piangendola come “Mamma”.
            Don Bosco addolorato dice a Pietro Enria: «Abbiamo perduto la madre, ma sono certo che essa ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!». E lo stesso Enria aggiunge: «Don Bosco non esagerò a chiamarla santa, perché essa si sacrificò per noi e fu per tutti una vera madre».

Concludendo
            Mamma Margherita fu una donna ricca di vita interiore e dalla fede granitica, sensibile e docile alla voce dello Spirito, pronta a cogliere e realizzare la volontà di Dio, attenta ai problemi del prossimo, disponibile nel provvedere ai bisogni dei più poveri e soprattutto dei giovani abbandonati. Don Bosco ricorderà sempre gli insegnamenti e ciò che aveva appreso alla scuola della mamma e tale tradizione segnerà il suo sistema educativo e la sua spiritualità. Don Bosco aveva sperimentato che la formazione della sua personalità era vitalmente radicata nello straordinario clima di dedizione e di bontà della sua famiglia; per questo ha voluto riprodurne le qualità più significative nella sua opera. Margherita intrecciò la sua vita con quella del figlio e con gli inizi dell’opera salesiana: fu la prima “cooperatrice” di Don Bosco; con bontà fattiva divenne l’elemento materno del Sistema Preventivo. Alla scuola di Don Bosco e di Mamma Margherita ciò significa curare la formazione delle coscienze, educare alla fortezza della vita virtuosa nella lotta, senza sconti e compromessi, contro il peccato, con l’aiuto dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, crescendo nella docilità personale, famigliare e comunitaria alle ispirazioni e mozioni dello Spirito Santo per rafforzare le ragioni del bene e testimoniare la bellezza della fede.
            Per tutta la Famiglia Salesiana questa testimonianza è un ulteriore invito ad assumere un’attenzione privilegiata alla famiglia nella pastorale giovanile, formando e coinvolgendo i genitori nell’azione educativa e evangelizzatrice dei figli, valorizzandone l’apporto negli itinerari di educazione affettiva e favorendo nuove forme di evangelizzazione e di catechesi delle famiglie e attraverso le famiglie. Mamma Margherita oggi è un modello straordinario per le famiglie. La sua è una santità di famiglia: di donna, di moglie, di madre, di vedova, di educatrice. La sua vita racchiude un messaggio di grande attualità, soprattutto nella riscoperta della santità del matrimonio.
            Ma occorre sottolineare un altro aspetto: uno dei motivi fondamentali per cui Don Bosco vuole sua madre accanto a sé a Torino è per trovare in lei una custodia al proprio sacerdozio. «Piglia con te tua madre», gli aveva suggerito il vecchio parroco. Don Bosco prende Mamma Margherita nella sua vita di prete e di educatore. Da bambino, orfano, era stata la mamma a prenderlo per mano, da giovane prete è lui che la prende per mano per condividere una missione speciale. Non si capisce la santità sacerdotale di Don Bosco senza la santità di Mamma Margherita, modello non solo di santità famigliare, ma anche di maternità spirituale verso i sacerdoti.




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (12/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Rimembranza della funzione per 1a pietra angolare della chiesa sacrata a Maria Ausiliatrice il giorno 27 Aprile 1865.

FILOTICO, BENVENUTO, CRATIPPO E TEODORO.

            Filot. Bella festa è quella di quest’oggi.
            Crat. Festa bellissima; io sono da molti anni in quest’Oratorio, ma festa pari non vidi mai, e difficilmente potremo farne altra simile in avvenire.
            Benv. Mi presento a voi, cari amici, pieno di meraviglia: non so darmi ragione.
            Filot. Di che?
            Benv. Non so darmi ragione di quello che ho veduto.
            Teod. Chi sei tu, donde vieni, che hai veduto?
            Benv. Io sono forestiere, e sono partito dalla mia patria per venire a far parte dei Giovani dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. Giunto in Torino domando di essere qua condotto, ma appena entrato vedo vetture regalmente fornite, cavalli, staffieri, cocchieri tutti adornati con grande magnificenza. Possibile! dissi fra me, che questa sia la casa che io, povero orfanello, vengo ad abitare? Entro di poi nel recinto dell’Oratorio, vedo una moltitudine di giovanetti che van gridando inebbriati di gioia e quasi frenetici: Viva, gloria, trionfo, benevolenza da tutti e sempre. – Alzo lo sguardo verso il campanile e vedo una piccola campanella agitarsi in tutti i versi per produrre con ogni suo sforzo un armonioso scampanio. – Pel cortile musica di qua, musica di là: chi corre, chi salta, chi canta, chi suona. Che cosa è mai tutto questo?
            Filot. Ecco in due parole la ragione. Oggi fu benedetta la pietra angolare della novella nostra chiesa. Sua Altezza il Principe Amedeo si degnò di venire a deporvi sopra la prima calce; Sua Eccellenza il Vescovo di Susa ne venne a fare la religiosa funzione; gli altri poi sono una schiera di nobili personaggi e d’insigni nostri Benefattori, che intervennero a fine di prestar omaggio al Figlio del Re, e nel tempo stesso rendere più maestosa la solennità di questo bellissimo giorno.
            Benv. Ora comprendo la cagione di tanta allegria; ed avete ben motivo di celebrare una gran festa. Ma, se mi permettete una osservazione, sembrami che voi l’abbiate sbagliala nella parte principale. In un giorno così solenne per fare la debita accoglienza a tanti insigni personaggi, all’Augusto Figlio del nostro Sovrano, voi avreste dovuto preparare grandi cose. Voi avreste dovuto costruire archi trionfali, coprire di fiori le strade, inghirlandare ogni angolo di rose, ornare ogni parete di eleganti tappeti, con mille altre cose.
            Teod. Hai ragione, caro Benvenuto, hai ragione, questo era nostro comune desiderio. Ma che vuoi? Poveri giovanetti, come siamo, ne fummo impediti non dalla volontà, che in noi è grande, ma dall’assoluta nostra impotenza.
            Filot. A fine di ricevere degnamente questo nostro amato Principe, pochi giorni or sono ci siamo tutti radunati per trattare quanto era da farsi in un giorno cotanto solenne. Uno diceva: Se io avessi un regno lo vorrei offrirlo, poiché ne è veramente degno. Ottimo, risposero tutti; ma, poverini, abbiamo niente. Ah, i miei compagni soggiunsero, se non abbiamo un regno da offrirgli, possiamo almeno costituirlo Re dell’Oratorio di s. Francesco di Sales. Noi fortunati! tutti esclamarono, allora cesserebbe tra noi la miseria, e vi sarebbe una festa perenne. Un terzo poi, vedendo senza fondamento le altrui proposte, conchiuse, che noi potevamo farlo Re dei nostri cuori, padrone del nostro affetto; e poiché parecchi nostri compagni sono già sotto ai suoi comandi nella milizia, offrirgli la nostra fedeltà, la nostra sollecitudine, qualora venisse il tempo in cui noi dovessimo militare nel reggimento da lui diretto.
            Benv. Che risposero i tuoi compagni?
            Filot. Tutti accolsero con gioia quel progetto. In quanto poi agli apparecchi del ricevimento abbiamo detto unanimi: Questi Signori vedono già cose grandi, cose magnifiche, cose maestose a casa loro, e sapranno dare benigno compatimento alla nostra impotenza; e noi abbiamo motivo di tanto sperare dalla generosità e dalla bontà del loro Cuore.
            Benv. Bravo, hai detto bene.
            Teod. Benissimo, approvo quanto dite. Ma intanto non dobbiamo almeno loro in qualche modo manifestare la nostra gratitudine, e rivolgere loro qualche parola di ringraziamento?
            Benv. Sì, miei cari, ma prima vorrei che appagaste la mia curiosità intorno a parecchie cose riguardanti agli Oratorii ed alle cose che in essi si fanno.
            Filot. Ma noi faremo esercitare di troppo la pazienza a questi amati Benefattori.
            Benv. Credo che tal cosa tornerà loro eziandio di gradimento. Imperciocché siccome essi furono e sono tuttora nostri insigni Benefattori, ascolteranno con piacere l’oggetto della loro beneficenza.
            Filot. Io non sono in grado di fare tanto, perché è appena un anno dacché sono qui. Forse Cratippo, che è dei più anziani, sarà in grado di appagarci; non è vero, Cratippo?
            Crat. Se giudicate che io sia capace di tanto, volentieri mi adoprerò per appagarvi. – Dirò primieramente che gli Oratorii nella loro origine (1841) non erano altro che radunanze di giovanetti per lo più forestieri, che nei giorni festivi intervenivano in siti determinati per essere istruiti nel Catechismo. Quando poi si poterono avere locali più opportuni, allora gli Oratorii (1844) divennero luoghi in cui i giovani si radunavano per trattenersi in piacevole ed onesta ricreazione dopo avere soddisfatto ai loro religiosi doveri. Quindi giocare, ridere, saltare, correre, cantare, suonare, trombettare, battere i tamburi era il nostro trattenimento. – Poco dopo (1846) vi si aggiunse la scuola domenicale, di poi (1847) le scuole serali. – Il primo Oratorio è quello ove noi ci troviamo, detto di S. Francesco di Sales. Dopo questo se ne aprì un altro a Porta Nuova; quindi un altro più tardi in Vanchiglia, e pochi anni sono quello di S. Giuseppe a S. Salvano.
            Benv. Tu mi racconti la storia degli Oratorii festivi, e questa piace assai; ma io vorrei sapere qualche cosa di questa casa. Di quale condizione sono i giovanetti accolti in questa casa? In quale cosa sono essi occupati?
            Crat. Sono in grado di poterti soddisfare. Fra i giovani che frequentano gli Oratorii, ed anche di altri paesi, se ne incontrano alcuni, i quali o perché totalmente abbandonati, o perché poveri o scarsi di beni di fortuna li attenderebbe un tristo avvenire, se una mano benefica non prendesse di loro cura paterna, ed accoltili, loro non somministrasse quanto è necessario per la vita.
            Benv. Da quanto mi dici, pare che questa casa sia destinata a poveri giovanetti, e intanto io vi vedo tutti così ben vestiti che mi sembrate tanti signorini.
            Crat. Vedi, Benvenuto, attesa la festa straordinaria che oggi facciamo, ciascuno trasse fuori quanto aveva o poté avere di più bello, e così possiamo fare, se non maestosa, almeno compatibile comparsa.
            Benv. Siete molti in questa casa?
            Crat. Siamo circa ottocento.
            Benv. Ottocento! ottocento! E come soddisfare all’appetito di tanti distruggitori di pagnottelle?
            Crat. Di questo noi non ci occupiamo; ci pensi il panettiere.
            Benv. Ma come far fronte alle spese che occorrono?
            Crat. Dà uno sguardo a tutti questi personaggi che con bontà ci ascoltano, e tu saprai chi e come si provvede quanto occorre per vitto, vestito, ed altro che sia a tale scopo.
            Benv. Ma la cifra di ottocento mi sbalordisce! In qual cosa si possono mai occupare, tutti questi giovani e di giorno e di notte!
            Crat. È cosa facilissima occupargli di notte. Ciascuno a letto dorme il fatto suo e sta in disciplina, ordine e silenzio sino al mattino.
            Benv. Ma tu celi.
            Crat. Dico questo per secondare la celia che mi proponesti. Se poi vuoi sapere quali siano le nostre giornaliere occupazioni, te le dirò pure in poche parole. Essi si dividono in due principali categorie – Una di Artigiani, l’altra di Studenti. – Gli Artigiani sono applicati ai mestieri di sarti, calzolai, ferrai, falegnami, legatori, compositori, tipografi, musici e pittori. Per esempio, queste litografie, questi dipinti sono lavoro dei nostri compagni. Questo libro è stato stampato qui, e fu legato nel nostro laboratorio.
            In generale poi sono tutti studenti, perché devono tutti frequentare la scuola serale, ma coloro che manifestano maggior ingegno e miglior condotta sogliono dai nostri superiori essere applicati esclusivamente allo studio. Per questo noi abbiamo la consolazione di avere fra i nostri compagni alcuni medici, altri notai, altri avvocati, maestri, professori, ed anche parroci.
            Benv. E questa musica è tutta dei giovani di questa casa?
            Crat. Sì, i giovani che appena cantarono o suonarono sono giovani di questa casa; anzi la stessa composizione musicale è quasi tutta roba dell’Oratorio; imperciocché ogni giorno ad ora determinata vi è scuola apposita, e ciascuno oltre ad un mestiere od allo studio letterario, può avanzarsi nella scienza musicale.
            Per questo motivo noi abbiamo il piacere di aver eziandio parecchi nostri compagni che esercitano luminose cariche civili e militari per la scienza letteraria, mentre non pochi sono addetti alla musica in vari reggimenti, nella Guardia Nazionale, nel medesimo Reggimento di S. A. il Principe Amedeo.
            Benv. Questo mi piace assai; così quei giovanetti che sortirono dalla natura perspicace ingegno possono coltivarlo, e non sono costretti dalla indigenza a lasciarlo inoperoso, od a fare cose contrarie alle loro propensioni. – Ma ditemi ancora una cosa: entrando qui ho veduto una chiesa bella e fatta, e tu mi hai detto che se ne vuol fare un’altra: che necessità avi di questo?
            Crat. La ragione è semplicissima. La chiesa di cui ci siamo finora serviti era specialmente destinata ai giovanetti esterni che intervenivano nei giorni festivi. Ma pel numero sempre crescente di giovanetti accolti in questa casa, la chiesa divenne ristretta, e gli esterni ne sono quasi totalmente esclusi. Dimodoché possiamo calcolare che nemmeno un terzo dei giovani che interverrebbero possono aver posto. – Quante volte si dovettero respingere schiere di giovanetti e permettere che andassero a fare i monelli nelle piazze per la sola ragione che non vi era più posto in chiesa!
            Si aggiunga ancora che dalla chiesa parrocchiale di Borgo Dora fino a s. Donato esiste una moltitudine di case, e molte migliaia di abitanti, nel cui mezzo non avi né chiesa, né cappella, né poco, né molto spaziosa: né per i fanciulli, né per gli adulti che pure v’interverrebbero. Era pertanto necessaria una chiesa abbastanza spaziosa per accogliere i fanciulli, e che somministrasse anche spazio per gli adulti. A questo pubblico e grave bisogno tende a provvedere la costruzione della chiesa che forma l’oggetto della nostra festa.
            Benv. Le cose così esposte mi danno una idea giusta degli Oratorii e dello scopo della chiesa, e credo che ciò torni anche di gradimento a questi Signori, che così conoscono dove vada a terminare la loro beneficenza. Mi rincresce per altro molto di non essere un eloquente oratore od un valente poeta per improvvisare uno splendido discorso, od un sublime poema sopra quanto mi hai detto con qualche espressione di gratitudine e di ringraziamento a questi Signori.
            Teod. Io pure vorrei fare altrettanto, ma appena so che in poesia la lunghezza delle linee deve essere uguale e non più; perciò a nome dei miei compagni e dei nostri amati Superiori solo dirò a S. A. il Principe Amedeo e a tutti gli altri Signori che noi fummo contentissimi di questa bella festa; che faremo una iscrizione in carattere d’oro in cui si dica:

Viva eterno questo dì!
            Prima il sole dall’Occaso
            Fia che torni al suo Oriente;
            Ogni fiume a sua sorgente

Prima indietro tornerà,
            Che dal cuor ci si cancelli
            Questo dì che fra i più belli
            Tra di noi sempre sarà.

            A voi poi in particolare, Altezza Reale, dico che noi vi portiamo grande affetto, e ci avete procurato un grandissimo favore col venirci a visitare, e che ogni qualvolta avremo la bella ventura di vedervi per la città o altrove, oppure ascolteremo parlare di voi, sarà sempre per noi oggetto di gloria, di onore, di verace compiacenza. Prima per altro che parliate da noi, permettete che a nome dei miei amati Superiori e dei miei cari compagni vi domandi un favore; ed è che vi degniate ancora di venire altre volte a vederci per così rinnovarci la gioia di questo bel giorno. Voi poi, Eccellenza, continuateci quella paterna benevolenza che ci avete finora usato. Voi, o Signor Sindaco, che in tante guise prendeste parte al nostro bene, continuateci la vostra protezione, e procurateci il favore che la via Cottolengo venga rettificata di fronte alla novella chiesa; e noi vi accertiamo, che raddoppieremo verso di voi la profonda nostra gratitudine. Voi, signor Curato, degnatevi di considerarci sempre non solo come parrocchiani, ma come cari figli che in voi ravviseranno ognora un tenero e benevolo padre. A tutti poi ci raccomandiamo affinché vogliate continuare ad essere, come lo foste nel passato, insigni benefattori specialmente per compiere quel santo edifizio che forma l’oggetto dell’odierna solennità. Esso è già cominciato, già sorge fuori terra, e col fatto porge egli stesso la mano ai caritatevoli perché lo conducano a compimento. In fine mentre vi assicuriamo che rimarrà grata ed incancellabile nei nostri cuori la memoria di questo bel giorno, unanimi preghiamo la Regina del cielo, a cui è dedicato il novello tempio, che vi ottenga dal Datore di tutti i beni vita lunga e giorni felici.

(continua)




San Francesco di Sales promotore di cultura

Pastore di una diocesi composta nella sua stragrande maggioranza da contadini e da montanari analfabeti, eredi di una «cultura» ancestrale e pratica, Francesco di Sales si fece pure promotore di una cultura dotta, congeniale a una “élite” intellettuale. Per trasmettere il messaggio che gli stava a cuore, comprese che doveva conoscere il suo pubblico e prenderne in considerazione i bisogni e i gusti. Quando parlava alla gente e soprattutto quando scriveva per persone istruite, il suo metodo era quello esposto nel “Teotimo”: «Certo – diceva – ho preso in considerazione la condizione delle persone di questo secolo e lo dovevo fare: è assai importante tener conto dell’epoca in cui uno scrive».

Francesco di Sales e la cultura popolare
            Nato in una famiglia nobile molto legata alla terra, Francesco di Sales non si è mai estraniato dalla cultura popolare. Già l’ambiente in cui crebbe lo avvicinava alla gente del popolo, al punto che lui stesso seguiva volentieri l’usanza dei montanari quanto alla levata mattiniera. Durante le sue visite pastorali, si serviva del patois per farsi capire meglio. Ad ogni modo, è certo che il contatto diretto con l’insieme della popolazione conferiva alla sua esperienza pastorale una tonalità concreta e calorosa.
            Gli autori che si sono occupati della trasmissione della cultura popolare in tale epoca sottolineano, d’altronde, che non c’erano confini rigorosi tra messaggio religioso e cultura popolare, dato che elementi estranei si fondevano spontaneamente con la religione insegnata in modo ufficiale. Come è noto, la cultura popolare si esprime molto meglio in forma narrativa che per iscritto. Occorre ricordare che una certa percentuale della popolazione non sapeva leggere e la maggioranza non sapeva scrivere. In linea di massima, i vecchi, i saggi e gli uomini sapevano leggere, mentre i fanciulli, il popolino e le donne erano analfabeti.
            Ad ogni modo, i libri esposti nelle librerie o quelli dei venditori ambulanti facevano ormai la loro comparsa, non soltanto nelle città, ma anche nei paesi. Tale produzione di libretti a buon mercato doveva essere necessariamente assai varia, dipendendo probabilmente e in larga parte dalla letteratura popolare, la quale trasmetteva una sensibilità ancora medievale: vite di santi, romanzi cavallereschi, storie di briganti o almanacchi con le loro previsioni metereologiche e i loro consigli per gli uomini e per gli animali. Ma stavano arrivando anche produzioni più moderne: romanzi, forse anche manuali di buona educazione, o ancora opere di pietà nella linea del concilio di Trento.
            Ma la cultura popolare era veicolata anche tramite gli incontri quotidiani e alle feste, quando si andava a bere e mangiare insieme nelle taverne e nelle osterie, in particolare, in occasione delle nozze, dei battesimi, dei funerali e delle confraternite, durante i balli e festosi girotondi, alle fiere e ai mercati. Francesco di Sales forse rese un buon servizio alla società non bandendo sistematicamente ogni manifestazione della convivialità e dei divertimenti pubblici, limitandosi ad imporre delle restrizioni agli ecclesiastici, tenuti a un certo riserbo.

Saggezza e abilità
            Osservatore simpatico della natura e della gente, Francesco di Sales ha imparato molto a loro contatto. Sono i contadini e quanti lavorano la terra coloro che gli hanno detto che «quando nevica in giusta misura in inverno, il raccolto sarà migliore l’anno successivo». Quanto ai pastori e ai mandriani montanari, la cura che hanno dei loro greggi e delle loro mandrie è un esempio di zelo «pastorale».
            Nel mondo dei mestieri, Francesco di Sales ha potuto osservarne spesso da vicino le ammirevoli abilità: «I contadini seminano i campi solo dopo averli arati e ripuliti dagli arbusti spinosi; i muratori usano le pietre solo dopo averle squadrate; i fabbri lavorano il ferro solo dopo averlo battuto; gli orefici cesellano l’oro solo dopo averlo purificato nel crogiuolo».
            Non mancano in certe storie da lui raccontate punte di umorismo. Fin dall’antichità, i barbieri hanno la fama di essere dei grandi chiacchieroni; a uno che chiedeva a un re: come vuole che le tagli la barba? questi rispose: «Senza dire una parola». A chi va attribuito il merito dell’eleganza nel vestire? Se uno «si gloria di essere vestito con proprietà», «chi non vede che tale gloria, se ce n’è, spetta al sarto e al calzolaio?». Col suo lavoro il falegname compie dei piccoli miracoli e «uno che non conosce niente di intarsio, vedendo tronchi contorti nella bottega di un falegname, si stupirebbe sentendo dire che da tale tronco si possa ricavare un vero capolavoro». Anche i vetrai fanno stupire nel vederli creare oggetti meravigliosi col soffio della loro bocca.
            L’arte tipografica, poi, era oggetto della sua grande ammirazione, anche se in lui i motivi religiosi prevalevano rispetto a ogni altra considerazione, come emerge da una lettera in un italiano approssimativo che scrisse al nunzio di Torino nel maggio 1598: «Fra l’altre cose necessarie, una è che si habbia in Annessi un stampatore. Gl’hæretici mandano fuora ogni hora libretti pestilentissimi, et restano molte oprette catholiche nelle mani de gl’authori per non poterle sicuramente inviare in Lione et non haver commodità di stampatore».

L’arte e gli artisti
            Nel campo delle arti, il trionfo del Rinascimento splendeva nelle opere ispirate dall’antichità. Francesco di Sales le ha potute contemplare durante i suoi soggiorni in Francia e in Italia. A Roma, in occasione del suo viaggio del 1599, ha potuto ammirare la stupenda cupola di san Pietro terminata solo alcuni anni prima: “Grande il palazzo, la basilica, il monumento di san Pietro”.
            La scultura classica era allora oggetto di tale ammirazione, scriveva Francesco di Sales, che persino «pezzi di statue antiche sono conservati per ricordare l’antichità». Egli stesso nomina parecchi scultori antichi, incominciando da Fidia, questo artista, il quale «non rappresentava mai qualcosa così perfetta come le divinità». Ecco Policleto, «il mio Policleto, che mi è tanto caro», asseriva, che con «la sua mano maestra» trasfigurava il bronzo. Egli ricorda anche il colosso di Rodi, simbolo della provvidenza divina, nella quale non c’è «né cambiamento né ombra di vicissitudine».
            Ed ecco ora i famosi pittori nominati da Plinio e Plutarco: Arelio, che “dipingeva tutti i volti dei suoi ritratti a somiglianza delle donne che amava”; Apelle, pittore «unico», preferito da Alessandro Magno; Timante, che velava la testa di Agamennone  perché disperava di poter rendere a pieno la costernazione dipinta sul suo volto alla vista della figlia Ifigenia”; Zeusi, che dipinse magistralmente dell’uva, sicché «gli uccelli credettero che l’uva dipinta fosse uva vera, tanto l’arte aveva imitato la natura».
            Si percepisce in Francesco di Sales un reale apprezzamento per la bellezza dell’opera d’arte, in quanto tale, e nel contempo la capacità di comunicare le sue emozioni ai lettori. La pittura non sarebbe forse un’arte divina? La parola di Dio non si situa soltanto sul piano dell’udire, ma anche su quello del vedere e della contemplazione estetica: “Dio è il pittore, la nostra fede è la pittura, i colori sono la parola di Dio, il pennello è la Chiesa”.
            Francesco era soprattutto attirato dalla pittura religiosa, vivamente raccomandata dal suo antico direttore spirituale Possevino, il quale gli fece omaggio della sua «affascinante opera» intitolata De poesi et pictura. Egli stesso si considerava un pittore perché, come scrisse nella prefazione della Filotea, «Dio vuole che dipinga sui cuori delle persone non soltanto le virtù comuni, ma anche la tanto cara e beneamata devozione a lui dovuta».
            Amava pure il canto e la musica. Si sa che faceva cantare delle lodi durante le ore di catechismo, ma ci piacerebbe conoscere che cosa si cantava nella sua cattedrale. Scriveva in una lettera all’indomani di una cerimonia nella quale si era cantato un testo del Cantico dei cantici: «Ah, come venne cantato bene tutto questo, ieri, nella nostra chiesa e nel mio cuore!». Conosceva e sapeva distinguere i suoni dei vari strumenti: «Tra gli strumenti, i tamburi e le trombe fanno più fracasso, ma il liuto e la spinetta danno una melodia migliore; il suono degli uni è più forte, l’altro più soave e spirituale».

L’Accademia «florimontana» (1606)
            «La città d’Annecy – scriveva pomposamente suo nipote Charles-Auguste de Sales – sotto un così celebre prelato come Francesco di Sales e sotto un così illustre presidente come Antoine Favre era paragonabile alla città di Atene, ed era poi abitata da un grande numero di dottori, sia teologi che giuristi e di insigni letterati».
            Ci si è chiesto come è potuto nascere nello spirito di Francesco l’idea di fondare con l’amico Antoine Favre, alla fine del 1606, un’accademia denominata «florimontana», «perché le muse fioriscono sulle montagne della Savoia». Occorre vedervi il frutto dell’amicizia che univa il vescovo e il giureconsulto, e il risultato della loro intima collaborazione. Probabilmente i suoi contatti con l’Italia non erano estranei a tale realizzazione. Nate in Italia sul finire del secolo XIV, le accademie avevano conosciuto una grande diffusione. Tra esse si distingueva l’Accademia platonica di Firenze, animata da Marsilio Ficino, il cui influsso è riconoscibile nell’autore del Teotimo. A Torino esisteva l’Accademia «papiniana», di cui Antoine Favre aveva fatto parte. Né va dimenticato che i calvinisti di Ginevra avevano la loro, e ciò dovette pesare molto allorché si trattò di creare una «rivale» cattolica.
            L’Accademia di Annecy aveva il suo emblema: un arancio, albero ammirato da Francesco di Sales, perché è carico di fiori e di frutti in tutte le stagioni (flores fructusque perennes). Di fatto, spiegava Francesco, «in Italia, sulla costa di Genova, e anche nei paesi di Francia, come la Provenza, lungo le coste, in tutte le stagioni li potete vedere coperti di foglie, di fiori e di frutti».
            Il programma delle riunioni aveva dell’enciclopedico, atteso il fatto che secondo gli Statuti «le lezioni saranno o di teologia o di politica o di filosofia o di retorica o di cosmografia o di geometria o di aritmetica». Ad ogni modo, un’attenzione particolare era riservata alle lettere e alla bellezza formale. Un articolo degli Statuti recitava: «Lo stile nel parlare o nel leggere sarà grave, forbito, elegante e rifuggirà da ogni forma di pedanteria».
            L’Accademia era composta di scienziati e maestri riconosciuti, ma erano previsti anche corsi pubblici che ne facevano una sorte di piccola università popolare. In effetti, c’erano assemblee generali alle quali potevano partecipare «tutti i bravi maestri cultori di arti oneste, come pittori, scultori, falegnami, architetti e simili».
            Si intuisce che lo scopo dei due fondatori era quello di riunire l’élite intellettuale della Savoia e di porre le lettere e le scienze al servizio della fede e della pietà, secondo l’ideale dell’umanesimo cristiano. Le sedute si tenevano nella casa di Antoine Favre, dove la moglie e i figli si davano da fare nell’accogliere gli ospiti. L’atmosfera risentiva quindi di qualcosa di familiare. D’altronde, recitava un articolo, «tutti gli accademici saranno uniti tra loro da amore vicendevole e fraterno».
            Fra gli accademici o membri corrispondenti dell’Accademia spiccava l’abate commendatario di Hautecombe, Alfonso Delbene, discendente da una grande famiglia di Firenze, amico di Giusto Lipsio e di Ronsard che gli dedicò la sua Arte poetica; è stato qualificato come un ponte fra la cultura italiana e la cultura francese.
            Gli inizi dell’Accademia furono brillanti e sembravano promettenti. Secondo Charles-Auguste de Sales, il primo anno si aprì con «il corso di matematica con l’Aritmetica di Jacques Pelletier, gli Elementi d’Euclide, la sfera e cosmografia con le sue parti, la geografia, l’idrografia, la corografia e la topografia; seguì l’arte di navigare e la teoria dei pianeti, e infine la musica teorica». Per il resto ciò che si sa è poca cosa.
            Nel 1610, tre anni dopo gli inizi, Antoine Favre fu nominato presidente del Senato di Savoia e partì per Chambéry. Il vescovo, da parte sua, non poteva certo mantenere da solo l’Accademia florimontana, che declinò e scomparve. Tuttavia, se la sua esistenza fu effimera, il suo influsso fu duraturo. Il progetto culturale che l’aveva fatta nascere sarà ripreso dai barnabiti, giunti al collegio d’Annecy nel 1614.

Un affare Galileo ad Annecy?
            Il collegio d’Annecy vantava una celebrità nella persona del padre Redento Baranzano, un barnabita piemontese conquistato dalle nuove teorie scientifiche, professore brillante che suscitava l’ammirazione e persino l’entusiasmo degli allievi. Nel 1617 venne pubblicato, senza l’autorizzazione dei superiori, con il titolo Uranoscopia, un riassunto dei suoi corsi, dove sviluppava il sistema planetario del Copernico come pure le idee di Galileo. Il libro suscitò ben presto un subbuglio fino al punto che l’autore fu richiamato a Milano dai superiori. Nel settembre del 1617 Francesco di Sales scrisse al generale dei barnabiti una lettera in italiano per difendere l’interessato sul piano personale, senza accennare alle sue idee, affinché fosse ristabilito nelle sue funzioni.
            Il desiderio del vescovo fu esaudito: il padre Baranzano rientrò ad Annecy sul finire del mese di ottobre dello stesso anno. A fine novembre, il vescovo manifestò la sua soddisfazione al superiore generale. Il religioso fece apparire nel 1618 un nuovo opuscolo in segno di buona volontà, ma non pare che abbia rinunciato alle sue idee.
            Nel 1619, il dotto barnabita pubblicò a Lione le Novae opiniones physicae, tomo primo della seconda parte di un’ambiziosa Summa philosophica anneciensis. Il vescovo aveva dato la sua approvazione ufficiale a «quest’opera erudita di un uomo erudito», e ne aveva autorizzato la stampa. Il canonico che, su richiesta del vescovo, l’aveva esaminata, aveva ritenuto che l’opera non conteneva «niente di contrario alla fede, agli insegnamenti della Chiesa cattolica e ai buoni costumi», e che essa presentava «a ogni amante della filosofia una dottrina filosofica assai degna, pregevole per la chiara articolazione, la singolare acribia, la gradevole brevità, la non comune erudizione, e, nella sua materia assai rara».
            Va notato che Baranzano si acquistò una fama internazionale e che fu in contatto con Francesco Bacone, promotore inglese della riforma delle scienze, assieme all’astronomo tedesco Giovanni Keplero, e con lo stesso Galileo. Era l’epoca in cui venne imprudentemente istituito un processo contro quest’ultimo, allo scopo di salvaguardare, si pensava, l’autorità della Bibbia compromessa dalle nuove teorie sulla rotazione della terra attorno al sole. Mentre il cardinal Bellarmino si inquietava di fronte ai danni delle nuove teorie, per Francesco di Sales non ci potevano essere contraddizioni tra la ragione e la fede. E il sole non era forse il simbolo dell’amore celeste, attorno a cui tutto si muove, e il centro della devozione?

La cultura alta e la teologia
            Francesco si teneva informato, inoltre, degli argomenti affrontati da libri di teologia a mano a mano che apparivano. Dopo aver «visto con estremo piacere» un progetto di Somma di teologia d’un padre cistercense, inviò all’autore alcuni consigli per iscritto. Era dell’avviso che era necessario depennare «tutte le parole troppo scolastiche», «superflue» e «inopportune», impiegate nella Somma per non farla «divenire troppo grossa» e per fare in modo che fosse «tutto succo e polpa», rendendola così «più nutriente e appetitosa»; suggeriva poi di «dare maggior spazio alle questioni veramente importanti sulle quali occorre istruire meglio il lettore», e infine di non aver paura di usare uno «stile affettivo», cioè capace di emozionare. Più tardi, scrivendo a un suo prete che si dedicava a studi letterari ed eruditi, gli faceva pressappoco le medesime raccomandazioni: “Vi devo dire che la conoscenza che vado acquistando ogni giorno più degli umori del mondo mi porta ad augurarmi appassionatamente che la divina Bontà ispiri qualcuno dei suoi servi a scrivere secondo il gusto di questo povero mondo”.
            Scrivere «secondo il gusto di questo povero mondo» supponeva che fosse consentito utilizzare certi mezzi capaci di suscitare l’interesse del lettore del tempo:

Siamo infatti, Signore, pescatori, e pescatori di uomini. Dobbiamo quindi usare, per questa pesca, non solo le cure, le fatiche e le veglie, ma anche l’esca, l’industria, gli approcci e, se così è lecito esprimersi, le sante astuzie. Il mondo sta divenendo così delicato, che, fra poco, non si oserà più toccarlo, se non con guanti muschiati, né medicare le sue piaghe, se non con impiastri di zibetto; ma che importa, se gli uomini vengono guariti e, in definitiva, vengono salvati? La nostra regina, la carità, fa tutto per i suoi figli.

            Un altro difetto, specialmente presso i teologi, era la mancanza di chiarezza; ciò gli faceva venire la voglia di scrivere sulla prima pagina di certe opere: Fiat lux!

Uno scrittore pieno di progetti
            Verso la fine della sua vita, numerosi progetti coltivava ancora nel suo animo. Michel Favre ha dichiarato che Francesco si proponeva di scrivere un trattato intitolato Dell’amore del prossimo, come pure una Storia teandrica in quattro libri: una traduzione in lingua volgare dei quattro vangeli in forma di concordanza; una dimostrazione dei principali punti della fede della Chiesa cattolica; un’istruzione sui buoni costumi e sulla pratica delle virtù cristiane»; infine una storia degli Atti degli Apostoli. Aveva ancora in vista un Libro sui quattro amori, nel quale si riprometteva di insegnare come dobbiamo amare Dio, noi stessi, i nostri amici e i nostri nemici.
            Nessuno di questi volumi vedrà la luce. «Morirò come quelle donne incinte – scriveva – che non danno alla luce quello che hanno concepito». La sua «filosofia» era questa: «Occorre assumere più impegni di quanti uno sappia compiere e come se dovesse vivere a lungo, non preoccupandosi, però, di fare più di quanto uno farebbe, sapendo di dover morire all’indomani».




Corso respiro 2024. Corso di rinnovamento missionario salesiano

Il Settore Missionario della Congregazione Salesiana, con sede a Roma, ha organizzato un corso di rinnovamento missionario denominato Corso Respiro, in lingua inglese, per i missionari che sono già in missione da molti anni e desiderano un rinnovamento e un aggiornamento spirituale.Il corso, iniziato al Colle Don Bosco l’11 settembre 2024, si è concluso con successo a Roma il 26 ottobre 2024.

Al Corso Respiro hanno partecipato 24 persone provenienti da 14 Paesi: Azerbaigian, Botswana, Brasile, Cambogia, Eritrea, India, Giappone, Nigeria, Pakistan, Filippine, Samoa, Sud Sudan, Tanzania e Turchia. Sebbene i partecipanti al corso provenissero da diversi Paesi con background culturali differenti e appartenessero a diversi rami della Famiglia Salesiana, abbiamo rapidamente stabilito un forte legame tra di noi e tutti ci siamo sentiti a casa in compagnia.

Una delle particolarità del Corso Respiro è stata quella di essere un corso missionario a cui hanno partecipato per la prima volta diversi membri della Famiglia Salesiana: 16 Salesiani di Don Bosco (SDB), 3 Suore della Carità di Gesù (SCG), 2 Suore Missionarie di Maria Ausiliatrice (MSMHC), 2 Suore della Visitazione di Don Bosco (VSDB) e 1 Salesiano Cooperatore. Un altro aspetto positivo è stata l’esperienza vissuta con alcuni dei membri meno conosciuti e più piccoli della Famiglia Salesiana.

Le sette settimane del Corso Respiro sono state un momento di rinnovamento spirituale che ci ha permesso di approfondire la conoscenza di Don Bosco, della storia, del carisma, dello spirito e della spiritualità salesiana e di conoscere meglio i diversi membri della Famiglia Salesiana. La Lectio Divina salesiana, i pellegrinaggi nei luoghi legati alla vita e all’apostolato di Don Bosco ai Becchi, a Castelnuovo Don Bosco, a Chieri e a Valdocco, le giornate trascorse ad Annecy e a Mornese, il pellegrinaggio sulle orme di San Paolo Apostolo a Roma, la partecipazione all’udienza generale di Papa Francesco in Vaticano, la visita alla Basilica del Sacro Cuore costruita da Don Bosco e alla Casa Generalizia Salesiana, la condivisione di esperienze missionarie da parte di tutti i partecipanti al corso, la partecipazione al solenne “Invio Missionario” dalla Basilica di Maria Ausiliatrice a Valdocco, il tempo trascorso quotidianamente in preghiera e riflessione personale, la celebrazione eucaristica comune e così via, ci hanno aiutato molto a personalizzare e approfondire i nostri valori salesiani e la nostra vocazione missionaria. Anche i giorni trascorsi a Roma per riflettere sui vari aspetti della teologia delle missioni, le sessioni sulla pastorale giovanile salesiana, il discernimento personale, la formazione permanente, la catechesi missionaria, la letteratura emotiva, il volontariato missionario, l’animazione missionaria della Congregazione, ecc. Il pellegrinaggio ad Assisi, il luogo santificato da San Francesco d’Assisi, con il tema “ringraziare”, “ripensare” e “rilanciare”, è stata un’occasione per ringraziare Dio per la nostra vocazione missionaria e chiedergli la grazia di tornare nelle nostre terre di missione con maggiore entusiasmo per fare meglio in futuro. Un’altra particolarità del Corso Respiro è stata quella di non essere di natura accademica, con crediti, tesi, esami e valutazioni, ma di porre l’accento sulla Parola di Dio, sulla condivisione di esperienze, sulla riflessione, sulla preghiera e sulla contemplazione, con un minimo apporto teorico.

Come partecipanti al Corso Respiro, abbiamo avuto il privilegio speciale di assistere al 155° “Invio Missionario” dalla Basilica di Maria Ausiliatrice a Valdocco, Torino, il 29 settembre 2024. Un totale di 27 salesiani, praticamente tutti giovanissimi, sono partiti per diversi Paesi come missionari dopo aver ricevuto la croce missionaria da don Stefano Martoglio, Vicario del Rettor Maggiore. Quell’evento memorabile ci ha ricordato la nostra stessa ricezione della croce missionaria e la partenza per le missioni molti anni fa. Abbiamo anche preso coscienza dell’ininterrotto “invio missionario” da Valdocco dal 1875 e del perenne impegno della Congregazione dei Salesiani nei confronti del carisma missionario di Don Bosco.

Un aspetto molto arricchente del Corso Respiro è stata la condivisione delle storie vocazionali e delle esperienze missionarie da parte di tutti i partecipanti. Ognuno si è preparato in anticipo e ha condiviso la propria storia vocazionale e le proprie esperienze missionarie in modo creativo. Mentre alcuni hanno condiviso le loro esperienze sotto forma di semplici discorsi, altri hanno utilizzato foto, filmati e presentazioni in PowerPoint. C’è stato ampio tempo per interagire con ogni missionario per chiarire dubbi e raccogliere maggiori informazioni sulla loro vocazione missionaria, sul Paese e sulla cultura delle loro missioni. Questa condivisione è stata un ottimo esercizio spirituale, perché ognuno di noi ha avuto l’opportunità di riflettere profondamente sulla propria vocazione missionaria e di scoprire la mano di Dio all’opera nella propria vita. Questo viaggio interiore è stato molto formativo e ci ha permesso di rafforzare la nostra vocazione missionaria e di impegnarci con maggiore generosità nella Missio Dei (Missione di Dio).

Durante il Corso Respiro, attraverso la condivisione delle nostre esperienze missionarie, siamo stati ancora una volta profondamente convinti che la vita del missionario non è facile. La maggior parte dei missionari lavora in “periferie” di vario tipo (geografiche, esistenziali, economiche, culturali, spirituali e psicologiche), e un buon numero di loro in condizioni molto difficili, in circostanze impegnative e con molte privazioni. In molti contesti non c’è la libertà religiosa di predicare apertamente il Vangelo. In altri luoghi ci sono governi con ideologie estremiste che si oppongono al cristianesimo e hanno in vigore leggi anti-conversione. Ci sono Paesi in cui non si può rivelare la propria identità sacerdotale o religiosa. Ci sono poi luoghi in cui né l’istituzione cattolica né il personale religioso possono esporre simboli religiosi cristiani come la croce, la Bibbia, statue di Cristo o di santi o abiti religiosi. Ci sono territori in cui i missionari non possono riunirsi per incontri o esercizi spirituali o condurre una vita comunitaria. Ci sono nazioni che non permettono a nessun missionario cristiano straniero di entrare nel loro Paese e bloccano ogni assistenza finanziaria dall’estero alle istituzioni cristiane. Ci sono terre di missione che non hanno abbastanza vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa e, di conseguenza, il missionario è oberato da molti lavori e responsabilità. Ci sono poi situazioni in cui trovare le risorse finanziarie necessarie per far fronte alle spese ordinarie di gestione di istituzioni come scuole, convitti, istituti tecnici, centri giovanili, dispensari e così via è una delle maggiori preoccupazioni dei missionari. Ci sono missioni che non hanno le risorse finanziarie necessarie per costruire le infrastrutture tanto necessarie o persone qualificate per insegnare nelle scuole e negli istituti tecnici o per offrire servizi di assistenza sanitaria di base ai poveri. Questo elenco di problemi che i missionari devono affrontare non è esaustivo. Ma l’aspetto positivo dei missionari è che sono persone di fede profonda e felici della loro vocazione missionaria. Sono felici di stare con la gente e soddisfatti di ciò che hanno, e confidando nella Provvidenza di Dio vanno avanti con il loro lavoro missionario nonostante le numerose sfide e privazioni. Alcuni missionari sono esempi luminosi di santità cristiana che fanno della loro vita un potente annuncio del Vangelo. Questi valorosi missionari meritano il nostro apprezzamento, il nostro incoraggiamento e il nostro sostegno spirituale e materiale per continuare il loro lavoro missionario.

Una parola speciale di apprezzamento a tutti i membri del Settore Missionario che hanno lavorato duramente e fatto molti sacrifici per organizzare il Corso Respiro 2024. Mi auguro che il Settore Missione continui a proporre questo corso ogni anno e, se possibile, in diverse lingue e con la partecipazione di un maggior numero di membri della Famiglia Salesiana, soprattutto quelli più piccoli e meno conosciuti. Il corso darà sicuramente l’opportunità ai missionari di avere un rinnovamento spirituale, un aggiornamento teologico, un riposo fisico e mentale, essenziali per offrire un servizio missionario e pastorale di migliore qualità nelle missioni e per stabilire legami più stretti tra i membri della Famiglia Salesiana.

don Jose Kuruvachira, sdb




Don Bosco e la musica

            Per l’educazione dei suoi giovani Don Bosco si servì molto della musica. Sin da ragazzo amava il canto. Avendo egli una bella voce, il Sig. Giovanni Roberto, capo-cantore della parrocchia, gli insegnò il canto fermo. In pochi mesi Giovanni poté salire sull’orchestra ed eseguire parti musicali con ottimo risultato. Nello stesso tempo incominciò ad esercitarsi a suonare una “spinetta”, che era lo strumento a corde pizzicate a mezzo di tastiera, ed anche il violino (MB I, 232).
            Sacerdote a Torino, fece da maestro di musica ai suoi primi oratoriani, formando a poco a poco dei veri cori che attiravano, con il loro canto, la simpatia degli ascoltatori.
            Dopo l’apertura dell’ospizio, avendo ormai ragazzi interni, iniziò la scuola di canto gregoriano e, con il tempo, portò pure i suoi piccoli cantori nelle chiese della città e fuori Torino ad eseguire il loro repertorio.
            Egli stesso compose lodi sacre come quella a Gesù Bambino, “Ah, si canti in suon di giubilo…”. Avviò pure allo studio della musica alcuni suoi discepoli, tra i quali si distinse don Giovanni Cagliero, che poi si rese celebre per le sue creazioni musicali guadagnandosi la stima degli esperti. Nel 1855 Don Bosco organizzò la prima banda strumentale dell’Oratorio.
            Non andava, tuttavia, avanti alla buona Don Bosco! Già negli anni ’60 incluse in un suo Regolamento un capitolo sulle scuole serali di musica, nel quale diceva, fra l’altro:
“Da ogni allievo musico si esige formale promessa di non andare a cantare né a suonare nei pubblici teatri, né in altro trattenimento in cui possa essere compromessa la Religione ed il buon costume” (MB VII, 855).

La musica dei ragazzi
            Ad un religioso francese che aveva fondato un Oratorio festivo e gli chiedeva se conveniva insegnare la musica ai ragazzi, rispose: “Un Oratorio senza musica è come un corpo senz’anima!” (MB V, 347).
            Don Bosco parlava il francese abbastanza bene sia pure con una certa libertà di grammatica e di espressione. In proposito riuscì celebre una sua risposta sulla musica dei ragazzi. L’Abate L. Mendre di Marsiglia, Curato della parrocchia di San Giuseppe, gli portava grande affetto. Un giorno gli sedeva a fianco durante un trattenimento nell’Oratorio di San Leone. I piccoli musici facevano ogni tanto qualche stecca. L’abate, che di musica se ne intendeva assai, friggeva e scattava ad ogni stonatura. Don Bosco gli sussurrò all’orecchio nel suo francese: “Monsieur Mendre, la musique de les enfants elle s’écoute avec le coeur et non avec les oreilles” (Signor abate Mendre, la musica dei ragazzi si ascolta con il cuore e non con le orecchie). L’abate ricordò poi infinite volte quella risposta, che rivelava la saggezza e la bontà di Don Bosco (MB XV, 76 n.2).
            Tutto questo non significa, però, che Don Bosco anteponesse la musica alla disciplina nell’Oratorio. Era sempre amabile ma non passava facilmente sopra alle mancanze di obbedienza. Per alcuni anni aveva permesso ai giovani bandisti che nella festa di Santa Cecilia andassero in luogo da lui designato a fare una passeggiata ed un pranzetto campestre. Ma nel 1859, a causa di accaduti inconvenienti, cominciò a proibire tale svago. I giovani non protestarono apertamente, ma una metà di essi, sobillati da un capo che aveva loro promesso di ottenerne licenza da Don Bosco, e sperando impunità, si decisero di uscire ugualmente dall’Oratorio ed organizzare di loro iniziativa un pranzo fuori casa prima della Festa di Santa Cecilia. Avevano preso questa decisione pensando che Don Bosco non se ne sarebbe accorto e non avrebbe preso provvedimenti. Si recarono, quindi, negli ultimi giorni di ottobre, a pranzare in una vicina trattoria. Dopo il pranzo andarono ancora a girovagare in città ed alla sera ritornarono a cenare nello stesso posto, rientrando poi a Valdocco mezzo brilli a notte tarda. Solo il sig. Buzzetti, invitato all’ultimo momento, si era rifiutato di unirsi a quei disubbidienti e ne avvertì Don Bosco. Questi, con tutta calma, dichiarò sciolta la banda musicale e ordinò al Buzzetti di ritirare e chiudere a chiave tutti gli strumenti e pensare a nuovi allievi da avviare alla musica strumentale. All’indomani mattina, poi, mandò a chiamare ad uno ad uno tutti i musici riottosi rammaricandosi con ciascuno di loro che lo costringevano ad essere molto severo. Poi li rimandò dai loro parenti o tutori raccomandandone qualcuno più bisognoso in opifici cittadini. Solo uno di quei birichini fu poi riaccettato perché Don Rua aveva assicurato Don Bosco trattarsi di un ragazzo inesperto che si era lasciato ingannare dai compagni. E Don Bosco lo tenne ancora qualche tempo in prova!
            Ma con i dispiaceri non bisogna dimenticare le consolazioni. Il 9 giugno 1868 fu una data memorabile nella vita di Don Bosco e nella storia della Congregazione. La nuova Chiesa di Maria Ausiliatrice, da lui fatta costruire con immensi sacrifici, veniva finalmente consacrata. Chi fu presente ai solennissimi festeggiamenti ne rimase profondamente commosso. Una folla strabocchevole stipava la bella chiesa di Don Bosco. L’Arcivescovo di Torino, Mons. Riccardi, compì il solenne rito della consacrazione. Alla funzione serale del giorno seguente, durante i Vespri solenni, il coro di Valdocco intonò la grandiosa antifona musicata da don Cagliero: Sancta Maria succurre miseris. La folla dei fedeli ne rimase elettrizzata. Tre cori poderosi l’avevano eseguita in modo perfetto. Centocinquanta tenori e bassi cantavano nella navata presso l’altare di San Giuseppe, duecento soprani e contralti stavano in alto lungo la ringhiera sotto la cupola, un terzo coro, composto di altri cento tenori e bassi, erano collocati sull’orchestra che allora sovrastava il fondo della chiesa. I tre cori, collegati da un congegno elettrico, mantenevano la sincronia ai comandi del Maestro. Il biografo, presente all’esecuzione, ebbe poi a scrivere:
            “Nel momento in cui tutti i cori riuscirono a fare una sola armonia, si provò una specie di incantesimo. Le voci si collegavano insieme e l’eco le rimandava per tutte le direzioni in modo che l’uditorio si sentiva immerso in un mare di voci, senza che potesse discernere come e donde veniva. Le esclamazioni, che si udirono poi, indicavano come tutti si fossero sentiti soggiogati da così alta maestrìa. Don Bosco stesso non poté trattenere l’intensa commozione. Ed egli che mai in chiesa, durante la preghiera, si permetteva di dire una parola, rivolse gli occhi umidi di pianto ad un canonico suo amico e a bassa voce gli disse: “Caro Anfossi, non ti pare di essere in Paradiso?” (MB IX, 247-248).




Beato Michele Rua. La Consacrazione della nostra Pia Società al Sacro Cuore di Gesù

Lo scorso 24 ottobre, il Santo Padre ha voluto rinnovare la devozione al Sacro Cuore di Gesù attraverso la pubblicazione dell’enciclica Dilexit nos, in cui ha illustrato le ragioni di questa scelta:

“Alcuni si domandano se esso abbia un significato tuttora valido. Ma quando siamo tentati di navigare in superficie, di vivere di corsa senza sapere alla fine perché, di diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato a cui non interessa il senso della nostra esistenza, abbiamo bisogno di recuperare l’importanza del cuore.”

Anche noi desideriamo sottolineare il valore di questa devozione, profondamente radicata nella tradizione salesiana. Don Bosco, ispirato dalla spiritualità di San Francesco di Sales, era profondamente consapevole della devozione al Sacro Cuore, promossa da una delle figlie di San Francesco, la visitandina Santa Margherita Maria Alacoque. Questa devozione è stata per lui una fonte continua di ispirazione, e ci proponiamo di approfondirla in una serie di articoli futuri. Basti, per ora, ricordare lo stemma salesiano, nel quale Don Bosco volle inserire il Sacro Cuore, e la basilica romana dedicata al Sacro Cuore di Gesù, che egli stesso si impegnò a far costruire a Roma, spendendo tempo, energie e risorse.

Il suo successore, il Beato Michele Rua, proseguì sulla scia del fondatore, coltivando la devozione e consacrando la Congregazione Salesiana al Sacro Cuore di Gesù.

In questo mese di novembre desideriamo ricordare la sua lettera circolare, scritta 124 anni fa, il 21 novembre 1900, per preparare questa consacrazione, che presentiamo qui integralmente.

«La Consacrazione della nostra Pia Società al Sacro Cuore di Gesù

Car.mi Confratelli e Figliuoli,

            Da lungo tempo e da molte parti mi fu chiesto con grande insistenza di consacrare la nostra Pia Società al Sacro Cuore di Gesù, con atto solenne e perentorio. Specialmente insistettero in questo assunto le nostre Case di Noviziato e di Studentato, congiunte in lega santa, e la cara memoria di quell’indimenticabile nostro Confratello che fu Don Andrea Beltrami. Dopo un lungo ritardo, consigliatomi dalla prudenza, credo opportuno esaudire queste suppliche ora, che il secolo decimonono volge al termine, e si avanza, lieto di molte speranze, il secolo ventesimo.
            Già in molte circostanze ho raccomandato a miei figliuoli e Confratelli salesiani, ed alle nostre Suore, le Figlie di Maria Ausiliatrice, la divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, e, sicuro che essa avrebbe apportato grandi beni spirituali a ciascuno di noi, l’anno scorso ho indetto, che ogni salesiano a Lui facesse la consacrazione di sé stesso. Queste raccomandazioni furono ben accolte da tutti; si eseguirono scrupolosamente le mie ingiunzioni, ed i beni da me aspettati vennero abbondantemente.
            Ora intendo che ciascuno si consacri di nuovo, in modo tutto particolare, a codesto Cuore Sacratissimo; anzi desidero che ciascun Direttore Gli consacra interamente la Casa cui presiede, ed inviti i giovani a far essi pure questa santa offerta di sé stessi, li istruisca sul grand’atto che sono per compiere, e dia loro comodità affinché vi si possano preparare convenientemente.
            Si può dire ai Cristiani riguardo al Cuore di Gesù quanto San Giovanni Battista diceva ai Giudei parlando del divin Salvatore: “Vi è uno in mezzo di voi, che voi non conoscete”. E possiamo pur ripetere a questo riguardo le parole di Gesù alla Samaritana: “Oh se conoscessi il dono di Dio!” Quale amore e confidenza maggiore verranno a sentire verso Gesù i nostri soci ed i nostri giovani se saranno in questa divozione ben istruiti!
            Il Signore ha concesso grazie a ciascuno di noi, ne ha concesso alle singole Case; ma più ancora fu largo de’ suoi favori colla Congregazione che ci è madre. La nostra Pia Società fu ed è continuamente beneficata in modo specialissimo dalla bontà di Gesù, che vede quanto si abbisogni di grazie affatto straordinarie per iscuotere la tiepidezza, per rinnovarci nel fervore e per eseguire il gran compito che Iddio ci affidò: è giusto quindi che la Pia nostra Società sia tutta e interamente consacrata a quel Cuore Sacratissimo. Tutti insieme presentiamoci a Gesù, e gli saremo cari come chi gli offre non solo ogni fiore del suo giardino, ma il giardino stesso; non solo i vari frutti dell’albero, ma l’albero stesso. Poiché se riesce accetta a Dio la consacrazione dei singoli individui, più accetta deve tornargli quella di un’intera comunità, essendo questa come una legione, una falange, un esercito che a Lui si offre.
            E parmi sia veramente questo il tempo voluto dalla divina Providenza per compiere l’atto solenne. La circostanza ci si presenta molto propizia ed opportuna. Mi par bello e, direi, sublime, nell’istante che divide due secoli, presentarci a Gesù, anime espiatrici per i misfatti dell’uno, e apostoli per conquistar l’altro al suo amore. Oh come Gesù benedetto poserà allora benigno lo sguardo sopra le varie nostre case, divenute come altrettanti altari su cui offriamo a Lui la contrizione dei nostri cuori e le migliori nostre energie fisiche e morali; come benedirà la nostra Società, che questi olocausti sparsi per il mondo intero raccoglie in un solo e grandioso, per prostrarsi ai piedi di Gesù ed esclamare a nome de’ suoi figlioli: “Oh Gesù! grazie, grazie; perdono, perdono; aiuto, aiuto!” E per dirgli: “Noi, Gesù, siamo già vostri per diritto, avendoci Voi comperati col vostro preziosissimo Sangue, ma vogliamo anche essere vostri per elezione e consacrazione spontanea, assoluta : le nostre Case son già vostre per diritto, essendo Voi padrone d’ogni cosa, ma noi vogliamo che esse siano vostre, e di Voi solo, anche per nostra spontanea volontà; a Voi le consacriamo: la nostra Pia Società già è vostra per diritto, poiché Voi l’avete ispirata, Voi l’avete fondata, Voi l’avete fatta uscire, per dir così, dal vostro Cuore medesimo; ebbene, noi vogliamo confermare questo vostro diritto; vogliamo che essa, mercé l’offerta che ve ne facciamo, diventi come, un tempio, in mezzo al quale possiam dire con verità, che abita signore, padrone e re il Salvatore nostro Gesù Cristo! Sì, Gesù, vincete ogni difficoltà, regnate, imperate in mezzo a noi: Voi ne avete diritto, Voi lo meritate, noi lo vogliamo”.
            Questi i voti, i sospiri, i propositi del nostro cuore: cerchiamo di ispirarci continuamente ad essi e di rinvigorirli nell’amor di Dio in questa circostanza specialissima.
            È giunto pertanto, o carissimi, il gran momento di rendere pubblica e solenne la consacrazione nostra e di tutta la nostra Pia Società al divin Cuore di Gesù: è giunto il momento di emettere l’atto esterno e perentorio, tanto disiderato, con cui dichiariamo, che noi e la Congregazione restiamo cosa sacra al Divin Cuore. Bisogna ormai stabilire alcune norme pratiche, le quali valgano a regolare questa grande funzione.
            Intendo prima di tutto che questa solenne Consacrazione sia preparata da un divoto triduo di preghiere e di predicazione, il quale opportunissimamente comincerà la sera dei Santi Innocenti, 28 dicembre, giorno in cui morì S. Francesco di Sales, nostro grande Titolare.
            Intendo in secondo luogo che l’atto della Consacrazione si emetta da tutti insieme giovani, ascritti, confratelli, superiori di ogni casa, nonché dal maggior numero di cooperatori che si possano radunare. Quelli tra i confratelli, che per qualche circostanza si trovassero fuori della propria comunità, e non vi potessero tornare, procurino di recarsi alla casa salesiana più vicina, e quivi si uniscano in questo atto agli altri confratelli. Quelli poi, che non potessero comodamente recarsi a qualche nostra casa, emettano egualmente questa consacrazione nel modo migliore, che le circostanze loro permetteranno.
            In terzo luogo stabilisco, che questa funzione si faccia in chiesa, nella notte del 31 dicembre al primo gennaio, proprio nel momento solenne che divide i due secoli. Voi sapete che il Santo Padre, anche per questo anno, dispose che alla mezzanotte del 31 dicembre si possa celebrare solennemente la S. Messa, col Santissimo esposto. Ora nel caso nostro converrà che, radunati in chiesa mezz’ora prima, si faccia l’esposizione del SS. Sacramento, e dopo almeno un quarto d’ora di adorazione, si rinnovino da tutti i voti battesimali, dai confratelli anche i voti religiosi e quindi si faccia la consacrazione di sé stessi, della propria casa, e di tutto il consorzio umano al Sacro Cuore di Gesù, con il formulario prescritto dal S. Padre l’anno scorso. In quel momento medesimo io col Capitolo Superiore, con un formulario apposito, faremo la Consacrazione di tutta la Congregazione.
            Dopo ciò si celebri in ogni casa la Santa Messa, facendovi seguire la Benedizione col SS. Sacramento, previo il canto del Te Deum, e di quelle altre pratiche, che dal S. Padre o dai singoli Vescovi fossero ordinate per quella circostanza.
            Negli Oratorii festivi, e dove, per qualsiasi circostanza, non fosse possibile o conveniente fare detta funzione alla mezzanotte, essa potrà farsi nel mattino seguente, all’ora più opportuna, avendo il Santo Padre concesso di tenere esposto il Santissimo Sacramento dalla mezzanotte al mezzogiorno del primo gennaio, conferendo di più indulgenza plenaria a chi in questo frattempo vi facesse un’ora di adorazione.
            Non vorrei poi che questa Consacrazione fosse un atto sterile: essa dev’essere fonte di grandi beni a noi e al prossimo. L’atto della Consacrazione è breve, ma il frutto deve essere imperituro. E per ottenere questo, credo conveniente raccomandarvi alcune pratiche speciali, approvate e commendate dalla Chiesa, e dalla medesima arricchite di molte indulgenze, le quali, mentre terran viva la memoria di questo grande atto, serviranno pure ad eccitare sempre più questa divozione in noi, nei giovani e nei fedeli alle nostre cure affidati.
            Propongo pertanto, che la festa del Sacro Cuore di Gesù sia ovunque solennizzata come una delle feste primarie dell’anno.
            In tutte le Case si ricordi il primo venerdì del mese con una speciale funzione, e sia raccomandato ad ogni confratello e giovane di fare in quel giorno la Comunione Riparatrice.
            Ogni confratello sia ascritto all’associazione detta Pratica dei Nove Uffizi, e cerchi veramente di eseguire l’uffizio che gli tocca.
            Ogni casa sia associata alla Confraternita della Guardia d’onore, e ne esponga il quadrante; ed ogni confratello e giovane fissi il tempo speciale, in cui intende di fare la sua ora di guardia, com’è prescritto da detta Confraternita.
            Nelle case di noviziato e studentato chi può faccia l’Ora Santa, secondo le norme stabilite per praticare detta divozione.
            Siccome poi nulla può meglio contribuire a fare con profitto l’atto di Consacrazione sopra ordinato, ed a praticar bene la divozione al Sacro Cuore, quanto il conoscere in che essa consista, ne ho compilato, e vi espongo qui in seguito una istruzione adeguata. In questo modo spero che la divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù verrà maggiormente apprezzata e desiderata da tutti noi ed anche dai nostri buoni alunni.

            Intimamente persuaso che questo atto solenne che stiamo per compiere, abbia ad essere accetto al Cuore Sacratissimo di Gesù, e che abbia a produrre gran bene alla nostra Pia Società, mentre vi saluto e vi benedico, vi prego ancora di unirvi con me a ringraziare questo Divin Cuore pei grandi benefizi che già ne impartì, ed a pregarlo che il nuovo secolo, mentre sarà per noi di conforto e di aiuto, abbia ancora ad essere davvero il secolo del trionfo di Gesù Redentore, in modo che Egli, il nostro caro Gesù, venga a regnare nella mente e nel cuore di tutti gli uomini del mondo, e possa presto ripetersi in tutta l’estensione del suo significato il Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat.

Vostro aff.mo in Corde Jesu
Sac. MICHELE RUA

ISTRUZIONE SULLA DIVOZIONE AL SS. CUORE DI GESÙ’
            Gesù, Redentor nostro pietosissimo, essendo venuto in terra per salvare tutti gli uomini, collocò nella sua Chiesa una dovizia inestimabile di beni, che dovessero valere a tanto fine. E tuttavia non contento a questa provvidenza così universale e generosa, ogni qualvolta si fe’ sentire una speciale necessità, volle fornire agli uomini aiuti anche più efficaci. A tal fine furono, certo per ispirazione del Signore, istituite man mano tante divote solennità; a tal fine il Signore fe’ sorgere tanti santuari in ogni parte del mondo, ed a tal fine ancora si istituì nella Chiesa, a misura dei bisogni, tanta santità di pratiche religiose.

N. 22, Torino, 21 novembre 1900,
Festa della Presentazione di Maria al Tempio
»