Che dono, il tempo!

L’inizio del nuovo anno, nella nostra liturgia, è illuminato dall’antichissima benedizione con cui i sacerdoti israeliti benedicevano il popolo: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia, il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace»

Cari amici e lettori del Bollettino Salesiano, siamo all’inizio di un anno nuovo, esprimiamoci quindi a vicenda i migliori auguri per il tempo che verrà, per il tempo che viene, dono che contiene ogni altro dono in cui si sviluppa la nostra vita.
Riempiamo dunque questo augurio di contenuti che lo illuminino. Diamo la parola a Don Bosco che quando arrivò nel seminario di Chieri, si soffermò sulla meridiana che, ancora oggi, campeggia sul muro del cortile, e raccontava: «Alzando lo sguardo sopra una meridiana, lessi questo verso: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae». Ecco, dissi all’amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo (Memorie Biografiche I,374).
Il primo augurio che ci scambiamo, per viverlo, è quello che don Bosco ci ricorda: vivi bene, vivi sereno e trasmetti serenità a chi ti circonda, il tempo avrà un altro valore! Ogni momento del tempo è un tesoro; ma è un tesoro che passa in fretta. Sempre don Bosco amava commentare: «I tre nemici dell’uomo sono; la morte (che sorprende); il tempo (che gli sfugge), il demonio (che gli tende i suoi lacci)» (MB V,926).
«Ricordati che essere felice non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni» raccomanda un antico augurio. «Essere felici non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi. È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita».
Un saggio teneva nel suo studio un enorme orologio a pendolo che ad ogni ora suonava con solenne lentezza, ma anche con gran rimbombo.
«Ma non la disturba?» chiese uno studente.
«No» rispose il saggio. «Perché così ad ogni ora sono costretto a chiedermi: che cosa ho fatto dell’ora appena trascorsa?».
Il tempo è l’unica risorsa non rinnovabile. Si consuma ad una velocità incredibile. Sappiamo che non avremo un’altra possibilità. Perciò tutto il bene che possiamo fare, l’amore, la bontà e la gentilezza di cui siamo capaci li dobbiamo donare adesso. Perché non torneremo su questa terra un’altra volta. Con un perenne velo di rimorso nel nostro intimo, sentiamo che Qualcuno ci chiederà: «Che ne hai fatto di tutto quel tempo che ti ho regalato?»

La nostra speranza si chiama Gesù
Nel tempo nuovo che abbiamo appena cominciato, le date e i numeri di un calendario sono segni convenzionali, sono segni e numeri inventati per misurare il tempo. Nel passaggio dall’anno vecchio al nuovo anno è cambiato molto poco, eppure la percezione di un anno che finisce ci costringe a fare sempre un bilancio. Quanto abbiamo amato? Quanto abbiamo perduto? Quanto siamo diventati migliori, o quanto siamo diventati peggiori? Il tempo che passa non ci lascia mai uguali.
La liturgia, nel sorgere dell’anno nuovo, ha un modo tutto suo di farci fare un bilancio. Essa lo fa attraverso le parole iniziali del vangelo di Giovanni; parole che possono sembrare difficili ma che in realtà riflettono la profondità della vita: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Al fondo di ogni nostra vita risuona una Parola più grande di noi. Essa è il motivo per cui esistiamo, per cui il mondo esiste, per cui ogni cosa esiste. Questa Parola, questo Verbo, è Dio stesso, è il Figlio, è Gesù. Il nome del motivo per cui siamo stati fatti si chiama Gesù.
È Lui il vero motivo per cui ogni cosa esiste, ed è in Lui che possiamo capire ciò che esiste. La nostra vita non va giudicata confrontandola con la storia, con i suoi eventi e la sua mentalità. La nostra vita non può essere giudicata guardando a noi stessi e alla nostra sola esperienza. La nostra vita è comprensibile solo se la si accosta a Gesù. In Lui tutto assume un senso e un significato, anche di quello che di contradditorio e ingiusto ci è capitato. È guardando a Gesù che capiamo qualcosa di noi stessi. Lo dice bene un salmo quando afferma: “Alla tua luce vediamo la luce”.
Questo è il modo di vedere il Tempo secondo il Cuore di Dio, e noi ci auguriamo di vivere questo tempo nuovo così.
Il nuovo anno porterà a tutti noi, alla famiglia salesiana, alla Congregazione importanti eventi e novità. Tutte dentro il dono del Giubileo che nella Chiesa stiamo vivendo.
Dentro lo spirito del Giubileo lasciamo trasportare dalla Speranza che è la presenza di Dio nella nostra vita.
Il primo mese di questo nuovo anno, gennaio, è trapuntato di feste Salesiane che di portano alla Festa di Don Bosco, ringraziamo Dio di questa delicatezza con cui ci dona di iniziare l’anno nuovo.
Lasciamo quindi l’ultima parola a don Bosco e fissiamo questa sua massima, perché forgi il nostro 2025: Figlioli miei, conservate il tempo e il tempo conserverà voi in eterno (MB XVIII 482,864).




Profili di famiglie ferite nella storia della santità salesiana

1. Storie di famiglie ferite
            Siamo abituati ad immaginare la famiglia come una realtà armoniosa, contraddistinta dalla compresenza di più generazioni e dal ruolo-guida di genitori che danno la norma e di figli i quali – nell’apprenderla – vengono da loro guidati nell’esperienza della realtà. Tuttavia spesso le famiglie si trovano attraversate da drammi e incomprensioni, o segnate da ferite che ne aggrediscono la configurazione ottimale e ne restituiscono un’immagine distorta, falsata e falsante.
            Anche la storia della santità salesiana è attraversata da storie di famiglie ferite: famiglie dove vien meno almeno una delle figure genitoriali, oppure la presenza della mamma e del papà diventa, per ragioni diverse (fisiche, psichiche, morali e spirituali), penalizzante per i loro figli, oggi incamminati verso gli onori degli altari. Lo stesso Don Bosco, che aveva sperimentato la morte prematura del padre e l’allontanamento dalla famiglia per la prudente volontà di Mamma Margherita, vuole – non è un caso – l’opera salesiana particolarmente dedicata alla «gioventù povera e abbandonata» e non esita a raggiungere i giovani che si sono formati nel suo oratorio con una intensa pastorale vocazionale (dimostrando che nessuna ferita del passato è ostacolo a una vita umana e cristiana piena). È pertanto naturale che la stessa santità salesiana, che attinge alle esistenze di molti giovani di Don Bosco poi consacrati per suo tramite alla causa del Vangelo, porti in sé – quale logica conseguenza – traccia di famiglie ferite.
Di questi ragazzi e ragazze cresciuti a contatto con le opere salesiane se ne vogliono presentare tre, di cui “innestare” la vicenda nel solco biografico di Don Bosco. I protagonisti sono:
            – la beata Laura Vicuña, nata nel Cile del 1891, orfana di padre e la cui mamma inizia in Argentina una convivenza con il ricco possidente Manuel Mora; Laura dunque, ferita dalla situazione di irregolarità morale della mamma, è pronta ad offrire la vita per lei;
            – il servo di Dio Carlo Braga, valtellinese classe 1889, abbandonato piccolissimo dal padre e la cui mamma viene allontanata perché ritenuta, per un misto di ignoranza e maldicenza, psichicamente labile; Carlo dunque che incontra grandi umiliazioni e vedrà messa più volte in difficoltà la propria vocazione salesiana da quanti temono in lui un compromettente ripresentarsi del disagio psichico falsamente attribuito alla mamma;
            – infine la serva di Dio Anna Maria Lozano, che nasce nel 1883 in Colombia, segue con la propria famiglia il papà nel lazzaretto, ove è costretto a trasferirsi in seguito alla comparsa della terribile lebbra, sarà ostacolata nella propria vocazione religiosa, ma potrà infine realizzarla grazie all’incontro provvidenziale con il salesiano Luigi Variara, beato.

2. Don Bosco e la ricerca del padre
            Come Laura, Carlo e Anna Maria – segnati dall’assenza o dalle “ferite” di una o più figure genitoriali – prima di loro, e in certo senso “per loro”, anche Don Bosco sperimenta il venir meno di un nucleo familiare forte.
            Le Memorie dell’Oratorio devono ben presto soffermarsi sulla precoce perdita del padre: Francesco muore a 34 anni e Don Bosco – non senza ricorrere a un’espressione per certi aspetti sconcertante – riconosce che «Dio misericordioso li colpì tutti con grave sciagura». Così, tra i primissimi ricordi del futuro santo dei giovani si fa strada un’esperienza lacerante: quella della salma del padre, da cui la mamma tenta di allontanarlo incontrando però la sua resistenza: «Io ci voleva assolutamente rimanere», spiega Don Bosco, che allora aveva aggiunto: «Se non viene papà non ci voglio andare [via]». Margherita gli risponde allora: «Povero figlio, vieni meco, tu non hai più padre». Ella piange e Giovannino, che manca d’una comprensione razionale della situazione, ma ne intuisce tutto il dramma con un’intuizione affettiva ed immedesimante, fa propria la tristezza della mamma: «Io piangeva perché ella piangeva, giacché in quell’età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre».

            Di fronte al papà morto, Giovannino dimostra di considerarlo ancora il centro della propria vita. Dice infatti: «non ci voglio andare [con te, mamma]» e non, come ci aspetterebbe: «non ci voglio venire». Il suo punto di riferimento è il padre – punto di partenza ed auspicabile punto di ritorno –, rispetto al quale ogni allontanamento appare destabilizzante. Nella drammaticità di quei momenti, inoltre, Giovannino non ha ancora capito che cosa significhi la morte del genitore. Spera infatti («se papà non viene…») che il padre possa ancora restargli vicino: eppure ne intuisce già l’immobilismo, il mutismo, l’incapacità di proteggerlo e di difenderlo, l’impossibilità d’essere da lui preso per mano per diventare a propria volta un uomo. Le vicende immediatamente successive, poi, confermano Giovanni nella certezza che il padre amorevolmente protegga, indirizzi e guidi e che, quando gli manca, anche la migliore delle madri, come Margherita è, possa provvedere solo in parte. Sulla sua strada di ragazzo esuberante, il futuro Don Bosco incontra però altri “padri”: i quasi-coetanei Luigi Comollo, che risveglia in lui l’emulazione delle virtù, e san Giuseppe Cafasso, che lo chiama «mio caro amico», gli fa «grazioso cenno di avvicinarsi» e, così facendo, lo conferma nella persuasione che paternità sia vicinanza, confidenza e interessamento concreto. Ma c’è soprattutto don Calosso, il sacerdote che “intercetta” il ricciuto Giovannino in occasione d’una “missione popolare” e diventa determinante per la sua crescita umana e spirituale. I gesti di don Calosso operano nel preadolescente Giovanni una vera e propria rivoluzione. Don Calosso innanzitutto gli parla. Quindi gli dà parola. Poi lo incoraggia. Ancora: si interessa alla storia della famiglia Bosco, dimostrando di saper contestualizzare l’“ora” di quel ragazzo nel “tutto” della sua vicenda. Inoltre gli svela il mondo, anzi in qualche modo lo rimette al mondo, facendogli conoscere cose nuove, regalandogli nuove parole e dimostrandogli che ha le capacità per fare molto e bene. Infine lo custodisce con il gesto e con lo sguardo, e provvede a lui nei suoi bisogni più urgenti e reali: «Mentre io parlavo, non mi tolse mai di dosso lo sguardo.
“Sta di buon animo amico, io penserò a te e al tuo studio”».

            In don Calosso, Giovanni Bosco fa dunque esperienza che la vera paternità merita un affidamento totale e totalizzante; conduce alla consapevolezza di sé; dischiude un “mondo ordinato” dove la regola dà sicurezza ed educa alla libertà:

            «Io mi sono tosto messo nelle mani di don Calosso. Conobbi allora che cosa voglia dire avere una guida stabile […], un fedele amico dell’anima… Egli mi incoraggiò; tutto il tempo che io poteva lo passava presso di lui…. Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia la vita spirituale, giacché prima agiva piuttosto materialmente e come macchina che fa una cosa, senza saperne la ragione».

            Il padre terreno però è pure colui che vorrebbe sempre essere presso il figlio, ma ad un certo punto non riesce più a farlo. Anche don Calosso muore; anche il padre migliore a un certo punto si fa da parte, per donare al figlio la forza del distacco e dell’autonomia tipiche dell’età adulta.
            Qual è allora, per Don Bosco, la differenza tra famiglie riuscite o fallite? Si sarebbe tentati di dire che sta tutta qui: “riuscita” è la famiglia contraddistinta da genitori che educano i figli alla libertà e, se li lasciano, è solo per una sopraggiunta impossibilità o per il loro bene. “Ferita” invece è la famiglia dove il genitore non genera più alla vita, ma porta in sé problemi di varia natura che ostacolano la crescita del figlio: un genitore che si disinteressa a lui e, davanti alle difficoltà, persino lo abbandona, con un atteggiamento così diverso da quello del Buon Pastore.
            Le vicende biografiche di Laura, Carlo e Anna Maria lo confermano.

3. Laura: una figlia che “genera” la propria madre
            Nata a Santiago del Cile il 5 aprile 1891, e battezzata il 24 maggio successivo, Laura è la figlia maggiore di José D. Vicuña, un nobile decaduto che aveva sposato Mercedes Pino, figlia di modesti agricoltori. Tre anni dopo arriva una sorellina, Julia Amanda, ma ben presto il papà muore, dopo avere subíto una sconfitta politica che ne ha minato la salute e compromesso, con il sostentamento economico della famiglia, anche l’onore. Priva di qualsiasi «protezione e prospettiva di futuro», la mamma approda in Argentina, dove ricorre alla tutela del proprietario terriero Manuel Mora: un uomo «di carattere superbo e altero», che «non dissimula odio e disprezzo per chiunque avversasse i suoi disegni». Un uomo insomma che solo in apparenza garantisce protezione, ma è in realtà abituato a prendere, se necessario con la forza, quello che vuole, strumentalizzando le persone. Intanto paga gli studi presso il collegio delle Figlie di Maria Ausiliatrice a Laura e alla sorella e la loro madre – che subisce l’influsso psicologico di Mora – convive con lui senza trovare la forza di rompere il legame. Quando però Mora inizia a mostrare segni di disonesto interesse verso la stessa Laura, e soprattutto quando quest’ultima intraprende il percorso di preparazione alla Prima Comunione, lei d’un tratto comprende tutta la gravità della situazione. A differenza della mamma – che giustifica un male (la convivenza) in vista di un bene (l’educazione delle figlie in collegio) – Laura capisce che si tratta di una argomentazione moralmente illegittima, che mette in grave pericolo l’anima della madre. In questo periodo, poi, Laura vorrebbe diventare ella stessa suora di Maria Ausiliatrice: ma la sua domanda è respinta, perché figlia di una «pubblica concubina». Ed è a questo punto che proprio in Laura – accolta in collegio quando in lei dominavano ancora «impulsività, facilità di risentimento, irritabilità, impazienza e propensione ad apparire» – si manifesta un cambiamento che solo la Grazia, unita all’impegno della persona, può operare: chiede a Dio la conversione della madre, offrendo se stessa per lei. In quel momento, Laura non può muoversi né “in avanti” (entrando tra le Figlie di Maria Ausiliatrice) né “indietro” (tornando dalla madre e dal Mora). Con un gesto allora carico della creatività tipica dei santi, Laura intraprende l’unica strada che le è ancora accessibile: quella dell’altezza e della profondità. Nei propositi della Prima Comunione aveva annotato:

            Propongo di fare quanto so e posso per […] riparare le offese che voi, Signore, ricevete ogni giorno dagli uomini, specie dalle persone della mia famiglia; mio Dio, datemi una vita di amore, di mortificazione e di sacrificio.

            Ora finalizza il proposito in “Atto di offerta”, che include il sacrificio della vita stessa. Il confessore, riconoscendo che l’ispirazione è da Dio ma ignorandone le conseguenze, acconsente, e conferma che Laura è «consapevole dell’offerta che ha appena compiuto». Lei vive gli ultimi due anni con silenzio, allegria e sorriso e una indole ricca di calore umano. Eppure lo sguardo che posa sul mondo – come conferma un ritratto fotografico, molto diverso dalla stilizzazione agiografica nota – dice anche tutta la sofferta consapevolezza e il dolore che la abitano. In una situazione dove le manca sia la “libertà da” (condizionamenti, ostacoli, fatiche), sia la “libertà di” fare tante cose, questa preadolescente testimonia la “libertà per”: quella del dono totale di sé.
            Laura non disprezza, ma ama la vita: la propria e quella della mamma. Per questo si offre. Il 13 aprile 1902, Domenica del Buon Pastore, si chiede: «Se Lui dà la vita… cosa lo impedisce a me per la mamma?». Morente, aggiunge: «Mamma, io muoio, io stessa l’ho chiesto a Gesù… sono quasi due anni che gli offersi la vita per te…, per ottenere la grazia del tuo ritorno!».

            Sono parole prive di rimpianto e di rimprovero, ma cariche di una grande forza, una grande speranza e una grande fede. Laura ha imparato ad accogliere la mamma per quello che è. Offre anzi sé stessa per donarle ciò che lei sola non riesce a conseguire. Quando Laura muore, la mamma si converte. Laurita de los Andes, la figlia, ha così contribuito a generare la madre nella vita di fede e di grazia.

4. Carlo Braga e l’ombra della madre
            Anche Carlo Braga, che nasce due anni prima di Laura, nel 1889, è segnato dalla fragilità della mamma: quando infatti il marito abbandona lei e i figli, Matilde «non mangiava quasi più e declinava a vista d’occhio». Condotta quindi a Como, vi muore quattro anni più tardi di tubercolosi, anche se tutti sono convinti che la depressione si fosse trasformata per lei in una vera e propria pazzia. Carlo inizia allora ad essere «compatito come il figlio di un incosciente [il padre] e d’una madre infelice». Lo soccorrono però tre provvidenziali avvenimenti.
            Del primo, occorso quando era piccolissimo, egli riscopre più tardi il senso: era caduto nel focolare e la mamma Matilde, nel trarlo in salvo, l’aveva in quell’istante consacrato alla Madonna. Così, il pensiero della mamma assente diventa per Carlo bambino «un ricordo doloroso e consolante insieme»: dolore per la sua assenza; ma anche certezza che ella lo abbia affidato alla Madre di tutte le madri, Maria Santissima. Scrive don Braga, anni dopo, a un confratello salesiano colpito dalla perdita della propria mamma:

            Ora la mamma ti appartiene assai più di quando era viva. Lascia che io ti parli della mia personale esperienza. Mia madre mi lasciò quando avevo sei anni […]. Ma ti devo confessare che essa mi seguì passo passo e, quando piangevo desolato al mormorio dell’Adda, mentre, pastorello, mi sentivo chiamato ad una vocazione più alta, mi sembrava che la Mamma mi sorridesse e mi asciugasse le lacrime.

            Carlo incontra poi suor Giuditta Torelli, una Figlia di Maria Ausiliatrice che «salvò il piccolo Carlo dalla disgregazione della sua personalità quando a nove anni si accorse di essere tollerato e sentì talvolta la gente dire a suo riguardo: “Povero figliolo, perché poi è al mondo?”». C’è infatti chi sosteneva che suo padre avrebbe meritato d’esser fucilato per il tradimento dell’abbandono e, quanto alla mamma, molti compagni di scuola gli replicano: «Tu sta’ zitto, tanto tua madre era una matta». Ma suor Giuditta lo ama o lo aiuta in modo speciale; posa su di lui uno sguardo “nuovo”; inoltre crede nella sua vocazione e la incoraggia.
            Entrato quindi nel collegio salesiano di Sondrio, Carlo vive la terza e decisiva esperienza: conosce don Rua, di cui ha l’onore di essere il piccolo segretario per un giorno. Don Rua sorride a Carlo e, ripetendo il gesto che Don Bosco aveva compiuto un tempo con lui («Michelino, io e te faremo sempre tutto a metà»), «mette la sua mano dentro la propria e gli dice: “noi saremo sempre amici”»: se suor Giuditta aveva creduto nella vocazione di Carlo, don Rua gli permette ora di realizzarla, «facendolo passare sopra a tutti gli ostacoli». Certo a Carlo Braga le difficoltà non mancheranno ad ogni tappa di vita – da novizio, chierico, addirittura ispettore –, concretizzandosi in rinvii prudenziali e assumendo talvolta la forma della maldicenza: ma egli avrà ormai imparato ad affrontarle. Diventa intanto un uomo capace di irradiare una straordinaria gioia, umile, attivo e di delicata ironia: tutte caratteristiche che dicono l’equilibrio della persona e il suo senso di realtà. Sotto l’azione dello Spirito Santo, don Braga sviluppa egli stesso un’irradiante paternità, cui si unisce una grande tenerezza per i giovani a lui affidati. Don Braga riscopre l’amore per il proprio papà, lo perdona e intraprende un viaggio per riconciliarsi con lui. Si sottopone a fatiche senza numero pur di essere sempre tra i suoi Salesiani e ragazzi. Si definisce come colui che è «stato messo nella vigna a far da palo», cioè in ombra ma per il bene degli altri. Un padre, nell’affidargli il proprio figlio come aspirante salesiano, dice: «Con un uomo simile ti lascio andare anche al Polo Nord!». Don Carlo non si scandalizza dei bisogni dei figli, anzi li educa a manifestarli, ad accrescere il desiderio: «Hai bisogno di qualche libro? Non avere paura, scrivi una lista più lunga». Soprattutto, don Carlo ha imparato a posare sugli altri quello sguardo d’amore dal quale lui stesso si era sentito raggiunto un tempo grazie a suor Giuditta e don Rua. Testimonia don Giuseppe Zen, oggi cardinale, in un passo lungo che merita però di essere letto integralmente e che inizia con le parole della propria mamma a don Braga:

            «Guardi, Padre, questo ragazzo non è più tanto bravo. Forse non è adatto per essere accettato in questo istituto. Io non vorrei che lei fosse ingannato. Ah, sapesse come mi ha fatto disperare in questo ultimo anno! Non sapevo proprio più come fare. E se farà disperare anche qui, me lo dica pure, che lo vengo a riprendere subito». Don Braga, invece di rispondere, mi guardava negli occhi; io pure lo guardavo, ma a testa bassa. Mi sentivo come un imputato accusato dal Pubblico Ministero, anziché difeso dal proprio avvocato. Ma il giudice era dalla mia parte. Con lo sguardo mi ha profondamente capito, subito e meglio di tutte le spiegazioni di mia madre. Egli stesso, scrivendomi molti anni più tardi, si applicava le parole del Vangelo: «Intuitus dilexit eum (“guardatolo lo amò”)». E da quel giorno non ebbi più dubbi sulla mia vocazione.

5. Anna Maria Lozano Díaz e la feconda malattia del padre
            I genitori di Laura e di Carlo si erano – a vario titolo – rivelati dei “lontani” e degli “assenti”. Un’ultima figura, quella di Anna Maria, attesta invece il dinamismo opposto: quello d’un padre troppo presente, che con la sua presenza dischiude però alla figlia un nuovo cammino di santificazione. Anna nasce il 24 settembre 1883 a Oicatà, in Colombia, in una famiglia numerosa, contraddistinta dall’esemplare vita cristiana dei genitori. Quando Anna è giovanissima il papà – un giorno, nel lavarsi – scopre una macchia sospetta sulla gamba. È la terribile lebbra, che egli riesce per qualche tempo a nascondere, ma è costretto infine a riconoscere, accettando dapprima di separarsi dalla famiglia, quindi di ricongiungersi con essa presso il lazzaretto di Agua de Dios. La moglie gli aveva detto eroicamente: «La tua sorte è la nostra». Così, i sani accettano i condizionamenti che vengono loro dall’assumere il ritmo dei malati. In questo frangente, la malattia del padre condiziona la libertà di scelta di Anna Maria, costretta a progettare la propria vita nel lazzaretto. Lei inoltre – come era già successo a Laura – si trova impossibilitata nel realizzare la propria vocazione religiosa a causa della malattia paterna: sperimenta allora, interiormente, quella lacerazione che la lebbra opera sui malati. Anna Maria però non è sola. Come Don Bosco grazie al Calosso, Laura nel confessore e Carlo in don Rua, trova un amico dell’anima. È il beato don Luigi Variara, salesiano, che la assicura: «Se avete vocazione religiosa, si realizzerà», e la coinvolge nella fondazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, nel 1905. È il primo Istituto ad accogliere al proprio interno lebbrose o figlie di lebbrosi. Quando la Lozano muore, il 5 marzo 1982 a quasi 99 anni, Madre generale per più di mezzo secolo, l’intuizione del salesiano don Variara si è ormai concretizzata in un’esperienza che ha confermato e rafforzato la dimensione vittimale-riparatrice del carisma salesiano.

6. I santi insegnano
            Nella loro ineliminabile differenza, le vicende di Laura Vicuña (beata), Carlo Braga e Anna Maria Lozano (servi di Dio) sono accomunate da alcuni aspetti degni di nota:

            a) Laura, Anna e Carlo, come già Don Bosco, soffrono situazioni di di-sagio e di difficoltà, a vario titolo ricollegate ai loro genitori. Non ci si può dimenticare di Mamma Margherita, che si vede costretta ad allontanare Giovannino da casa quando l’assenza dell’autorità paterna facilita la contrapposizione con il fratello Antonio; né scordare che Laura si vide insidiata dal Mora e respinta dalle Figlie di Maria Ausiliatrice come loro aspirante; che Carlo Braga subì incomprensioni e calunnie; o che la lebbra del padre sembra ad un certo punto sottrarre ad Anna Maria ogni speranza di futuro.
Una famiglia a vario titolo ferita arreca perciò un danno oggettivo a chi ne fa parte: misconoscere o tentare di ridurre la portata di questo danno sarebbe una impresa altrettanto illusoria quanto ingiusta. Ad ogni sofferenza si associa infatti un elemento di perdita che i “santi”, con il loro realismo, intercettano e imparano a chiamare per nome.

            b) Giovannino, Laura, Anna Maria e Carlo compiono a questo punto un secondo passaggio, più arduo del primo: invece di subire passivamente la situazione, o di gemere su di essa, muovono con accresciuta consapevolezza incontro al problema. Oltre a un vivo realismo, attestano la capacità, tipica dei santi, di reagire con prontezza, evitando il ripiegarsi autoreferenziale. Si dilatano nel dono, e innestano questo dono nelle condizioni concrete di vita. Così facendo, saldano il «da mihi animas» al «caetera tolle».

            c) I limiti e le ferite, così, non sono mai rimossi: ma sempre riconosciuti e chiamati per nome; addirittura, sono “abitati”. Anche la beata Alexandrina Maria da Costa e il servo di Dio Nino Baglieri, il venerabile Andrea Beltrami e il beato Augusto Czartoryski, “raggiunti” dal Signore nelle condizioni invalidanti della loro malattia, il beato Tito Zeman, il venerabile José Vandor e il servo di Dio Ignazio Stuchlý – parte di vicende storiche più grandi di loro e che paiono sopraffarli – insegnano la difficile arte di sostare nelle difficoltà e permettere al Signore di fare fiorire la persona in esse. La libertà di scelta assume qui la forma altissima di una libertà di adesione, nel «fiat!».

Nota Bibliografica:
            Per preservare il carattere di “testimonianza” e non di “relazione” di questo scritto, si è evitato un apparato critico di note. Si segnala però che le citazioni presenti nel testo sono tratte dalle Memorie dell’Oratorio del Sac. Giovanni Bosco; da Maria Dosio, Laura Vicuña. Un cammino di santità giovanile salesiana, LAS, Roma 2004; da Don Carlo Braga racconta la sua esperienza missionaria e pedagogica (testimonianza autobiografica del servo di Dio) e dalla Vita di Don Carlo Braga, “Il Don Bosco della Cina”, scritta dal salesiano don Mario Rassiga e oggi disponibile in ciclostilato. A queste fonti si aggiungono poi i materiali dei Processi di beatificazione e canonizzazione, accessibili per Don Bosco e Laura, ancora riservati per i servi di Dio.




Andrea Beltrami profilo virtuoso (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

3. Storia di un’anima

3.1. Amare e patire
            Don Barberis tratteggia molto bene la parabola esistenziale del Beltrami leggendovi l’azione misteriosa e trasformante della grazia operante «attraverso le principali condizioni della vita salesiana, affinché ci fosse modello generale di alunno, di chierico, di maestro, di studente universitario, di sacerdote, di scrittore, di ammalato; modello in ogni virtù, così nella pazienza come nella carità, così nell’amore alla penitenza come, nello zelo». Ed è interessante che lo stesso don Barberis, introducendo la seconda parte della sua biografia che tratta delle virtù di don Beltrami, afferma: «La vita del nostro don Beltrami piuttosto che storia d’una persona potrebbe dirsi la storia di un’anima. Essa è tutta intrinseca; ed io mi fo tutto lo studio di far penetrare il caro lettore entro a quell’anima, perché ne ammiri i celesti carismi». Il richiamo alla “Storia di un’anima” non è casuale, non solo perché don Beltrami è contemporaneo alla Santa di Lisieux, ma possiamo affermare che sono davvero fratelli nello spirito che li animò. Lo zelo apostolico per la salvezza è maggiormente autentico e fecondo in coloro che la salvezza l’hanno sperimentata e, ritrovatisi salvati per grazia, vivono la propria vita come un puro dono d’amore per i fratelli, perché anch’essi siano raggiunti dall’amore redentivo di Gesù. «Tutta la vita, in vero, del nostro don Andrea potrebbe compendiarsi in due parole, che formano la sua tessera o divisa: Amare e patire – Amore e Dolore. Amore il più tenero, il più ardente, e, direi anche, il più zelante possibile verso quel bene, in cui si concentra ogni bene. Dolore il più vivo, il più acuto, il più penetrante dei suoi peccati, e alla contemplazione di quel sommo bene che per noi si abbassò sino alla follia, ai dolori ed alla morte della Croce. Di qui nasceva in una smania febbrile di patimenti: de’ quali, quanto più abbondava, tanto più provava desiderio: di qui ancora proveniva quel gusto, quella ineffabile voluttà nel patire, che è il segreto dei santi, ed una delle più sublimi meraviglie della Chiesa di Gesù Cristo».
            «E siccome nel Sacro Cuore di Gesù, divampante fiamme e coronato di spine, ambidue quegli affetti di amore e di dolore trovan pascolo sì copioso, e sì mirabilmente ad essi proporzionato, così, dal primo istante in cui egli conobbe questa divozione, sino all’ultimo della sua vita, il suo cuore fu come un vaso d’eletti aromi che innanzi a quel cuore divino sempre ardeva, e tramandava profumo d’incenso e di mirra, d’amore e di dolore». «Ottenere dal Cuore di Gesù la sospirata grazia di vivere lunghi anni per soffrire ed espiare le mie colpe. Morire no, ma vivere per patire, salvo però sempre il volere di Dio. Così potrò saziare questa sete. È così bello, così soave il patire quando Dio aiuta e dà la pazienza!». Sono testi di sintesi della spiritualità vittimale di don Beltrami che nella prospettiva della devozione al Sacro Cuore, tanto cara alla spiritualità dell’Ottocento e allo stesso Don Bosco, fa superare ogni lettura doloristica o peggio ancora di un certo masochismo spiritualistico. Fu infatti anche grazie a don Beltrami che don Rua consacrerà ufficialmente la Congregazione salesiana al Sacro Cuore di Gesù nell’ultima notte del secolo XIX.

3.2. Nella scia della Santa di Lisieux
            Alla brevità della vita cronologica supplisce la sorprendente ricchezza di testimonianza di vita virtuosa, che in breve tempo espresse un intenso fervore spirituale e una singolare tensione alla perfezione evangelica. Non è secondario che il venerabile Beltrami chiuda la sua esistenza tre mesi esatti dopo la morte di santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto santo, proclamata da Giovanni Paolo II Dottore della Chiesa per l’eminente Scienza dell’Amore divino che la contraddistinse. Attraverso la “Storia di un’anima” emerge la biografia interiore di una vita che, plasmata dallo Spirito nel giardino del Carmelo, fiorisce con frutti di santità e di fecondità apostolica per la Chiesa universale, tanto da essere proclamata da Pio XI nel 1927 Patrona delle missioni. Anche don Beltrami morì come santa Teresina di tubercolosi, ma entrambi negli sbocchi di sangue che li portavano rapidamente alla fine non videro tanto il deperimento di un corpo e il venir meno delle forze, ma colsero una vocazione particolare a vivere in comunione con Gesù Cristo, che li assimilava al suo sacrificio d’amore per il bene dei fratelli. Il 9 giugno del 1895, nella festa della Santissima Trinità, santa Teresa di Gesù Bambino si offre vittima di olocausto all’Amore misericordioso di Dio. Il 3 aprile dell’anno successivo, nella notte fra il giovedì ed il venerdì santo, ha una prima manifestazione della malattia che la condurrà alla morte. Teresa la accoglie come misteriosa visita dello Sposo divino. Nello stesso tempo entra nella prova della fede, che durerà fino alla sua morte. Peggiorando la sua salute, a partire dall’8 luglio 1897 viene trasferita in infermeria. Le sue sorelle ed altre religiose raccolgono le sue parole, mentre i dolori e le prove, sopportati con pazienza, si intensificano fino a culminare con la morte, nel pomeriggio del 30 settembre del 1897. «Io non muoio, entro nella vita», aveva scritto a un suo fratello spirituale, don Bellière. Le sue ultime parole «Dio mio, io ti amo» sono il sigillo della sua esistenza.
            Anche don Beltrami fino al termine della vita sarà fedele alla sua offerta vittimale, come scrisse pochi giorni prima della morte al suo maestro di noviziato: «Io prego sempre e m’offro vittima per la Congregazione, per tutti i Superiori e confratelli e soprattutto per coteste case di noviziato, che contengono le speranze della nostra pia Società».

4. Spiritualità vittimale
            Anche don Beltrami si collega a questa spiritualità vittimale, grado sublime di carità: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Ciò non significa soltanto il gesto estremo, supremo del dono fisico della vita per un altro, ma tutta la vita dell’individuo orientata al bene dell’altro. Si sentì chiamato a questa vocazione: «Sono tanti, soggiungeva, anche tra noi Salesiani, che lavorano molto e fanno del gran bene; ma non sono poi tanti che amino davvero il soffrire, e vogliano soffrir molto per il Signore: io desidero essere di questi». Proprio perché non è qualcosa di ambito dai più, di conseguenza non è nemmeno compreso. Ma questo non è una novità. Anche Gesù quando parlava ai discepoli della sua Pasqua, della sua salita a Gerusalemme incontrava incomprensione e Pietro stesso lo volle distogliere da questo proposito. Nell’ora suprema i suoi “amici” lo tradirono, rinnegarono e abbandonarono. Eppure l’opera della redenzione si è compiuta e si compie solo attraverso il mistero della croce e l’offerta che Gesù fa di sé al Padre come vittima di espiazione, unendo al suo sacrificio tutti coloro che accettano di partecipare alle sue sofferenze per la salvezza dei fratelli. La verità di tale offerta del Beltrami sta nella fecondità offerta dalla sua vita santa. Infatti egli dava efficacia alle sue parole sostenendo in particolare i confratelli nella loro vocazione, stimolandoli ad accettare con spirito di sacrificio le prove della vita in fedeltà alla vocazione salesiana. Don Bosco nelle primitive Costituzioni presentava il Salesiano come colui che «è pronto a sopportare il caldo e il freddo, la sete e la fame, le fatiche e il disprezzo, ogni volta che si tratti della gloria di Dio e della salvezza delle anime».
            La stessa malattia portò don Beltrami sia a una progressiva consumazione sia a un forzato isolamento, che gli lasciavano intatte le facoltà percettive e intellettive, anzi quasi affinandole con la lama del dolore. Solo la grazia della fede gli consentiva di accogliere quella condizione che di giorno in giorno lo assimilava sempre più al Cristo crocifisso e che una statua dell’Ecce homo, di un realismo sconvolgente e da far ribrezzo, voluta da lui nella sua camera, costantemente gli ricordava. La fede era regola della sua vita, la chiave di lettura delle persone e delle diverse situazioni; «gli stessi suoi patimenti egli al lume della fede considerava come grazie di Dio, ed insieme coll’anniversario della professione religiosa e dell’ordinazione sacerdotale, celebrava quello dell’inizio della sua grave malattia, la quale Egli credeva avesse cominciato il 20 febbraio 1891. In questa circostanza recitava di cuore il Te Deum per avergli concesso il Signore di patire per Lui». Meditava e coltivava un vivo culto per la Passione di Cristo e per Gesù Crocifisso: «Grande devozione, che può dirsi informò tutta la vita del servo di Dio… Era questo il soggetto quasi continuo delle sue meditazioni. Aveva sempre un Crocifisso avanti agli occhi e per lo più tra le mani… che baciava di tanto in tanto con trasporto».
            Dopo la morte gli si trovò appeso al collo, col crocifisso e con la medaglia di Maria Ausiliatrice, un borsellino contente alcune carte: preghiere in ricordo della sua ordinazione; una carta geografica in cui erano disegnati i cinque continenti per ricordare sempre al Signore i missionari sparsi nel mondo e alcune preghiere con cui si costituisce formalmente vittima al Sacro Cuore di Gesù, specialmente per gli agonizzanti, per le anime del Purgatorio, per la prosperità della Congregazione e della Chiesa. Tali preghiere, nelle quali il pensiero dominante riprendeva l’assillo di Paolo “Opto ego ipse anathema esse a Christo pro fratribus meis”, vennero sottoscritte da lui col suo sangue e approvate dal suo direttore don Luigi Piscetta in data 15 novembre 1895.

5. Don Beltrami è attuale?
            La domanda, non oziosa, se la posero già i giovani confratelli dello Studentato Teologico Internazionale di Torino-Crocetta quando nel 1948, in occasione del 50° della morte del venerabile don Beltrami, indissero una giornata commemorativa. Fin dalle prime battute dell’opuscolo che raccolse gli interventi tenuti in quell’occasione ci si chiede cosa abbia a che fare la testimonianza del Beltrami in rapporto alla vita salesiana, vita apostolica e di azione. Ebbene, dopo aver ricordato come egli fu esemplare negli anni in cui poté gettarsi nel lavoro apostolico, «fu altresì salesiano nell’accettare il dolore, quando esso parve stroncare una carriera e un avvenire così brillantemente e fruttuosamente intrapreso. Perché fu lì appunto che don Andrea rivelò una profondità di sentire salesiano e una ricchezza di dedizione che prima, nel lavoro poteva essere presa per giovanile ardimento, impulso all’agire, ricchezza di doti, qualcosa di normale, di ordinario insomma. Lo straordinario comincia, o meglio, si rivela nella malattia e mediante la malattia. Don Andrea, segregato, escluso oramai per sempre dall’insegnamento, dalla vita fraterna di collaborazione coi confratelli e dalla grande impresa di Don Bosco, si sente avviato verso una via nuova, solitaria, forse ripugnante ai suoi fratelli; ripugnante certo alla natura umana, tanto più alla sua, così ricca ed esuberante! Don Beltrami accettò questa via e vi si avviò con animo salesiano: salesianamente».
            Colpisce che si affermi che don Beltrami in certo modo abbia inaugurato una nuova via nella scia tracciata da Don Bosco, una chiamata speciale a illuminare il nucleo profondo della vocazione salesiana e il vero dinamismo della carità pastorale: «Noi abbiamo bisogno di avere quello che lui aveva nel cuore, quello che viveva profondamente nel suo intimo. Senza quella ricchezza interiore la nostra azione sarebbe vanificata; don Beltrami potrebbe rimproverarci la nostra vana vita dicendoci con Paolo: “nos quasi morientes, et ecce: vivimus!”». Egli stesso era consapevole di aver iniziato una nuova via come testimoniò il fratello Giuseppe: «A metà lezione cercava di convincermi della necessità di seguire la sua via, ed io, non pensandola come lui, mi opponevo, ed egli soffriva». Questo patire vissuto nella fede fu davvero fecondo apostolicamente e vocazionalmente: «Manifestazione della nuova ed originale concezione salesiana voluta e attuata da Lui, di un dolore cioè, fisico e morale, attivo, produttivo, anche materialmente, per la salvezza delle anime».
            Occorre anche dire che, sia per un certo clima spirituale un po’ pietistico, sia forse più inconsciamente per non lasciarsi troppo provocare dalla sua testimonianza, nel tempo si sedimentò una certa interpretazione che gradualmente portò, anche per i grandi cambi avvenuti, ad un oblio. Espressione di tale processo sono ad esempio i quadri che lo riproducono, che a coloro che lo conobbero, come don Eugenio Ceria, non piacevano proprio, perché lo ricordavano gioviale, con un aspetto aperto che ispirava confidenza e fiducia in chi lo avvicinava. Sempre don Ceria ricorda che già negli anni di Foglizzo don Beltrami viveva un’intensa vita interiore, una profonda e impetuosa unione con Dio, alimentata dalla meditazione e dalla comunione eucaristica, a tal punto che anche in pieno inverno, a temperature rigidissime, non portava il pastrano e teneva la finestra aperta, così da essere chiamato “orso bianco”.

5.1. Testimone dell’unione con Dio
            Tale spirito di sacrificio lo maturò in una profonda unione con Dio: «Il suo pregare consisteva nello stare continuamente alla presenza di Dio, tener gli occhi fissi nel Tabernacolo e sfogarsi col Signore con continue giaculatorie e aspirazioni affettuose. La sua meditazione si può dire continua… lo penetrava talmente che non si accorgeva di quanto avveniva intorno a sé, e penetrava talmente il soggetto che l’udii dirmi in confidenza che generalmente veniva a capire talmente i misteri che meditava che gli pareva di vederli come se si presentassero davanti agli occhi». Tale unione significata e realizzata in modo speciale nella celebrazione dell’Eucaristia, quando per incanto cessavano tutti i dolori e i colpi di tosse, si traduceva nella perfetta conformità alla volontà di Dio, soprattutto accettando le sofferenze: «Considerò l’apostolato delle sofferenze e dei patimenti come non meno fecondo di quello della vita più attiva; e mentre altri avrebbero detto sufficientemente occupati quegli anni non brevi nel patire, egli santificò il patire offrendolo al Signore e conformandosi alla divina volontà così generalmente da esserne non solo rassegnato, ma contento».
            È di notevole valore la richiesta fatta dallo stesso venerabile al Signore, come risulta da diverse lettere e in particolare quella al suo primo direttore di Lanzo don Giuseppe Scappini, scritta poco più di un mese prima della sua morte: «Non si affligga, mio padre dolcissimo in Gesù Cristo, della mia malattia; anzi ne gioisca nel Signore. L’ho chiesta io stesso al Buon Dio, per aver occasione di espiare i miei peccati in questo mondo, dove il Purgatorio si fa con merito. Propriamente io non ho domandato questa infermità, perché non ne aveva neppur l’idea, ma ho chiesto molto da soffrire ed il Signore mi ha esaudito in questo modo. Sia adunque benedetto in eterno; e mi aiuti sempre a portare la Croce con gioia. Creda, in mezzo a’ miei dolori, io sono felice di una felicità piena e compiuta, cosicché mi viene da ridere, quando mi fanno condoglianze e auguri di guarigione».

5.2. Saper soffrire
             “Saper soffrire”: per la propria santificazione, per espiazione e per apostolato. Festeggiava l’anniversario della propria malattia: «Il giorno 20 febbraio è anniversario della mia malattia: ed io ne faccio festa, come di un giorno benedetto da Dio; giorno fausto, pieno di letizia, fra i più belli della mia vita». Forse la testimonianza di don Beltrami conferma l’affermazione di Don Bosco «di Beltrami ce n’è uno solo», quasi ad indicare l’originalità della santità di questo suo figlio nell’aver sperimentato e visibilizzato il nucleo segreto della santità apostolica salesiana. Don Beltrami esprime l’esigenza che la missione salesiana non cada nella trappola di un attivismo e di una esteriorità che con il tempo condurrebbe ad un fatale destino di morte, ma preservi e coltivi il nocciolo segreto che esprime insieme profondità e ampiezza di orizzonte. Traduzione concreta di tale cura di interiorità e profondità spirituale sono: la fedeltà alla vita di preghiera, la preparazione seria e competente alla propria missione, soprattutto per il ministero sacerdotale, combattendo contro la negligenza e una colpevole ignoranza; l’uso responsabile del tempo.
            Più profondamente la testimonianza di don Beltrami ci dice che non si vive di rendita o di glorie passate, ma che ogni confratello e ogni generazione deve far fruttificare il dono ricevuto e saperlo trasmettere in forma fedele e creativa alle future generazioni. L’interruzione di questa virtuosa catena sarà fonte di danni e rovina. Il “saper soffrire” è un segreto che dà fecondità a ogni impresa apostolica. Lo spirito di offerta vittimale di don Beltrami si associa in modo mirabile al suo ministero sacerdotale, a cui si preparò con grande responsabilità e che visse nella forma di una singolare comunione con il Cristo immolato per la salvezza dei fratelli: nella lotta e nella mortificazione contro le passioni della carne; nella rinuncia agli ideali di un apostolato attivo da sempre desiderato; nella sete insaziabile di sofferenze; nell’aspirazione ad offrirsi vittima per la salvezza dei fratelli. Ad esempio, per la Congregazione oltre che la preghiera e l’offerta nominatim per diversi confratelli, tenendo il catalogo della Congregazione tra le mani, case e missioni, chiedeva la grazia della perseveranza e dello zelo, la conservazione dello spirito di Don Bosco e del suo metodo educativo. Uno dei libri scritti su di lui porta significativamente il titolo «La passiflora serafica», cioè “fiore della passione”, nome attribuito dai missionari Gesuiti nel 1610, per la somiglianza di alcune parti della pianta con i simboli religiosi della passione di Cristo: i viticci la frusta con cui venne flagellato; i tre stili i chiodi; gli stami il martello; la raggiera corollina la corona di spine. Autorevole è il parere di don Nazareno Camilleri, anima profondamente spirituale: «Don Beltrami ci pare eminentemente rappresenti, oggi, l’ansia divina della “santificazione della sofferenza” per la sociale, apostolica e missionaria fecondità, attraverso l’eroico entusiasmo della Croce, della Redenzione di Cristo in mezzo all’umanità».

5.3 Passaggio di testimone
            A Valsalice, don Andrea era di esempio a tutti: un giovane chierico, Luigi Variara, lo scelse come modello di vita: diventerà sacerdote e missionario salesiano in Colombia e fonderà, ispirandosi a don Beltrami, la Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Nato a Viarigi (Asti) nel 1875 Luigi Variara fu condotto undicenne a Torino-Valdocco dal padre. Entrato in noviziato il 17 agosto 1891, lo concluse emettendo i voti perpetui. Dopo si trasferì a Torino-Valsalice per lo studio della filosofia. Qui conobbe il venerabile Andrea Beltrami. A lui si ispirerà don Variara quando in seguito, ad Agua de Dios (Colombia), alle sue Figlie dei Santissimi Cuori proporrà la “consacrazione vittimale”.

Fine




Natale 2024

Auguriamo a tutti i nostri lettori un Santo Natale, arricchito dalle benedizioni del Signore, e un felice Anno Nuovo con pace e serenità!




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (13/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Grazie ottenute per intercessione di Maria Ausiliatrice.I. Grazia ricevuta da Maria SS. Ausiliatrice.
            Correva l’anno del Signore 1866 quando la mia consorte nel mese d’ottobre fu colta da una gravissima malattia, vale a dire da una grande infiammazione congiunta con una gran costipazione, e con mal verminoso. In questi dolorosi frangenti si fece in prima ricorso ai periti dell’arte i quali non stettero molto a dichiarare che la malattia era pericolosissima. Vedendo io che il male molto più s’aggravava, e che a poco o nulla giovavano i rimedii umani, suggerii alla mia compagna che si raccomandasse a Maria Ausiliatrice, e che ella certamente le avrebbe concesso la salute se era necessaria per quella dell’anima; aggiunsi nello stesso tempo la promessa che se avesse ottenuto la sanità, appena terminata la chiesa, che si sta facendo in Torino, di portarci ambedue a visitarla e farvi qualche oblazione. A tal proposta essa rispose che poteva raccomandarsi a qualche Santuario più vicino per non aver poi l’obbligo di andar così lontano; a quella risposta io le dissi che non bisognava guardar tanto il comodo, quanto la grandezza del benefizio che si spera.
            Allora essa si raccomandò, e promise quanto si proponeva. O potenza di Maria! non erano ancora 30 minuti dacché essa aveva fatto la promessa quando interrogata da me come stava ella mi disse: sto molto più bene, ho la mente più libera, non ho più oppresso lo stomaco, sento abborrimento al ghiaccio che poco prima tanto desiderava, e son più vogliosa di brodo che poco prima tanto abborriva.
            A queste parole io mi sentii nascere a nuova vita, e se non fosse stato di notte sarei subito uscito di camera a pubblicare la grazia ricevuta da Maria SS. Il fatto sta che essa passò la notte tranquilla, ed al mattino seguente comparendo il medico la dichiarò immune da ogni pericolo. Chi la risanò se non Maria Ausiliatrice? Infatti essa dopo pochi giorni abbandonò il letto, ed intraprese le faccende domestiche. Ora aspettiamo ansiosamente che si compia la chiesa a lei dedicata, per quindi adempir la promessa fatta.
            Ho scritto questo, qual figlio umile dell’una, santa, cattolica ed apostolica Chiesa, e desidero che al medesimo si dia tutta quella pubblicità che si giudicherà bene per la maggior gloria di Dio e dell’augusta Madre del Salvatore.

COSTAMAGNA Luigi
di Caramagna.

II. Maria Ausiliatrice Protettrice delle campagne.
            Mornese è un paesello della diocesi di Acqui, provincia di Alessandria, di circa mille abitanti. Questo nostro paese, come tanti altri, era tristamente travaglialo dalla crittogama che da oltre venti anni divorava quasi tutto il raccolto dell’uva che è la nostra ricchezza principale. Avevamo già usato altri ed altri specifici per allontanare quel malanno, ma inutilmente. Quando si sparge la voce che alcuni contadini dei paesi confinanti avendo promesso una parte del frutto dei loro vigneti per la continuazione dei lavori della chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice in Torino furono meravigliosamente favoriti ed ebbero uva in abbondanza. Mossi i Mornesini dalla speranza di migliore raccolto e più ancora animati dal pensiero di concorrere ad un’opera di religione, determinarono di offrire per questo scopo la decima parte delle nostre vendemmie. La protezione della santa Vergine si fece sentire tra noi in modo veramente pietoso. Abbiamo avuto l’abbondanza dei tempi più felici, e fummo ben lieti di poter scrupolosamente offrire in genere o in danaro quanto avevamo promesso. All’occasione che il direttore dei lavori di quella chiesa invitato venne tra noi per raccogliere le offerte vi fu una festa di vera gioia e di pubblica esultanza.
            Egli apparve profondamente commosso per la prontezza e disinteresse con cui erano fatte le offerte, e per le cristiane parole con cui le accompagnavano. Ma un nostro patriota a nome di tutti diede ad alta voce ragione di quanto avveniva. Noi, esso prese a dire, siamo debitori di grandi cose alla santa Vergine Ausiliatrice. L’anno scorso molti di codesto paese dovendo andare alla guerra si posero tutti sotto alla protezione di Maria Ausiliatrice, mettendosi per lo più una medaglia al collo andarono coraggiosamente, e dovettero affrontare i più gravi pericoli, ma niuno restò vittima di quel flagello del Signore. Inoltre nei paesi confinanti fu strage del colera, della grandine, della siccità, e noi fummo affatto risparmiati. Quasi nulla è la vendemmia dei nostri vicini, e noi siamo stati benedetti con tale abbondanza che da venti anni non si è più veduta. Per questi motivi noi siamo lieti di poter manifestare in tal modo la incancellabile nostra gratitudine verso la grande Protettrice del genere umano.
            Credo di essere fedele interprete dei miei concittadini asserendo che quanto abbiamo fatto ora, lo faremo eziandio in avvenire, persuasi così di renderci sempre più degni delle celesti benedizioni.
            25 marzo 1868

Un Abitante di Mornese.

III. Pronta guarigione.
            Il giovanetto Bonetti Giovanni di Asti nel collegio di Lanzo ebbe il favore seguente. La sera dei 23 di dicembre ultimo scorso entrò improvvisamente in camera del direttore con passo incerto e col viso stravolto. Gli si avvicina, appoggia la sua persona a quella del pio Sacerdote, e colla destra si stropiccia la fronte e non dice parola. Meravigliato egli di vederlo così convulso, lo sorregge, e ponendolo a sedere lo richiede che cosa desideri. Alle replicate domande il poveretto non rispondeva che con sospiri sempre più stentati e profondi. Allora lo fissa più attentamente in fronte, e vede che i suoi occhi erano immobili, le labbra pallide, ed il corpo consentendo al peso della testa minacciava cadere. Vedendo allora in qual pericolo della vita stesse il giovanetto si manda tosto pel medico. Intanto il male peggiorava ad ogni istante, la sua fisonomia erasi contraffatta, e non sembrava più quella di prima, le braccia, le gambe, la fronte erano gelate, il catarro lo soffocava; il respiro sempre si faceva più breve, ed i polsi non si sentivano più che leggermente. Durò in questo stato cinque penosissime ore.
            Giunse il Dottore, applicò vari rimedi, ma sempre con nessun risultato. È finito, disse addolorato il medico, prima di domattina cotesto giovanetto sarà morto.
            Sfidato così delle speranze umane il buon Sacerdote si rivolse al cielo, pregando che se non era suo volere che il giovanetto vivesse, almeno gli concedesse un po’di tempo per confessarsi e comunicarsi. Prese quindi una piccola medaglia di Maria Ausiliatrice. Le grazie già ottenute dalla invocazione della Vergine con quella medaglina erano molte, ed aumentarono la speranza di ottenere aiuto dalla celeste Protettrice. Pieno adunque di fiducia in Lei si inginocchiò, gli mise sul cuor la medaglia e con altre pie persone accorse si dissero alcune preghiere a Maria ed al SS. Sacramento. E Maria ascoltò le preghiere che con tanta confidenza Le erano innalzate. Il respiro del piccolo Giovanni diventò più libero, gli occhi, che erano come impietriti, si volsero caramente intorno a mirare e a ringraziare gli astanti delle cure pietose che gli facevano. Né il miglioramento fu cosa di breve durata, anzi ognuno tenne certa la guarigione. Il medico stesso sbalordito dell’avvenuto ebbe ad esclamare: – Fu la grazia di Dio, che operò la salute. Nella mia lunga carriera ho veduto un gran numero di ammalati e moribondi, ma nessuno di quelli che si trovarono al punto del Bonetti vidi riaversi. Senza l’intervento benefico del cielo, è questo per me un fatto inesplicabile. E la scienza, usa oggidì a rompere quel mirabile vincolo che la unisce a Dio, rese umile omaggio a Lui giudicandosi essa impotente ad ottenere quello che solo Iddio compì. Il giovanetto che fu oggetto di gloria della Vergine, continua tuttora a stare molto e molto bene. Dice e predica a tutti che la sua vita la deve doppiamente a Dio ed alla potentissima sua Madre, dalla cui valida intercessione ottenne la grazia. Egli si crederebbe ingrato di cuore se non rendesse pubblica testimonianza di gratitudine, ed invitare così altri ed altri infelici che in questa valle di lagrime soffrono e vanno in cerca e di conforto e di aiuto.

(Dal giornale: La Vergine).

IV. Maria Ausiliatrice libera un suo devoto da forte mal di denti.
            In una casa d’educazione di Torino vi era un giovinetto di 19 o 20 anni, che già da parecchi giorni soffriva acerbissimi dolori ai denti. Tutto quello che l’arte medica suole in tali casi suggerire erasi già usato senza alcun felice esito. Onde il povero giovane era a tal punto di esacerbazione ridotto, che destava la pietà in tutti quelli che lo sentivano. Se il giorno gli pareva orrido, eterna e sciaguratissima la notte, in cui non poteva chiudere l’occhio al sonno che ad istanti interrotti e brevissimi. Che stato deplorabile era mai questo suo! Continuò così per qualche tempo; ma alla sera del 29 aprile il male parve diventar furiosissimo. Gemeva il giovanetto nel suo letto senza posa, sospirava ed altamente gridava senza che lo potesse qualcuno alleviare. I compagni inteneriti sulla condizione di lui infelice andarono a farne parte al direttore che volesse degnarsi di venirlo a confortare. Ci venne, e tentò a parole di ridonargli la calma tanto a lui necessaria e ai suoi compagni perché potessero riposare. Ma tanto era il furore del male, che egli sebben obbedientissimo, non poté cessare il lamento; dicendo che non sapeva se pur anche nell’inferno stesso si potevano soffrire più crudeli dolori. Il superiore allora pensò bene di collocarlo sotto alla protezione di Maria Ausiliatrice, al cui onore si solleva pur anche in questa nostra città maestoso tempio. C’inginocchiammo tutti, e facemmo breve preghiera. Ma che? L’aiuto di Maria non si fece molto aspettare. Nell’atto che il sacerdote compartiva al desolato giovane la benedizione, sull’istante ebbe calma, e prese placido e profondo sonno. In quell’istante ci balenò alla mente un terribile sospetto; che cioè il povero giovane soccombette al male, ma no, egli erasi già profondamente addormentato, e Maria aveva udita la preghiera del suo devoto, e Dio la benedizione del suo ministro.
            Passarono più mesi, e il giovane soggetto al male dei denti non ne fu più molestato.

(Dallo stesso).

V. Alcune meraviglie di Maria Ausiliatrice.
            Credo che il vostro nobile periodico farà buon viso ad alcuni avvenimenti succeduti tra di noi, che io espongo ad onore di Maria Ausiliatrice. Ne trascelgo solamente alcuni di cui sono stato testimonio in questa città, ommettendone molti altri che si raccontano ogni dì.
            Il primo riguarda ad una signora di Milano che da cinque mesi si andava consumando da una polmonite congiunta ad una totale prostrazione dell’economia vitale.
Passando da queste parti il Sac. B… venne da esso consigliata a fare ricorso a Maria Ausiliatrice, mercè una novena di preghiera ad onore di lei, con promessa di qualche oblazione per continuare i lavori della chiesa, che appunto sotto il titolo di Maria aiuto dei cristiani si va innalzando in Torino. Questa oblazione per altro era soltanto da farsi a grazia ottenuta.
            Meraviglia a dirsi! In quel giorno stesso l’inferma poté ripigliare le sue ordinarie e gravi occupazioni, accomodarsi a qualsiasi genere di cibi, andare a passeggio, entrare e uscire da casa liberamente, come se non fosse mai stata ammalata. Quando poi si terminava la novena, ella si trovava nello stato di florida sanità, quale non si ricordava mai aver in addietro goduta.
            Un’altra Signora da tre anni pativa un male di palpitazione, con molti incomodi che a questo male vanno congiunti. Ma la venuta di qualche febbre e di una specie di idropisia l’aveva resa immobile in letto. Il suo male era giunto a tal segno, che quando il mentovato sacerdote le dava la benedizione, il marito di lei dovette alzarle la mano, affinché potesse fare il segno della santa croce. Fu parimente raccomandata una novena ad onore di Gesù Sacramentato e di Maria Ausiliatrice, con promessa di qualche oblazione pel sopra citato sacro edifizio, ma a grazia compiuta. Nel giorno stesso, in cui si terminava la novena, la inferma era libera da ogni male, e poté ella medesima compilare la narrazione del suo male, in cui leggo quanto segue:
            “Maria Ausiliatrice mi ha fatto guarire da una malattia, per cui si reputava inutile ogni ritrovato dell’arte. Oggi, ultimo giorno della novena, io sono libera da ogni male, e vado a mensa colla mia famiglia, cosa che da tre anni non aveva più potuto fare. Finché vivrò, non cesserò di magnificare la potenza e la bontà dell’augusta Regina del cielo, e mi adopererò per promuovere il culto di lei, specialmente nella chiesa che si sta costruendo in Torino.”
            Aggiungo ancora un altro fatto, che è altresì più meraviglioso degli antecedenti.
            Un giovinetto sul fiore degli anni si vedeva aperta una delle più luminose carriere per la via delle scienze, quando fu colpito da crudo male ad una mano. Malgrado ogni cura, ogni sollecitudine dei medici più accreditati non si poterono ottenere miglioramenti, né poteva arrestarsi il progresso del male. Tutte le conclusioni dei periti dell’arte concorrevano a dire doversi venire all’amputazione, per impedire la totale rovina del corpo. Spaventato egli a questa sentenza, volle fare ricorso a Maria Ausiliatrice, mettendo in opera i medesimi rimedii spirituali, che altri con tanto frutto avevano praticato. L’acutezza dei dolori cessò sull’istante, le piaghe si mitigarono, e in breve tempo apparve compiuta guarigione. Chi volesse soddisfare alla propria curiosità potrebbe rimirare quella mano che presenta le tacche ed i fori delle piaghe cicatrizzate, che ricordano la gravezza del suo male e la meravigliosa guarigione del medesimo. Esso volle andare a compiere in persona la sua oblazione a Torino, per dimostrare viepiù la sua gratitudine verso l’augusta Regina del cielo.
            Ho ancora molti altri racconti di questo genere, che vi esporrò con altre mie lettere, se giudicherete questa essere materia opportuna pel vostro periodico. Vi prego di omettere i nomi delle persone, cui i fatti si riferiscono, per non esporle ad importune dimande ed osservazioni. Valgano tuttavia questi fatti a ravvivare ognora più fra i cristiani la fiducia nella protezione di Maria Ausiliatrice, per accrescerle i devoti in terra, e per avere un giorno più gloriosa corona dei suoi devoti in cielo.

(Dalla Vera Buona Novella di Firenze).

Con approvazione Ecclesiastica.

Fine




Sarà Santa la Beata Maria Troncatti, Figlia di Maria Ausiliatrice

Il 25 novembre 2024, il Santo Padre Francesco ha autorizzato il Dicastero delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto riguardante il miracolo attribuito all’intercessione della Beata Maria Troncatti, Suora professa della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, nata a Córteno Golgi (Italia) il 16 febbraio 1883 e morta a Sucúa (Ecuador) il 25 agosto 1969. Con questo atto del Santo Padre si apre la via alla Canonizzazione della Beata Maria Troncatti.

Maria Troncatti nasce a Corteno Golgi (Brescia) il 16 febbraio 1883. Assidua alla catechesi parrocchiale e ai sacramenti, l’adolescente Maria matura un profondo senso cristiano che la apre alla vocazione religiosa. A Corteno arriva il Bollettino Salesiano e Maria pensa alla vocazione religiosa. Per obbedienza al padre e al parroco, però, attende di essere maggiorenne prima di chiedere l’ammissione all’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Emette la prima professione nel 1908 a Nizza Monferrato. Durante la Prima guerra mondiale (1915-1918) suor Maria segue a Varazze corsi di assistenza sanitaria e lavora come infermiera crocerossina nell’ospedale militare. Nel corso di un’alluvione in cui rischia di morire annegata Maria promette alla Madonna che se le avesse salvato la vita sarebbe partita per le missioni.

La Madre Generale, Caterina Daghero, la destina nel 1922 alle missioni dell’Ecuador. Rimane tre anni a Chunchi. Accompagnate dal Vescovo missionario Mons. Comin e da una piccola spedizione, suor Maria e altre due consorelle si addentrano nella foresta amazzonica. Loro campo di missione è la terra degli indios Shuar, nella parte sud-orientale dell’Ecuador. Si stabiliscono a Macas, un villaggio di coloni circondato dalle abitazioni collettive degli Shuar. Porta avanti con le sue consorelle un difficile lavoro di evangelizzazione in mezzo a rischi di ogni genere, non esclusi quelli causati dagli animali della foresta e dalle insidie dei vorticosi fiumi. Macas, Sevilla Don Bosco, Sucúa sono alcuni dei “miracoli” tuttora fiorenti dell’azione di suor Maria Troncatti: infermiera, chirurgo e ortopedico, dentista e anestesista… Ma soprattutto catechista ed evangelizzatrice, ricca di meravigliose risorse di fede, di pazienza e di amore fraterno. La sua opera per la promozione della donna shuar fiorisce in centinaia di nuove famiglie cristiane, formate per la prima volta su libera scelta personale dei giovani sposi. Viene soprannominata “la medica della Selva”, lotta per la promozione umana, in special modo della donna.
È la “madrecita”, sempre sollecita nell’andare incontro non solo agli ammalati, ma a tutti quelli che hanno bisogno di aiuto e di speranza. Dal semplice e povero ambulatorio giunge a fondare un vero ospedale e prepara lei stessa le infermiere. Con materna pazienza ascolta, favorisce la comunione tra la gente ed educa al perdono indigeni e coloni. “Uno sguardo al Crocifisso mi dà vita e coraggio per lavorare”, questa è la certezza di fede che sostiene la sua vita. In ogni attività, sacrificio o pericolo si sente sorretta dalla presenza materna di Maria Ausiliatrice.

Il 25 agosto 1969, a Sucúa (Ecuador), il piccolo aereo che trasporta in città suor Maria Troncatti precipita pochi minuti dopo il decollo, sul limitare di quella selva che è stata per quasi mezzo secolo la sua “patria del cuore”, lo spazio della sua donazione instancabile fra gli “shuar”. Suor Maria vive il suo ultimo decollo: quello che la porta in Paradiso! Ha 86 anni, tutti spesi in un dono d’amore. Aveva offerto la sua vita per la riconciliazione tra i coloni e gli Shuar. Scriveva: “Sono ogni giorno più felice della mia vocazione religiosa missionaria!”.

            È stata dichiarata Venerabile il 12 novembre 2008 e beatificata sotto il pontificato di Benedetto XVI a Macas (Vicariato Apostolico di Méndez – Ecuador) il 24 novembre 2012. Nell’omelia di beatificazione, il Cardinale Angelo Amato ne delineò la figura di consacrata e missionaria, mettendone in luce, nella ferialità e semplicità dei gesti di maternità e misericordia, la straordinarietà dell’“esempio di dedizione a Gesù e al suo Vangelo di verità e di vita” per il quale, a più di quarant’anni dalla sua morte, era ricordata con riconoscenza: “Suor Maria, animata dalla grazia, diventò una infaticabile messaggera del Vangelo, esperta in umanità e conoscitrice profonda del cuore umano. Condivideva le gioie e le speranze, le difficoltà e le tristezze dei suoi fratelli, grandi e piccoli. Riusciva a trasformare la preghiera in zelo apostolico e in servizio concreto al prossimo”. Il Cardinale Amato terminò l’omelia rassicurando i presenti, tra cui gli shuar, che “dal cielo la Beata Maria Troncatti continua a vegliare sulla vostra patria e sulle vostre famiglie. Continuiamo a chiedere la sua intercessione, per vivere nella fraternità, nella concordia e nella pace. Rivolgiamoci con fiducia a lei, affinché assista gli ammalati, consoli i sofferenti, illumini i genitori nell’educazione cristiana dei bambini, porti armonia nelle famiglie. Cari fedeli, come lo fu sulla terra, così dal cielo la Beata Maria Troncatti continuerà a essere la nostra Buona Madre”.

La biografia scritta da Suor Domenica Grassiano “Selva, patria del cuore” contribuì a far conoscere la testimonianza di questa grande missionaria e a diffonderne la fama di santità. Questa Figlia di Maria Ausiliatrice ha incarnato in modo singolare la pedagogia e della spiritualità del sistema preventivo, soprattutto attraverso quella maternità che ha segnato tutta la sua testimonianza missionaria in tutta la sua vita.

Da giovane suora negli anni 1920: pur continuando come infermiera dedica una particolare attenzione alle ragazze oratoriane, e in modo speciale ad un gruppo di esse piuttosto trascurate, chiassose e insofferenti verso ogni disciplina. Ebbene suor Maria le sa accogliere e trattare in modo tale che “avevano per lei una venerazione: si inginocchiavano davanti a lei, tanta era loro stima. Sentivano in lei un’anima tutta di Dio e si raccomandavano alla sua preghiera”.

Anche per le postulanti riserva un’attenzione speciale, comunicando fiducia e coraggio: “Fatti coraggio, non lasciarti prendere dal rimpianto per quanto hai lasciato… Prega il Signore e ti aiuterà a realizzare la tua vocazione”. Le quaranta postulanti di quell’anno giunsero tutte alla vestizione e alla professione, attribuendo tale risultato alle preghiere di suor Maria, che infonde speranza soprattutto quando vede difficoltà nell’adattarsi al nuovo genere di vita o nell’accettare il distacco dalla famiglia.

Da Madre dei poveri e dei bisognosi. Con il suo esempio e il suo messaggio ricorda che “noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima”. Quante anime salvate! Quanti bambini salvati da morte sicura! Quante ragazze e donne difese nella loro dignità! Quante famiglie formate e custodite nella verità dell’amore coniugale e famigliare! Quanti incendi di odio e di vendetta estinti con la forza della pazienza e la consegna della propria vita! E tutto vissuto con grande zelo apostolico e missionario.

Singolare la testimonianza di padre Giovanni Vigna, che lavorò per 23 anni nella stessa missione, illustra molto bene il cuore di suor Maria Troncatti: “Suor Maria si distingueva per una squisita maternità. Trovava ad ogni problema una soluzione che risultava, alla luce dei fatti, sempre la migliore. Era sempre disposta a scoprire il lato positivo delle persone. L’ho vista trattare la natura umana sotto tutti gli aspetti, i più miserevoli anche: ebbene li ha trattati con quella superiorità e gentilezza che in lei era cosa spontanea e naturale. Esprimeva la maternità come affetto tra le consorelle in comunità: era il segreto vitale che le sosteneva, l’amore che le univa le une alle altre; la condivisione piena delle fatiche, dei dolori, delle gioie. Esercitava la sua maternità soprattutto verso le più giovani. Tante sorelle hanno sperimentato la dolcezza e la forza del suo amore. Così era per i Salesiani che cadevano frequentemente ammalati perché non si risparmiavano nel lavoro e nelle fatiche. Lei li curava, li sosteneva anche moralmente, indovinando crisi, stanchezze, turbamenti. La sua anima trasparente vedeva tutto attraverso l’amore di un Padre che ci ama e ci salva. È stata strumento nella mano di Dio per opere meravigliose!”.




San Francesco di Sales, accompagnatore personale

            «Il mio spirito accompagna sempre il vostro», scriveva un giorno Francesco di Sales a Giovanna di Chantal, in un periodo in cui questa si sentiva assalita da tenebre e tentazioni. E aggiungeva: «Camminate dunque, cara Figlia, e avanzate nel cattivo tempo e durante la notte. Siate coraggiosa, mia cara Figlia; con l’aiuto di Dio, faremo molto». Accompagnamento, direzione spirituale, guida delle anime, direzione di coscienza, assistenza spirituale: sono altrettante formule pressappoco sinonime, in quanto designano questa forma particolare di educazione e formazione esercitata nell’ambito spirituale della coscienza individuale.

Formazione di un futuro accompagnatore
            La formazione ricevuta da giovane aveva preparato Francesco di Sales a diventare, a sua volta, direttore spirituale. Come studente presso i gesuiti di Parigi molto probabilmente ebbe un padre spirituale di cui ignoriamo il nome. A Padova era stato suo direttore Antonio Possevino; con questo famoso gesuita Francesco si feliciterà in seguito di esserne stato uno dei «figli spirituali». In occasione del suo tormentato cammino verso lo stato clericale, fu suo confidente e sostegno Amé Bouvard, un prete amico di famiglia, il quale lo preparò poi alle ordinazioni.
            All’inizio del suo episcopato affidò la cura della sua vita spirituale al padre Fourier, rettore dei gesuiti di Chambéry, «grande, erudito e devoto religioso», col quale stabilì «una particolarissima amicizia» e che gli fu molto vicino «col suo consiglio e avvertimenti». Durante parecchi anni si confessò regolarmente dal penitenziere della cattedrale, che chiamava «signor confratello carissimo e perfetto amico».
            Il soggiorno a Parigi del 1602 influì profondamente sullo sviluppo dei suoi doni di direttore d’anime. Inviato dal vescovo a trattare a corte alcuni affari della diocesi, ebbe poco successo sul piano diplomatico, ma questa prolungata visita nella capitale francese gli consentì di allacciare contatti con l’élite spirituale che si riuniva presso la dama Acarie, una donna eccezionale, mistica e padrona di casa allo stesso tempo. Divenuto suo confessore, ne osservava le estasi e l’ascoltava senza farle domande. «Oh! che sbaglio ho fatto – dirà più tardi –, per non aver approfittato abbastanza della sua santissima compagnia! Ella infatti mi aprì liberamente il suo animo; ma l’estremo rispetto che avevo per lei faceva sì che non osassi informarmi di una minima cosa».

Un’attività assillante «che rasserena e rincuora»
            Aiutare ogni singolo individuo, accompagnarlo personalmente, consigliarlo, correggerne eventualmente gli errori, incoraggiarlo, tutto ciò esige tempo, pazienza e un costante sforzo di discernimento. L’autore della Filotea parla per esperienza quando afferma nella prefazione:

È una fatica, lo confesso, guidare anime singole, ma una fatica che fa sentir leggeri, come quella dei mietitori e dei vendemmiatori, i quali non sono mai tanto contenti come quando hanno molto lavoro e molto da portare. È un lavoro che rasserena e rincuora, per la soavità che arreca a chi lo intraprende.

            Conosciamo questo settore importante della sua azione formativa specialmente dalla sua corrispondenza, ma va precisato che si fa direzione spirituale non soltanto per iscritto. Incontri personali e confessioni individuali ne fanno parte, anche se occorre distinguerli adeguatamente. Nel 1603, incontrò il duca di Bellegarde, grande personaggio del regno e grande peccatore, il quale, alcuni anni più tardi gli chiederà di guidarlo sul cammino della conversione. Il quaresimale che predicò a Digione l’anno seguente costituì una svolta nella sua «carriera» di direttore spirituale, perché incontrò Jeanne Frémyot, vedova del barone di Chantal.
            A partire dal 1605, la visita sistematica della sua vasta diocesi lo metterà in contatto con un numero infinito di persone di tutte le condizioni, soprattutto contadini e montanari, perlopiù analfabeti, i quali non ci hanno lasciato della corrispondenza. Predicando il quaresimale ad Annecy nel 1607, trovò nelle sue «sacre reti» una signora di ventun anni, «ma tutta d’oro», di nome Louise Du Chastel, la quale aveva sposato il cugino del vescovo, Henri de Charmoisy. Le lettere di direzione spirituale che Francesco invierà alla signora di Charmoisy serviranno come materiale di base per la redazione della sua futura opera, la Filotea.
            La predicazione di Grenoble del 1616, 1617 e 1618 gli procurò un considerevole numero di figlie e figli spirituali che, avendolo ascoltato sulla cattedra, cercheranno di contattarlo da vicino. Nuove Filotee lo seguiranno durante il suo ultimo viaggio a Parigi nel 1618-1619, dove faceva parte della delegazione di Savoia che stava negoziando il matrimonio del principe del Piemonte Vittorio Amedeo, con Cristina di Francia, sorella di Luigi XIII. Concluso il principesco matrimonio, Cristina lo sceglierà come suo confessore e «grande cappellano».

Il direttore è padre, fratello, amico
            Quando si rivolge alle persone da lui dirette, Francesco di Sales fa un uso abbondante, per non dire eccessivo, secondo il costume dell’epoca, di titoli e di appellativi tratti dalla vita familiare e sociale, come padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia, zio, zia, nipote, padrino, madrina, o servitore. Il titolo di padre significava autorità e allo stesso tempo amore e confidenza. Il padre «assiste» mediante consigli il figlio e la figlia usando saggezza, prudenza e carità. In quanto padre spirituale, il direttore è colui che in certi casi dice: Lo voglio! Francesco di Sales sapeva usare tale linguaggio, ma solo in circostanze del tutto speciali, come quando ordina alla baronessa di non evitare l’incontro con l’assassino del marito:

Mi avete chiesto come volevo che vi comportaste nell’incontro con colui che uccise il vostro signor marito. Rispondo per ordine. Non è necessario che ne cerchiate voi stessa la data e l’occasione. Però, se questa si presenta, voglio che l’accogliate con un cuore dolce, gentile e compassionevole.

            Una volta scrisse a una donna angosciata: «Ve lo ordino a nome di Dio», ma era per toglierle gli scrupoli. La sua autorità resta sempre umile, buona, anche tenera; il suo ruolo nei confronti delle persone da lui dirette, precisava nella prefazione della Filotea, consisteva in una particolare «assistenza», termine che appare due volte in tale contesto. L’intimità che si stabilirà tra lui e il duca di Bellegarde sarà tale da consentire a Francesco di Sales di rispondere alla richiesta del duca, usando non senza esitazione gli appellativi di «figlio mio» o di «monsignore figlio mio», ben sapendo che il duca era più vecchio di lui. Il risvolto pedagogico della direzione spirituale è sottolineato da un’altra immagine significativa. Dopo aver ricordato la veloce corsa della tigre per salvare il suo piccolo, mossa dalla forza dell’amore naturale, continua dicendo:

E quanto più volentieri un cuore paterno s’occuperà di un’anima che avrà trovato piena di desiderio della santa perfezione, portandola sul suo seno, come una madre il suo bambino, senza sentire il peso del caro fardello.

            Nei riguardi delle persone da lui dirette, donne e uomini, Francesco di Sales si comporta anche come un fratello, ed è in tale veste che sovente si presenta alle persone che ricorrono a lui. Antoine Favre è chiamato costantemente «mio fratello». In un primo momento si rivolge alla baronessa di Chantal usando l’appellativo «signora» (madame), successivamente passa a quello di «sorella», «questo nome, che è quello con cui gli apostoli e i primi cristiani usavano esprimere il loro amore vicendevole». Un fratello non comanda, dà consigli e pratica la correzione fraterna.
            Ma ciò che caratterizza meglio lo stile salesiano, è il clima amichevole e reciproco che unisce il direttore e la persona diretta. Come dice bene André Ravier, «non c’è, per lui, vera direzione spirituale se non c’è amicizia, cioè scambio, comunicazione, influsso reciproco». Non stupisce che Francesco di Sales ami i suoi referenti di un amore che testimonia loro in mille modi; meraviglia invece che desideri di essere da loro parimenti amato. Con Giovanna di Chantal, la reciprocità divenne tanto intensa da trasformare talvolta il «mio» e il «tuo» in un «nostro»: «Non mi è possibile distinguere il mio e il tuo in quello che ci riguarda, è nostro».

Obbedienza al direttore, ma in un clima di confidenza e di libertà
            L’obbedienza al direttore spirituale è una garanzia contro gli eccessi, le illusioni e i passi falsi compiuti il più delle volte per amor proprio; essa mantiene in un atteggiamento prudente e saggio. L’autore della Filotea la considera necessaria e benefica, senza ricalcarla; «l’umile obbedienza, tanto raccomandata e tanto praticata da tutti gli antichi devoti», fa parte di una tradizione. Francesco di Sales la raccomanda alla baronessa di Chantal nei confronti del suo primo direttore, ma indicandone il modo di viverla:

Lodo moltissimo il rispetto religioso che sentite per il vostro direttore, e vi esorto a conservarlo con molta cura; ma bisogna pure che vi dica ancora una parola. Questo rispetto vi deve indurre senza dubbio a perseverare nella santa condotta alla quale vi siete adattata così felicemente, ma non deve assolutamente impedire o soffocare la giusta libertà che lo Spirito di Dio dà a chiunque egli possiede.

            Ad ogni modo, è necessario che il direttore possegga tre qualità indispensabili: «Occorre che sia pieno di carità, di scienza e di prudenza: se una di queste tre gli manca, c’è del pericolo» (I I 4). Non pare proprio questo il caso del primo direttore della signora di Chantal. A detta del suo biografo, la madre de Chaugy, costui «la vincolò alla sua direzione» intimandole di non pensare mai a cambiarlo; erano «legami inopportuni che ne tenevano l’anima in trappola, coartata e senza libertà». Quando, dopo aver incontrato Francesco di Sales, volle cambiare di direttore, piombò in un mare di scrupoli. Questi, per rasserenarla le indicò un’altra via:

Eccovi qui la regola generale della nostra obbedienza, scritta in lettere molto grosse: OCCORRE FAR TUTTO PER AMORE, E NULLA PER FORZA; OCCORRE AMARE L’OBBEDIENZA PIÙ DI QUANTO SI TEME LA DISOBBEDIENZA. Vi lascio lo spirito di libertà: non quello che esclude l’obbedienza, ché, allora, si dovrebbe parlare della libertà della carne, ma quello che esclude la costrizione, lo scrupolo e la fretta.

            La modalità salesiana è fondata sul rispetto e sull’obbedienza dovuta al direttore, senza alcun dubbio, ma soprattutto sulla confidenza: «Abbiate in lui la massima confidenza, unita a una sacra riverenza, in modo che la riverenza non diminuisca la confidenza e la confidenza non impedisca la riverenza; fidatevi di lui con il rispetto di una figlia verso il proprio padre, rispettatelo con la confidenza di una figlia con la propria madre». La confidenza ispira semplicità e libertà, le quali favoriscono la comunicazione fra due persone, specialmente quando quella diretta è una giovane novizia timorosa:

Vi dirò, in primo luogo, che non dovete usare, nei miei riguardi, parole di cerimonia o di scusa, poiché, per volontà di Dio, sento per voi tutto l’affetto che potreste desiderare, e non saprei proibirmi di sentirlo. Amo il vostro spirito profondamente, perché penso che Dio lo vuole, e lo amo teneramente, perché vi vedo ancora debole e troppo giovane. Scrivetemi, dunque, con tutta confidenza e libertà, e chiedete tutto quello che vi parrà utile per il vostro bene. E questo sia detto una volta per sempre.

            Come si deve scrivere al vescovo di Ginevra? «Scrivetemi liberamente, sinceramente, semplicemente – diceva a una delle anime da lui dirette –. Su questo punto, non ho altro da dire, se non che non dovete mettere sulla lettera Monsignore né solo né accompagnato da altre parole: basta che mettiate Signore, e sapete perché. Io sono un uomo senza cerimonie, e vi amo e vi onoro con tutto il cuore». Questo ritornello ritorna di frequente all’inizio di una nuova relazione epistolare. L’affetto, quando è sincero e soprattutto quando ha la fortuna di essere corrisposto, autorizza la libertà e la massima franchezza. «Scrivetemi ogni volta che ne avete voglia – diceva a un’altra donna –, con piena confidenza e senza cerimonie; perché così occorre comportarsi in questa specie di amicizia». A un suo corrispondente chiedeva: «Non chiedetemi di scusarvi per il fatto che scrivete bene o male, perché non mi dovete altra cerimonia se non quella di amarmi». Questo vuol dire parlare «cuore a cuore». L’amore di Dio come l’amore del prossimo ci fa andare avanti «alla buona, senza tante moine» perché, così si esprimeva, «il vero amore non ha bisogno di un metodo». La chiave di tutto ciò è l’amore, per il fatto che «l’amore rende uguali gli amanti», l’amore cioè opera una trasformazione nelle persone che si amano, rendendole uguali, simili e allo stesso livello.

«Ogni fiore richiede una cura particolare»
            Mentre il fine della direzione spirituale è uguale per tutti, e cioè la perfezione della vita cristiana, le persone invece non sono tutte uguali, e appartiene all’arte del direttore saper indicare il cammino appropriato a ciascuno per raggiungere il comune scopo. Uomo del suo tempo, consapevole che le stratificazioni sociali erano una realtà, Francesco di Sales conosceva bene la differenza che c’era tra il gentiluomo, l’artigiano, il valletto, il principe, la vedova, la ragazza e la donna sposata. Ciascuno, infatti, dovrà produrre frutti «secondo la sua qualifica e professione». Ma il senso di appartenenza a un determinato gruppo sociale si coniugava bene, in lui, con la considerazione delle peculiarità del singolo individuo: occorre «adattare la pratica della devozione alle forze, attività e doveri di ognuno in particolare». Riteneva d’altronde che «i mezzi per raggiungere la perfezione sono diversi secondo la diversità delle vocazioni».
            La diversità dei temperamenti è un dato di fatto, di cui occorre tener conto. È rilevabile in Francesco di Sales un «fiuto psicologico» anteriore alle scoperte moderne. La percezione delle caratteristiche uniche di ogni persona è assai accentuata in lui ed è il motivo per cui ogni soggetto merita un’attenzione particolare da parte del padre spirituale: «In un giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare». Come un padre o una madre con i propri figli, egli si adatta all’individualità, al temperamento, alle situazioni particolari di ogni individuo. A questa persona, impaziente con sé stessa, delusa perché non progredisce come vorrebbe, raccomanda di amare sé stessa; a quest’altra, attirata dalla vita religiosa ma dotata di una forte individualità, consiglia uno stile di vita che tiene conto di queste due tendenze; a una terza che oscilla tra l’esaltazione e la depressione, suggerisce la pace del cuore tramite la lotta contro immaginazioni angoscianti. A una donna disperata a causa del carattere «spendaccione e frivolo» del marito, il direttore dovrà consigliare «il giusto mezzo e la moderazione» e i mezzi per superare la propria insofferenza. Un’altra, donna con la testa sul collo, con un carattere tutto d’un pezzo, piena di affanni e di processi, avrà bisogno di «santa dolcezza e tranquillità». Un’altra ancora è angustiata dal pensiero della morte e sovente depressa: il suo direttore le ispira coraggio. Ci sono anime che hanno mille desideri di perfezione; occorre calmarne l’impazienza, frutto del loro amor proprio. La famosa Angélique Arnauld, badessa di Port-Royal, vuol riformare il proprio monastero con la rigidità: occorre raccomandarle flessibilità e umiltà.
            Quanto al duca de Bellegarde, che si era immischiato in tutti gli intrighi politici e amorosi della corte, il vescovo lo incoraggia ad acquisire «una devozione maschia, coraggiosa, valorosa, invariabile per servire da specchio a molti, esaltando la verità dell’amore celeste, degna riparazione delle colpe passate». Nel 1613 stenderà per lui un Promemoria per far bene la confessione, contenente otto «avvisi» generali, una descrizione dettagliata «dei peccati contro i dieci comandamenti», un «esame riguardante i peccati capitali», i «peccati che si commettono contro i precetti della Chiesa», un «mezzo per discernere il peccato mortale da quello veniale», e infine «i mezzi per distogliere i grandi dal peccato della carne».

Metodo «regressivo»
            L’arte della direzione di coscienza richiede assai sovente al direttore di fare un passo indietro e di lasciare l’iniziativa al destinatario, o a Dio, soprattutto quando si tratta di fare delle scelte che esigono una decisione impegnativa. «Non prendete le mie parole troppo alla lettera – scrisse alla baronessa di Chantal –; non voglio che esse siano per voi un’imposizione, ma che conserviate la libertà di fare quello che stimate meglio». Scriverà ad esempio a una donna molto attaccata alle «vanità»:

Quando partiste, mi venne in mente di dirvi che dovevate rinunziare al muschio e ai profumi, ma mi contenni, per seguire il mio sistema, che è soave e cerca di attendere quei movimenti che, a poco a poco, gli esercizi di pietà sogliono suscitare nelle anime che si consacrano interamente alla divina Bontà. Il mio spirito, infatti, è estremamente amico della semplicità; e la roncola con la quale si usa tagliare i polloni inutili, la lascio abitualmente in mano a Dio.

            Il direttore non è un despota, ma uno che «guida le nostre azioni con i suoi avvisi e consigli», come dice all’inizio della Filotea. Si astiene dal comandare quando scrive alla signora di Chantal: «Sono consigli buoni e indicati per voi, ma non comandi». Costei d’altronde dirà, al processo di canonizzazione, che si rammaricava a volte perché non era guidata abbastanza con comandi. In effetti, il ruolo del direttore è definito dalla seguente risposta di Socrate a un discepolo: «Io avrò dunque cura di restituirti a te stesso migliore rispetto a ciò che sei». Come dichiarava sempre alla signora di Chantal, Francesco si era «votato», messo al «servizio» della «santissima libertà cristiana». Egli combatte per la libertà:

Vedrete che dico la verità e che combatto per una buona causa quando difendo la santa e amabile libertà dello spirito che, come sapete, onoro in modo tutto particolare, a condizione che sia vera e libera dalla dissipazione e dal libertinaggio, che non sono altro che una maschera di libertà.

            Nel 1616, durante un ritiro spirituale, Francesco di Sales fece fare alla stessa madre di Chantal un esercizio di «spogliazione», per ridurla «all’amabile e santa purezza e nudità dei bimbi». Era giunto il momento di farle fare il passo verso l’«autonomia» della persona diretta. Egli la invita, tra l’altro, a non «prendere nessuna nutrice» e a non continuare a dirgli – precisava – «che sarò sempre io a farle da nutrice», e, insomma, a essere disposta a rinunciare alla direzione spirituale di Francesco. Dio solo basta: «Non abbiate altre braccia che vi portano se non quelle di Dio, né altri seni su cui riposare se non il suo e la Provvidenza. […] Non pensate più all’amicizia né all’unità che Dio ha stabilito fra noi». Per la signora di Chantal la lezione è dura: «Dio mio! mio vero Padre, che avete inciso profondamente col vostro rasoio! potrò io rimanere a lungo in questo stato d’animo»? Ella si vede ormai «spogliata e nuda di tutto ciò che le era più prezioso». Francesco confessa pure lui: «E sì, anch’io mi trovo nudo, grazie a Colui che è morto nudo per insegnarci a vivere nudi». La direzione spirituale raggiunge qui il suo apice. Dopo una tale esperienza, le lettere spirituali diventeranno più rare e l’affetto sarà più contenuto a vantaggio di un’unità tutta spirituale.




Appello Missionario 2025

Carissimi confratelli,

un saluto fraterno e cordiale dal Sacro Cuore di Roma.

In questo giorno, 18 di dicembre, come ogni anno, nel ricordo della fondazione della nostra Congregazione, nel 1859, vengo a voi con questo scritto che rinnova lo spirito delle origini, lo spirito missionario che ha reso, fin dal principio, la Congregazione quello che è.

In questo anno, con emozione, do voce al cuore della Congregazione, nel 150° anniversario della prima spedizione missionaria. La celebrazione di questo anniversario segna il nostro cuore ed il nostro animo. Ci chiede di rinnovare lo spirito missionario che da sempre è nel cuore del carisma, perché ringraziando per la fedeltà di Dio, dia energia di futuro all’evangelizzazione e alla Congregazione.

Celebrare il 150° anniversario della prima spedizione missionaria di don Bosco rappresenta un grande dono per:

Ringraziare, per riconoscere la grazia di Dio.
La riconoscenza rende palese la paternità di ogni bella realizzazione. Senza riconoscenza non c’è capacità di accogliere. Tutte le volte che nella nostra vita personale ed istituzionale non riconosciamo un dono, rischiamo seriamente di vanificarlo e di “impadronircene. Parlando di spirito della missione siamo al centro della vita del discepolo: una cosa infinitamente più grande di noi, che è la dinamica fondante ed originale della Chiesa, per ogni generazione.

Ripensare, perché “nulla è per sempre”.
La fedeltà comporta anche la capacità di cambiare nell’obbedienza a una visione che viene da Dio e dalla lettura dei “segni dei tempi”. Nulla è per sempre: dal punto di vista personale e istituzionale la vera fedeltà è la capacità di cambiare, riconoscendo in cosa il Signore chiama ciascuno di noi. Ripensare, allora, diventa un atto generativo, in cui si uniscono fede e vita; un momento nel quale chiedersi: cosa vuoi dirci Signore con questa persona, con questa situazione alla luce dei segni dei tempi che, per esser letti, chiedono di avere il cuore stesso di Dio?

Rilanciare, ricominciare ogni giorno.
La riconoscenza porta a guardare lontano e ad accogliere le nuove sfide, rilanciando le missioni con speranza. L’attività missionaria è portare la speranza di Cristo con la consapevolezza lucida e chiara, legata alla fede, che fa riconoscere che quanto vedo e vivo “non è roba mia”, e mi dà la forza per andare avanti, personalmente e istituzionalmente.

Tutto ciò richiede il coraggio di esser sé stessi, di riconoscere la propria identità nel dono di Dio e investire le proprie energie in una responsabilità precisa. Consapevoli del fatto che, ciò che ci è stato affidato, non è nostro, e che abbiamo il compito di trasmetterlo alle prossime generazioni.

Questo è il cuore di Dio questa è la vita della Chiesa.

Il Santo Padre ci ha donato in questi ultimi tempi una lettera Enciclica “Dilexit nos” sull’amore umano e Divino del cuore di Gesù Cristo. Questo dono di Papa Francesco illumina il nostro cuore missionario.

Il Papa ci indica l’azione sociale ed il mondo intero come destinazione naturale della devozione autentica al Sacro Cuore. Al numero 205 dell’Enciclica così dice: “che culto sarebbe per Cristo se ci accontentassimo di un rapporto individuale senza interessa per aiutare gli altri a soffrire meno e vivere meglio? Potrei forse piacere al Cuore che ha tanto amato se rimaniamo in un “esperienza religiosa intima, senza conseguenze fraterne e sociali?

Papa Francesco ci dice chiaramente che chi è intimo del cuore del Signore non può non essere dotato di uno spirito missionario che abbraccia il mondo intero, perché il suo cuore si è dilatato, ampliato! C’è una relazione diretta: più abitiamo l’intimità del Cuore di Cristo e più saremo capaci di raggiungere i più lontani confini della terra.

Il cuore di Cristo mi spinge ad essere attento alle ferite del cuore dell’umanità.
In una parola: il cuore della missione è il cuore di Dio.

Che forza e che energia il Santo Padre ci trasmette, in questo anno che ci introduce nel 150° della prima spedizione missionaria.

La storia continua con noi. Oggi don Bosco ha bisogno dei Salesiani che si rendono disponibili come “semplici strumenti” per realizzare il sogno missionario. Questo è il mio appello ai confratelli che sentono nel profondo del loro cuore, la chiamata di Dio, dentro la nostra comune vocazione salesiana, a rendersi disponibili come missionari con un impegno per tutta la vita (ad vitam), dovunque il Rettor Maggiore li invierà.

Allo scorso appello di don Angel, nel dicembre 2023 hanno aderito 48 salesiani che sono stati scelti 24 come membri della 155° spedizione missionaria. In questo anno che prepara il 150° della prima spedizione missionaria, la mia preghiera e il mio auspicio è che possano esser ancora di più.

Il dialogo con il Consigliere Generale per le Missioni e la riflessione condivisa all’interno del Consiglio Generale, sulla base del progetto missionario presentato al Consiglio (ACGA31, p. 66) mi permette di precisare le urgenze individuate per il 2025, dove vorrei che un numero significativo di confratelli potesse essere inviato:

– Nordafrica, Africa Meridionale (AFM), Africa Occidentale Nord (AON), Mozambico;
– la nuova presenza che inizieremo in Vanuatu;
– Albania, Romania, per il ‘Progetto Calabria-Basilicata’ (IME);
– Cile, Mongolia, Uruguay, e altre frontiere ed eventuali urgenze.

Invito gli Ispettori, con loro i Delegati ispettoriale per l’animazione missionaria, ad essere i primi ad aiutare i confratelli a facilitare il loro discernimento, invitandoli, dopo il dialogo personale, a mettersi a disposizione del Rettor Maggiore per rispondere ai bisogni missionari della Congregazione. Poi il Consigliere Generale per le Missioni continuerà il discernimento che porterà alla scelta dei missionari per la prossima 156° spedizione missionaria, che si terrà a Valdocco 1’11 novembre 2025.

Il Signore benedica e la Madonna accompagni tutti noi, Santo Natale a tutti e un buon anno nuovo nel nome della Speranza, che è presenza di Dio.

Roma, 18 dicembre 2024

Sac. Stefano Martoglio
Vicario (ex. art. 143 cost. S.D.B.)
Prot. n. 24/0575




Il profumo

Una fredda mattina di marzo, in un ospedale, per colpa di complicazioni gravi, una bambina nacque molto prima del previsto, dopo solo sei mesi di gravidanza.
Era un esserino minuscolo e i neo genitori furono colpiti dolorosamente dalle parole del medico: «Non credo che la bambina abbia molte probabilità di sopravvivere. C’è solo il 10 per cento di possibilità che sopravviva alla notte, ed anche se ciò accadesse per qualche miracolo, la probabilità che abbia complicazioni future è molto alta». Paralizzati dalla paura, la mamma e il papà ascoltavano le parole del dottore che descriveva loro tutti i problemi che avrebbe dovuto affrontare la bambina. Non sarebbe mai stata in grado di camminare, parlare, vedere, sarebbe stata ritardata mentalmente e molto altro ancora.
Mamma, papà e il loro bambino di cinque anni avevano tanto atteso quella bambina. Nel giro di poche ore, vedevano tutti i loro sogni e desideri spezzati per sempre.
Ma i loro problemi non erano finiti, il sistema nervoso della piccola non era ancora sviluppato. Quindi qualunque carezza, bacio o abbraccio era pericoloso, i familiari sconsolati non potevano neanche trasmetterle il loro amore, dovevano evitare di toccarla.
Si presero per mano tutti e tre e pregarono, formando un piccolo cuore pulsante nell’immenso ospedale:
«Dio onnipotente, Signore della vita, fai tu quello che noi non possiamo fare: prenditi cura della piccola Diana, stringila al tuo petto, cullala tu e falle sentire tutto il nostro amore».
Diana era un batuffolo palpitante e lentamente cominciò a migliorare. Passavano le settimane e la piccola continuava a prendere peso e diventare più forte. Finalmente, quando Diana compì due mesi i suoi genitori poterono abbracciarla per la prima volta.
Cinque anni dopo, Diana era diventata una bambina serena che guardava verso il futuro con fiducia e con tanta voglia di vivere. Non c’erano segni di deficienza fisica o mentale, era una bambina normale vispa e piena di curiosità.
Ma non è questa la fine della storia.
Un caldo pomeriggio, in un parco non lontano da casa, mentre suo fratello giocava a calcio con gli amici, Diana era seduta in braccio della mamma. Come sempre chiacchierava felice, quando all’improvviso si zittì. Strinse le braccia come abbracciasse qualcuno e chiese alla mamma: «Lo senti?».
Sentendo nell’aria che si avvicinava la pioggia, la mamma rispose: «Sì. Profuma come quando sta per piovere».
Dopo un po’, Diana, alzò la testa e accarezzandosi le braccia esclamò: «No, profuma come Lui. Profuma come quando Dio ti abbraccia forte».
La mamma cominciò a piangere calde lacrime, mentre la bambina sgattaiolava verso le sue piccole amiche per giocare con loro.
Le parole della figlia avevano confermato ciò che la donna sapeva in cuor suo, da tanto tempo ormai. Durante tutto il periodo in ospedale, mentre lottava per la vita, Dio si era preso cura della piccola, abbracciandola così spesso che il suo profumo era rimasto impresso nella memoria di Diana.

In ogni bambino rimane il profumo di Dio. Perché abbiamo tutti tanta fretta di cancellarlo?




I Cardinali Protettori della Società Salesiana di San Giovanni Bosco

Sin dagli inizi, la Società Salesiana ha avuto, come molti altri ordini religiosi, un cardinale protettore. Nel tempo, fino al Concilio Vaticano II, si sono succeduti nove cardinali protettori, un ruolo di grande importanza per la crescita della Società Salesiana.

L’istituzione dei cardinali protettori per le congregazioni religiose è una tradizione antica che risale ai primi secoli della Chiesa, quando il Papa nominava difensori e rappresentanti della fede. Con il passare del tempo, questa pratica si estese agli ordini religiosi, ai quali veniva assegnato un cardinale con il compito di proteggerne i diritti e le prerogative presso la Santa Sede. Anche la Società Salesiana di San Giovanni Bosco godette di tale favore, avendo diversi cardinali che la rappresentavano e proteggevano nelle sedi ecclesiali.

Origine del ruolo di Cardinale Protettore
L’usanza di avere un protettore risale ai primi secoli dell’Impero Romano, quando Romolo, fondatore di Roma, creò due ordini sociali: patrizi e plebei. Ogni plebeo poteva eleggere un patrizio come protettore, stabilendo un sistema di reciproco beneficio tra le due classi sociali. Questa pratica venne in seguito adottata anche dalla Chiesa. Uno dei primi esempi di protettore ecclesiastico è quello di San Sebastiano, nominato da Papa Caio nel 283 d.C. come difensore della Chiesa di Roma.

Nel XIII secolo, l’assegnazione di cardinali protettori agli ordini religiosi divenne una prassi consolidata. San Francesco d’Assisi fu uno dei primi a richiedere un cardinale protettore per il suo ordine. A seguito di una visione in cui i suoi frati venivano attaccati da rapaci, Francesco chiese al Papa di assegnare un cardinale come loro difensore. Innocenzo III acconsentì e nominò il cardinale Ugolino Conti, nipote del Papa. Da allora, gli ordini religiosi seguirono questa tradizione per ottenere protezione e supporto nei loro rapporti con la Chiesa.

Questa pratica si diffuse quasi come una necessità, poiché i nuovi ordini mendicanti e itineranti avevano uno stile di vita diverso da quello dei monaci con dimora fissa, ben conosciuti dai vescovi locali. Le distanze geografiche, i diversi sistemi politici dei luoghi in cui operavano i nuovi ordini religiosi e le difficoltà nelle comunicazioni dell’epoca richiedevano una figura autorevole che conoscesse a fondo le loro problematiche ed esigenze. Questa figura poteva rappresentarli presso la Curia Romana, difendere i loro diritti e interessi e intercedere presso la Santa Sede in caso di necessità. Il cardinale protettore non aveva giurisdizione ordinaria sugli ordini religiosi; il suo ruolo era quello di un protettore benevolo, anche se in particolari circostanze poteva ricevere poteri delegati.

Questa pratica si estese anche agli altri ordini religiosi e, nel caso della Società Salesiana, i cardinali protettori hanno svolto un ruolo cruciale nel garantire il riconoscimento e la protezione della giovane congregazione, soprattutto nei suoi primi anni di vita, quando essa cercava di consolidarsi all’interno della struttura della Chiesa Cattolica.

La scelta del Cardinale Protettore
Il rapporto tra don Bosco e la gerarchia ecclesiastica fu complesso, soprattutto nei primi anni della fondazione della congregazione. Non tutti i cardinali e vescovi vedevano con favore il modello educativo e pastorale proposto da don Bosco, in parte a causa del suo approccio innovativo e in parte per la sua insistenza nel rivolgersi alle classi più povere e svantaggiate.

La scelta del cardinale protettore non era casuale, ma avveniva con grande attenzione. Solitamente, si cercava un cardinale che avesse familiarità con l’ordine o che avesse dimostrato interesse per il tipo di lavoro svolto dalla congregazione. Nel caso dei salesiani, questo significava cercare cardinali che avessero una particolare attenzione per i giovani, per l’educazione o per le missioni, dato che queste erano le aree principali di attività della Società. Ovviamente, la nomina definitiva dipendeva dal Papa e dalla Segreteria di Stato.

Il ruolo del Cardinale Protettore per i Salesiani
Per la Società Salesiana, il cardinale protettore rappresentava una figura chiave nella sua interazione con la Santa Sede, aiutando a mediare eventuali controversie, garantire la corretta interpretazione delle regole canoniche e assicurare che le necessità dell’ordine fossero comprese e rispettate. A differenza di alcune congregazioni più antiche, che avevano già consolidato un forte rapporto con le autorità ecclesiastiche, i salesiani, nati in un’epoca di rapidi cambiamenti sociali e religiosi, necessitavano di un sostegno significativo per affrontare le sfide iniziali, sia a livello interno che esterno.

Uno degli aspetti più importanti del ruolo del cardinale protettore era la sua capacità di sostenere i salesiani nei rapporti con il Papa e la Curia. Questo ruolo di mediatore e protettore forniva alla congregazione un canale diretto con le alte sfere della Chiesa, permettendo loro di esprimere preoccupazioni e richieste che altrimenti avrebbero potuto essere ignorate o rimandate. Il cardinale protettore aveva anche il compito di vigilare affinché la Società Salesiana rispettasse le direttive del Papa e della Chiesa, assicurando che la loro missione rimanesse in linea con l’insegnamento cattolico.

In una sua visita a Roma, nel febbraio del 1875, don Bosco chiese al Santo Padre Pio IX la grazia di avere un cardinale protettore:

Nella stessa udienza egli domandò al Papa, se dovesse, come le altre Congregazioni religiose, chiedere un Cardinale Protettore. Il Papa testualmente gli rispose: – Finché sarò io in vita sarò sempre vostro Protettore, e della vostra Congregazione” (MB XI, 113).

Tuttavia, accorgendosi della necessità di una persona di riferimento che avesse l’autorità per portare avanti varie pratiche per la Società Salesiana, nel 1876 don Bosco tornò a chiedere al Papa un cardinale protettore:

Avendo poi io domandato che per sbrogliare i nostri negozi ecclesiastici a Roma, assegnasse a noi un Cardinale Protettore che perorasse le nostre cause presso la Santa Sede, come hanno tutti gli altri Ordini e Congregazioni, sorridente mi disse: – Ma quanti protettori volete? Non ne avete abbastanza di uno? – Facendomi intendere: voglio essere io il vostro Cardinale protettore; ne volete ancora altri? Sentendo parole di tanta bontà, lo ringraziai di tutto cuore e gli dissi: – Padre Santo, quando voi dite questo, io non cerco più altro difensore.” (MB XII, 221-222).

Dopo questa risposta appagante, don Bosco ottenne comunque un cardinale protettore nello stesso anno, 1876:

3° Ho fatta dimanda di un Cardinale protettore pel cui mezzo comunicare con S. S. Dapprima pareva che desiderasse egli stesso essere nostro Protettore, ma quando gli feci notare che il Cardinale Protettore era appunto un referendario delle cose Salesiane a S. S., che tali cose noi non potevamo trattare nelle Sacre Congregazioni perché lontani, S. Santità sarebbe appunto stato il nostro Protettore di fatto, il Cardinale avrebbe maneggiato le nostre cose nei vari dicasteri per riferirle poscia a S. S. – In questo senso va bene, egli aggiunse, e comunicherò ogni cosa alla Cong. dei VV. e RR. – Il Card. è l’Em.mo Oreglia che sarà protettore delle nostre Missioni, dei Cooperatori Salesiani, dell’Opera di Maria A.; dell’Arciconfraternita dei divoti di M. A. e di tutta la Congregazione Salesiana per gli affari che dovranno trattarsi in Roma presso alla S. Sede.” (MB XIII, 496-497)

Di questo cardinale fece cenno don Bosco nel suo scritto “Il più bel fiore del collegio apostolico ossia l’elezione di Leone XIII” (pp. 193-194):

XXVIII. Il Card. Luigi Oreglia
Luigi Oreglia dei Baroni di S. Stefano onora il Piemonte come il cardinale Bilio, essendo egli nato in Benevagienna nella diocesi di Mondovì il 9 luglio 1828. Fece i suoi studi teologici in Torino sotto il magistero de’ nostri valenti professori, che ne ammiravano la mente perspicace e l’amore indefesso al lavoro. Passò quindi a Roma nell’Accademia ecclesiastica, dove compì lodevolmente la sua educazione religiosa, ed attese allo studio delle lingue, principalmente della tedesca, in cui è valentissimo. Entrato nella prelatura, fu il 15 aprile 1858 nominato referendario di Segnatura, quindi mandato internunzio all’Aia in Olanda, donde poi passò in Portogallo, dopo essere stato preconizzato Arcivescovo di Damiata, succedendo in quell’importante ufficio diplomatico all’eminentissimo cardinale Perrieri. Trovò in Portogallo vive ancora certe tradizioni di Pombal, che con somma intelligenza e coraggio combatté. Per la qual cosa non riuscì troppo gradito a coloro che allora comandavano. Ed egli tornossene a Roma ed il Santo Padre, per dimostrare che se egli cessava di rappresentare la Santa Sede in Portogallo non era per nessun demerito, lo creò e pubblicò Cardinale nel Concistoro del 22 dicembre 1873, dandogli il titolo di Santa Anastasia e nominandolo prefetto della Sacra Congregazione delle Indulgenze e Sacre Reliquie. Il Cardinale Oreglia alle nobili maniere del gentiluomo aggiunge le virtù del sacerdote esemplare. Pio Nono l’ebbe sempre carissimo ed amava la sua conversazione piena di riserbo e di grazia. Egli va adagio ad impegnarsi in qualche affare, ma quando spende una parola non bada più a fatiche e disturbi purché riesca bene. È molto limosiniero. Il novello Pontefice lo tiene in grande considerazione e lo confermò nella carica di prefetto della Sacra Congregazione delle Indulgenze e Sacre Reliquie.”

Il cardinale Luigi Oreglia rimase protettore dei salesiani dal 1876 al 1878, anche se aveva già svolto questo compito in modo informale prima del 1876.

Tuttavia, ufficialmente, il primo cardinale protettore dei salesiani fu Lorenzo Nina, che svolse questo incarico dal 1879 al 1885. Leone XIII acconsentì alla richiesta di don Bosco di avere un cardinale protettore per la Società, e la notifica ufficiale avvenne dopo l’udienza del 29 marzo 1879:

Sei giorni dopo questa udienza, con biglietto della Segreteria di Stato recante la firma di monsignor Serafino Cretoni, si notificava ufficialmente a Don Bosco la nomina del Protettore, in questi onorifici termini: ‘La Santità di Nostro Signore, volendo che la Congregazione Salesiana, la quale va acquistando ogni giorno nuovi titoli alla speciale benevolenza della S. Sede per le opere di carità e di fede impiantate nelle varie parti del mondo, abbia uno speciale Protettore, si è benignamente degnata di conferire quest’officio al Sig. Cardinal Lorenzo Nina, Suo Segretario di Stato’. Al tempo di Pio IX faceva da Protettore il cardinale Oreglia, ma solo a titolo officioso, avendo quel Pontefice riserbato a sé la protezione della Società, bisognosa di particolare e paterna assistenza nei suoi primordi; ora invece si aveva il Protettore vero e proprio al pari delle altre Congregazioni religiose. Né la scelta poteva cadere su Prelato più benevolo; che, avendo conosciuto Don Bosco prima del cardinalato, nutriva per lui altissima stima e gli portava sincera affezione. Pregato da Don Bosco a voler essere il Protettore dei Salesiani, vi si era mostrato dispostissimo, dicendogli: – Non potrei offrirmi per questo al Santo Padre; ma se il Santo Padre me lo dice, accetto subito. – Diede prova eloquente del suo buon volere quando il Beato gli propose che, avendo Sua Eminenza tanto da fare, gli assegnasse una persona con cui trattare la faccenda delle Missioni. Rispose il Cardinale: – No, no; voglio che la trattiamo noi direttamente; passi domani alle quattro e mezzo, e ci parleremo meglio. È un miracolo il vedere una Congregazione venir su in questi tempi sulle rovine altrui, dove tutto si vorrebbe distruggere. – Il Beato sperimentò sovente quanto gli fosse giovevole una sì affettuosa protezione. Ritornato a Torino e comunicata al Capitolo Superiore la designazione pontificia del Protettore, inviò al Cardinale, in nome di tutta la Congregazione, una lettera di ringraziamento perché egli si fosse degnato di accettare quell’ufficio, di cordialissimo omaggio e di preghiera per le Missioni e forse anche per i privilegi; tanto ci è dato argomentare dalla seguente risposta di Sua Eminenza.” (MB XIV, 78-79)

Da questo momento in poi, la Congregazione Salesiana avrà sempre un cardinale protettore con grande influenza nella Curia Romana.

Oltre a questa figura ufficiale, vi sono sempre stati altri cardinali e alti prelati che, comprendendo l’importanza dell’educazione, hanno sostenuto i salesiani. Fra questi ricordiamo i cardinali Alessandro Barnabò (1801-1874), Giuseppe Berardi (1810-1878), Gaetano Alimonda (1818-1891), Luigi Maria Bilio (1826-1884), Luigi Galimberti (1836-1896), Augusto Silj (1846-1926) e molti altri.

Elenco dei Protettori della Società Salesiana di San Giovanni Bosco:

  Cardinale protettore SDB Periodo Nomina
  Beato Papa Pio IX    
1 Luigi OREGLIA 1876-1878  
2 Lorenzo NINA 1879-1885 29.03.1879 (MB XIV,78-79)
3 Lucido Maria PAROCCHI 1886-1903 12.04.1886 (ASV, Segr. Stato, 1886, prot. 66457; ASC D544, cardinali protettori, Parocchi)
4 Mariano RAMPOLLA DEL TINDARO 1903-1913 31.03.1093 (carta del cardinal Rampolla a don Rua)
5 Pietro GASPARRI 1914-1934 09.10.1914 (AAS 1914-006, p. 22)
6 Eugenio PACELLI (Pio XII) 1935-1939 02.01.1935 (AAS 1935-027, p.116)
7 Vincenzo LA PUMA 1939-1943 24.05.1939 (AAS 1939-031, p. 281)
8 Carlo SALOTTI 1943-1947 29.12.1943 (AAS 1943-036, p. 61)
9 Benedetto Aloisi MASELLA 1948-1970 10.02.1948 (AAS 1948-040, p.165)

L’ultimo protettore dei salesiani è stato il cardinale Benedetto Aloisi Masella, poiché il ruolo dei protettori fu annullato dalla Segreteria di Stato al tempo del Concilio Vaticano II, nel 1964. I protettori in carica rimasero fino alla loro morte, e con loro si spense anche l’ufficio ricevuto.

Questo è avvenuto perché, nel contesto contemporaneo, il ruolo del cardinale protettore ha perso parte della sua rilevanza formale. La Chiesa Cattolica ha subito numerose riforme nel corso del XX secolo, e molte delle funzioni che un tempo erano delegate ai cardinali protettori sono state incorporate nelle strutture ufficiali della Curia romana o sono state rese obsolete da cambiamenti nella governance ecclesiastica. Tuttavia, anche se la figura del cardinale protettore non esiste più con le stesse prerogative del passato, il concetto di protezione ecclesiastica rimane importante.

Oggi, i Salesiani, come molte altre congregazioni, mantengono un rapporto stretto con la Santa Sede attraverso diversi dicasteri e uffici curiali, in particolare il Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Inoltre, molti cardinali continuano a sostenere personalmente la missione dei Salesiani, anche senza il titolo formale di protettore. Questa vicinanza e sostegno rimangono fondamentali per garantire che la missione salesiana continui a rispondere alle sfide del mondo contemporaneo, in particolare nell’educazione giovanile e nelle missioni.

L’istituzione dei cardinali protettori per la Società Salesiana fu un elemento cruciale per la sua crescita e il suo consolidamento. Grazie alla protezione offerta da queste eminenti figure ecclesiastiche, don Bosco e i suoi successori poterono portare avanti la missione salesiana con maggiore serenità e sicurezza, sapendo di poter contare sul supporto della Santa Sede. L’opera dei cardinali protettori si rivelò essenziale non solo per la difesa dei diritti della congregazione, ma anche per favorire la sua espansione in tutto il mondo, contribuendo a diffondere il carisma di don Bosco e il suo sistema educativo.