E la stella si fermò su una sedia a rotelle

Incontri nel giorno dell’Epifania con persone stupende dal cuore buono e una fede luminosa

Carissimi amici del Bollettino Salesiano, insieme al mio affettuoso saluto vi porgo i migliori auguri per il nuovo Anno 2024 che abbiamo da poco inaugurato. Spero sinceramente che sia un anno pieno di presenza di Dio nella nostra vita e ricco di benedizioni.
Ho l’abitudine, quando mi è possibile, di scrivere questo saluto condividendo qualcosa che ho vissuto e che mi ha colpito per un motivo o per l’altro. Ebbene, il giorno dell’Epifania del Signore, mi trovavo nella mia città natale, Luanco-Asturias. In quel magnifico angolo di terra, respiravo piacevolmente in contatto con le mie radici e con il mare e la natura che mi hanno visto nascere e crescere, oltre che con i miei compaesani.  Quel giorno sono andato a celebrare l’Eucaristia. Il parroco del paese mi aveva gentilmente concesso questo privilegio, mentre lui si recava in un’altra delle parrocchie a lui affidate. Così abbiamo potuto celebrare questa solennità in più comunità cristiane.
Ebbene, quello che voglio dirvi è che è stata una mattinata in cui il Signore ha preparato per me degli incontri inaspettati in cui, venendo a conoscenza della situazione di alcune persone, il mio cuore si è riempito della certezza di come il Signore consola e conforta anche quando il dolore, la malattia o la limitazione si sono insediati in alcune vite.
Ho iniziato la mia giornata, prima di celebrare l’Eucaristia, facendo visita a una persona anziana che per molti anni è stata medico del mio paese. Era un grande medico di famiglia e un credente. Tra l’altro, era stato studente salesiano a Salamanca. Per anni e anni è stato uno dei personaggi di cui mi parlavano i miei genitori quando andavano dal medico.
Ebbene, in questa visita familiare che gli feci, rispondendo all’invito di sua figlia, incontrai un uomo di fede che mi disse che come medico poteva dare solo una parte del molto che aveva ricevuto da Dio e che ora, con una pesante malattia, chiedeva solo al buon Dio di prepararlo all’Incontro con Lui. Tale era la sua convinzione e la sua pace che andai a celebrare l’Eucaristia avendo già ricevuto la mia dose di “parola buona nell’orecchio”.

Nelle mani di Dio
E all’Eucaristia ho incontrato, come in altre occasioni, un giovane di una trentina di anni che, a causa di un incidente, è da anni su una sedia a rotelle. Anche in sedia a rotelle è andato con sua madre in India per entrare in contatto con i più poveri tra i poveri. E il mio giovane amico mi colpisce per la serenità, il sorriso e la gioia con cui vive nel suo cuore; la stessa gioia con cui partecipa all’Eucaristia quotidiana e con cui riceve il Signore. E questo giovane amico avrebbe sicuramente tutto per lamentarsi della “sua sfortuna”, o peggio ancora: potrebbe dare la colpa a Dio, come tendiamo a fare quando qualcosa ha la meglio su di noi. Invece no, lui vive semplicemente senza piangersi addosso ed è grato per il dono della vita anche su una sedia a rotelle. Alla fine delle celebrazioni, quando lo vedo, ci salutiamo sempre e le sue parole sono sempre parole di ringraziamento, ma sono piuttosto io che dovrei ringraziarlo per la grande testimonianza di vita e di fede nel Signore della vita che dà a tutti noi.
Ecco quanto è stato bello e suggestivo il mio giorno dell’Epifania quando, uscendo dalla chiesa, una coppia di mezza età mi ha salutato e mi ha fatto gli auguri per il nuovo anno. Anche loro con volti gioiosi; ho visto più gioia e serenità nel marito (malato di cancro) che nella sua amata moglie (che soffriva per lui). Ma entrambi mi hanno parlato della loro certezza di dover vivere questo momento e la malattia fidandosi e abbandonandosi a Dio.

Fede di madre
Infine, tra tutti i saluti me ne è sfuggito un ultimo. Una mamma anziana che, presentandosi, mi ha ricordato che qualche anno fa aveva perso uno dei suoi figli, morto di malattia, e che attualmente era malata di cancro. Mi ha chiesto di tenerla presente davanti al Signore. Le ho chiesto come si sentiva e mi ha detto che soffriva, ma era molto confortata dalla fede. Vi assicuro che non avevo parole da dire, perché l’emozione che ho provato durante la mattinata e le testimonianze di vita che mi sono arrivate e che mi hanno travolto sono state così intense.
E non potevo non promettere le mie preghiere a ciascuno, e l’ho fatto, e allo stesso tempo mi sono reso conto, ancora una volta e in modo più forte, di come il Signore continui a fare grandi cose negli umili, nelle persone più colpite dalle situazioni della vita, in coloro che sentono che solo Lui è veramente consolazione e aiuto.
E tutto questo mi sembra così importante che non posso tenerlo per me. Sembrerebbe addirittura che non sia qualcosa di cui scrivere, forse perché non è di moda, forse perché oggi si parla di altre cose, ma io mi ribello a tutto ciò che mi impedisce di condividere e testimoniare ciò che è importante, profondo e di speranza nella nostra vita.
E non so perché, ma ho l’intuizione che molti lettori si sentiranno in sintonia con quello che racconto e con quello che io stesso ho vissuto, perché quello vi racconto, avvenuto in una mattina dell’Epifania in un piccolo paese vicino al mare, non accade solo lì. In altre parole, fa parte della nostra condizione umana e in essa il Signore è sempre al nostro fianco, se glielo permettiamo.
Vi auguro ogni bene, cari amici. E continuiamo a credere che in ogni momento, anche in quelli più difficili, abbiamo motivo di sperare.




Il testamento di don Bosco

            Con il testamento, si sa, una persona dispone delle sue sostanze per il tempo successivo alla propria morte. Non si direbbe, quindi, argomento troppo simpatico quello che stiamo per trattare. Eppure serve a farci meglio apprezzare la grande serenità e prudenza di Don Bosco. Egli, sin da giovane, aveva sempre dinanzi a sé il pensiero della morte e ne parlava sovente.
            Nell’archivio salesiano centrale sono conservati vari successivi manoscritti del suo testamento olografo (ASC 112 – FdB N. 73).
            A Torino nel 1846 si ammalò al punto che si temeva per la sua stessa vita. Negli anni ’50 ci fu chi tentò di assassinarlo. E Don Bosco si teneva sempre preparato ad ogni evento.
            Il primo testamento olografo di Don Bosco che possediamo risale al 26 luglio 1856, quando Don Bosco stava per compiere 41 anni di età ed era ancora in vita sua madre. Incominciava con queste parole: «Nell’incertezza di vita in cui si trova ogni uomo che vive in questo mondo…, ecc.».
            Lasciava l’usufrutto dei suoi beni posseduti a Torino a Don Vittorio Alasonatti, economo della Casa di Valdocco e la proprietà al chierico Michele Rua, che già sin d’allora era il suo braccio destro.
            Ai parenti lasciava i beni di Castelnuovo, tenuto conto che la madre vivente doveva rimanerne usufruttuaria. Perduta nel novembre di quello stesso anno la madre, corresse così ciò che aveva scritto.: «Tutto quello che io possiedo a Castelnuovo d’Asti, lascio a mio fratello Giuseppe…».

I successivi manoscritti
            Nel febbraio del 1858, Don Bosco partiva la prima volta per Roma onde ottenere udienza dal Papa Pio IX e presentargli il suo progetto della Società Salesiana. Aveva stabilito di andarvi via mare e fare ritorno via terra attraversando la Toscana, gli Stati di Parma, Piacenza, Modena ed il Lombardo-Veneto. Si mise in viaggio sul primo mattino del 18 febbraio dopo una gelida notte in cui era caduta la neve, accompagnato dal fedelissimo chierico Michele Rua.
            Fece in treno solo il tratto Torino-Genova. Dovette poi imbarcarsi sull’Aventino, un battello a vapore che faceva servizio per Civitavecchia. Da Civitavecchia a Roma viaggiò su vettura postale. Il 21 febbraio giunse nella città dei Papi dove fu ospite del Conte De Maistre in via del Quirinale 49, alle Quattro Fontane, mentre Don Rua alloggiò presso i Rosminiani (MB V, 809-818).
            Ma prima di iniziare quel viaggio Don Bosco aveva provveduto, per l’occorrenza, non solo al passaporto ma anche a fare testamento.
            Un altro esemplare di testamento di Don Bosco porta la data del 7 gennaio 1869. In esso egli costituiva suo erede universale ed esecutore testamentario, per quanto riguardava le proprietà salesiane, il sacerdote Rua Michele e, in caso di sua morte, il sac. Cagliero Giovanni.
Il 29 marzo 1871 riconfermava con nuovo manoscritto suoi eredi Don Rua e Don Cagliero e, per le proprietà di Castelnuovo, i suoi parenti. Nello stesso anno, durante la malattia di Varazze, scrisse in data 22 dicembre 1871 una conferma del testamento precedente (MB X, 1334-133).

Il testamento del 1884
            Nel 1884 Don Bosco si accingeva a partire la decima volta per la Francia in cerca di denaro per la Basilica del Sacro Cuore a Roma. Era in cattivo stato di salute. Il Dott. Albertotti, chiamato a dissuaderlo dal viaggio, dopo averlo visitato aveva detto:
            — Se arriverà fino a Nizza senza morire, sarà un miracolo.
— Se io non tornerò più, pazienza -, aveva risposto Don Bosco, – vuol dire che prima di andare aggiusteremo le cose, ma andare bisogna (MB VII, 34).
            E così fece. Nel pomeriggio di quel 29 febbraio mandò a chiamare notaio e testimoni e dettò il proprio testamento, come se fosse sul punto di partire per l’eternità. Poi, fatti venire Don Rua e Don Cagliero, e indicando sul tavolo l’atto notarile, disse loro:
            — Qui c’è il mio testamento… Se non ritornerò più, come teme il medico, voi saprete già come stanno le cose.
            Don Rua uscì dalla camera con il cuore gonfio. A Don Cagliero il Santo fece cenno di fermarsi e gli lasciò in dono una scatoletta che conteneva l’anello nuziale di suo padre.
Il 7 dicembre di quell’anno Don Cagliero veniva consacrato Vescovo titolare di Magida e ripartiva per l’America il 3 febbraio 1885, come Vicario Apostolico in Patagonia.

Il testamento spirituale di Don Bosco
            Ma nell’Archivio Salesiano Centrale è pure conservato un manoscritto di Memorie di Don Bosco che coprono gli anni 1841-1886, conosciuto nella tradizione salesiana come il Testamento spirituale di Don Bosco. Ne citiamo un brano particolarmente significativo:
«Espressi così i pensieri di un Padre verso a’ suoi amati figli, ora mi rivolgo a me stesso per invocare la misericordia del Signore sopra di me nelle ultime ore della mia vita.
            — Io intendo di vivere e di morire nella santa cattolica religione che ha per capo il Romano Pontefice, Vicario di Gesù Cristo sopra la terra.
            — Credo e professo tutte le verità della fede che Dio ha rivelato alla santa Chiesa.
            — Dimando a Dio umilmente perdono di tutti i miei peccati specialmente di ogni scandalo dato al mio prossimo in tutte le mie azioni, in tutte le parole proferite a tempo non opportuno; dimando poi in modo particolare scusa degli eccessivi riguardi usati intorno a me stesso collo specioso pretesto di conservare la sanità…
            — So che voi, o amati figli, mi amate, e questo amore, questa affezione non si limiti a piangere dopo la mia morte; ma pregate pel riposo eterno dell’anima mia…
            — Le vostre preghiere siano con fine speciale al Cielo rivolte affinché io trovi misericordia e perdono al primo momento che io mi presenterò alla tremenda maestà del mio Creatore» (F. MOTTO, Memorie…, Piccola Biblioteca dell’ISS, n. 4, Roma, LAS, 1985, p. 57-58).
            È un documento che non ha bisogno di commento!




Il sogno di 9 anni. Genesi di una vocazione

Il sogno di 9 anni presentato in dieci punti, sintesi di una celeste vocazione, confermata dai frutti che ha prodotto, presentato alla 42° edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana a Valdocco, Torino.

Duecento anni fa, un ragazzino di nove anni, povero e senza altro futuro se non quello di fare il contadino, fece un sogno. Lo raccontò al mattino a madre, nonna e fratelli, che la presero sul ridere. La nonna concluse: «Non bisogna badare ai sogni». Molti anni dopo, quel ragazzo, Giovanni Bosco, scrisse: «Io ero del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile togliermi quel sogno dalla mente». Perché non era un sogno come tanti altri e non morì all’alba.

Primo: è un ordine imperioso
Don Lemoyne, il primo storico di Don Bosco, infatti riassume così il sogno: «Gli era parso di vedere il Divin Salvatore vestito di bianco, raggiante per luce splendidissima, in atto di guidare una turba innumerabile di giovanetti. Rivoltosi a lui aveagli detto: – Vieni qua: mettiti alla testa di questi fanciulli e guidali tu stesso. – Ma io non sono capace, rispondeva Giovanni. Il Divin Salvatore insistette imperiosamente finché Giovanni si pose a capo di quella moltitudine di ragazzi e cominciò a guidarli giusto il comando che eragli stato fatto». Come il «Seguimi» di Gesù.

Secondo: è il segreto della gioia
Quel sogno tornò e tornò, altre volte. Con una carica trascinante di energia. Era fonte di gioiosa sicurezza e di forza inesauribile per Giovanni Bosco. La fonte della sua vita.
Al processo diocesano per la causa di beatificazione di Don Bosco, Don Rua, suo primo successore, testimoniò: «Mi raccontò Lucia Turco, appartenente a famiglia, ove D. Bosco si recava sovente a trattenersi coi di lei fratelli, che un mattino lo videro arrivare più giulivo del solito. Interrogato quale ne fosse la causa, rispose che nella notte aveva avuto un sogno, che tutto l’aveva rallegrato».

Terzo: la risposta
La domanda per tutti è: «Vuoi una vita qualunque o vuoi cambiare il mondo?»
Viktor Frankl sottolinea la differenza tra “senso della vita” e “senso nella vita“. Il senso della vita è associato a domande come Perché sono qui? Qual è il senso di tutto questo? Che senso ha la vita? Molte persone cercano le risposte nella religione o in una nobile missione per un bene superiore, come per esempio combattere la povertà o fermare il riscaldamento globale. Spesso è difficile trovare il senso della vita; portare avanti la lotta per afferrare questo concetto può essere sfiancante, soprattutto nei momenti di difficoltà, quando fatichiamo perfino ad arrivare a fine giornata. D’altro canto, è molto più facile trovare senso nella vita: nelle cose ordinarie che facciamo d’abitudine, nel momento presente, nelle attività quotidiane a casa o al lavoro. È proprio il senso nella vita che costituisce il mezzo preferenziale per sperimentare il benessere spirituale.

Quarto: un segno dall’Alto
In seminario, Don Bosco come motivazione della sua vocazione scrisse una pagina di umiltà ammirevole: «II sogno di Morialdo, mi stava sempre impresso; anzi si era altre volte rinnovato in modo assai più chiaro» Noi possiamo essere sicuri: egli aveva riconosciuto il Signore e sua Madre. Nonostante la sua modestia, non dubitava affatto di essere stato visitato dal Cielo. Non dubitava nemmeno che quelle visite fossero destinate a svelargli il suo avvenire e quello della sua opera. Lui stesso l’ha detto: «La Congregazione salesiana non ha fatto un passo senza che un fatto soprannaturale glielo avesse consigliato. Non è arrivata al punto di sviluppo in cui si trova senza un ordine speciale del Signore».

Quinto: assistenza continua
«Intesi poi da altri che egli chiese: – Come farò io ad aver cura di tante pecore? E tanti agnelli? Dove troverò i pascoli per mantenerli? La Signora gli rispose: – Non temere, io ti assisterò, e poi sparì».

Sesto: una Maestra
Una madre.

Settimo: una missione
«Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare, continuò a dire quella Signora. Renditi umile, forte, robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». 

Ottavo: un metodo
«Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici».

Nono: i destinatari
«Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, di orsi e di parecchi altri animali».

Decimo: un’Opera
«Oppresso dalla stanchezza voleva sedermi accanto di una strada vicina, ma la pastorella mi invitò a continuare il cammino. Fatto ancora breve tratto di via, mi sono trovato in un vasto cortile con porticato attorno, alla cui estremità eravi una chiesa. Allora mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli. Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi pastorelli per custodirli. Ma essi fermavansi poco e tosto partivano. Allora succedette una meraviglia. Molti agnelli cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri. Io voleva andarmene, ma la pastora mi invitò di guardare al mezzodì. ‘Guarda un’altra volta’, mi disse, e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Nell’interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea».
Per questo, quando entriamo nella Basilica di Maria Ausiliatrice, entriamo nel sogno di Don Bosco.

Il testamento di Don Bosco
Il Papa stesso chiese ordinò a Don Bosco di scrivere il sogno per i suoi figli. Lui cominciò così: «A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro».
Per questo le Costituzioni salesiane cominciano con un “atto di fede”: «Con senso di umile gratitudine crediamo che la Società di san Francesco di Sales è nata non da solo progetto umano, ma per iniziativa di Dio».




Il Sogno dei nove anni di don Bosco. Lettura teologica. Video

            Un commento ai temi teologico-spirituali presenti nel sogno dei nove anni potrebbe avere sviluppi tanto ampi da includere una trattazione a tutto campo della “salesianità”. Letto, infatti, a partire dalla sua storia degli effetti, il sogno apre innumerevoli piste di approfondimento dei tratti pedagogici e apostolici che hanno caratterizzato la vita di san Giovanni Bosco e l’esperienza carismatica che da lui ha preso origine. Scegliamo di concentrare l’attenzione su cinque piste di riflessione spirituale che riguardano rispettivamente (1) la missione oratoriana, (2) la chiamata all’impossibile, (3) il mistero del Nome, (4) la mediazione materna e, infine, (5) la forza della mansuetudine.

1. La missione oratoriana
            Il sogno dei nove anni è pieno di ragazzi. Essi sono presenti dalla prima all’ultima scena e sono i beneficiari di tutto ciò che avviene. La loro presenza è caratterizzata dall’allegria e dal gioco, che sono tipici della loro età, ma anche dal disordine e da comportamenti negativi. I fanciulli non sono dunque nel sogno dei nove anni l’immagine romantica di un’età incantata, non ancora toccata dai mali del mondo, né corrispondono al mito postmoderno della condizione giovanile, come stagione dell’agire spontaneo e della perenne disponibilità al cambiamento, che dovrebbe essere conservata in un’eterna adolescenza. I ragazzi del sogno sono straordinariamente “veri”, sia quando appaiono con la loro fisionomia, sia quando sono raffigurati simbolicamente sotto forma di animali. Essi giocano e bisticciano, si divertono ridendo e si rovinano bestemmiando, proprio come avviene nella realtà. Non paiono né innocenti, come li immagina una pedagogia spontaneista, né capaci di fare da maestri a sé stessi, come li ha pensati Rousseau. Dal momento in cui appaiono, in un “cortile assai spazioso”, che fa presagire i grandi cortili dei futuri oratori salesiani, essi invocano la presenza e l’azione di qualcuno. Il gesto impulsivo del sognatore, però, non è l’intervento giusto; è necessaria la presenza di un Altro.
            Con la visione dei fanciulli s’intreccia l’apparizione della figura cristologica, come ormai possiamo apertamente chiamarla. Colui che nel Vangelo ha detto: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14), viene a indicare al sognatore l’atteggiamento con cui i ragazzi vanno avvicinati e accompagnati. Egli appare maestoso, virile, forte, con tratti che ne evidenziano chiaramente il carattere divino e trascendente; il suo modo di agire è contrassegnato da sicurezza e potenza e manifesta una piena signoria sulle cose che avvengono. L’uomo venerando, però, non incute paura, ma anzi porta la pace dove prima c’era confusione e schiamazzo, manifesta benevola comprensione nei confronti di Giovanni e lo orienta su una via di mansuetudine e carità.
            La reciprocità tra queste figure – i ragazzi da una parte e il Signore (cui si aggiunge poi la Madre) dall’altra – definisce i contorni del sogno. Le emozioni che Giovanni prova nell’esperienza onirica, le domande che pone, il compito che è chiamato a svolgere, il futuro che gli si apre davanti sono totalmente vincolati alla dialettica tra questi due poli. Forse il messaggio più importante che il sogno gli trasmette, quello che probabilmente ha capito per primo perché gli è rimasto impresso nell’immaginazione, prima ancora di comprenderlo in modo riflesso, è che quelle figure si richiamano a vicenda e che egli per tutta la vita non potrà più dissociarle. L’incontro tra la vulnerabilità dei giovani e la potenza del Signore, tra il loro bisogno di salvezza e la sua offerta di grazia, tra il loro desiderio di gioia e il suo dono di vita devono diventare ormai il centro dei suoi pensieri, lo spazio della sua identità. La partitura della sua vita sarà tutta scritta nella tonalità che questo tema generatore gli consegna: modularlo in tutte le sue potenzialità armoniche sarà la sua missione, in cui dovrà riversare tutte le sue doti di natura e di grazia.

            Il dinamismo della vita di Giovanni si prospetta dunque nel sogno-visione come un continuo movimento continuo, una sorta di andirivieni spirituale, tra i ragazzi e il Signore. Dal gruppo di fanciulli in mezzo a cui si è buttato con impeto Giovanni deve lasciarsi attirare al Signore che lo chiama per nome, per poi ripartire da Colui che lo invia e andare a mettersi, con ben altro stile, alla testa dei compagni. Anche se dai ragazzi riceve in sogno pugni così forti, da sentirne il male ancora al risveglio, e dall’uomo venerando ascolta parole che lo lasciano interdetto, il suo andare e venire non è un viavai inconcludente, ma un percorso che gradualmente lo trasforma e fa arrivare ai giovani un’energia di vita e di amore.
            Che tutto ciò avvenga in un cortile è altamente significativo e ha un chiaro valore prolettico, poiché della missione di don Bosco il cortile oratoriano diventerà il luogo privilegiato e il simbolo esemplare. Tutta la scena è collocata in quest’ambiente, insieme vasto (cortile assai spazioso) e familiare (vicino a casa). Il fatto che la visione vocazionale non abbia come sfondo un luogo sacro o uno spazio celeste, ma l’ambiente in cui i ragazzi vivono e giocano, indica chiaramente che l’iniziativa divina assume il loro mondo come luogo dell’incontro. La missione che viene affidata a Giovanni, anche se è chiaramente indirizzata in senso catechetico e religioso («fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e la preziosità della virtù»), ha come proprio habitat l’universo dell’educazione. L’associazione della figura cristologica con lo spazio del cortile e le dinamiche del gioco, che certamente un ragazzo di nove anni non può aver “costruito”, costituisce una trasgressione dell’immaginario religioso più consueto, la cui forza ispiratrice è pari alla profondità misterica. Essa infatti sintetizza in sé tutta la dinamica del mistero dell’incarnazione, per cui il Figlio prende la nostra forma per poterci offrire la sua, e mette in luce come non vi sia nulla di umano che debba essere sacrificato per far spazio a Dio.
            Il cortile dice dunque la vicinanza della grazia divina al “sentire” dei ragazzi: per accoglierla non occorre uscire dalla propria età, trascurarne le esigenze, forzarne i ritmi. Quando don Bosco, ormai adulto, scriverà nel Giovane provveduto che uno degli inganni del demonio è far pensare ai giovani che la santità sia incompatibile con la loro voglia di stare allegri e con l’esuberante freschezza della loro vitalità, non farà che restituire in forma matura la lezione intuita nel sogno e divenuta poi un elemento centrale del suo magistero spirituale. Il cortile dice allo stesso tempo la necessità di intendere l’educazione a partire dal suo nucleo più profondo, che riguarda l’atteggiamento del cuore verso Dio. Lì, insegna il sogno, non vi è solo lo spazio di un’apertura originaria alla grazia, ma anche l’abisso di una resistenza, in cui si annida la bruttezza del male e la violenza del peccato. Per questo l’orizzonte educativo del sogno è francamente religioso, e non solo filantropico, e mette in scena la simbolica della conversione, e non solo quella dello sviluppo di sé.
            Nel cortile del sogno, colmo di ragazzi e abitato dal Signore, si dischiude dunque a Giovanni quella che sarà in futuro la dinamica pedagogica e spirituale dei cortili oratoriani. Di essa vogliamo ancora sottolineare due tratti, chiaramente evocati nelle azioni che nel sogno compiono i fanciulli prima, e gli agnelli mansueti poi.
            Il primo tratto va ravvisato nel fatto che i ragazzi «cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava». Questo tema del “radunarsi” è una delle matrici teologiche e pedagogiche più importanti della visione educativa di don Bosco. In una celebre pagina scritta nel 1854, l’Introduzione al Piano di Regolamento per l’Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco, egli presenta la natura ecclesiale e il senso teologico dell’istituzione oratoriana citando le parole dell’evangelista Giovanni: «Ut filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum» (Gv 11,52). L’attività dell’Oratorio è così posta sotto il segno del raduno escatologico dei figli di Dio che ha costituito il centro della missione del Figlio di Dio:

Le parole del santo Vangelo che ci fanno conoscere essere il divin Salvatore venuto dal cielo in terra per radunare insieme tutti i figliuoli di Dio, dispersi nelle varie parti della terra, parmi che si possano letteralmente applicare alla gioventù de’ nostri giorni.

            La gioventù, «questa porzione la più delicata e la più preziosa dell’umana Società», si trova spesso a essere dispersa e sbandata per il disinteresse educativo dei genitori o per l’influenza di cattivi compagni. La prima cosa da fare per provvedere all’educazione di questi giovani è proprio «radunarli, loro poter parlare, moralizzarli». In queste parole dell’Introduzione al Piano di Regolamento l’eco del sogno, maturata nella coscienza dell’educatore ormai adulto, è presente in modo chiaro e riconoscibile. L’oratorio vi è presentato come una gioiosa “radunanza” dei giovani intorno all’unica forza calamitante in grado di salvarli e di trasformarli, quella del Signore: «Sono questi oratori certe radunanze in cui si trattiene la gioventù in piacevole ed onesta ricreazione, dopo di aver assistito alle sacre funzioni di chiesa». Fin da bambino, infatti, don Bosco ha capito che «questa fu la missione del figliuolo di Dio; questo può solamente fare la santa sua religione».
            Il secondo elemento che diventerà un tratto identitario della spiritualità oratoriana è quello che nel sogno si rivela attraverso l’immagine degli agnelli che corrono «per fare festa a quell’uomo e a quella signora». La pedagogia della festa sarà una dimensione portante del sistema preventivo di don Bosco, che vedrà nelle numerose ricorrenze religiose dell’anno l’occasione per offrire ai ragazzi la possibilità di respirare a pieni polmoni la gioia della fede. Don Bosco saprà coinvolgere entusiasticamente la comunità giovanile dell’oratorio nella preparazione di eventi, rappresentazioni teatrali, ricevimenti che permettono di fornire uno svago rispetto alla fatica del dovere quotidiano, di valorizzare i talenti dei ragazzi per la musica, la recitazione, la ginnastica, di orientare la loro fantasia in direzione di una creatività positiva. Se si tiene conto che l’educazione proposta negli ambienti religiosi dell’Ottocento aveva solitamente un tenore piuttosto austero, che sembrava presentare come ideale pedagogico da raggiungere quello di una devota compostezza, le sane baraonde festive dell’oratorio si stagliano come espressione di un umanesimo aperto a cogliere le esigenze psicologiche del ragazzo e capace di assecondare il suo protagonismo. L’allegria festosa che segue alla metamorfosi degli animali del sogno è dunque ciò cui deve mirare la pedagogia salesiana.

2. La chiamata all’impossibile
            Mentre per i ragazzi il sogno finisce con la festa, per Giovanni termina con lo sgomento e addirittura con il pianto. Si tratta di un esito che non può che stupire. Si è soliti pensare, infatti, con qualche semplificazione, che le visite di Dio siano portatrici esclusivamente di gioia e di consolazione. È paradossale dunque che per un apostolo della gioia, per colui che da seminarista fonderà la “società dell’allegria” e che da prete insegnerà ai suoi ragazzi che la santità consiste nello “stare molto allegri”, la scena vocazionale termini con il pianto.
            Ciò può certamente indicare che l’allegria di cui si parla non è puro svago e semplice spensieratezza ma risonanza interiore alla bellezza della grazia. Come tale, essa potrà essere raggiunta solo attraverso impegnative battaglie spirituali, di cui don Bosco dovrà in larga misura pagare il prezzo a beneficio dei suoi ragazzi. Egli rivivrà così su di sé quello scambio di ruoli che affonda le sue radici nel mistero pasquale di Gesù e che si prolunga nella condizione degli apostoli: «noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo, noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati» (1Cor 4,10), ma proprio così «collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).
            Il turbamento con cui il sogno si chiude, tuttavia, richiama soprattutto la vertigine che i grandi personaggi biblici provano di fronte alla vocazione divina che si manifesta nella loro vita, orientandola in una direzione del tutto imprevedibile e sconcertante. Il Vangelo di Luca afferma che perfino Maria Santissima, alle parole dell’angelo, provò un senso di profondo turbamento interiore («a queste parole ella fu molto turbata» Lc 1,29). Isaia si era sentito perduto di fronte alla manifestazione della santità di Dio nel tempio (Is 6), Amos aveva paragonato al ruggito di un leone (Am 3,8) la forza della Parola divina da cui era stato afferrato, mentre Paolo sperimenterà sulla via di Damasco il capovolgimento esistenziale che deriva dall’incontro con il Risorto. Pur testimoniando il fascino di un incontro con Dio che seduce per sempre, nel momento della chiamata gli uomini biblici sembrano più esitare impauriti di fronte a qualcosa che li eccede, che lanciarsi a capofitto nell’avventura della missione.
            Il turbamento che Giovanni sperimenta nel sogno sembra un’esperienza analoga. Esso nasce dal carattere paradossale della missione che gli viene assegnata e che egli non esita a definire “impossibile” («Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»). L’aggettivo potrebbe sembrare “esagerato”, come a volte sono le reazioni dei bambini, soprattutto quando esprimono un senso d’inadeguatezza di fronte a un compito impegnativo. Ma questo elemento di psicologia infantile non sembra sufficiente a illuminare il contenuto del dialogo onirico e la profondità dell’esperienza spirituale che esso comunica. Tanto più che Giovanni ha una vera stoffa da leader e un’ottima memoria, che gli consentiranno nei mesi successivi al sogno di iniziare subito a fare un po’ di oratorio, intrattenendo i suoi amici con giochi da saltimbanco e ripetendo loro per filo e per segno la predica del parroco. Per questo nelle parole con cui dichiara schiettamente di essere «incapace di parlare di religione» ai suoi compagni, sarà bene sentir risuonare l’eco lontana dell’obiezione di Geremia alla vocazione divina: «non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6).
            Non è sul piano delle attitudini naturali che si gioca qui la richiesta dell’impossibile, bensì sul piano di ciò che può rientrare nell’orizzonte del reale, di ciò che ci si può attendere in base alla propria immagine del mondo, di ciò che rientra nel limite dell’esperienza. Oltre questa frontiera, si apre appunto la regione dell’impossibile, che è però, biblicamente, lo spazio dell’agire di Dio. “Impossibile” è per Abramo avere un figlio da una donna sterile e anziana come Sara; “impossibile” è per la Vergine concepire e dare al mondo il Figlio di Dio fatto uomo; “impossibile” pare ai discepoli la salvezza, se è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. Eppure Abramo si sente rispondere: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gen 18,14); l’angelo dice a Maria che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37); e Gesù risponde agli discepoli increduli che «ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27).
            Il luogo supremo in cui si pone la questione teologica dell’impossibile è, però, il momento decisivo della storia della salvezza, ossia il dramma pasquale, in cui la frontiera dell’impossibile da superare è lo stesso abisso tenebroso del male e della morte. È in questo spazio generato dalla risurrezione che l’impossibile diventa effettiva realtà, è in esso che l’uomo venerando del sogno, splendente di luce pasquale, chiede a Giovanni di rendere possibile l’impossibile. E lo fa con una formula sorprendente: «Perché tali cose ti sembrano impossibili devi renderle possibili coll’ubbidienza». Sembrano le parole con cui i genitori esortano i bambini, quando sono riluttanti, a fare qualcosa di cui non si sentono capaci o che non hanno voglia di fare.
«Obbedisci e vedrai che ci riesci» dicono allora mamma o papà: la psicologia del mondo infantile è perfettamente rispettata. Ma sono anche, e assai più, le parole con cui il Figlio rivela il segreto dell’impossibile, un segreto che è tutto nascosto nella sua obbedienza. L’uomo venerando che comanda una cosa impossibile, sa attraverso la sua umana esperienza che l’impossibilità è il luogo in cui il Padre opera con il suo Spirito, a condizione che gli si apra la porta con la propria obbedienza.
            Giovanni ovviamente rimane turbato e sbalordito, ma è l’atteggiamento che l’uomo sperimenta di fronte all’impossibile pasquale, di fronte cioè al miracolo dei miracoli, di cui ogni altro evento salvifico è segno. Non deve dunque stupire che nel sogno la dialettica del possibile-impossibile s’intrecci con l’altra dialettica, quella della chiarezza e della oscurità. Essa caratterizza anzitutto la stessa immagine del Signore, la cui faccia è talmente luminosa che Giovanni non riesce a guardarla. Su quel volto splende, infatti, una luce divina che paradossalmente produce oscurità. Vi sono poi le parole dell’uomo e della donna che, mentre spiegano in modo limpido ciò che Giovanni deve fare, lo lasciano però confuso e spaventato. Vi è infine un’illustrazione simbolica, attraverso la metamorfosi degli animali, che però conduce a un’incomprensione ancora maggiore. Giovanni non può che chiedere ulteriori chiarimenti: «pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare», ma la risposta che ottiene dalla donna di maestoso aspetto rinvia in avanti il momento della comprensione: «A suo tempo tutto comprenderai».
            Ciò significa certamente che solo attraverso l’esecuzione di ciò che del sogno è già afferrabile, ossia attraverso l’obbedienza possibile, si dischiuderà in modo più ampio lo spazio per chiarirne il messaggio. Esso non consiste, infatti, semplicemente in un’idea da spiegare, ma in una parola performativa, una locuzione efficace, che proprio realizzando la propria potenza operativa manifesta il suo senso più profondo.

3. Il mistero del Nome
            Giunti a questo punto della riflessione, siamo in grado di interpretare meglio un altro elemento importante dell’esperienza onirica. Si tratta del fatto che al centro della duplice tensione tra possibile e impossibile e tra conosciuto e sconosciuto, e anche, materialmente, al centro della narrazione del sogno, vi sia il tema del Nome misterioso dell’uomo venerando. Il fitto dialogo della sezione III è, infatti, intessuto di domande che ribattono lo stesso tema: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?»; «Chi siete voi che parlate in questo modo?», e infine: «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome». L’uomo venerando dice a Giovanni di chiedere il Nome a sua madre, ma in realtà quest’ultima non glielo dirà. Esso resta fino alla fine avvolto nel mistero.
            Abbiamo già accennato, nella parte dedicata a ricostruire lo sfondo biblico del sogno, che il tema del Nome è strettamente correlato all’episodio della vocazione di Mosè al roveto ardente (Es 3). Questa pagina costituisce uno dei testi centrali della rivelazione veterotestamentaria e pone le basi di tutto il pensiero religioso di Israele. André LaCoque ha proposto di definirla “rivelazione delle rivelazioni”, perché costituisce il principio di unità della struttura narrativa e prescrittiva che qualifica la narrazione dell’Esodo, cellula-madre dell’intera Scrittura.[i] È importante notare come il testo biblico articoli in stretta unità la condizione di schiavitù del popolo in Egitto, la vocazione di Mosè e la rivelazione teofanica. La rivelazione del Nome di Dio a Mosè non avviene come la trasmissione di un’informazione da conoscere o di un dato da acquisire, ma come la manifestazione di una presenza personale, che intende suscitare una relazione stabile e generare un processo di liberazione. In questo senso la rivelazione del Nome divino è orientata in direzione dell’alleanza e della missione. «Il Nome è insieme teofanico e performativo, poiché quelli che lo ricevono non sono semplicemente introdotti nel segreto divino, ma sono i destinatari di un atto di salvezza».[ii]
            Il Nome, infatti, a differenza del concetto, non designa meramente un’essenza da pensare, ma un’alterità cui riferirsi, una presenza da invocare, un soggetto che si propone come vero interlocutore dell’esistenza. Pur implicando l’annuncio di un’incomparabile ricchezza ontologica, quella stessa dell’Essere che non può mai essere adeguatamente definito, il fatto che Dio si riveli come un “Io” indica che solo attraverso la relazione personale con Lui sarà possibile accedere alla sua identità, al Mistero dell’Essere che Egli è. La rivelazione del Nome personale è dunque un atto di parola che interpella il destinatario, chiedendogli di situarsi nei confronti del parlante. Solo così, infatti, è possibile coglierne il senso. Tale rivelazione, inoltre, si pone esplicitamente come fondamento per la missione liberatrice che Mosè deve realizzare: «Io-sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Presentandosi come un Dio personale, e non un Dio legato a un territorio, e come il Dio della promessa, e non puramente come il signore dell’immutabile ripetizione, Jahwè potrà sostenere il cammino del popolo, il suo viaggio verso la libertà. Egli ha dunque un Nome che si fa conoscere in quanto suscita alleanza e muove la storia.
            «Ditemi il vostro nome»: questa domanda di Giovanni non può ricevere risposta semplicemente attraverso una formula, un nome inteso come etichetta esteriore della persona. Per conoscere il Nome di Colui che parla nel sogno non basta ricevere un’informazione, ma è necessario prendere posizione di fronte al suo atto di parola. È necessario cioè entrare in quel rapporto di intimità e di consegna, che i Vangeli descrivono come un “rimanere” presso di Lui. Per questo quando i primi discepoli interrogano Gesù sulla sua identità – «Maestro, dove abiti?» o alla lettera «dove rimani?» – egli risponde «Venite e vedrete» (Gv 1,38s.). Solo “rimanendo” con lui, abitando nel suo mistero, entrando nella sua relazione con il Padre, si può conoscere realmente Chi egli sia.
            Il fatto che il personaggio del sogno non risponda a Giovanni con un appellativo, come noi faremmo presentando ciò che c’è scritto sulla nostra carta di identità, indica che il suo Nome non può essere conosciuto come una pura designazione esterna, ma mostra la sua verità solo quando sigilla un’esperienza di alleanza e di missione. Giovanni dunque conoscerà quel Nome proprio attraversando la dialettica del possibile e dell’impossibile, della chiarezza e dell’oscurità; lo conoscerà realizzando la missione oratoriana che gli è stata affidata. Lo conoscerà, dunque, portandolo dentro di sé, grazie a una vicenda vissuta come storia abitata da Lui. Un giorno Cagliero testimonierà di don Bosco che il suo modo di amare era
«tenerissimo, grande, forte, ma tutto spirituale, puro, veramente casto», tanto che «dava un’idea perfetta dell’amore che il Salvatore portava ai fanciulli» (Cagliero 1146r). Questo indica che il Nome dell’uomo venerando, il cui volto era tanto luminoso da accecare la vista del sognatore, è realmente entrato come un sigillo nella vita di don Bosco. Egli ne ha avuta la experientia cordis attraverso il cammino della fede e della sequela. È questa l’unica forma in cui la domanda del sogno poteva trovare risposta.

4. La mediazione materna
            Nell’incertezza circa Colui che lo invia, l’unico punto fermo cui Giovanni può appigliarsi nel sogno è il rimando a una madre, anzi a due: quella dell’uomo venerando e la propria. Le risposte alle sue domande, infatti, suonano così: «Io sono il figlio di colei che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno» e poi «il mio nome dimandalo a Mia Madre».
            Che lo spazio del chiarimento possibile sia mariano e materno è indubbiamente un elemento su cui merita riflettere. Maria è il luogo in cui l’umanità realizza la più alta corrispondenza alla luce che viene da Dio e lo spazio creaturale in cui Dio ha consegnato al mondo la sua Parola fatta carne. È altresì indicativo che al risveglio dal sogno, colei che ne intuisce al meglio il senso e la portata sia la mamma di Giovanni, Margherita. Su livelli diversi, ma secondo una reale analogia, la Madre del Signore e la madre di Giovanni rappresentano il volto femminile della Chiesa, che si mostra capace di intuizione spirituale e costituisce il grembo in cui le grandi missioni vengono gestate e partorite.
            Non c’è dunque da stupirsi che le due madri siano accostate tra loro e proprio nel punto in cui si tratta di andare al fondo della questione che il sogno presenta, ossia la conoscenza di Colui che affida a Giovanni la missione di una vita. Come già per il cortile vicino a casa, così anche per la madre, nell’intuizione onirica gli spazi dell’esperienza più familiare e quotidiana si dischiudono e mostrano nelle loro pieghe un’insondabile profondità. I gesti comuni della preghiera, il saluto angelico che era usuale tre volte al giorno in ogni famiglia, improvvisamente appaiono per ciò che sono: dialogo con il Mistero. Giovanni scopre così che alla scuola di sua madre ha già instaurato un legame con la Donna maestosa, che può spiegargli tutto. Vi è già dunque una sorta di canale femminile che consente di superare l’apparente distanza che c’è tra «un povero ed ignorante fanciullo» e l’uomo «nobilmente vestito». Tale mediazione femminile, mariana e materna, accompagnerà Giovanni per tutta la vita e farà maturare in lui una particolare disposizione a venerare la Vergine con il titolo di Aiuto dei cristiani, divenendone l’apostolo per i suoi ragazzi e per la Chiesa intera.
            Il primo aiuto che la Madonna gli offre è quello di cui un bambino ha naturalmente bisogno: quello di una maestra. Ciò che essa devi insegnargli è una disciplina che rende veramente sapienti, senza cui «ogni sapienza diviene stoltezza». Si tratta della disciplina della fede, che consiste nel dare credito a Dio e nell’obbedire anche di fronte all’impossibile e all’oscuro. Maria la trasmette come l’espressione più alta della libertà e come la sorgente più ricca della fecondità spirituale e educativa. Portare in sé l’impossibile di Dio e camminare nell’oscurità della fede è, infatti, l’arte in cui la Vergine eccelle al di sopra di ogni creatura.
            Essa ne ha fatto un arduo tirocinio nella sua peregrinatio fidei, segnata non di rado dal buio e dall’incomprensione. Basti pensare all’episodio del ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio (Lc 2,41- 50). Alla domanda della madre: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Gesù risponde in modo sorprendente: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E l’evangelista annota: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro». Meno ancora probabilmente Maria capì quando la sua maternità, annunciata solennemente dall’alto, le fu per così dire espropriata perché divenisse comune eredità della comunità dei discepoli: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). Ai piedi della croce poi, quando si fece buio su tutta la terra, l’Eccomi pronunciato nel momento della chiamata prese i contorni della rinuncia estrema, la separazione dal Figlio al cui posto doveva ricevere dei figli peccatori per i quali lasciarsi trapassare il cuore dalla spada.
            Quando dunque la donna maestosa del sogno inizia a svolgere il suo compito di maestra e, ponendo una mano sul capo di Giovanni, gli dice «A suo tempo tutto comprenderai», essa trae queste parole dalle viscere spirituali della fede che ai piedi della croce l’ha resa madre di ogni discepolo. Sotto la sua disciplina Giovanni dovrà restare per tutta la vita: da giovane, da seminarista, da sacerdote. In modo particolare dovrà rimanervi quando la sua missione prenderà contorni che al momento del sogno non poteva immaginare; quando, cioè, egli dovrà divenire nel cuore della Chiesa fondatore di famiglie religiose destinate alla gioventù di ogni continente. Allora Giovanni, divenuto ormai don Bosco, capirà anche il senso più profondo del gesto con cui l’uomo venerando gli ha dato sua madre come “maestra”.
            Quando un giovane entra in una famiglia religiosa, trova ad accoglierlo un maestro di noviziato, cui viene affidato perché lo introduca nello spirito dell’Ordine e lo aiuti ad assimilarlo. Quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria.
            In effetti la donna del sogno sa indicargli in modo preciso e appropriato le ricchezze del carisma oratoriano. Essa non aggiunge nulla alle parole del Figlio, ma le illustra con la scena degli animali selvaggi divenuti agnelli mansueti e con l’indicazione delle qualità che Giovanni dovrà maturare per svolgere la sua missione: «umile, forte, robusto». In questi tre aggettivi, che designano il vigore dello spirito (l’umiltà), del carattere (la forza) e del corpo (la robustezza), c’è una grande concretezza. Sono i consigli che darebbe a un giovane novizio chi ha una lunga esperienza di oratorio e sa ciò che richiede il “campo” in cui si deve “lavorare”. La tradizione spirituale salesiana ha custodito con cura le parole di questo sogno che si riferiscono a Maria. Le Costituzioni salesiane vi alludono in modo evidente quando affermano: «La Vergine Maria ha indicato a Don Bosco il suo campo di azione tra i giovani»,[iii] o ricordano che «guidato da Maria che gli fu Maestra, don Bosco visse nell’incontro con i giovani del primo oratorio un’esperienza spirituale ed educativa che chiamò Sistema Preventivo».[iv]
            Don Bosco riconobbe a Maria un ruolo determinante nel suo sistema educativo, vedendo nella sua maternità l’ispirazione più alta di ciò che significa “prevenire”. Il fatto che Maria sia intervenuta fin dal primo momento della sua vocazione carismatica, che essa abbia avuto un ruolo così centrale in questo sogno, farà per sempre comprendere a don Bosco che essa appartiene alle radici del carisma e che ove non le sia riconosciuto questo ruolo ispiratore, il carisma non è inteso nella sua genuinità. Data per Maestra a Giovanni in questo sogno, essa dovrà esserlo anche per tutti coloro che ne condividono la vocazione e la missione. Come i successori di don Bosco non si sono mai stancati di affermare, la «vocazione salesiana è inspiegabile, tanto nella sua nascita come nel suo sviluppo e sempre, senza il concorso materno e ininterrotto di Maria».[v]

5. La forza della mansuetudine
            «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici»: queste parole sono senza dubbio l’espressione più nota del sogno dei nove anni, quella che in qualche modo ne sintetizza il messaggio e ne trasmette l’ispirazione. Sono anche le prime parole che l’uomo venerando dice a Giovanni, interrompendo il suo sforzo violento di mettere fine al disordine e alle bestemmie dei suoi compagni. Non si tratta solo di una formula che trasmette una sentenza sapienziale sempre valida, ma di un’espressione che precisa le modalità esecutive di un ordine («mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole») con cui, come si è detto, viene riorientato il movimento intenzionale della coscienza del sognatore. La foga delle percosse deve divenire lo slancio della carità, l’energia scomposta di un intervento repressivo deve lasciar spazio alla mansuetudine.
            Il termine “mansuetudine” viene ad avere qui un peso rilevante, che colpisce ancora di più se si pensa che l’aggettivo corrispondente sarà usato alla fine del sogno per descrivere gli agnelli che fan festa intorno al Signore e a Maria. L’accostamento suggerisce un’osservazione che non pare priva di pertinenza: perché possano divenire “mansueti” agnelli coloro che erano animali feroci, bisogna che divenga mansueto anzitutto il loro educatore. Entrambi, seppur a partire da punti diversi, devono compiere una metamorfosi per entrare nell’orbita cristologica della mitezza e della carità. Per un gruppo di ragazzi scalmanati e rissosi è facile capire che cosa esiga questo cambiamento. Per un educatore forse è meno evidente. Egli, infatti, si pone già sul versante del bene, dei valori positivi, dell’ordine e della disciplina: quale cambiamento gli può essere chiesto?
            Si pone qui un tema che nella vita di don Bosco avrà uno sviluppo decisivo, anzitutto sul piano dello stile dell’azione e, in certa misura, anche su quello di una riflessione teorica. Si tratta dell’orientamento che conduce don Bosco a escludere categoricamente un sistema educativo basato sulla repressione e sui castighi, per scegliere con convinzione un metodo che è tutto basato sulla carità e che don Bosco chiamerà “sistema preventivo”. Di là delle diverse implicanze pedagogiche che derivano da questa scelta, per le quali rimandiamo alla ricca bibliografia specifica, interessa qui evidenziare la dimensione teologico-spirituale che è sottesa a questo indirizzo, di cui le parole del sogno costituiscono in qualche modo l’intuizione e l’innesco.
            Ponendosi dalla parte del bene e della “legge”, l’educatore può essere tentato di impostare la sua azione con i ragazzi secondo una logica che mira a far regnare l’ordine e la disciplina essenzialmente attraverso regole e norme. Eppure anche la legge porta dentro di sé un’ambiguità che la rende insufficiente a guidare la libertà, non solo per i limiti che ogni regola umana porta dentro di sé, ma per un limite che ultimamente è di ordine teologale. Tutta la riflessione paolina è una grande meditazione su questo tema, poiché Paolo aveva percepito nella sua esperienza personale che la legge non gli aveva impedito di essere «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1Tim 1,13). La stessa Legge data da Dio, insegna la Scrittura, non basta a salvare l’uomo, se non vi è un altro Principio personale che la integri e la interiorizzi nel cuore dell’uomo. Paul Beauchamp riassume felicemente questa dinamica quando afferma: «La Legge è preceduta da un Sei amato e seguita da un Amerai. Sei amato: fondazione della legge, e Amerai: il suo superamento».[vi] Senza questa fondazione e questo superamento, la legge porta in sé i segni di una violenza che rivela la sua insufficienza a generare quel bene che essa, pure, ingiunge di compiere. Per tornare alla scena del sogno, i pugni e le percosse che Giovanni dà in nome di un sacrosanto comandamento di Dio, che proibisce la bestemmia, rivelano l’insufficienza e l’ambiguità di ogni slancio moralizzatore che non sia interiormente riformato dall’alto.
            Occorre dunque anche per Giovanni, e per coloro che apprenderanno da lui la spiritualità preventiva, la conversione a una logica educativa inedita, che va oltre il regime della legge. Tale logica è resa possibile solo dallo Spirito del Risorto, effuso nei nostri cuori. Solo lo Spirito, infatti, consente di passare da una giustizia formale ed esteriore (sia essa quella classica della “disciplina” e della “buona condotta” o quella moderna delle “procedure” e degli “obiettivi raggiunti”) a una vera santità interiore, che compie il bene perché ne è interiormente attratta e guadagnata. Don Bosco mostrerà di avere questa consapevolezza quando nel suo scritto sul Sistema preventivo dichiarerà francamente che esso è tutto basato sulle parole di san Paolo: «Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet».
            Naturalmente “guadagnare” i giovani in questo modo è un compito assai esigente. Implica di non cedere alla freddezza di un’educazione fondata solo sulle regole, né al buonismo di una proposta che rinuncia a denunciare la “bruttezza del peccato” e a presentare la “preziosità della virtù”. Conquistare al bene mostrando semplicemente la forza della verità e dell’amore, testimoniata attraverso la dedizione “fino all’ultimo respiro”, è la figura di un metodo educativo che è al contempo una vera e propria spiritualità.
            Non c’è da stupirsi che Giovanni nel sogno faccia resistenza a entrare in questo movimento e chieda di comprendere bene chi è Colui che lo imprime. Quando però avrà capito, facendo diventare quel messaggio dapprima un’istituzione oratoriana e poi anche una famiglia religiosa, penserà che raccontare il sogno in cui ha appreso quella lezione sarà il modo più bello per condividere con i suoi figli il significato più autentico della sua esperienza. È Dio che ha guidato ogni cosa, è Lui stesso che ha impresso il movimento iniziale di quello che sarebbe divenuto il carisma salesiano.

don Andrea Bozzolo, sdb, Rettore Magnifico dell’Università Pontificia Salesiana


[i] A. LACOCQUE, La révélation des révélations: Exode 3,14, in P. RICOEUR – A. LACOCQUE, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998, 305.

[ii] A. BERTULETTI, Dio, il mistero dell’unico, Queriniana, Brescia 2014, 354.

[iii] Cost art. 8.

[iv] Cost art. 20.

[v] E. VIGANÒ, Maria rinnova la Famiglia Salesiana di don Bosco, ACG 289 (1978) 1-35, 28.

[vi] P. BEAUCHAMP, La legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000, 116.

Il sogno che fa sognare. Lettura teologica del sogno dei 9 anni di don Bosco. Prof. don Andrea Bozzolo. Conferenza tenuta nel 15.01.2024 nella Basilica Maria Ausiliatrice, Torino






Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (2/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo II. Maria dimostrata aiuto dei Cristiani dall’Arcangelo Gabriele nell’atto di annunziarla Madre di Dio.

            Le cose finora esposte vennero raccolte dall’antico Testamento e dalla Chiesa applicate alla Santa Vergine Maria; ora passiamo al senso letterale secondo è scritto nel s. Vangelo.
            L’Evangelista s. Luca al capo I del suo Vangelo racconta che l’Arcangelo Gabriele essendo stato mandato da Dio ad annunziare a Maria SS. la dignità di Madre di Gesù, le disse: Ave, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus. Dio ti salvi, o piena di grazia, il Signore è teco, tu sei benedetta fra le donne.
            L’Arcangelo Gabriele salutando Maria la chiama piena di grazia. Adunque Maria ne possiede la pienezza.
            Sant’Agostino esponendo le parole dell’Arcangelo così saluta Maria: Dio ti salvi, o Maria, piena di grazia, il Signore è teco; Teco nel cuore, teco nel seno, teco nelle viscere, teco nell’aiuto. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, tecum in corde, tecum in ventre, tecum in utero, tecum in auxilio. (August. in Serm. de nat. B. M.).
            L’angelico dottore s. Tommaso riguardo alle parole Gratia plena dice che dovette avere Maria veramente la pienezza delle grazie e ragiona così: Quanto più uno è vicino a Dio, tanto più partecipa alla grazia di Dio. Di l’atto quegli Angeli in cielo che sono più prossimi al divin trono sono più favoriti e più ricchi degli altri. Ora Maria più di tutti vicina a Gesù per avergli dato la natura umana, più di tutte doveva pur essere arricchita di grazia. (D. Thomas 3, p., qu. 27, act. 5).
            Disse benissimo l’Angelo Gabriele, proclamando Maria, piena di grazia, osserva s. Girolamo, perché quella grazia che agli altri santi si comunica solo per parte, fu profusa in Maria in tutta la sua pienezza.
Dominus tecum. L’Arcangelo per confermare questa pienezza di grazia in Maria spiega ed amplifica le prime parole gratia plena aggiungendo Dominus tecum, il Signore è con te. Qui cade ogni dubbio di esagerazione sulle parole precedenti. Non è più solamente la grazia di Dio che viene in tutta la sua abbondanza in Maria, ma è Iddio medesimo che viene a riempirla di sé stesso e stabilire la sua dimora nel casto seno di Lei facendone il suo tempio, santificando così l’Altissimo il suo tabernacolo: Sanctificavit tabernaculum suum Altissimus.
            Così pure secondo il senso della Chiesa commentano s. Tommaso d’Aquino e s. Lorenzo Giustiniani e san Bernardo.
            E poiché Maria nella sua profonda umiltà tutta si conturbò e domandò la spiegazione di un sì straordinario annunzio, l’Arcangelo Gabriele confermò quanto aveva detto sviluppandone il senso. Ne timeas, Maria, disse Gabriele, invenisti enim gratiam apud Deum: Ecce concipies in utero et paries filium et vocabis nomen eius Iesum. Non temere, o Maria, imperciocché hai trovato grazia presso Dio: Ecco che tu concepirai e partorirai un figlio a cui porrai nome Gesù. E volendo spiegare come il mistero si sarebbe effettuato, soggiunse: Spiritus Sanctus superveniet in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi, ideoque et quod nascetur ex te Sanctum vocabitur Filius Dei. Lo Spirito Santo scenderà sopra di te e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà, e per questo ancora quello che nascerà di te Santo sarà chiamato Figliuolo di Dio.
            Ascoltiamo ora s. Antonino Arcivescovo di Firenze a spiegare queste parole del Vangelo.
            “Da queste parole (invenisti gratiam) si fa manifesta l’eccellenza di Maria. L’Angelo nel dire che Maria trovò, la grazia non vuol dire che l’abbia trovata solo allora, mentre che Maria aveva già la grazia prima dell’Annunziazione dell’Angelo; la ebbe fin dalla nascita; dunque non la perdette mai, la trovò piuttosto a conto di tutto il genere umano che l’aveva perduta col peccato originale. Adamo col suo peccato perdette la grazia per sé e per tutti e colla penitenza che ne fece dopo ricuperò solo la grazia per sé. Maria poi la trovò per tutti, perché per Maria tutti ebbero virtualmente la grazia, in quanto che per Maria avemmo Gesù che ci portò la grazia.” (D. Antoninus part. tit. 15, § 2).
            Egli è dunque indubitabile quel che insegnano i santi Padri, cioè che Maria trovando questa grazia restituì agli uomini tanto di bene quanto di male ci aveva recato Eva col perdere la grazia.
            Quindi Ugone Cardinale prendendo la parola a nome degli uomini si presenta umilmente a Maria e le dice: “Non devi nascondere questa grazia, che hai trovata, perché non è tua, ma devi metterla in comune affinché quelli che la smarrirono possano riacquistarla come è giusto. Corrano dunque alla Vergine quelli che peccando perdettero la grazia, e trovandola presso Maria dicano con umiltà e con sicurezza: Rendici, o Madre, la roba nostra, che hai trovato. E non potrà negare di averla trovata, poiché ne fa testimonianza l’Angelo dicendo: Invenisti, l’hai trovata, non comprata, perché non sarebbe grazia, ma gratuitamente la ricevette, quindi invenisti, l’hai trovata.”
            La stessa verità si raccoglie dalle parole che s. Elisabetta disse a Maria. Quando la Beatissima Vergine andò a visitar s. Elisabetta, questa, appena la vide, fu riempita di Spirito Santo, e talmente piena che si mise a profetizzare inspirata: Benedicta tu inter mulieres, et benedictus fructus ventris tui.
            Non dobbiamo noi confessare che Maria aveva ricevuta la missione di santificare? E sì che fu proprio Maria che operò questa santificazione di Elisabetta, giacché s. Luca dice precisamente: Et factum est ut audivit salutationem Mariae Elisabeth exultavit infans in utero eius et repleta est Spiritu Sancto Elisabeth. E avvenne che appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino saltellò nel suo seno, ed Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo. Precisamente allorché Maria giunta in casa di Lei la salutò ed Elisabetta udì il saluto. Origene dice che s. Giovanni non poteva sentir l’influenza della grazia prima che fosse a lui presente Colei che portava con sé l’autor della grazia. Ed Ugone Cardinale osservando che fu ripiena di Spirito Santo Elisabetta e santificato Giovanni all’udire il saluto di Maria, conchiude: “Salutiamo la perciò sovente, affinché nel suo saluto ci troviamo anche noi ripieni di grazia, giacché, di essa specialmente sia scritto: È diffusa la grazia sulle tue labbra, onde la grazia scorre dalle labbra di Maria. Repleta est Spiritu Sancto Elisabeth ad vocem salutationis Mariae: ideo salutanda est frequenter ut in eius salutatione gratia repleamur; de ipsa enim specialiter dietim est: Diffusa est gratia in labiis tuis (Ps. 14) Unde gratia ex labiis eius fluit.”.
            Santa Elisabetta secondando l’inspirazione dello Spirito Santo, di cui era stata ricolma, ricambiò a Maria il saluto dicendole: Benedicta tu inter mulieres: Benedetta fra le donne. Con queste parole lo Spirito Santo per bocca di Elisabetta esaltò Maria al di sopra di ogni altra fortunata donna, volendo con questo insegnare che Maria era stata benedetta e favorita da Dio eleggendola a recar agli uomini quella benedizione, che perduta in Eva erasi sospirata per quaranta secoli, quella benedizione che togliendo la maledizione doveva confonder la morte e darci la vita sempiterna. Alle congratulazioni della sua parente rispose pure Maria con divina inspirazione: Magnificat anima mea Dominum, quia respexit humilitatem ancillae suae, ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. L’anima mia esalta la grandezza del Signore…. Perché ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua ancella, poiché ecco che da questo momento beata mi chiameranno tutte le generazioni. (Luc. 1, v. 46 et seqq.).
            Perché l’avrebbero chiamata beata tutte le generazioni? Questa parola non abbraccia solo tutti gli uomini che vivevano a quel tempo, ma quelli ancora che sarebbero venuti dopo sino alla fine del mondo. Ora affinché la gloria di Maria potesse estendersi a tutte le generazioni e avessero a chiamarla beata, bisognava che qualche benefizio straordinario e perenne venisse da Maria a tutte queste generazioni; cosicché essendo perpetuo in esse il motivo di loro gratitudine fosse ragionevole la perpetuità della lode. Ora questo benefizio continuo e mirabile non può esser altro che l’aiuto che Maria presta agli uomini. Aiuto che doveva abbracciare tutti i tempi, estendersi a tutti i luoghi, ad ogni genere di persone. S. Alberto Magno dice che Maria si chiama beata per eccellenza, come dicendo l’Apostolo intendiamo nominare s. Paolo.
            Antonio Gistandis, scrittore domenicano, fa la questione come si possa dire Maria benedetta da tutte le generazioni mentre dai Giudei e dai Maomettani non fu mai benedetta? E risponde, che questo fu detto in senso figurativo volendo indicare che di ogni generazione alcuni l’avrebbero benedetta. Perché, come dice Lirano, in tutte le generazioni si trovarono dei convertiti alla fede di Cristo che benedissero alla Vergine; e nello stesso Alcorano, che è il libro scritto da Maometto, si trovano parecchie lodi a Maria (Ant. Gistandis Fer. 6, 4 Temp. adv.). Per questo appunto Maria è proclamata beata presso tutte le generazioni: Beatam me dicent omnes generationes.
            Ecco con quanta unzione ed abbondanza di sentimenti commenta questo passo il Cardinale Ugone:
            “Mi chiameranno beata tutte le generazioni cioè dei Giudei, dei gentili; oppure degli uomini e delle donne, dei ricchi e dei poveri, degli angeli e degli uomini, giacché tutti per essa ricevettero il benefizio della salute. Furono gli uomini riconciliati, gli angeli riparati, imperciocché Cristo Figliuolo di Dio operò la salute in mezzo alla terra cioè nel seno di Maria la quale in certo modo può chiamarsi il centro della terra. Poiché ad essa rivolgono lo sguardo quei che godono in cielo, e quei che abitano nell’inferno, cioè nel limbo, e quei che militano nel mondo. I primi per essere risarciti, i secondi per essere espiati, i terzi per essere riconciliati. Dunque beata diranno Maria tutte le generazioni.” E qui esclama nel trasporto della venerazione: “O Vergine beata, perché a tutte le generazioni desti la vita, la grazia e la gloria: la vita ai morti, la grazia ai peccatori, la gloria agli infelici.” Ed applicando a Maria le parole con cui fu lodata Giuditta le dice: Tu gloria Ierusalem, tu laetitia Israel, tu honorificentia populi nostri quia fecisti viriliter. Prima accorre a lodarla la voce degli angeli, la rovina dei quali per essa è riparata: in secondo luogo la voce degli uomini, dei quali la tristezza per essa è rallegrata; poscia la voce delle donne, di cui l’infamia per opera di lei viene cancellata; finalmente la voce dei morti esistenti nel limbo, i quali per Maria sono redenti dalla schiavitù ed introdotti gloriosi nella patria.

(continua)




San Francesco di Sales. Opere complete e concordanze

San Francesco di Sales, è stato considerato un fondatore di una nuova scuola di spiritualità, chiamata proprio col suo nome: spiritualità salesiana. Seguendo questa spiritualità tanti uomini e donne sono arrivati alla santità. Conoscerla è un dovere per quelli che sono collegati a questa scuola di spiritualità, specialmente per quelli gruppi religiosi maschili e femminili che fanno parte in qualche modo della grande famiglia salesiana.

La parola spiritualità significa una dottrina di vita spirituale, ossia quella che tratta dei principii della perfezione cristiana e dei mezzi per ottenerla.
Parlando della spiritualità salesiana don Eugenio Ceria scriveva:
“Dottrina di vita spirituale fontalmente non ne esiste che una, quella contenuta nelle pagine del Vangelo; tuttavia gli sviluppi e le attuazioni possono variare, e variano di fatto. I tre consigli evangelici, per esempio, che stanno alla base della vita religiosa, benché rimangano sempre gli stessi quanto alla sostanza, assumono però nella pratica forme svariate, secondo la diversità dei fini particolari voluti dai fondatori, conformemente ai bisogni e alle tendenze dei tempi. Tutti i Santi e tutte le scuole di santità che fiorirono e fioriscono nella Chiesa, s’ispirano sostanzialmente al Vangelo; ma quante differenze accidentali fra loro! Abbiamo così la spiritualità di S. Benedetto, di S. Francesco d’Assisi, di S. Domenico, di Sant’Ignazio e la conseguente spiritualità benedettina, francescana, domenicana, ignaziana, ognuna con caratteri suoi e inconfondibili, eppure tutte del pari atte a condurre le anime alla perfezione.
Alcuni Santi, come S. Giovanni Bosco, non esposero organicamente per iscritto una loro dottrina di vita spirituale, ma crearono istituzioni, nelle quali la incarnarono e dal cui studio la si può trarre in luce; altri Santi al contrario non solo suscitarono istituzioni professanti una forma di vita spirituale rispondente alle loro vedute, dirigendo le anime nel cammino della perfezione a tenore di norme e metodi da loro preferiti, ma formularono anche di proposito le teorie messe a base della loro azione spirituale. Uno di questi ultimi è S. Francesco di Sales, maestro di quell’ascetica che si suole chiamare salesiana.”

La spiritualità salesiana ha prodotto i suoi frutti in tante persone che sono arrivati alla santità, ed è stata confermata dalla canonizzazione di san Francesco di Sales nel 1665 (a meno di 50 anni della sua morte) e dalla sua proclamazione come Dottore della Chiesa nel 1877.

Grazie a Dio e alla sua esperienza di vita, S. Francesco di Sales lascia anche un’eredità scritta, nella quale si identificano i principii informativi della spiritualità salesiana, principalmente nella Filotea, nel Teotimo, nei Trattenimenti e nella Corrispondenza epistolare. Nella Filotea scrive per le persone che percorrono le vie ordinarie della santità, nel Teotimo e nei Trattenimenti scrive per coloro che vogliono progredire nelle vie della contemplazione, e nella Corrispondenza epistolare scrive sia per gli uni che per gli altri.

Al largo del tempo sono stati vari sforzi per riuscire a presentare tutta la sua opera francese in una edizione completa. Si possono ricordare la versione di Béthune Editeur in 4 volumi del 1836, quella del Migne in 9 volumi dal 1861 al 1864, quella del Berche et Tralin in 10 volumi del 1898, quella di Luis Vives in 12 volumi del 1899, e per ultima quella del Monastère d’Annecy in 27 volumi, pubblicati dal 1892 al 1964, che è la più completa e attendibile.

Per fortuna questa ultima versione del Monastère d’Annecy si trova nel formato digitale, e vogliamo presentarla a tutti coloro che riescono a leggere in lingua francese.

Tomo Vol. Titolo Argomento pp. Pubb.
I   Controversie Difesa dell’autorità della Chiesa; Le regole della fede; Le regole della fede sono osservate nella Chiesa cattolica. 420 1892
II   Difesa dello stendardo della Santa Croce Sull’onore e la virtù della vera Croce; Sull’onore e la virtù dell’immagine della Croce; Sull’onore e la virtù del segno della Croce; Sull’eccellenza dell’onore dovuto alla Croce; Sul modo di onorare la Croce 432 1892
III   Introduzione alla vita devota (Filotea) I consigli e gli esercizi necessari per condurre l’anima dal suo primo desiderio di vita devota fino a una risoluzione completa di abbracciarla; diversi consigli per l’elevazione dell’anima a Dio per la preghiera e i sacramenti; diversi consigli per l’esercizio delle virtù; i consigli necessari contro le tentazioni più comuni; esercizi e consigli per rinnovare l’anima e confermarla nella devozione. 574 1893
IV 1 Trattato sull’amore di Dio, I (Teotimo) Sei libri: Contenente una preparazione a tutto il trattato; Storia della generazione e della nascita celeste dell’amore divino; Progressi e perfezionamento dell’amore; Decadenza e rovina della carità; Dei due principali esercizi dell’amore sacro, che si compiono attraverso la compiacenza e la benevolenza; Esercizi del santo amore nella preghiera. 362 1894
V 2 Trattato sull’amore di Dio, II (Teotimo) Settimo libro: Dell’unione dell’anima con il suo Dio che si perfeziona nella preghiera; Dell’amore di conformità con cui uniamo la nostra volontà a quella di Dio, che ci viene data dai suoi comandamenti, consigli e ispirazioni; Dell’amore di sottomissione mediante la quale la nostra volontà si unisce al beneplacito di Dio; Del comandamento di amare Dio sopra ogni cosa; Dell’autorità sovrana che il sacro amore ha su tutte le virtù, le azioni e le perfezioni dell’anima; Contiene alcuni consigli per il progresso dell’anima nel santo amore. 512 1894
VI   Trattenimenti spirituali (21) 21 colloqui 480 1895
VII 1 Sermoni (autografi), I 1593-1602 – 65 sermoni 492 1896
VIII 2 Sermoni (autografi), II 1603-1622 – 95 sermoni 448 1897
IX 3 Sermoni (raccolta), I 1613-1620 – 42 sermoni 492 1897
X 4 Sermoni (raccolta), II 1594-1622 – 30 sermoni 480 1898
XI 1 Lettere, I >1593-1598 – 120 lettere 486 1900
XII 2 Lettere, II 1599-1604 – 150 lettere 524 1902
XIII 3 Lettere, III 1605-1608 – 173 lettere 464 1904
XIV 4 Lettere, IV 1608-1610 – 210 lettere 480 1906
XV 5 Lettere, V 1611-1613 – 219 lettere 470 1908
XVI 6 Lettere, VI 1613-1615 – 263 lettere 484 1910
XVII 7 Lettere, VII 1615-1617 – 172 lettere 480 1911
XVIII 8 Lettere, VIII 1617-1619 – 233 lettere 500 1912
XIX 9 Lettere, IX 1619-1620 – 203 lettere 496 1914
XX 10 Lettere, X 1621-1622 – 221 lettere 484 1918
XXI 11 Lettere, XI Lettere non datate – 136 lettere + 5 lettere nel volume 26 352 1923
XXII 1 Opuscoli, I Prima serie: Studi e vita privata e Seconda serie: Apostolato – 48 opuscoli 400 1925
XXIII 2 Opuscoli, II Terza serie. Controversia e Quarta serie. Amministrazione episcopale – 35 opuscoli 448 1928
XXIV 3 Opuscoli, III Quarta serie. Amministrazione episcopale e Quinta serie: Fondamenti e riforme – 141 opuscoli 568 1929
XXV 4 Opuscoli, IV Quinta serie: Fondamenti e riforme – 20 opuscoli 568 1931
XXVI 5 Opuscoli, V Sesta serie: Ascetica e mistica – 69 opuscoli 506 1932
XXVII   Tabella analitica Indice dottrinale; indice onomastico; indice toponomastico; indice scritturale 316 1964

L’indice dettagliato di tutte le Opere Complete si trova QUI.

La versione dei volumi nei formati PDF si trova QUI.

Esiste anche una concordanza delle opere complete in lingua francese che si trova QUI.

Per coloro che vogliono leggere in lingua italiana, ricordiamo che esistono varie traduzioni, ed è in corso la traduzione delle opere complete presso la editrice Città Nuova, essendo già pubblicati 10 volumi che si possono acquistare da QUI.

Vi auguriamo una fruttuosa lettura.




Laura Vicuña: una figlia che “genera” la propria madre

Storie di famiglie ferite
            Siamo abituati ad immaginare la famiglia come una realtà armoniosa, contraddistinta dalla compresenza di più generazioni e dal ruolo-guida di genitori che danno la norma e di figli i quali – nell’apprenderla – vengono da loro guidati nell’esperienza della realtà. Tuttavia spesso le famiglie si trovano attraversate da drammi e incomprensioni, o segnate da ferite che ne aggrediscono la configurazione ottimale e ne restituiscono un’immagine distorta, falsata e falsante.
            Anche la storia della santità salesiana è attraversata da storie di famiglie ferite: famiglie dove vien meno almeno una delle figure genitoriali, oppure la presenza della mamma e del papà diventa, per ragioni diverse (fisiche, psichiche, morali e spirituali), penalizzante per i loro figli, oggi incamminati verso gli onori degli altari. Lo stesso Don Bosco, che aveva sperimentato la morte prematura del padre e l’allontanamento dalla famiglia per la prudente volontà di Mamma Margherita, vuole – non è un caso – l’opera salesiana particolarmente dedicata alla «gioventù povera e abbandonata» e non esita a raggiungere i giovani che si sono formati nel suo oratorio con una intensa pastorale vocazionale (dimostrando che nessuna ferita del passato è ostacolo a una vita umana e cristiana piena). È pertanto naturale che la stessa santità salesiana, che attinge alle esistenze di molti giovani di Don Bosco poi consacrati per suo tramite alla causa del Vangelo, porti in sé – quale logica conseguenza – traccia di famiglie ferite.
            Di questi ragazzi e ragazze cresciuti a contatto con le opere salesiane presentiamo la beata Laura Vicuña, nata nel Cile del 1891, orfana di padre e la cui mamma inizia in Argentina una convivenza con il ricco possidente Manuel Mora; Laura, dunque, ferita dalla situazione di irregolarità morale della mamma, è pronta ad offrire la vita per lei.

Una vita breve ma intensa
            Nata a Santiago del Cile il 5 aprile 1891, e battezzata il 24 maggio successivo, Laura è la figlia maggiore di José D. Vicuña, un nobile decaduto che aveva sposato Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori. Tre anni dopo arriva una sorellina, Julia Amanda, ma ben presto il papà muore, dopo avere subíto una sconfitta politica che ne ha minato la salute e compromesso, con il sostentamento economico della famiglia, anche l’onore. Priva di qualsiasi «protezione e prospettiva di futuro», la mamma approda in Argentina, dove ricorre alla tutela del proprietario terriero Manuel Mora: un uomo «di carattere superbo e altero», che «non dissimula odio e disprezzo per chiunque avversasse i suoi disegni». Un uomo, insomma, che solo in apparenza garantisce protezione, ma è in realtà abituato a prendere, se necessario con la forza, quello che vuole, strumentalizzando le persone. Intanto paga gli studi presso il collegio delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Laura e alla sorella e la loro madre – che subisce l’influsso psicologico di Mora – convive con lui senza trovare la forza di rompere il legame. Quando però Mora inizia a mostrare segni di disonesto interesse verso la stessa Laura, e soprattutto quando quest’ultima intraprende il percorso di preparazione alla Prima Comunione, lei d’un tratto comprende tutta la gravità della situazione. A differenza della mamma – che giustifica un male (la convivenza) in vista di un bene (l’educazione delle figlie in collegio) – Laura capisce che si tratta di una argomentazione moralmente illegittima, che mette in grave pericolo l’anima della madre. In questo periodo, poi, Laura vorrebbe diventare ella stessa suora di Maria Ausiliatrice: ma la sua domanda è respinta, perché figlia di una «pubblica concubina». Ed è a questo punto che proprio in Laura – accolta in collegio quando in lei dominavano ancora «impulsività, facilità di risentimento, irritabilità, impazienza e propensione ad apparire» – si manifesta un cambiamento che solo la Grazia, unita all’impegno della persona, può operare: chiede a Dio la conversione della madre, offrendo se stessa per lei. In quel momento, Laura non può muoversi né “in avanti” (entrando tra le Figlie di Maria Ausiliatrice) né “indietro” (tornando dalla madre e dal Mora). Con un gesto allora carico della creatività tipica dei santi, Laura intraprende l’unica strada che le è ancora accessibile: quella dell’altezza e della profondità. Nei propositi della Prima Comunione aveva annotato:

Propongo di fare quanto so e posso per […] riparare le offese che voi, Signore, ricevete ogni giorno dagli uomini, specie dalle persone della mia famiglia; mio Dio, datemi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio.

            Ora finalizza il proposito in “Atto di offerta”, che include il sacrificio della vita stessa. Il confessore, riconoscendo che l’ispirazione è da Dio ma ignorandone le conseguenze, acconsente, e conferma che Laura è «consapevole dell’offerta che ha appena compiuto». Lei vive gli ultimi due anni con silenzio, allegria e sorriso e una indole ricca di calore umano. Eppure, lo sguardo che posa sul mondo – come conferma un ritratto fotografico, molto diverso dalla stilizzazione agiografica nota – dice anche tutta la sofferta consapevolezza e il dolore che la abitano. In una situazione dove le manca sia la “libertà da” (condizionamenti, ostacoli, fatiche), sia la “libertà di” fare tante cose, questa preadolescente testimonia la “libertà per”: quella del dono totale di sé.
Laura non disprezza, ma ama la vita: la propria e quella della mamma. Per questo si offre. Il 13 aprile 1902, Domenica del Buon Pastore, si chiede: «Se Lui dà la vita… cosa lo impedisce a me per la mamma?». Morente, aggiunge: «Mamma, io muoio, io stessa l’ho chiesto a Gesù… sono quasi due anni che gli offersi la vita per te…, per ottenere la grazia del tuo ritorno!».
            Sono parole prive di rimpianto e di rimprovero, ma cariche di una grande forza, una grande speranza e una grande fede. Laura ha imparato ad accogliere la mamma per quello che è. Offre anzi se stessa per donarle ciò che lei sola non riesce a conseguire. Quando Laura muore, la mamma si converte. Laurita de los Andes, la figlia, ha così contribuito a generare la madre nella vita di fede e di grazia.




Strenna 2024. «Il sogno che fa sognare»

Un cuore che trasforma i “lupi” in “agnelli”

Durante il mio servizio come Rettor Maggiore ho potuto constatare che la Strenna è uno dei doni più belli che don Bosco e i suoi successori offrono ogni anno a tutta la Famiglia Salesiana. Essa è un aiuto a camminare insieme e raggiunge in modo capillare i luoghi più lontani e, allo stesso tempo, lascia alle singole realtà la libertà di accogliere, integrare, valorizzare quanto proposto per il cammino proprio delle singole comunità educative pastorali.

In questo 2024 celebreremo il secondo centenario del «sogno-visione avuto da Giovannino tra i nove e dieci anni nella casetta dei Becchi»[1] nel 1824: il sogno dei nove anni.

Ritengo che la ricorrenza bicentenaria del sogno che «condizionò tutto il modo di vivere e di pensare di don Bosco. E in particolare, il modo di sentire la presenza di Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo»[2], meriti di essere messo al centro della Strenna, che guiderà l’anno educativo pastorale di tutta la Famiglia Salesiana. Esso potrà essere ripreso e approfondito nella missione evangelizzatrice, negli interventi educativi e nelle azioni di promozione sociale che in ogni parte del mondo fanno capo ai gruppi della nostra Famiglia, che trova in Don Bosco il padre ispiratore.

«Vorrei qui richiamare il “sogno dei nove anni”. Mi sembra infatti che questa pagina autobiografica offra una presentazione semplice, ma al tempo stesso profetica, dello spirito e della missione di Don Bosco. In esso viene definito il campo di azione che gli viene affidato: i giovani; viene indicato l’obiettivo della sua azione apostolica: farli crescere come persone attraverso l’educazione; viene offerto il metodo educativo che risulterà efficace: il Sistema Preventivo; viene presentato l’orizzonte in cui si muove tutto il suo e nostro operare: il disegno meraviglioso di Dio, che prima di tutti e più di ogni altro, ama i giovani»[3]. Così scriveva don Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore emerito, a conclusione del commento alla Strenna 2012, offerta alla Famiglia Salesiana per il primo anno del triennio in preparazione al bicentenario (anno 2015) della nascita di don Bosco.

Tale testo rappresenta una bella sintesi che presenta l’essenza di ciò che il sogno dei nove anni è nella sua semplicità e profezia, nel suo valore carismatico ed educativo. È un sogno emblematico che, lungo quest’anno, cercheremo di avvicinare ancor più al cuore e alla vita di tutta la Famiglia di Don Bosco. È un sogno, un «famosissimo sogno-visione che sarebbe diventato e tuttora costituisce un pilastro importante, quasi un mito fondativo, nell’immaginifico della Famiglia salesiana»[4], che, certamente, richiede una contestualizzazione e un’attenzione critica – cosa che Don Bosco stesso fece e che i nostri esperti di storia salesiana hanno compiuto -per poterne offrire una lettura e dare un’interpretazione attuale, vitale ed esistenziale. Indubbiamente è un sogno che Don Bosco ha conservato nella mente e nel cuore per tutta la vita, come lui stesso dichiara: «A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita»[5]. Si tratta quindi di un sogno che è stato presente in lui e in tutto il cammino della Congregazione Salesiana fino ad oggi e che indubbiamente raggiunge l’intera nostra Famiglia Salesiana.

Nelle parole di don Rinaldi, riferite in occasione del primo centenario del sogno, leggiamo: «Il suo contenuto infatti è di tanta importanza che, in questa centenaria ricorrenza, dobbiamo farci uno stretto dovere di approfondirlo con più assidua meditazione in ogni suo particolare, e di metterne con generosità in pratica gli ammaestramenti, se vogliamo meritarci il nome di veri figli di Don Bosco e perfetti Salesiani»[6]. Stiamo vivendo con intensità l’evento straordinario di questo secondo centenario che avrà senza dubbio molte manifestazioni in tutto il mondo salesiano. L’espressione di tutto questo raggiunga il momento più celebrativo, festoso e anche più profondo nella revisione speranzosa della nostra vita, facendo proposte coraggiose ai giovani per aiutarli a sognare “in grande”, certi della presenza del Signore Gesù e “mano nella mano” con la Maestra, la Signora nostra Madre.

1. «HO FATTO UN SOGNO…»: UN SOGNO MOLTO SPECIALE
Proprio così, duecento anni fa Giovannino Bosco fece un sogno che lo avrebbe “segnato” per tutta la vita; un sogno che avrebbe lasciato in lui una traccia indelebile, il cui significato don Bosco comprese pienamente solo al termine della vita. Ecco, allora, il sogno raccontato dallo stesso Don Bosco secondo l’edizione critica di Antonio da Silva Ferreira, da cui ci discostiamo solo per due piccole varianti[7].

[Cornice iniziale] A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita.

[Visione dei ragazzi e intervento di Giovanni] Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere.

[Apparizione dell’uomo venerando] In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona, ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole: «Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù». Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’ ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava.

[Dialogo sull’identità del personaggio] Quasi senza sapere che mi dicessi, «Chi siete voi», soggiunsi, «che mi comandate cosa impossibile?». «Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza». «Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?». «Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». «Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?». «Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestrò di salutar tre volte al giorno». «Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò, ditemi il vostro nome». «Il mio nome dimandalo a Mia Madre».

[Apparizione della donna di aspetto maestoso] In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presemi con bontà per mano, e «guarda», mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei». Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare. Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: «A suo tempo tutto comprenderai».

[Cornice conclusiva] Ciò detto un rumore mi svegliò ed ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno. Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: «Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali». Mia madre: «Chi sa che non abbi a diventar prete». Antonio con secco accento: «Forse sarai capo di briganti». Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto analfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: «Non bisogna badare ai sogni». Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.

Lo stesso sogno si ripresenterà più volte nella vita di don Bosco e lui stesso, che ci ha narrato di suo pugno nelle Memorie quel primo evento di cui ora ricorre il bicentenario, racconta a più riprese quanto a distanza di tanti anni nuovamente sogna. Infatti, il sogno dei nove anni non è un sogno isolato, ma appartiene a una lunga e complementare sequenza di episodi onirici che hanno accompagnato la vita di Don Bosco. Egli stesso collega, integrandoli tra loro, tre sogni fondamentali: quello del 1824 (ai Becchi), quello del 1844 (nel Convitto ecclesiastico) e quello del 1845 (nelle opere della Marchesa di Barolo), in cui vi sono elementi di continuità e altri di novità. Nel sogno sempre si riconosce in filigrana quel primo quadro e scena del prato dei Becchi, ma con nuovi particolari, reazioni, messaggi, legati alle stagioni della vita che, non il Giovannino dei nove anni ma il Don Bosco nel pieno sviluppo della sua missione, sta vivendo.

In un’altra occasione, molti anni dopo, fu Don Bosco stesso a raccontarlo a don Barberis nell’anno 1875, quando aveva già sessant’anni. In quel tempo don Bosco aveva assistito alla nascita della Congregazione Salesiana (18 dicembre 1859), dell’Arciconfraternita di Maria Ausiliatrice (18 aprile 1869), dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (5 agosto 1872) e della Pia Società dei Cooperatori Salesiani – secondo il nome originario dato da Don Bosco – approvata il 9 maggio 1876.

Quando questo sogno si presenta l’ultima volta Don Bosco è, come ho già detto, un uomo maturo: ha sperimentato tante situazioni, ha affrontato e superato numerose difficoltà, ha constatato di persona cosa la Grazia e l’Amore della Vergine Maria hanno operato nei suoi ragazzi; ha visto tanti miracoli della Provvidenza e ha sofferto non poco. «“Un giorno tutto comprenderai” gli aveva profetato il primo sogno; e nel 1887 alla Messa di consacrazione del tempio al Sacro Cuore in Roma, sentì riecheggiare al suo orecchio quella voce e pianse di gioia, pianse contemplando gli effetti mirabili della sua fede invitta»[8].

2. UN SOGNO A CUI TUTTI I RETTORI MAGGIORI HANNO FATTO RIFERIMENTO
Sono particolarmente colpito dal fatto che tutti i Rettori Maggiori, ad eccezione di don Rua da chi non sono riuscito a trovare alcuna citazione, hanno fatto riferimento al sogno, a questo sogno di Don Bosco che ha segnato la nostra Congregazione e la Famiglia Salesiana. Mi avvalgo in questo momento di un magnifico lavoro di ricerca svolto dal signor Marco Bay[9].

Don Paolo Albera, secondo successore di Don Bosco, riferendosi all’Oratorio di Valdocco come all’Oratorio di Don Bosco, opera prima e per molti anni unica, si riferisce al sogno come al sogno misterioso in cui la Provvidenza gli affida la missione:

«L’Opera prima, anzi per molti anni unica, di D. Bosco è stato l’Oratorio festivo, il suo Oratorio festivo, quale egli lo aveva già intraveduto nel misterioso sogno fatto a nove anni e nei susseguenti che progressivamente gli illustrarono la mente circa l’Opera della Provvidenza affidatagli»[10].

Don Filippo Rinaldi, terzo successore di Bosco, è colui che ha l’opportunità di vivere il primo centenario di questo sogno e cerca di fare in modo che tutta la Congregazione sia impregnata della grazia di vivere questo evento. Per questo incoraggia nel modo seguente:

«Nella mia circolare sul Giubileo delle nostre Costituzioni vi ho già accennato, miei cari figli, alla ricorrenza del centenario del primo sogno di Don Bosco, invitandovi a meditare questo sogno e a praticarlo (…) Rileggiamo assieme, o miei carissimi, la pagina scritta dal Ven. Padre per nostro ammaestramento, in obbedienza al Vicario di Gesù Cristo; sì, rileggiamola con grande venerazione, e fissiamocela in mente parola per parola, questa pagina che ci descrive evangelicamente l’origine soprannaturale, la natura intima e la forma specifica della nostra vocazione. Più si legge e più diventa nuova e luminosa»[11].

E in questo stesso scritto lascia intendere ai confratelli che, come con il sogno dei nove anni Don Bosco fu chiamato a una missione, così anche noi, sotto la guida della Vergine, siamo stati chiamati, con la benevole guida della Vergine stessa che ci prende per mano, ci mostra il nostro campo d’azione e ci stimola in mille modi ad acquisire i doni dell’umiltà, della forza e della salute. Comprendiamo perfettamente come sia applicato a noi il perentorio invito di essere forti, umili e robusti. Invito che la Signora del sogno consegnò a Giovannino Bosco.

«Anche noi abbiamo avuto l’ordine di acquistare i mezzi necessari a mettere in pratica questo metodo, cioè l’obbedienza e la scienza, sotto la guida della Vergine; il che abbiamo fatto (o stiamo facendo) negli anni della nostra formazione religiosa e sacerdotale. Durante tutti questi anni felici la Vergine SS. prese anche noi con bontà per mano e, additandoci il futuro campo della nostra azione, ci stimolò in tutti i modi all’acquisto dell’umiltà, della fortezza e della salute, che sono le qualità strettamente necessarie per ogni vero figlio di Don Bosco. Anche a noi infine sarà dato vedere moltitudini di giovani, prima ignoranti affatto delle cose di Dio, e forse già vittime infelici del male, correre illuminati, risanati e gioiosi a far festa a Gesù e a Maria SS. Ausiliatrice»[12].

E, quasi come incoraggiamento a celebrare questo bicentenario in modo grande e significativo, riprendo il Bollettino Salesiano dei tempi di don Rinaldi, che racconta la celebrazione a Roma avvenuta alla sua presenza:

«Per un sogno – scriveva il Corriere d’Italia il 2 maggio u.s. – per la bellezza ideale di un sogno – ieri nell’ampio cortile delle Opere di Don Bosco a Roma si sono ritrovate in folla migliaia di anime anelanti e plaudenti, e il Cardinale Cagliero, il venerando Missionario, e il Successore stesso di Don Bosco, Don Rinaldi, e il Ministro della P. I. Pietro Fedele, a rendere gli omaggi commossi di tutte le potenze dello spirito al Maestro incomparabile che, nell’umiltà luminosa della Fede, aveva seguito le vie raggianti di quel sogno sublime (…) Una corona viva di giovani, di fanciulli e di fanciulle, gli allievi di Don Bosco; una schiera folta di uomini d’ogni ceto – professionisti, insegnanti, soldati, sacerdoti – adunati tutti nel nome del soave Maestro».
«Cent’anni fa (un altro Anno Santo, perché dimenticare?) Don Bosco fanciullo sognava il sogno dolce e misterioso; vedeva, prima, un gruppo di ragazzi della strada che rissavano fra loro bestemmiando ed imprecando; e tentava di richiamarli all’ordine con il bastone; vedeva, poi, una Signora e un Signore che lo conducevano presso un altro gruppo, di bestie, questa volta, di cani e di gatti che rissavano anch’essi, latrando e ghignando – ma che ad un cenno arcano dei Due si tramutavano in gregge di pacifici agnelli».
«Dopo cent’anni, quel sogno è una realtà – splendida, palpitante, grandiosa; – è una storia mirifica che impegna già il destino di milioni di creature, nelle Scuole, nelle Missioni, nella vita, nella preghiera, nella speranza; tutte le creature che hanno salutato e salutano Don Bosco il più grande e il più santo maestro di vita che la Chiesa e l’Italia abbiano dato al mondo nel secolo nostro»[13].

E Don Pietro Ricaldone, quarto successore di Don Bosco, vede il germe dell’Oratorio festivo e di tutta l’Opera salesiana nel sogno che Giovannino fece all’età di nove anni. Seguiranno molte altre tappe, dice don Ricaldone, molte stazioni di un pellegrinaggio, prima di arrivare a Pinardi, nella sua terra.

«Non v’ha dubbio che il primo germe dell’Oratorio festivo e di tutta l’Opera Salesiana noi dobbiamo rintracciarlo, come dissi or ora, nel fatidico sogno che Giovannino ebbe all’età di nove anni. Fin d’allora la Donna di maestoso aspetto disse al pastorello dei Becchi: “Ecco il tuo campo: renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei”.
I Becchi, Moncucco, Castelnuovo, Chieri, sono altrettante tappe: ma Giovannino Bosco è appena sulla sua via; egli cammina verso una mèta ulteriore. L’8 dicembre 1841 è, più che un punto d’arrivo, un altro punto di partenza. Nuovi pellegrinaggi egli deve compiere prima di arrivare alla tettoia Pinardi, a Valdocco, alla sua terra promessa. Per tornare alla prima immagine, la tenera pianticella ha trovato alfine la terra propria; da oggi in poi noi la vedremo irrobustirsi e ingigantire oltre ogni umana previsione»[14].

Don Ricaldone ritiene addirittura che anche l’amore e lo zelo di Don Bosco per le vocazioni abbiano origine dal sogno dei nove anni:

«L’amore e lo zelo di Don Bosco per le vocazioni ha la sua prima origine nel fatidico sogno che egli ebbe all’età di nove anni, riprodottosi in diversi modi sostanzialmente uniformi per lo spazio di quasi vent’anni (…) Infatti dopo quel sogno, si accrebbe in Giovanni il desiderio di studiare per diventar sacerdote e consacrarsi alla salvezza dei giovani»[15].

Don Renato Ziggiotti, quinto successore di Bosco, sottolinea, in modo del tutto particolare, il grande dono che la Maestra è stata per Don Bosco. Infatti, è il Signore che fa il dono della propria Madre a Giovannino, soprattutto come guida. Così si esprime:

«“Io ti darò la Maestra, sotto la cui disciplina puoi diventare sapiente e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza” è la parola fatidica del primo sogno, pronunciata dal personaggio misterioso, “il Figlio di Colei che tua madre ti ammaestro di salutare tre volte al giorno”. È dunque Gesù che dona a Don Bosco la Madre sua come Maestra e guida infallibile nel duro cammino dell’intera sua vita. Come ringraziare abbastanza di questo dono straordinario che fu fatto dal Cielo alla nostra Famiglia?»[16].

E lei, la Madre, la Madonna, la Signora del sogno sarà tutto per don Bosco. Questa certezza era molto forte e totalizzante in Don Ziggiotti ed è ciò che lo portava a chiedere ad ogni salesiano:

«La Madonna, a cui fu consacrato dalla mamma sul nascere, che illuminò l’avvenire suo nel sogno dei nove anni e poi tornò a confortarlo e consigliarlo, sotto mille forme, nei sogni, nello spirito profetico, nella visione interiore dello stato delle anime, nei miracoli e grazie senza numero, che operò invocandola; la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[17].

E Don Luigi Ricceri, sesto successore di Don Bosco ha delle magnifiche espressioni sul significato del sogno dei nove anni. Don Ricceri sottolinea quanto questo sogno sia stato importante per Don Bosco al punto da rimanere impresso nel suo cuore e nella sua mente per sempre, e come attraverso questo, si sia sentito chiamato da Dio:

«Il sogno dei nove anni. È il sogno — scrive Don Bosco nelle sue “Memorie” — che “mi rimase impresso nella mente per tutta la vita” (MO, 20).
L’impressione incancellabile di questo sogno-visione è dovuta al fatto che è stato come una luce improvvisa che chiariva il senso della sua giovane esistenza e ne tracciava il cammino. Come il piccolo Samuele, Don Bosco si sente chiamato e mandato da Dio in vista di una missione: salvare i giovani di tutti i luoghi, di tutti i tempi: quelli dei paesi cristiani e la «moltitudine» di quelli che nelle regioni non cristiane vivono ancora l’attesa del grande avvento del Signore»[18].

È questo il sogno, racconta Don Ricceri, in cui Don Bosco, ancora senza piena lucidità a causa della sua giovane età, intuisce il grande valore del vivere per salvare le anime, e questa convinzione prende forma nella sua vita, nella sua mente, nel suo spirito, sempre più come dono di grazia. Ed è attraverso questo evento decisivo della sua vita che Don Bosco ebbe la prima grande intuizione di ciò che il sistema preventivo sarebbe stato in futuro. «Non colle percosse, ma con la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici», scrive Don Bosco nella narrazione dell’evento, sentendolo dalle labbra della Signora. Tanto che in futuro si potrà parlare di un rapporto prezioso tra Don Bosco e la Madre del Signore. Così si esprime magnificamente don Ricceri:

«A partire da questo sogno si stringe tra Don Bosco e la Madre di Gesù quel rapporto a due, quella collaborazione permanente, che caratterizza la vita del futuro apostolo»[19].

Don Egidio Viganò, settimo successore di Don Bosco ci offre altre riflessioni non meno stimolanti. Sono felice di vedere questa magnifica linea di continuità di tutti i rettori maggiori nel leggere, meditare e interpretare il sogno per eccellenza, ricavandone spunti utili anche per il momento attuale. Don Viganò conferma, come altri successori di Don Bosco prima di lui, che Maria è la vera ispiratrice, Maestra e guida della vocazione di Giovanni, del nostro Padre Don Bosco.

«Mi pare di particolare interesse fare osservare che già ai nove anni, nel famoso sogno (che si ripeterà più volte e a cui Don Bosco annette particolare incidenza nella sua vita) Maria si affaccia alla sua coscienza di fede come un personaggio importante interessato direttamente a un progetto di missione per la sua vita; è una Signora che dimostra particolari preoccupazioni “pastorali” verso la gioventù: gli si è presentata, infatti, “a foggia di Pastorella”. Notiamo subito, qui, che non è Giovannino a scegliere Maria, ma che è proprio Maria che si presenta con l’iniziativa della scelta: Essa, su richiesta del suo Figlio, sarà l’Ispiratrice e la Maestra della sua vocazione»[20].

La meravigliosa esperienza vissuta da Giovanni gli ha consentito di stringere una relazione molto personale con Maria – la Signora del sogno – ed è per questa ragione che Don Bosco sperimenterà intimamente, lungo l’intero corso della vita e per più volte, l’affetto molto speciale e grande da parte di Maria. Si tratta di una relazione davvero particolare con la Vergine Maria.

E anche Don Juan Edmundo Vecchi, ottavo successore di don Bosco, nota che, convinto come era Don Bosco di essere stato mandato ai giovani, tutto deve essere concentrato a quell’unico sacro scopo, i giovani, e a loro deve dedicare tutte le proprie energie. Tale è il filo del racconto che Don Bosco fa della sua vita nelle Memorie dell’Oratorio a partire dal primo sogno: «Il Signore mi ha mandato per i giovani, perciò bisogna che mi risparmi nelle altre cose estranee e conservi la mia salute per loro»[21], sempre convinto di essere uno strumento del Signore e che tutta la sua vita sia segnata da questa chiamata e missione in mezzo ai giovani. Lo conferma un altro grande esperto di Don Bosco: «La fede di essere strumento del Signore per una missione singolarissima fu in Lui profonda e salda. Ciò fondava in Lui l’atteggiamento religioso caratteristico del servo biblico, del profeta che non può sottrarsi al volere divino»[22].

Infine, Don Pascual Chávez, nono successore di don Bosco, tra una grande quantità di testi, ce ne offre uno che mi commuove. È un inno alla figura materna di mamma Margherita, che con la grazia di Dio, ha saputo accompagnare Giovannino interpretando e intuendo come, nel sogno dei nove anni, il Signore e la Vergine Maria stessero chiamando suo figlio a una vocazione molto speciale. Si potrebbe parlare, afferma don Pascual, di mamma Margherita come di una vera educatrice “salesiana”.

«È stata quest’arte educativa a permettere a Mamma Margherita di individuare le energie nascoste nei suoi figli, portarle alla luce, svilupparle e consegnarle quasi visibilmente nelle loro mani. Ciò va detto soprattutto nei riguardi del suo frutto più ricco: Giovanni. Quanto è impressionante notare in Mamma Margherita questo cosciente e chiaro senso di “responsabilità materna” nel seguire cristianamente e da vicino il proprio figlio, pur lasciandolo nella sua autonomia vocazionale, ma accompagnandolo ininterrottamente in tutte le tappe della sua vita fino alla propria morte!
Il sogno che Giovannino fece a nove anni, se fu rivelatore per lui, lo fu certamente anche (se non prima) per Mamma Margherita; è stata lei ad avere e a manifestare l’interpretazione: “Chissà che tu non abbia a diventar prete!”. E qualche anno dopo, quando comprese che l’ambiente di casa era negativo per Giovanni a causa dell’ostilità del fratellastro Antonio, ella fece il sacrificio di mandarlo a fare il garzone di campagna nella cascina Moglia di Moncucco. Una mamma che si priva del giovanissimo figlio per mandarlo a lavorare la terra lontano da casa, fa un vero sacrificio, ma ella lo fece, oltre che per eliminare un dissidio familiare, per indirizzare Giovanni su quella strada che le (e gli) aveva rivelato il sogno (…) La divina Provvidenza le fece la grazia di essere un’educatrice “salesiana”»[23].

3. IL SOGNO PROFETICO: un gioiello prezioso nel carisma della Famiglia di Don Bosco
Nei punti precedenti abbiamo letto come Don Filippo Rinaldi invitasse i confratelli, e certamente in quel momento le Figlie di Maria Ausiliatrice, i Salesiani Cooperatori, i Devoti di Maria Ausiliatrice e immagino anche gli Exallievi, a leggere il sogno, ad approfondirlo, a interiorizzarlo e a sentirne l’eco, nel cuore. Non ho dubbi al riguardo. Certamente c’è unanimità in tutti gli scritti – siano essi ricerche storiche, studi storico-critici, riflessioni sulla spiritualità salesiana o letture educativo-pastorali – nel riconoscere che questo sogno è molto più di un semplice sogno. Contiene, infatti, così tanti elementi carismatici che oso definirlo un gioiello prezioso del nostro carisma e una vera e propria “road map” per la Famiglia di Don Bosco.

Si potrebbe davvero dire che in esso non manca nulla e non c’è nulla di superfluo. È a questo che ora voglio riferirmi.

Guardando al sogno
Dove guardare in questo momento? Innanzitutto, al sogno stesso, poiché contiene una sorprendente ricchezza carismatica. Come ho già detto, non c’è una parola di troppo e certamente non manca nulla. È più che evidente lo sforzo che Don Bosco ha fatto nello scriverlo per trasmetterci il fatto che non si tratta solo di “un” sogno, ma che dobbiamo vederlo come “il” sogno che avrebbe segnato tutta la sua vita – anche se allora, da bambino, non poteva immaginarlo. Infatti, «Don Bosco quasi sessantenne – si sentiva ormai anziano e lo era per l’epoca – dovette porsi il problema di dare una fondazione storico-spirituale alla sua Congregazione, con il ricordarne le origini provvidenziali che la giustificavano. Che cosa di meglio che “narrare” ai suoi figli come la culla della “Congregazione degli Oratori” nella sua genesi, sviluppo, finalità e metodo, fosse un’istituzione voluta da Dio come strumento per la salvezza della gioventù nei tempi nuovi?»[24]. Infatti, le Memorie dell’Oratorio, in cui Don Bosco narra il sogno, non sono altro che il sogno dispiegato nella sua storia di vita, nell’Oratorio e nella Congregazione. Per questo egli dice anche nell’introduzione al suo manoscritto:

«Mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornare di utilità a quella istituzione che la divina provvidenza si degnò di affidare alla Società di S. Francesco di Sales»[25]. E «A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro»[26].

La narrazione delle Memorie dell’Oratorio (e del sogno dei nove anni che ne fa parte) è stata di tale importanza da coinvolgere nel suo studio, per tutta la vita, significativi esperti salesiani, cogliendo negli anni diverse prospettive. Un esempio ricco e degno di nota è costituito, ad esempio dalle varie sottolineature che il grande studioso di pedagogia salesiana, don Pietro Braido, ha svolto nel corso di diversi decenni. Si tratterebbe di «una storia edificante lasciata da un fondatore ai membri della Società di apostoli e di educatori, che dovevano perpetuarne l’opera e lo stile, seguendone le direttive, gli orientamenti e le lezioni» (1965); o «una storia dell’oratorio più “teologica” e pedagogica che reale, forse il documento “teorico” di animazione più lungamente meditato e voluto da don Bosco» (1989); «forse il libro più ricco di contenuti e di orientamenti preventivi» che don Bosco abbia scritto: “un manuale di pedagogia e di spiritualità “raccontata”, in chiara prospettiva oratoriana” (1999); o anche uno scritto in cui “la parabola e il messaggio” vengono prima e “al di sopra della storia”, per illustrare l’azione di Dio nelle vicende umane, e così, rallegrando e ricreando, “confortare e confermare i discepoli” in chiara prospettiva “oratoriana” (1999).[27]

Una delle pietre preziose di questo gioiello, a cui mi riferisco, è quella che consente a noi che entriamo nel sogno con cuore salesiano, qualunque sia il nostro cammino cristiano-salesiano o nella Famiglia di Don Bosco, di essere interpellati nel nostro cuore: siamo pronti ad imparare, siamo disposti a lasciarci sorprendere da Dio che accompagna la nostra vita, così come ha guidato la vita di Don Bosco, e a sentirci figli e figlie davanti a quella immensa paternità che emana dalla figura del nostro padre? Perché:

Se non si diventa CREDENTI e se non si è convinti che Dio opera nella storia, nella storia di Don Bosco e nella storia personale di ciascuno, si capirà poco o nulla delle Memorie dell’Oratorio e del sogno, e tutto questo sarà solo una “bella storia”.
Se non si diventa FIGLIo FIGLIE, non si riuscirà a sintonizzarsi con la paternità che don Bosco intende comunicare attraverso le Memorie dell’Oratorio.
Se non si diventa DISCEPOLI, disposti a imparare, non si entra veramente nello spirito delle Memorie dell’Oratorio e del sogno.

Mi sembra che queste tre disposizioni iniziali (fede, figliolanza e discepolato) siano “chiavi essenziali” per comprendere e assumere, per noi stessi, ciò che Don Bosco ha narrato e ci ha lasciato come eredità spirituale. Ciò che è avvenuto nella sua vita, e l’ha segnato e illuminato per sempre, don Bosco ha voluto che fosse un’eredità che aiutasse profondamente i suoi Salesiani e tutti noi che, per grazia, ci sentiamo e facciamo parte della sua Famiglia.

I giovani, protagonisti del sogno…
Fin dal primo momento del sogno, la “missione oratoriana” affidata a Giovannino Bosco è evidente, anche se egli non sa bene come svolgerla o come esprimerla. Come possiamo vedere, la scena è piena di ragazzi, ragazzi che sono assolutamente reali nel sogno di Giovannino.

Pertanto, mi sembra possibile affermare che i giovani sono i protagonisti centrali del sogno, e che, anche se non pronunciano una parola, tutto ruota intorno a loro. Inoltre, gli stessi personaggi “celesti” e lo stesso Giovannino Bosco sono lì grazie a loro e per loro. L’intero sogno, dunque, è loro e per loro: per i ragazzi. Se escludessimo i giovani da questo sogno, non rimarrebbe nulla di significativo per la nostra missione.

Ma quello che è interessante è che essi non sono come una fotografia che fissa un’immagine in un istante. Questi ragazzi sono in perenne movimento e azione: sia quando sono aggressivi (come lupi) e quando non riescono a sopportarsi, sia quando, trasformati nel modo che la Signora del sogno chiede a Giovannino, diventeranno (come agnelli) ragazzi sereni, amichevoli e cordiali. La cosa più importante che accade nel sogno e che Don Bosco stesso impara e, successivamente, tutti i suoi seguaci, è scoprire che il processo di trasformazione è sempre possibile. Si tratta di un movimento – permettetemi di dire – “pasquale” di conversione e di trasformazione, di lupi in agnelli e degli agnelli in una – diremmo nel linguaggio di oggi – comunità giovanile che celebra Gesù e Maria. Mi sembra certamente un elemento essenziale e centrale del sogno.

…dove c’è una chiara chiamata vocazionale
«Ecco il tuo campo: renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo per i figli miei»[28]. Ciò che accade nel sogno è soprattutto una chiamata, un invito, una vocazione, che sembra impossibile, irraggiungibile. Giovannino Bosco si sveglia stanco, ha persino pianto; e quando la chiamata viene da Dio (il personaggio di maestoso aspetto nel sogno è Gesù), la direzione che tale chiamata può prendere è imprevedibile e sconcertante.

Questo richiamo è qualcosa di molto speciale nel sogno, è di una ricchezza unica. Dico questo perché sembrerebbe che, a causa dell’età, del suo essere senza padre, della quasi totale mancanza di risorse, della povertà, dei problemi interni alla famiglia, dei litigi con il fratellastro Antonio, delle difficoltà di accesso alla scuola a causa della distanza e della necessità di lavorare nei campi, per Giovanni non ci sia un futuro possibile se non quello di rimanere lì, a coltivare i campi e a badare agli animali. Anche a noi potrebbe apparire un sogno irrealizzabile, lontano, forse destinato a qualcun altro, ma non a lui. È la stessa interpretazione che del sogno danno anche i familiari di Giovannino, come confermano le parole della nonna: «Non bisogna badare ai sogni»[29].

Tuttavia, è proprio questa situazione difficile che rende Don Bosco (in questo momento Giovannino) molto umano, bisognoso di aiuto, ma anche forte ed entusiasta. La sua forza di volontà, il carattere, la tempra, la forza d’animo e la determinazione di sua madre, Mamma Margherita, una profonda fede sia da parte di sua madre che di Giovanni stesso, rendono tutto ciò possibile. Il sogno sarà sempre lì, ma lui lo scoprirà attraverso la vita: l’ho capito come, a poco a poco, tutto si è avverato… Non c’è magia, non è un sogno “fatato”, non c’è predestinazione, ma una vita piena di significato, di richieste, di sacrifici, ma anche di fede e di speranza che ci spinge a scoprirla e a viverla ogni giorno.

Nel sogno appare un uomo molto rispettabile, di aspetto virile, che parla a Giovanni, lo interroga, lo mette nelle mani di sua Madre, la Signora. C’è sicuramente un invio in missione. Una missione di pastore-educatore in cui è indicato anche un metodo: la mitezza e la carità. Ecco un esempio della sua risposta vocazionale:

«Giovanni, fedele fin dalla più tenera età all’ispirazione divina, incomincia a lavorare nel campo assegnatogli dalla Provvidenza. Ancor non ha compiuto i dieci anni ed è già apostolo tra i suoi conterranei della borgata di Murialdo. Non è esso forse un Oratorio Festivo, sia pure in embrione, in abbozzo, quello che nel 1825 il piccolo Giovanni inizia, servendosi dei mezzi compatibili con la sua età e con la sua istruzione?
Dotato di memoria prodigiosa, amante dei libri, assiduo alle prediche, egli di tutto fa tesoro, istruzioni, fatti, esempi, per ripeterli al suo piccolo uditorio, instillando con mirabile efficacia l’amore alla virtù in quanti accorrono ad ammirarne l’abilità dei giochi e a udirne l’infantile ma calda parola»[30].

E lei, Maria, segnerà per sempre il sogno di Giovannino e la vita di Don Bosco
Arriviamo al momento centrale del sogno: la mediazione materna della Signora (legata al mistero del nome). Per Giovanni Bosco, sua madre e la Madre di colui che saluta tre volte al giorno, sarà un luogo di umanità in cui riposare, in cui trovare sicurezza e rifugio nei momenti più difficili.

«Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza». È lei, infatti, che gli indica sia il campo dove dovrà lavorare sia la metodologia da utilizzare: «Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto». Maria è fin dall’inizio interpellata per la nascita di un nuovo carisma, in quanto è esattamente la sua specialità quella di portare in grembo e dare alla luce: per questo quando si tratta di un Fondatore, che deve ricevere dallo Spirito Santo la luce originaria del carisma, il Signore dispone che sia la sua stessa madre, Vergine della Pentecoste e modello immacolato della Chiesa, a fargli da Maestra. Lei sola, la “piena di grazia”, comprende infatti dal di dentro tutti i carismi, come una persona che conosca tutte le lingue e le parli come fossero la propria[31]. È come se il Signore del sogno dicesse al giovanissimo Giovanni Bosco: «D’ora in poi, vai d’accordo con lei».

«Notiamo subito, qui, che non è Giovannino a scegliere Maria, ma che è proprio Maria che si presenta con l’iniziativa della scelta: Essa, su richiesta del suo Figlio, sarà l’Ispiratrice e la Maestra della sua vocazione»[32].

Questa dimensione femminile-materna-mariana è forse una delle dimensioni più impegnative del sogno. Quando guardiamo a questa realtà con serenità, questo aspetto si trasforma in qualcosa di bello. È Gesù stesso che gli dà una maestra, che è sua Madre, e che «il suo nome deve chiederlo a Lei»; Giovannino deve lavorare “con i suoi figli”, e sarà “Lei” che si occuperà della continuità del sogno nella vita, che lo prenderà per mano fino alla fine dei suoi giorni, fino al momento in cui capirà veramente tutto.

C’è un’enorme intenzionalità nel voler dire che, nel carisma salesiano a favore dei ragazzi più poveri, deprivati e privi di affetti, la dimensione del trattare con “dolcezza”, con mitezza e carità, così come la dimensione “mariana”, sono elementi imprescindibili per chi vuole vivere questo carisma. La Madonna ha a che fare con la formazione alla “sapienza del carisma”. Ed è per questo che è difficile capire che nel carisma salesiano ci sia qualcuno (persona, gruppo o istituzione) che lasci in secondo piano la presenza mariana. Senza Maria di Nazareth parleremmo di un altro carisma, non del carisma salesiano, né dei figli e delle figlie di Don Bosco. Don Ziggiotti lo dice in modo meraviglioso, in questa ricerca che abbiamo fatto sui commenti dei maggiori rettori sul sogno:

«Vorrei far persuasi tutti i Salesiani di questo fatto importantissimo, che illumina di luce celeste tutta l’esistenza del Santo e dà quindi un valore indiscutibile a tutto ciò che Egli fece e disse nella sua vita: la Madonna, a cui fu consacrato dalla Mamma sul nascere, che illuminò l’avvenire suo nel sogno dei nove anni e poi tornò a confortarlo e consigliarlo, sotto mille forme, nei sogni, nello spirito profetico, nella visione interiore dello stato delle anime, nei miracoli e grazie senza numero, che operò invocandola; la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[33].

Docile allo Spirito, confidando nella Provvidenza
Certamente c’è molto da imparare. Diventare umili, forti e robusti significa prepararsi a ciò che ci aspetta. Giovanni Bosco dovrà essere obbediente, docile alla saggezza del Maestro. Dovrà imparare a vedere e scoprire i processi di trasformazione; capire che l’itinerario, il percorso fatto con questi ragazzi porta alla vita, e all’incontro con il Signore del sogno e con sua madre, porta a Gesù e a Maria. Giovanni Bosco ha scoperto tutto questo.

La posta in gioco è l’obbedienza a Dio, la docilità allo Spirito. Come Maria è colei che “lascia che le cose accadano”, che lascia che ciò che Dio ha pensato e sognato avvenga in lei, fino a proclamare quel “fiat” a Dio, che il Signore ha fatto grandi cose in me, così anche il salesiano, la figlia di Maria Ausiliatrice, ogni cooperatore salesiano, ogni devoto di Maria Ausiliatrice, ogni membro della nostra Famiglia Salesiana, che è la Famiglia di Don Bosco, dovrà imparare e fare proprio questo stile di docilità allo Spirito. Aggiungo che vorrei che questo stile diventasse carne e vita in tutte le fasi della formazione iniziale e permanente in ogni gruppo, congregazione e istituzione salesiana. E non dimentichiamo che i “formatori”, i “formandi”, dovrebbero essere, dovremmo essere i primi a “lasciarci formare” dallo Spirito, come Maria.

Il sogno offre, come nessun altro elemento, come nessun’altra realtà, quelli che credo si possano definire indizi “inalienabili” del DNA del carisma. Sono questi indizi o “principi” che possono aiutarci a leggere, discernere e agire in sintonia con la fedeltà creativa.

E non dimentichiamo che questo è un compito comunitario, dobbiamo svolgerlo insieme, “sinodalmente” – potremmo dire oggi in linea con i recenti lavori sinodali – come Famiglia Salesiana.

Accompagnare Don Bosco nella riflessione sul suo sogno dei nove anni è anche sottolineare il suo abbandono alla Provvidenza, per collocarci, come lui, nel «a suo tempo tutto comprenderai». Lo stesso sogno era per Don Bosco un’azione della Provvidenza. Questa è la convinzione radicale, la scelta fondamentale della vita, “l’essenza dell’anima di Don Bosco”, il punto centrale, la parte più profonda e intima di lui. Non c’è dubbio che l’abbandono alla Divina Provvidenza, come aveva imparato dalla madre, è stato decisivo per il nostro padre e deve essere per noi la garanzia della continuità della spiritualità salesiana. È l’abbandono a Dio, la fiducia in Dio, perché il Dio che Don Bosco ha imparato ad amare è un Dio affidabile. Egli agisce realmente nella storia, e lo ha fatto nella storia dell’Oratorio, al punto che Don Bosco arrivò a dire ai direttori salesiani il 2 febbraio 1876:

«Le altre Congregazioni e Ordini religiosi ebbero nei loro inizii qualche ispirazione, qualche visione, qualche fatto soprannaturale, che diede la spinta alla fondazione e ne assicurò lo stabilimento; ma per lo più la cosa si fermò ad uno o a pochi di questi fatti. Invece qui tra noi la cosa procede ben diversamente. Si può dire che non vi sia cosa che non sia stata conosciuta prima. Non diede passo la Congregazione, senza che qualche fatto soprannaturale non lo consigliasse; non mutamento o perfezionamento, o ingrandimento che non sia stato preceduto da un ordine del Signore… Noi, per esempio, avremmo potuto scrivere tutte le cose che avvennero a noi prima che avvenissero e scriverle minutamente e con precisione»[34].

Però, «non con le percosse». L’arte della dolcezza e della pazienza educativa
Il sogno non ci parla solo di un passato, ma anche di un presente, di un oggi che è estremamente attuale. Il «non con le percosse» che la Madonna dice a Giovannino nel sogno ci interpella anche oggi, e rende più che mai necessario riflettere sul nostro modo salesiano di educare i giovani, perché il discorso dell’odio e della violenza continua ad aumentare. Il nostro mondo sta diventando sempre più violento e noi, educatori ed evangelizzatori dei giovani, dobbiamo essere un’alternativa a ciò che tanto angosciava Giovannino nel suo sogno e che tanto ci ferisce oggi. Come già una volta ha dichiarato il Rettor Maggiore don Pascual Chávez nella Strenna del 2012[35], senza dubbio dovremo “affrontare i lupi” che vogliono divorare il gregge: l’indifferentismo, il relativismo etico, il consumismo che distrugge il valore di cose ed esperienze, le false ideologie, e altro che veramente colpisce ed è vera violenza.

Credo che questo messaggio sia attuale oggi come lo era quando Giovannino (il nostro futuro Don Bosco, padre e maestro) lo ricevette.

Il «non con le percosse» è un “no assoluto”. È molto chiaro, ed è l’unica correzione – potremmo quasi dire rimprovero – che Giovanni Bosco riceve nel sogno. E prima di ogni altra cosa, è per noi una certezza, la grande certezza che la strada della forza e della violenza non porta nella giusta direzione del carisma. Le «percosse» del sogno possono assumere oggi mille forme; infatti, mi sono interessato a leggere, riflettere e specificare molte delle forme più o meno sottili di violenza che ci circondano e che devono essere bandite dal nostro orizzonte educativo pastorale e dal nostro universo carismatico.

«Non con le percosse» significa combattere consapevolmente, senza alcuna giustificazione, ogni tipo di violenza:

Violenza fisica che danneggia il corpo (spingere, calciare, schiaffeggiare, mettere alle strette o immobilizzare, lanciare oggetti).

Violenza psicologica e verbale che danneggia l’autostima. Quella violenza che insulta e squalifica, che isola, che monitora e controlla senza rispetto. Quella violenza e quell’abuso psicologico che fanno sì che alcune persone sentano di non dare mai abbastanza di sé; quella violenza che fa sì che le persone si considerino sempre diverse e sbagliate, addirittura immature per aver pensato ciò che si pensa onestamente; quella violenza e quell’abuso da parte di chi si interessa all’altro solo quando vuole trarne profitto.

Violenza affettivo-sessuale che lede il corpo, il cuore e gli affetti più intimi; che lascia segni indelebili di dolore e può manifestarsi verbalmente o per iscritto, con sguardi o segni che denotano oscenità, molestie, prepotenze e persino abusi.

Violenza economica per la quale il denaro che è tuo o che serve per fare del bene viene trattenuto, sottratto, rubato.

Violenza è anche cyber-violenza, “cyberbullismo” con molestie attuate attraverso internet, i siti web, i blog, con messaggi di testo o di posta elettronica, o video.

Violenza che nasce dall’esclusione sociale che vede persone, studenti, adolescenti esclusi, o umiliati pubblicamente, senza alcun rispetto.

Violenza caratterizzata da maltrattamenti, da verbi come minacciare, manipolare, svalutare, rifiutare, negare, mettere in discussione, umiliare, insultare, squalificare, deridere, mostrare indifferenza.

Non c’è dubbio che carismaticamente possediamo l’antidoto per queste situazioni che danneggiano la vita. Si tratta del genio pastorale di Don Bosco: «Ricordando, d’altra parte, che l’intervento di Maria nel primo sogno di Giovannino Bosco è stato quello che ha configurato inizialmente quel “genio apostolico” che ci caratterizza nella Chiesa, vi invito a concentrare insieme la nostra riflessione sul progetto che caratterizza la nostra genialità pastorale: il Sistema Preventivo»[36].

LEI, la Signora: Maestra e Madre
La Signora del sogno si presenta come Maestra e Madre. È la madre di entrambi: del maestoso Signore del sogno e di Giovannino stesso; una madre – permettetemi la parafrasi – che, prendendolo per mano, gli dice:

Guarda”: quanto è importante per noi saper guardare, e quanto è grave quando non riusciamo a “vedere” i giovani nella loro realtà, in ciò che sono; quando non riusciamo a vedere ciò che di più autentico c’è in loro, e ciò che di più tragico e doloroso è presente in loro e nella loro vita. “Guarda” è la prima parola che dice «la donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella».

Senza voler “interpretare” troppo un singolo verbo, mi pare ci sia un segnale “preventivo” di quello che sarà di fatto la strada che nostro padre dovrà seguire, fatta soprattutto di apprendimento esperienziale. Pensiamo quanto gli occhi contano nella vita di Don Bosco… È quello che vede, arrivato a Torino – o meglio che il Cafasso lo aiuta a vedere – che fa nascere la nostra missione. È da come vede ogni ragazzo (ricordiamo i primi incontri nelle biografie che scrive): lì c’è l’incipit che è come un miracolo a cui segue tutto il resto, sia per Savio, che per Magone, che per Cagliero, per Rua… C’è nel museo di Chieri una scultura che rappresenta gli occhi e gli sguardi di don Bosco, che era rimasta accanto al suo altare nel 1988. C’è qualcosa di unico nel suo sguardo e quel “guarda” detto dalla Signora non è meno originale e unico.

Proprio attorno al “guardare” è possibile trovare un esplicito riferimento ad una parola per noi così fondamentale come l’assistenza. E tutti sappiamo come è essenziale.

La mia attenzione però non si allontana molto dal prato dei sogni ai Becchi, perché di fatto, senza che Giovannino se ne accorga, si formerà attraverso l’esperienza: imparerà dalla vita, soprattutto nei momenti di estrema difficoltà e fatica.

Guarda porta la persona a decentrarsi, a cogliere qualcosa che va oltre il proprio orizzonte e supera la propria immaginazione e che diventa invito, sfida, provocazione, appello e guida. Perché chiede un coinvolgimento pieno e totale mediante il quale Giovanni si prodigherà a favore dei ragazzi. Da qui si coglie anche l’importanza dell’ambiente in tutta la pedagogia salesiana.

Non si toglie nulla all’indispensabile cura dell’interiorità e del silenzio. Siamo chiamati ad alzare lo sguardo, sia quando lo fissiamo sul mistero di Dio, sia quando passiamo accanto all’uomo che «scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti» (Lc 10,30). Ed è ciò che sempre ha caratterizzato la persona di Don Bosco, dall’infanzia alla fine della vita.

Impara”: diventare umili, forti e robusti, perché c’è bisogno di semplicità di fronte a tanta arroganza; di forza di fronte a tante cose che si devono affrontare nella vita; e di quella robustezza che è la resilienza, ovvero la capacità di non scoraggiarsi, di non “lasciarsi cadere le braccia” quando sembra di non essere in grado poter fare qualcosa.

È interessante notare che a rendere “mite” (umile forte robusto) Giovannino sono gli eventi (l’esperienza) che la Provvidenza (Maria) mette sul suo cammino. Ad esempio, quando qualche tempo dopo il sogno, nel febbraio 1828 (e aveva soltanto dodici anni) mamma Margherita è costretta ad allontanarlo da casa a causa dei contrasti con Antonio. Giovanni alla sera giunge alla cascina Moglia, dove è accolto più per pietà che per un reale bisogno – non è d’inverno che si cercavano garzoni. In ogni caso, la cascina è abbastanza lontana ma allo stesso tempo abbastanza vicina a Moncucco dove c’è uno dei migliori parroci che la diocesi di Torino avesse, don Francesco Cottino (di cui per ora la nostra letteratura salesiana dice ancora pochissimo). Con lui Giovanni si incontra ogni domenica. È il primo “a tu per tu”, il primo incontro con una vera guida per Giovanni. Così una stagione che poteva essere solo triste e buia diventa un’occasione importantissima per il suo cammino. Sappiamo poi che il 3 novembre 1829 lo zio Michele lo riporterà in famiglia, ai Becchi. E che il 5 novembre Giovanni incontrerà don Calosso di ritorno dalla missione di Buttigliera.

Ritengo perciò molto importante sottolineare con forza l’incredibile regia-accompagnamento della Provvidenza. Giovanni corrisponde ad essa coinvolgendosi liberamente. Tuttavia, eventi e persone che al momento giusto si susseguono, sono gli artefici di quell’«umile, forte e robusto» indispensabile per la missione che intanto in lui matura sempre più.

È quindi evidente un primato della Grazia, che vale anzitutto per noi se siamo in grado di lasciarci formare e che diventa così fecondo per la missione. Al punto che non ci sono più limiti o difficoltà tali da impedire la crescita verso quella pienezza della vita che è la santità, qualunque sia il contesto, anche il più sfidante.

Ovviamente tutto ciò non ci esonera dal mettere tutto l’impegno per migliorare le situazioni e superare le ingiustizie. Infatti, Don Bosco si “alleerà” con la Provvidenza senza limitare i propri sforzi, gli incontri, la stesura di contratti di lavoro per difendere e tutelare i giovani apprendisti ospiti del primo oratorio. Soprattutto Don Bosco non toglie loro il cielo! Indicando come ci sia sempre “un di più”, una meta più alta a cui tutti possono accedere.

Analoga lezione suggerita da Santa Madre Teresa di Calcutta con il suo “inutile” prodigarsi per i moribondi di Calcutta. Tra l’altro, su un cartellone da lei scritto a mano e appeso nella sua camera all’inizio della sua nuova vita per i più poveri dei poveri, aveva fissato nero su bianco queste parole: “Da mihi animas cetera tolle”.

“E siate pazienti”, cioè diamo tempo a tutto e lasciamo che Dio sia Dio.

4. UN SOGNO CHE FA SOGNARE
Cari membri della Famiglia Salesiana, non posso concludere il mio commento alla Strenna, senza esprimere per i giovani e per noi, i tanti sogni che porto nel cuore. Possono identificarsi nel desiderio di continuare a crescere nella fedeltà carismatica; o con l’anelito e la provocazione serena davanti a cambiamenti che si presentano per noi difficili, con resistenze che possono soffocare il fuoco vivo del nostro carisma. Oppure spinte che vogliono tradurre in realtà lo stesso sogno di Don Bosco, ma duecento anni dopo!

Li condivido con voi, nella speranza che chiunque mi legga, in qualsiasi parte del vasto mondo salesiano sia, possa sentire che qualcosa di ciò che è scritto qui, è destinato anche a lui o a lei. Questi mi paiono alcuni elementi concreti per l’attualizzazione del sogno dei nove anni:

Don Bosco ci ha mostrato nel corso della sua vita che solo le relazioni autentiche trasformano e salvano. Papa Francesco ci dice la stessa cosa: «Non basta dunque avere delle strutture se in esse non si sviluppano relazione autentiche; è la qualità di tali relazioni, infatti, che evangelizza»[37]. Per questo esprimo il desiderio che ogni casa della nostra Famiglia salesiana nel mondo sia o diventi uno spazio veramente educativo, uno spazio di relazioni rispettose, uno spazio che aiuti a crescere in modo sano. In questo possiamo e dobbiamo fare la differenza, perché le relazioni autentiche sono all’origine del nostro carisma, all’origine dell’incontro con Bartolomeo Garelli, all’origine della vocazione stessa di Don Bosco.

Ogni scelta fatta da Don Bosco faceva parte di un progetto più grande: il progetto di Dio su di lui. Pertanto, nessuna scelta è stata superficiale o banale per Don Bosco. Il suo sogno non era un aneddoto della sua vita, o un semplice evento, ma una risposta vocazionale, una scelta, un percorso, un programma di vita che prendeva forma man mano che veniva vissuto. Sogno, quindi, che ogni salesiano, ogni membro della Famiglia di Don Bosco, senta, per vocazione e scelta, di essere a disagio e di sperimentare sulla propria pelle il dolore, la stanchezza e la fatica di tante famiglie e di tanti giovani che lottano ogni giorno per sopravvivere, o per vivere con un po’ più di dignità. E che nessuno di noi si riduca ad essere spettatore passivo o indifferente di fronte al dolore e all’angoscia di tanti giovani.

«Il sogno primordiale, il sogno creatore di Dio nostro Padre, precede e accompagna la vita di tutti i suoi figli»[38]. Il nostro Dio ha un sogno per ciascuno di noi, per ciascuno dei nostri giovani, un progetto pensato, “disegnato” per noi da Dio stesso. Il segreto della tanto desiderata felicità di ciascuno sarà proprio quello di scoprire la corrispondenza e l’incontro tra questi due sogni: il nostro e quello di Dio. E allora capire qual è il sogno di Dio per ciascuno di noi significa, innanzitutto, rendersi conto che il Signore ci ha dato la vita perché ci ama, al di là di quello che siamo, compresi i nostri limiti. Dobbiamo credere, allora, che il nostro Dio vuole fare grandi cose in ciascuno di noi! Siamo tutti preziosi, abbiamo un grande valore, perché, senza ognuno di noi, mancherà qualcosa al mondo e alla Chiesa. Infatti, ci saranno persone che solo io potrò amare, parole che solo io potrò dire, momenti che solo io potrò condividere.

E senza sogni non c’è vita. Per gli esseri umani, per tutti noi, sognare significa proiettarsi, avere un ideale, un senso nella vita. La peggiore povertà dei giovani è impedire loro di sognare, privarli dei propri sogni o imporre loro sogni inventati. Ognuno di noi è un sogno di Dio. È importante scoprire qual è il mio, quale sogno Dio ha per me. E dobbiamo cercare di svilupparlo, di realizzarlo, perché ne va della nostra felicità e di quella dei nostri fratelli e sorelle.
Ricordiamo come Don Bosco pianse di commozione e di gioia quando, quel 16 maggio 1887, “vide realizzato” il sogno che definiva la sua vita, la sua vocazione, la sua missione.

Dio fa grandi cose con “strumenti semplici” e ci parla in molti modi, anche nel profondo del cuore, attraverso i sentimenti che si muovono dentro di noi, attraverso la Parola di Dio accolta con fede, approfondita con pazienza, interiorizzata con amore, seguita con fiducia. Aiutiamo noi stessi e i nostri ragazzi, le ragazze e giovani ad ascoltare il proprio cuore, a decifrare i movimenti interiori, a dare voce a ciò che si agita dentro di loro e in noi, a riconoscere quali segni o “sogni” rivelano la voce di Dio e quali, invece, sono l’esito di scelte sbagliate.

«Le fatiche e fragilità dei giovani ci aiutano a essere migliori, le loro domande ci sfidano, i loro dubbi ci interpellano sulla qualità della nostra fede. Anche le loro critiche ci sono necessarie, perché non di rado attraverso di esse ascoltiamo la voce del Signore che ci chiede conversione del cuore e rinnovamento delle strutture»[39]. Un autentico educatore sa scoprire con intelligenza e pazienza ciò che ogni giovane porta dentro di sé, e come tale agirà con comprensione e affetto, cercando di farsi amare[40]. Sogno e desidero incontrare ogni giorno, in ogni casa salesiana del mondo salesiani e laici che credono nel miracolo che l’educazione e l’evangelizzazione salesiana hanno il potere di realizzare.

Vivere umanamente è “diventare”, è realizzarsi, è godere degli esiti frutto di pazienti processi con cui Dio opera e interviene nella nostra vita. Quanto desidero che la nostra passione educativa assomigli a quella di Don Bosco, “padre dell’amorevolezza salesiana”, affinché in tutte le nostre presenze nel mondo, i ragazzi e le ragazze possano incontrare non solo professionisti formati, ma veri educatori, fratelli, amici, padri e madri.

Don Bosco, “prete di strada” ante litteram, si è letteralmente consumato in questa impresa. I salesiani (e coloro che si ispirano a Don Bosco) sono sì “figli di un sognatore di futuro”, ma di un futuro che si costruisce nella fiducia in Dio e nel quotidiano immergersi e operare nella vita dei giovani, fra le fatiche e le incertezze di ogni giorno[41]. Ed è per questo che l’incontro con il Signore della Vita, aiutando ogni giovane a scoprire il proprio sogno, il sogno di Dio in ognuno, e sostenendolo nel suo cammino di realizzazione, è il dono più prezioso che possiamo offrire ai giovani. Quanto desidero che questo si realizzi in tutte le nostre case.

Mentre il cuore di Don Bosco batteva in ogni momento, noi, «convinti che ciascun giovane porta inscritto nel cuore il desiderio di Dio, siamo chiamati ad offrire occasioni di incontro con Gesù, fonte di vita e di gioia per ogni giovane»[42]. Don Bosco non poteva tollerare che nelle sue case i suoi figli e le sue figlie non proponessero ai ragazzi, alle ragazze, agli adolescenti e ai giovani – pur nella libertà con cui oggi educhiamo alla fede nei contesti più diversi – l’incontro con Gesù. Anche oggi siamo chiamati a farlo conoscere, a scoprire come Egli affascina ogni persona e aiutando i giovani di altre religioni ad essere buoni credenti a partire dalla propria fede e ideali. Sogno che questo diventi realtà in tutte le case salesiane del mondo.

«Dappertutto l’Opera Salesiana deve mirare ai giovani più poveri e bisognosi della Società, e deve usar con loro i mille mezzi che ispira la carità che previene. Don Bosco piangeva al vedere tanta gioventù crescere corrotta e miscredente; ed avrebbe voluto poter estendere le sue cure – vigilando, ammonendo, istruendo in una parola, prevenendo, – a tutti i giovani del mondo (…) Per questo nell’accettazione di nuove fondazioni dava la preferenza a quei luoghi dove la gioventù si guastava per l’abbandono»[43]. Sogno davvero di vedere un giorno l’intera Congregazione Salesiana con la stessa dedizione che Don Bosco ebbe verso i suoi ragazzi più poveri. Sogno di vedere ciascuno dei miei confratelli donare con gioia la propria vita a favore degli ultimi. In molti casi è già così. Sogno che ciascuna delle nostre case sia piena di quell’«odore di pecore» a cui Papa Francesco fa oggi riferimento per ogni chiamato ad una vocazione apostolica. E lo auguro anche a tutta la nostra Famiglia Salesiana: nessuno deve sentirsi escluso da questa chiamata.

«La vita di Giovanni prima dell’ordinazione presbiterale è davvero un capolavoro di itinerario per la vocazione»[44]. Dice Papa Francesco parlando ai giovani della vocazione: «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Di conseguenza, dobbiamo pensare che ogni pastorale è vocazionale, ogni formazione è vocazionale e ogni spiritualità è vocazionale»[45]. Come ha sempre fatto Don Bosco, considero un dovere per noi aiutare ogni giovane, in ogni nostra proposta, a scoprire ciò che Dio si aspetta da lui, ad avere ideali che lo facciano “volare alto”, a dare il meglio di sé, a desiderare di vivere la vita come consegna e donazione.

Maria risplende per il suo essere madre e custode. Quando, giovanissima, ricevette l’annuncio dell’angelo, non si trattenne dal fare domande. Quando ha accettato e ha detto “sì”, ha puntato tutto, rischiando. Quando sua cugina ebbe bisogno di lei, mise da parte i suoi progetti e le sue necessità e partì, senza indugio. Quando il dolore di suo Figlio l’ha colpita, è stata la donna forte che lo ha sostenuto e accompagnato fino alla fine. Lei, che è Madre e Maestra, guarda il mondo dei giovani che la cercano, anche se lungo il cammino c’è tanto rumore e buio; parla nel silenzio e tiene accesa la luce della speranza[46]. Sogno davvero che nella fedeltà a Don Bosco faremo innamorare i nostri ragazzi, ragazze e giovani di quella Madre, non meno di lui, poiché «la Madonna è tutto per Don Bosco; e il Salesiano che vuole acquistare lo spirito del Fondatore deve imitarlo in questa devozione»[47].

5. DAL SOGNO DI NOVE ANNI ALL’ALTARE DEL PIANTO
Sono giunto alla fine di questo commento. Potrei aggiungere altro, ma ritengo che quanto ho scritto possa raggiungere il cuore di ciascuno. Già questo sarebbe un’ottima notizia.

Voglio semplicemente invitarvi a un minuto di interiorizzazione e contemplazione davanti a questo testo delle Memorie Biografiche che descrive in poche righe ciò che Don Bosco ha provato, versando copiose lacrime, davanti all’altare di Maria Ausiliatrice nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù pochi giorni dopo la sua consacrazione.

In quei momenti Don Bosco vide e sentì le voci di sua madre Margherita, i commenti dei fratelli e della nonna che valutavano il sogno, mettendolo addirittura in discussione. Proprio lì, in quel momento, sessantadue anni dopo, capì tutto, proprio come la Maestra aveva preannunciato.

Questa narrazione mi commuove ogni volta ed è per questa ragione che vi invito a rileggerla e a meditarla personalmente. Ancora una volta.

«Non meno di 15 volte durante il divin sacrificio — annotano le Memorie Biografiche — si arrestò preso da forte commozione e versando lacrime. Viglietti, che lo assisteva, dovette di quando in quando distrarlo, affinché potesse andare avanti.
(Avendogli domandato) quale fosse stata la causa di tanta emozione, rispose: — Avevo dinanzi agli occhi viva la scena di quando sui dieci anni sognai della Congregazione. Vedevo proprio e udivo la mamma e i fratelli questionare sul sogno…
Allora la Madonna gli aveva detto: “A suo tempo tutto comprenderai”. Trascorsi ormai da quel giorno sessantadue anni di fatiche, di sacrifici, di lotte, ecco che un lampo improvviso gli aveva rivelato nell’erezione della chiesa del S. Cuore a Roma il coronamento della missione adombratagli misteriosamente sull’esordire della vita»[48].

Credo veramente che Maria Ausiliatrice continui ad essere anche oggi una vera Madre e Maestra per tutta la nostra Famiglia. Sono convinto che le parole profetiche del primo sogno pronunciate dal Signore Gesù e da Maria continuano ad essere realtà in tutti i luoghi dove il carisma del nostro Padre, dono dello Spirito, ha messo radici. E sono certo che in ogni casa, al di là delle nostre fatiche e dei nostri sforzi, si può applicare ciò che Don Bosco diceva del Santuario di Valdocco:

«Ogni mattone è una grazia di Maria Ausiliatrice; nulla abbiamo fatto senza il diretto intervento di Lei; Essa si è edificata la sua casa ed è una meraviglia agli occhi nostri».

Lei, Immacolata e Ausiliatrice, continui a guidarci tutti per mano. Amen.

Torino-Valdocco, 8 dicembre 2023

Don Ángel Card. Fernández Artime, S.D.B.
Rettor Maggiore


[1] F. Motto, Il sogno dei nove anni. Redazione, storia, criteri di lettura, in «Note di pastorale giovanile» 5 (2020), 6.

[2] P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. 1. Vita e opere, LAS, Roma 1979, 31s.

[3] P. Chávez V., Conoscendo e imitando Don Bosco, facciamo dei giovani la missione della nostra vita, in ACG 412 (2012), 35-36.

[4] F. Motto, o.c.,6.

[5] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Istituto Storico Salesiano, Fonti salesiane 1. Don Bosco e la sua opera, LAS, Roma 2014, 1176.

[6] Cfr. F. Rinaldi, Lettera circolare pubblicata su ACS Anno V – N. 26 (24 Ottobre 1924), 312-317.

[7] G. Bosco, Memorie dell’oratorio di san Francesco di Sales dal 1815 al 1855, in Istituto Storico Salesiano, (saggio introduttivo e note storiche a cura di A. da Silva Ferreira), “Fonti”, serie prima, 4, marzo 1991. Cfr. A. Bozzolo, Il sogno dei nove anni3.1 Struttura narrativa e movimento onirico in A. Bozzolo (a cura di), I sogni di Don Bosco. Esperienza spirituale e sapienza educativa, LAS-Roma, 2017, p. 235.

[8] R. Ziggiotti (a cura di Marco Bay), Tenaci, audaci e amorevoli. Lettere circolari ai salesiani di don Renato Ziggiotti, LAS, Roma 2015, 575.

[9] Il coadiutore salesiano Marco Bay è stato professore all’Università Pontificia Salesiana di Roma e attualmente è direttore dell’Archivio Centrale Salesiano di Roma (UPS). Egli ha generosamente messo nelle mie mani la ricerca che aveva svolto sui riferimenti che i precedenti Rettori Maggiori avevano fatto sul sogno dei nove anni.

Vorrei anche cogliere l’occasione per ringraziare don Luis Timossi, sdb, del Centro di Formazione Permanente di Quito, e don Silvio Roggia, sdb, direttore della comunità del Beato Ceferino Namuncurá di Roma, per le loro note e i loro suggerimenti.

[10] P. Albera, Direzione Generale delle Opere Salesiane, Lettere Circolari di don Paolo Albera ai salesiani, Torino 1965, 123; 315; 339.

[11] F. Rinaldi, Lettera circolare pubblicata su ACS Anno V – N. 26 (24 Ottobre 1924), 312-317.

[12] Ibidem.

[13] La commemorazione di un “sogno”, in BS Anno XLIX, 6 (Giugno 1925), 147.

[14] P. Ricaldone, Anno XVII. 24 Marzo 1936 N. 74.

[15] P. Ricaldone, o.c., N. 78.

[16] R. Ziggiotti, o.c., 129.

[17] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[18] L. Ricceri, La parola del Rettor Maggiore. Conferenze, Omelie Buone notti, v. 9, Ispettoria Centrale Salesiana, Torino 1978, 27.

[19] Ibid, 28.

[20] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, 10.

[21] MB VII, 291. Citato in J. E. Vecchi, Educatori appassionati esperti e consacrati per i giovani. Lettere circolari ai Salesiani di don Juan E. Vecchi. Introduzione, parole chiave e indici a cura di Marco Bay, LAS, Roma 2013, 380.

[22] P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II, p. 32. Citato in J. E. VECCHI, o.c., 381.

[23] P. Chávez Villanueva, Lettere circolari ai salesiani (2002-2014). Introduzione e indici a cura di Marco Bay. Presentazione di don Ángel Fernández Artime, Roma, LAS, 2021, p. 450.

[24] F. Motto, o.c. 8.

[25] Ibid, 10.

[26] G. Bosco, Memorie del Oratorio, citato in F. Motto, o.c., 9.

[27] F. Motto, o.c., 10.

[28] Citato in P. Ricaldone, Anno XVII. 24 Marzo 1936 N. 74.

[29] G. Bosco, o.c., 1177.

[30] P. Ricaldone, Anno XX Novembre–Dicembre 1939 N. 96

[31] A. Bozzolo (ed), Il Sogno dei nove anni. Questioni ermeneutiche e lettura teologica, LAS, Roma 2017, 264.

[32] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 10.

[33] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[34] F. Motto, o.c., 7.

[35] Cfr. P. Chávez, «Conoscendo e imitando Don Bosco facciamo dei giovani la missione della nostra vita». Primo anno di preparazione al Bicentenario della sua nascita. Strenna 2012, in ACG 412 (2012), 3-39.

[36] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 1, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 31.

[37] Sinodo dei Vescovi, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento finale. Elledici, Torino, 2018, nº128.

[38] Francesco, Christus vivit. Esortazione apostolica Postsinodale ai giovani e a tutto il Popolo di Dio, LEV, Città del Vaticano 2019, nº194.

[39] Sinodo dei Vescovi, I giovani…. o.c., nº116.

[40] Cfr. XXIII Capitolo Generale Salesiano, Educare ai giovani nella fede, CCS, Madrid, 1990, nº 99.

[41] Cfr. F. Motto, o.c. 14.

[42] R. Sala, Il sogno dei nove anni. Redazione, storia, criteri di lettura, in «Note di pastorale giovanile» 5 (2020), 21.

[43] F. Rinaldi, Il sac. Filippo Rinaldi ai Cooperatori ed alle Cooperatrici Salesiane. Un’altra data memoranda, in BS Anno XLIX, 1 (Gennaio 1925), 6.

[44] E. Viganò, Lettere circolari di don Egidio Viganò ai salesiani, vol. 2, Roma, Direzione Generale Opere Don Bosco, 1996, p. 589.

[45] Francesco, Christus vivit, nº254.

[46] Cfr. Francesco, o.c., 43-48, 298.

[47] R. Ziggiotti, o.c., 264.

[48] MB XVIII, 341.




Don Bosco e il dialogo ecumenico

            L’ecumenismo è un movimento sorto agli inizi del secolo XX tra le chiese protestanti, condiviso poi da quelle Ortodosse e dalla stessa Chiesa Cattolica, che mira all’unità dei cristiani. Il Decreto sull’Ecumenismo del Concilio Vaticano II, afferma che da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica e che la divisione delle Chiese non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo. I tempi nostri, quindi, si differenziano non poco, a questo riguardo, da quelli di Don Bosco.
            Quando si parla di «Protestanti» in Piemonte il pensiero va anzitutto alla Chiesa Evangelica Valdese e cioè ai «Valdesi». E abbastanza nota la storia, a volte tragica ed eroica, di questo piccolo popolo-chiesa che trovò nelle valli pinerolesi rifugio, stabile dimora e il suo centro religioso. Meno noto è il forte spirito di proselitismo da parte dei Valdesi dopo l’Editto di emancipazione firmato da Re Carlo Alberto il 17 febbraio 1848, con il quale venivano loro riconosciuti i diritti civili e politici.
Tra le iniziative più vistose della loro crescente propaganda anti-cattolica, in Piemonte, e poi in tutta Italia, vi fu quella della stampa popolare, che, conseguentemente, suscitò viva reazione nell’Episcopato e corrispondenti iniziative di carattere apologetico in difesa della dottrina cattolica. In questo campo, dietro le direttive della Santa Sede e dei Vescovi piemontesi, si mosse anche Don Bosco fortemente preoccupato di preservare dall’eresia la gioventù e il popolo delle nostre terre.

Le «Letture Cattoliche» di Don Bosco
            Si può capire come Don Bosco abbia sentito il dovere di entrare nella mischia a difesa della fede nel popolo e tra la gioventù. S’impegnò in un’azione coraggiosa di stampa cattolica popolare, perché comprese ben presto che i Valdesi del Piemonte erano solo la testa di ponte del premeditato assedio protestante dell’Italia (G. SPINI, Risorgimento e Protestanti, Milano, Mondadori Ed., 1989, pp. 236-253).
            A questo proposito su «Il Secolo XIX» del 30 gennaio 1988 comparve un articolo di N. Fabretti, dal titolo: Don Bosco, santo “giovane”, dove, tra l’altro, lo si dichiarava: «ortodosso sino all’intolleranza, violento contro i protestanti che ritiene, se non si convertono, figli del diavolo e dannati», e «polemista furioso… che con le «Letture Cattoliche» svillaneggia ossessivamente Lutero e i protestanti e insulta pubblicamente i Valdesi». Ma queste accuse volgari non toccano il vero Don Bosco.
            Le «Letture Cattoliche», la cui pubblicazione ebbe inizio nel marzo del 1853, erano libretti popolari che Don Bosco mensilmente faceva stampare per l’educazione religiosa della gioventù e del popolo. Svolgendo una catechesi semplice, spesso in forma narrativa, egli con questi fascicoli periodici richiamava ai lettori la dottrina cattolica sui misteri della fede, sulla Chiesa, i sacramenti, la morale cristiana.
            Più che polemizzare direttamente con i Protestanti, metteva in rilievo le differenze che da essi ci separano, richiamandosi alla storia e alla teologia come erano a quel tempo conosciute. Sarà, però, inutile cercare in libretti da lui stampati, quali Avvisi ai Cattolici e Il Cattolico istruito nella sua religione, («Letture Cattoliche» 1853, n. 1, 2, 5, 8, 9, 12) gli elementi posti oggi più in risalto dalla dottrina sulla Chiesa. Essi riflettono piuttosto una catechesi che richiederebbe ormai una chiarificazione e una integrazione. Lo stile apologetico di Don Bosco, poi, rispecchiava quello di noti autori cattolici dai quali egli attingeva.
            Oggi, in clima ecumenico, certe iniziative possono apparire sproporzionate al pericolo, ma occorre tenere presente l’ambiente dell’epoca in cui la polemica partiva proprio dagli stessi Protestanti e «la controversia religiosa era sentita come una necessità quotidiana per evangelizzare il popolo» (V. VINAI, Storia dei Valdesi, Vol. III, Torino, Ed. Claudiana, 1980, p. 46).
            La letteratura protestante anticattolica dell’epoca, infatti, presentava il Cattolicesimo come ricettacolo di peccato, di ipocrisia religiosa, di superstizione, e di crudeltà verso Ebrei e Valdesi. Afferma, in proposito, un ben noto storico protestante: «Possiamo dire che nel 1847 l’Italia è circondata da una sorta di assedio protestante, stesole attorno dall’episcopalismo anglicano, dal presbiterianesimo scozzese e dall’evangelismo “libero” di Ginevra e di Losanna, con un appoggio anche da parte del protestantesimo americano. All’interno della penisola, oltre alle tradizionali comunità straniere, vi sono già due teste di ponte, costituite dai valdesi e dagli “evangelici” toscani. All’esterno, due comunità organizzate con propri organi di stampa a Londra e a Malta» (G. SPINI, o. c., p. 226).
Ma non basta. Don Bosco, oltre ad attentati di origine sospetta da lui subiti, venne svillaneggiato in vari numeri delle annate 1853-54 del settimanale protestante «La Buona Novella», con schemi ben pesanti alla sua persona («La Buona Novella», Annata 1853-54, Anno III, n. 1, pp. 8-11; n. 5, pp. 69-72; n. 11, pp. 166-168, n. 13, pp. 193-198; n. 27, pp. 423-424).
            Quelli erano tempi del «muro contro muro»!

Don Bosco intollerante?
            Don Bosco non meritava certo tali insulti. Luigi Desanctis, sacerdote cattolico passato alla Chiesa Valdese, con la sua presenza a Torino diede un grande impulso all’evangelizzazione protestante, polemizzando pure con le pubblicazioni di Don Bosco. Ma quando, per dissensi interni, finì per lasciare i Valdesi e orientarsi verso una Società Evangelica Italiana, ebbe molto da soffrire. Fu allora che Don Bosco gli scrisse per invitarlo a casa sua a condividere con lui «il pane e lo studio». Il Desanctis gli rispose che non credeva mai di trovare tanta generosità e gentilezza in un uomo che gli era apertamente nemico. «Non ci dissimuliamo – aggiungeva – V. S. combatte i miei princìpi come io combatto i suoi; ma mentre mi combatte mostra di amarmi sinceramente, porgendomi una mano benefica nel momento dell’afflizione. E così mostra di conoscere la pratica di quella carità cristiana, che in teoria è praticata così bene da tanti…» (ASC, Raccolta originale N. 1403-04).
            Anche se poi il Desanctis non si sentì di trarre le conseguenze logiche della sua situazione, rimane significativa questa lettera che scopre il vero Don Bosco, non certo «l’ortodosso sino all’intolleranza» o il «polemista furioso» definito dall’articolista di «Il Secolo XIX», bensì l’uomo di Dio interessato solo alla salvezza delle anime.




Don Bosco e gli animali

Don Bosco amava gli animali? Sono presenti nella sua vita? E che relazione aveva con loro? Alcune domande alle quali si prova di rispondere.

Uccelli, cani, cavalli, ecc.
            Nella stalla della «Casetta» dove Mamma Margherita si era trasferita con i figli e la suocera dopo l’inaspettata morte del marito Francesco, c’erano una vaccherella, un vitello ed un asinello. Nell’angolo della casa, un pollaio.
            Giovanni, appena ne fu in grado, portava la vaccherella al pascolo, ma si interessava con più gusto delle nidiate di uccelli. Lo ricorda egli stesso nelle sue «Memorie»: «io era peritissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci, praticissimo delle nidiate» (MO 30).
            Sono noti i vari incidenti di questo suo «mestiere». Ricordiamo quella volta quando il braccio gli restò impigliato nella fessura di un tronco d’albero, dove aveva scoperto un nido di cinciallegre; o quell’altra in cui poté osservare un cuculo far strage di una nidiata di usignoli. Altra volta vide la sua gazza morire di golosità per aver ingoiato troppe ciliege, noccioli inclusi. Un giorno per raggiungere una nidiata scovata su una vecchia quercia, scivolò e cadde pesantemente a terra. E un triste giorno, tornando da scuola, trovò ucciso dal gatto il suo merlo prediletto, allevato in gabbia ed addestrato a zufolare melodie.
            Quanto a gallinacei, risale a quegli anni il fatto della gallina misteriosa rimasta sotto il vaglio in casa dei nonni a Capriglio e da Giovanni liberata tra risate di sollievo. Pure di quegli anni è l’incidente del tacchino rubato da un mariuolo e fatto restituire con coraggio e un pizzico di fanciullesca imprudenza. Degli anni di Chieri è il trucco del pollo in gelatina portato in tavola e uscito dalla pentola vivo e starnazzante.
            Una vera amicizia strinse Giovanni con un cane al Sussambrino, il bracco da caccia del fratello Giuseppe. Lo addestrò ad abboccare al volo i tozzi di pane e a non mangiarli sino ad ordine ricevuto. Gli insegnò a salire e scendere per la scala a pioli del fienile e a fare salti e giochi da circo. Il bracco lo seguiva ovunque e quando Giovanni lo portò in regalo a parenti di Moncucco, la povera bestia, presa dalla nostalgia, ritornò a casa da sola in cerca dell’amico perduto.
            Da studente a Castelnuovo, Giovanni imparò pure ad andare a cavallo. Nell’estate del 1832, il prevosto don Dassano, che gli dava ripetizioni scolastiche, gli affidò la cura della stalla. Giovanni doveva condurre il cavallo a fare la passeggiata e, una volta fuori del paese, saltandogli in groppa, lo spingeva al galoppo.
            Novello sacerdote, invitato a predicare a Lauriano, a 30 km circa da Castelnuovo, partì a cavallo. Ma la cavalcata finì male. Sulla collina di Berzano la bestia, spaventata da un grosso stormo di uccelli, s’impennò ed il cavaliere finì a terra.
            Di cavalcate don Bosco ne fece poi parecchie altre nelle sue peregrinazioni per il Piemonte e nelle gite coi ragazzi. Basterebbe ricordare la trionfale salita a Superga nella primavera del 1846 su di un cavallo bardato di tutto punto, mandatogli apposta a Sassi da don G. Anselmetti.
            Molto meno trionfante fu la traversata appenninica a dorso d’asino nel viaggio a Salicetto Langhe nel novembre 1857. Il sentiero era stretto e scosceso, la neve alta. L’animale incespicava e cadeva ad ogni piè sospinto e don Bosco fu costretto a scendere e spingerlo avanti. La discesa fu ancor più avventurosa e solo il Signore sa come poté giungere al paese in tempo per la sacra missione.
            Quello non fu l’ultimo viaggio di don Bosco in groppa ad un asinello. Nel luglio del 1862 fece 6 chilometri di strada da Lanzo a Sant’Ignazio allo stesso modo. E così, probabilmente, altre volte.
            Ma una delle più gloriose cavalcate di don Bosco fu quella dell’ottobre 1864 da Gavi a Mornese. Arrivò in paese a tarda sera al suono festoso delle campane. La gente uscì di casa con i lumi accesi e s’inginocchiò al suo passaggio chiedendo la benedizione. Era l’osanna del popolo al santo dei giovani.

Gli animali nei sogni di don Bosco
            Se passiamo a considerare i sogni di don Bosco, vi troviamo una grande varietà di animali domestici e selvatici, pacifici e feroci, a rappresentare i giovani e le loro virtù e difetti, il demonio e le sue lusinghe, il mondo e le sue passioni.
            Nel sogno dei 9 anni, scomparsi i ragazzi, apparve a Giovannino una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi ed altri animali, trasformati poi tutti in mansueti agnelli. In quello dei 16 anni la maestosa Signora gli affidò un gregge; in quello dei 22 anni egli vide nuovamente i giovani trasformati in agnelli; e in quello, infine, del 1844, gli agnelli si mutarono in pastori!
            Nel 1861 don Bosco fece il sogno della passeggiata in Paradiso. In quella gita i giovani con lui si trovarono di fronte a dei laghi da attraversare. Uno di questi era pieno di bestie feroci pronte a divorare chiunque tentasse il passaggio.
            La vigilia dell’Assunta del 1862 egli sognò di trovarsi ai Becchi con tutti i suoi giovani, quando comparve sul prato un serpentaccio lungo 7-8 metri, che faceva inorridire. Ma una guida gli insegnò a prenderlo al laccio con una corda mutata poi in Rosario.
            Il 6 gennaio 1863 don Bosco raccontò ai ragazzi il famoso sogno dell’elefante comparso nel cortile di Valdocco. Era di grandezza smisurata e si divertiva amabilmente con i ragazzi. Li seguì in chiesa, ma si inginocchiò in senso contrario con il muso rivolto verso l’entrata. Poi uscì di nuovo in cortile ed improvvisamente, cambiato umore, con paurosi barriti si avventò contro i giovani per farne strazio. Allora la statuetta della Madonna collocata ancor oggi sotto il portico, si animò, si Ingrandì, e aperse il suo manto a protezione e salvezza di chi si rifugiava presso di lei.
            Nel 1864 don Bosco fece il sogno dei corvi svolazzanti sopra il cortile di Valdocco per beccare i ragazzi. Nel 1865 fu la volta di una pernice e di una quaglia, simboli rispettivamente di virtù e di vizio. Poi venne il sogno dell’aquila maestosa scesa a ghermire un ragazzo dell’Oratorio; e poi, ancora, quello del gattone dagli occhi di fuoco.
            Nel 1867 parve a don Bosco di veder entrare in camera sua un gran rospo schifoso, il demonio. Nel 1872 raccontò il sogno dell’usignolo. Nel 1876 quello delle galline, quello del toro furibondo, e quello pure del carro tirato da un maiale e da un rospo di enorme grandezza.
            Nel 1878 vide in sogno un gatto rincorso da due cagnacci. E così via.
Lasciando agli esperti discutere di questi sogni, noi sappiamo però che essi ebbero una grande funzione pedagogica nelle case di don Bosco e che soprattutto in alcuni di essi è difficile non vedere un intervento speciale di Dio.

Il cane grigio
            Ma se vogliamo arrivare alla soglia del mistero, dobbiamo ricordare il «Grigio», quel cane misterioso che tante volte comparve a proteggere don Bosco nei momenti di pericolo per la sua vita.
            Nelle sue «Memorie» don Bosco stesso scrive di lui: «Il cane grigio fu tema di molti discorsi e di varie supposizioni. Non pochi di voi l’avranno veduto ed anche accarezzato. Ora lasciando da parte le strane storielle che di questo cane si raccontano, io vi verrò esponendo quanto è pura verità» (MO 251). E passa a raccontare dei rischi incorsi nel tornare a Valdocco a tarda sera negli anni ’50 e come questo grosso cane spesso gli appariva improvvisamente al fianco e lo accompagnava sino a casa.
            Racconta, ad esempio, di quella sera del novembre 1854, quando lungo la via che dalla Consolata porta al Cottolengo (oggi via Consolata e via Ariosto perpendicolari a Corso Regina), si accorse di due malintenzionati che lo seguivano e che gli saltarono addosso per soffocarlo, quando comparve il cane, li assalì rabbiosamente e li costrinse ad una precipitosa fuga. Come ultima occasione, narra del Grigio comparsogli una notte sulla strada da Morialdo a Moncucco, mentre, solo, si avviava alla Cascina Moglia a trovare i suoi vecchi amici.
            Ma le sue «Memorie», scritte negli anni 1873-75 non potevano far cenno di quella che pare davvero l’ultima apparizione del Grigio, avvenuta la notte del 13 febbraio 1883. Mentre don Bosco da Ventimiglia, non avendo trovato alcuna carrozza, si dirigeva a piedi sotto una pioggia battente verso la nuova casa salesiana di Vallecrosia, proprio quando con la sua debole vista non sapeva più dove mettere i piedi, gli si fece incontro il suo vecchio amico, il fedelissimo Grigio, che non rivedeva più da vari anni. Il cane gli si avvicinò festosamente e poi, precedendolo, si mosse tra il fango e le fitte tenebre a fargli da guida. Giunto a Vallecrosia, e salutato don Bosco con la zampa, disparve (MB XVI, 35-36).
            Don Bosco, trovandosi a Marsiglia a pranzo in casa Olive, raccontò il fatto. La signora allora gli chiese come fosse possibile una tale comparsa, perché il cane avrebbe dovuto ormai avere troppi anni di età. E don Bosco, sorridendo, le rispose: «Sarà stato un figlio o un nipote di quello là!» (MB XVI, 36-37). Eluse quindi una domanda imbarazzante, non potendosi trattare di un fenomeno naturale, ma non disse trattarsi di una sua immaginazione. Era troppo sincero per farlo.
            Stando alle testimonianze di Giuseppe Buzzetti, Carlo Tomatis e Giuseppe Brosio, che vissero con don Bosco sin dai primi tempi, il Grigio assomigliava ad un cane da gregge o a un mastino da guardia. Nessuno, neppure don Bosco, seppe mai donde venisse o chi ne fosse il padrone. Carlo Tomatis disse qualcosa di più: «Era un cane di un aspetto veramente formidabile e certe volte Mamma Margherita nel vederlo, esclamava: “Oh, che brutta bestiaccia!”. Aveva un aspetto quasi di lupo, muso allungato, orecchie ritte, pelo grigio, altezza un metro» (MB IV, 712). Non per nulla incuteva spavento in quelli che non lo conoscevano. Eppure il Card. Cagliero testifica: «io vidi la cara bestia una sera d’inverno» (MB IV, 716).
            Cara bestia!!! per gli amici!…
            Una volta, invece di accompagnare don Bosco a casa, gli impedì di uscire. Era sera tarda e Mamma Margherita cercava di dissuadere il figlio dall’andar fuori, ma egli era deciso e pensò di farsi accompagnare da alcuni giovani più grandi. Sul cancello di casa trovarono il cane sdraiato. «Oh, il Grigio — disse don Bosco —, alzati e vieni anche tu!». Ma il cane, invece di obbedire emise un latrato pauroso e non si mosse. Per due volte don Bosco cercò di passar oltre e per due volte il Grigio gli impedì di passare. Allora intervenne Mamma Margherita: «Se ‘t veule nen scoteme me, scota almeno ‘l can, seurt nen!» (Se non vuoi ascoltare me, ascolta almeno il cane, non uscire). E il cane l’ebbe vinta. Si seppe poi che degli assassini prezzolati lo attendevano fuori per togliergli la vita (MB IV, 714).
            Così il Grigio salvò spesso la vita a don Bosco. Ma non accettava mai cibo né ricompensa d’altro genere. Compariva all’Improvviso e spariva nel nulla a missione compiuta.
            Ma allora che razza di cane era mai il Grigio? Un giorno del 1872 don Bosco era ospite dei Baroni Ricci nella loro casa di campagna alla Madonna dell’Olmo presso Cuneo. La Baronessa Azeglia Fassati, sposa del Barone Carlo, portò il discorso sul Grigio e don Bosco: «Lasciamo stare ‘l Gris, è già da qualche tempo che non lo vedo più». Erano due anni perché nel 1870 aveva detto: «Questo cane è veramente cosa notabile nella mia vita! Dire che sia un angelo, farebbe ridere; ma neppure si può dire che sia un cane ordinario, perché l’ho visto ancora l’altro giorno» (MB X, 386). Sarà stata quella l’occasione di Moncucco?
            Ma in altra occasione ebbe ancora a dire: «Di quando in quando mi veniva il pensiero di cercare l’origine di quel cane… io non so altro che quell’animale fu per me una vera provvidenza» (MB IV, 718).
Come il cane di San Rocco! Certi fenomeni passano tra le maglie della ricerca scientifica. Per chi crede nessuna spiegazione è necessaria, per chi non crede nessuna spiegazione è possibile.