Andrea Beltrami profilo virtuoso (1/2)

            Il venerabile don Andrea Beltrami (1870-1897) è espressione emblematica di una dimensione costitutiva non solo del carisma salesiano, ma del cristianesimo: la dimensione oblativa e vittimale, che in chiave salesiana incarna le esigenze del “caetera tolle”. Una testimonianza che, sia per la sua singolarità, sia per ragioni in parte legate a letture datate o tramandate attraverso una certa vulgata, è andata scomparendo dalla visibilità del mondo salesiano. Resta il fatto che il messaggio cristiano presenta intrinsecamente aspetti incompatibili con il mondo e se ignorati rischiano di rendere infecondo lo stesso messaggio evangelico e, nello specifico, il carisma salesiano, non salvaguardato nelle sue radici carismatiche di spirito di sacrificio, di faticosa laboriosità, di rinunce apostoliche. La testimonianza di don Andrea Beltrami è paradigmatica di tutto un filone della santità salesiana che, partendo dai tre santi Andrea Beltrami, beato Augusto Czartoryski, beato Luigi Variara, continua nel tempo con altre figure di famiglia quali la beata Eusebia Palomino, la beata Alexandrina Maria da Costa, la beata Laura Vicuña, senza dimenticare la numerosa schiera dei martiri.

1. Radicalità evangelica

1.1. Radicale nella scelta vocazionale
            A Omegna (Novara), sulle rive del lago d’Orta, il 24 giugno 1870, nacque Andrea Beltrami. Ricevette in famiglia un’educazione profondamente cristiana, che fu poi sviluppata nel collegio salesiano di Lanzo ove entrò nell’ottobre del 1883. Qui maturò la sua vocazione. A Lanzo, un giorno ebbe la grande fortuna di incontrare Don Bosco. Rimastone affascinato, gli nacque dentro una domanda: «Perché non potrei essere anch’io come lui? Perché non spendere anch’io la vita per la formazione e la salvezza dei giovani?». Nel 1885, Don Bosco gli disse: «Andrea, diventa anche tu salesiano!». Nel 1886 ricevette l’abito chiericale da Don Bosco a Foglizzo e il 29 ottobre 1886 iniziava l’anno di noviziato con un proposito: «Voglio farmi santo». Tale proposito non fu formale, ma diventò ragione di vita. Specialmente don Eugenio Bianchi, suo maestro di noviziato, nella relazione che fece a Don Bosco, lo descrive come perfetto in ogni virtù. Tale radicalità fin dal noviziato si espresse nell’obbedienza ai superiori, nell’esercizio della carità verso i compagni, nell’osservanza religiosa da essere definito “Regola personificata”. Il 2 ottobre 1887, a Valsalice (Torino) Don Bosco riceveva i voti religiosi di Andrea: era diventato salesiano e intraprese subito gli studi per prepararsi al sacerdozio.
            Colpisce molto la fermezza e la determinazione nella risposta alla chiamata del Signore, segno del valore che egli attribuiva alla sua vocazione: «La grazia della vocazione fu per me una grazia, affatto singolare, invincibile, irresistibile, efficace. Il Signore mi aveva messo in cuore una ferma persuasione, un intimo convincimento che la sola via a me conveniente era farmi salesiano; era una voce di comando che non ammetteva replica, che toglieva ogni ostacolo alla quale non avrei potuto resistere anche se avessi voluto, e perciò avrei superato mille difficoltà, ancorché si fosse trattato di passare sul corpo di mio padre e di mia madre, come fece la Chantal che passò sul corpo del suo figlio”. Queste espressioni molto forti e forse poco piacevoli al nostro palato; sono come il preludio a una storia vocazionale vissuta con una radicalità non facile né da comprendere e tanto meno da accettare.

1.2. Radicale nel cammino formativo
            Un aspetto interessante e rivelativo di un agire prudenziale è la capacità di lasciarsi consigliare e correggere e diventare a sua volta capace di correzione e di consiglio: «Mi getto come un bambino nelle braccia sue abbandonandomi interamente alla sua direzione. Ella mi conduca per la via della perfezione, io sono risoluto con la grazia di Dio, di superare qualunque difficoltà, di fare qualunque sforzo per seguire i suoi consigli»; così al suo direttore spirituale don Giulio Barberis. Nell’esercizio dell’insegnamento e dell’assistenza «parlava sempre con calma e serenità… prima leggeva attentamente i regolamenti dei medesimi uffici… le norme ed il regolamento sull’assistenza e sul modo di far scuola… acquistò presto la conoscenza di ciascuno dei propri allievi, dei loro bisogni individuali, quindi si fece tutto a tutti ed a ciascuno». Nella correzione fraterna si lasciava ispirare da principi cristiani e interveniva ponderando bene le parole ed esprimendo chiaramente il suo pensiero.

            Risale a questo periodo la conoscenza del principe polacco Augusto Czartoryski da poco entrato in Congregazione, con il quale Andrea si legò d’amicizia: studiavano insieme le lingue straniere e si aiutavano a salire verso la vetta della santità. Quando Augusto si ammalò, i superiori pregarono Andrea di stargli vicino e di aiutarlo. Trascorsero insieme le vacanze estive negli istituti salesiani di Lanzo, Penango d’Asti, Alassio. Augusto, che intanto era arrivato al sacerdozio, era per Andrea angelo custode, maestro ed esempio eroico di santità. Don Augusto si spegnerà nel 1893 e don Andrea dirà di lui: “Ho curato un santo”. Quando poi a sua volta don Beltrami si ammalerà della stessa malattia, tra le probabili cause bisognerà annoverare anche questa dimestichezza di vita con l’amico infermo.

1.3. Radicale nella prova
            La sua malattia iniziò in modo brutale il 20 febbraio 1891 quando, in seguito ad un viaggio molto faticoso e durante i giorni di rigido inverno, si manifestarono i primi sintomi di un male che ne avrebbe minato la salute e lo avrebbe condotto alla tomba. Se tra le cause vi sono le fatiche scolastiche e i contatti con il principe Czartoryski affetto da tale malattia, meritano di essere ricordati sia lo sforzo ascetico che l’offerta vittimale. Circa tale lotta ingaggiata con il proprio uomo vecchio testimonia il suo compaesano e compagno di noviziato Giulio Cane: «Ebbi sempre la convinzione che il servo di Dio abbia preso la scossa più grave alla sua salute dalla forma violenta e costante con cui s’impose di rinnegare ogni suo moto volontario per farsi direi schiavo della volontà del Superiore, nel quale egli vedeva quella di Dio. Solo chi poté conoscere il servo di Dio negli anni della sua adolescenza e giovinezza, dallo spirito impulsivo, ardente, quasi ribelle ad ogni freno, e che sa come sia proprio della gente dei Beltrami Manera, il carattere tenace alle proprie opinioni, può farsi un chiaro concetto dello sforzo che il servo di Dio ebbe ad imporsi per dominare se stesso. In poi dalle conversazioni avute col servo di Dio mi feci questa convinzione: che Egli, diffidando di poter vincersi a gradi nel suo carattere, abbia fatto, fino dai primi mesi del suo Noviziato, il proposito della radicale rinunzia del suo volere, delle sue tendenze, delle sue aspirazioni. Tutto ciò ottenne con una costante vigilanza su se stesso per non venir mai meno al suo proposito. È impossibile che una tale lotta interna non abbia contribuito, più che le fatiche dello studio e dell’insegnamento, a minare la salute del servo di Dio». Davvero il giovane Beltrami prese alla lettera le parole del Vangelo: «Il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12).

            Visse la sua sofferenza con letizia interiore: «Il Signore mi vuole sacerdote e vittima: che c’è di più bello?». La sua giornata iniziava con la Santa Messa, in cui egli univa le sue sofferenze al Sacrificio di Gesù presente sull’altare. La meditazione diventava contemplazione. Ordinato sacerdote da mons. Cagliero, si diede tutto alla contemplazione e all’apostolato della penna. D’una tenacia di volontà a tutta prova, con un desiderio veementissimo della santità, consumò la sua esistenza nel dolore e nel lavoro incessante. «La missione che Dio mi affida è di pregare e di soffrire”, diceva. “Io sono contento e felice e faccio sempre festa. Né morire, né guarire, ma vivere per soffrire: nei patimenti ho trovato la vera contentezza», fu il suo motto. Ma la sua vocazione più vera era la preghiera e la sofferenza: essere vittima sacrificale con la Vittima divina che è Gesù. Lo rivelano i suoi scritti luminosi e ardenti: «È pur bello nelle tenebre, quando tutti riposano, tenere compagnia a Gesù, alla tremula luce della lampada davanti al Tabernacolo. Si conosce allora la grandezza infinita del suo amore». «Chiedo a Dio lunghi anni di vita per soffrire ed espiare, riparare. Io sono contento e faccio sempre festa perché lo posso fare. Né morire né guarire, ma vivere per soffrire. Nella sofferenza sta la mia gioia, la sofferenza offerta con Gesù in croce». «Mi offro vittima con Lui, per la santificazione dei sacerdoti, per gli uomini del mondo intero».

2. Il segreto
            Nel suo testo fondamentale per comprendere la vicenda di don Andrea Beltrami, don Giulio Barberis situa la santità del giovane salesiano nell’orbita di quella di Don Bosco, apostolo della gioventù abbandonata. Per fama di santità e di segni don Barberis parla di don Beltrami come «splendente come astro insigne… che tanta luce sparse di buon esempio e tanto ci incoraggiò al bene con le sue virtù!». Si tratterà quindi di cogliere di quale esemplarità di vita si tratti e in quale misura sia di incoraggiamento a quanti la guardano. La testimonianza di don Barberis si fa ancora più stringente e in forma molto ardita dichiara: «Io sono da oltre 50 anni nella Pia Società Salesiana; sono stato oltre 25 anni Maestro dei novizi: quanti santi confratelli ho conosciuto, quanti buoni giovani sono passati sotto di me in questo tempo! Quanti fiori eletti si compiacque il Signore trapiantare nel giardino salesiano in Paradiso! Eppure, se io ho da dire tutto il mio pensiero, sebbene non intenda far paragoni, mia convinzione si è, che nessuno abbia sorpassato in virtù e santità il carissimo nostro don Andrea». E nel processo affermò: «Sono persuaso che sia una grazia straordinaria che volle fare Iddio alla Congregazione fondata dall’impareggiabile don Giovanni Bosco, affinché noi cercando di imitarlo, possiamo raggiungere nella Chiesa lo scopo che ebbe il venerabile Don Bosco nel fondarla». L’attestazione, condivisa da tanti, è basata sia su una conoscenza approfondita della vita dei santi, sia su una famigliarità con don Beltrami di oltre dieci anni.
            Ad uno sguardo superficiale la luce di santità del Beltrami parrebbe in contrasto con la santità di Don Bosco di cui dovrebbe essere un riflesso, ma una lettura attenta consente di cogliere un segreto ordito su cui è intessuta l’autentica spiritualità salesiana. Si tratta di quella parte nascosta, non visibile, che tuttavia costituisce l’ossatura portante della fisionomia spirituale ed apostolica di Don Bosco e dei suoi discepoli. L’ansia del “Da mihi animas” si nutre dell’ascetica del “caetera tolle”; la parte frontale del personaggio misterioso del famoso sogno dei dieci diamanti, con le gemme della fede, speranza, carità, lavoro e temperanza, esige che nella parte posteriore corrispondano quelle dell’obbedienza, povertà, premio, castità, digiuno. La breve esistenza di don Beltrami è densa di un messaggio che rappresenta il lievito evangelico che fa fermentare tutta l’azione pastorale ed educativa tipica della missione salesiana e senza il quale l’azione apostolica è destinata ad esaurirsi in uno sterile e inconcludente attivismo. «La vita di don Beltrami, passata tutta nascosta in Dio, tutta nella preghiera, nei patimenti, nelle umiliazioni, nei sacrifizi, tutta in un lavoro nascosto ma costante, in una carità eroica, sebbene ristretta in un piccolo cerchio secondo la sua condizione, in un complesso mi pare tanto ammirabile da far dire: la fede ha operato sempre dei prodigi, ne opera anche oggidì, come certamente ne opererà finché il mondo duri».
            Si tratta di una consegna totale ed incondizionata di sé al progetto di Dio che motiva l’autentica radicalità della sequela evangelica, vale a dire di ciò che sta alla base, a fondamento di un’esistenza vissuta come risposta generosa ad una chiamata. Lo spirito con cui don Beltrami visse la sua vicenda è bene espresso da questa testimonianza riportata da un suo compagno che mentre lo commiserava per la sua malattia fu interrotto dal Beltrami in questi termini: «Lascia, disse, Dio sa quel che fa; ad ognuno accettare il suo posto ed in quello essere veramente Salesiano. Voi altri sani lavorate, io ammalato soffro e prego», così convinto di essere vero imitatore di Don Bosco.
            Certo non è facile cogliere tale segreto, tale perla preziosa. Non lo fu per don Barberis che pure lo conobbe in modo serio per ben dieci anni come direttore spirituale; non lo fu nella tradizione salesiana che gradualmente ha emarginato tale figura; non lo è nemmeno per noi oggi e per tutto un contesto culturale e antropologico che tende ad emarginare il messaggio cristiano, soprattutto nel suo nucleo di opera redentiva che passa attraverso lo scandalo dell’umiliazione, della passione e della croce. «Descrivere le singolari virtù d’un uomo vissuto sempre chiuso in una casa religiosa, e, negli anni più importanti, in una cameretta, senza pur poter scendere le scale, per ragion della sua malattia, d’un uomo poi d’una tal umiltà che fece scomparire accuratamente tutti quei documenti che avrebbero potuto far conoscere le sue virtù, e che cercava non trapelasse ombra degli alti sensi di sua pietà; di uno che, a chi voleva e a chi non voleva, si protestava gran peccatore accennando a’ suoi innumerevoli peccati, mentre invece era sempre stato tenuto il migliore in qualunque scuola e collegio si fosse presentato, è opera non pure difficile, ma quasi impossibile». La difficoltà a cogliere il profilo virtuoso dipende dal fatto che tali virtù non erano né appariscenti, né suffragate da particolari fatti esteriori da attirare l’attenzione o suscitare ammirazione.

(continua)




Don Rinaldi ai Becchi

Il beato don Filippo Rinaldi, terzo successore di don Bosco, è ricordato come una figura straordinaria, capace di unire in sé le qualità di Superiore e Padre, insigne maestro di spiritualità, pedagogia e vita sociale, oltre che guida spirituale impareggiabile. La sua profonda ammirazione per don Bosco, che ebbe il privilegio di conoscere personalmente, lo rese una viva testimonianza del carisma del fondatore. Consapevole dell’importanza spirituale dei luoghi legati all’infanzia di don Bosco, don Rinaldi dedicò particolare attenzione a visitarli, riconoscendone il valore simbolico e formativo. In questo articolo, ripercorriamo alcune delle sue visite al Colle Don Bosco, alla scoperta del legame speciale che lo univa a questi luoghi santi.

Per il santuarietto di Maria Ausiliatrice
            Con l’inaugurazione del Santuarietto di Maria Ausiliatrice, voluto davanti alla Casetta di don Bosco da don Paolo Albera, e precisamente dal due agosto 1918, quando Mons. Morganti, Arcivescovo di Ravenna, assistito dai nostri Superiori Maggiori, benedisse solennemente la chiesa e le campane, ebbe inizio la presenza stabile dei Salesiani ai Becchi. In quel giorno c’era pure don Filippo Rinaldi, Prefetto Generale, e, con lui, don Francesco Cottrino, primo direttore della nuova casa.
            D’allora in poi le visite di don Rinaldi ai Becchi si rinnovarono ogni anno a ritmo serrato, vera espressione del suo grande affetto al buon padre don Bosco e del suo vivissimo interessamento per l’acquisto e l’appropriata sistemazione dei luoghi memorabili della fanciullezza del Santo.
            Dalle scarne notizie di cronaca della casa salesiana dei Becchi si possono facilmente dedurre la cura e l’amore con cui don Rinaldi promosse e seguì personalmente i lavori necessari a rendere onore a don Bosco ed appropriato servizio ai pellegrini.
            Nel 1918, dunque, don Rinaldi, dopo la sua venuta ai Becchi per la benedizione della chiesa, vi ritornò il 6 ottobre assieme al Card. Cagliero per la Festa del Santo Rosario, e ne approfittò per avviare le trattative dell’acquisto della Casa Cavallo retrostante a quella di don Bosco.

Cura dei lavori per la casetta
            Nel 1919 furono due le visite di don Rinaldi ai Becchi: quella del 2 giugno e quella del 28 settembre, tutte e due in vista dei restauri da effettuare nella zona storica del Colle.
            Tre invece furono le visite nel 1920: quella del 16-17 giugno, per trattare l’acquisto della casa Graglia e del prato dei fratelli Bechis; quella dell’11 settembre per visitare i lavori e la proprietà dei Graglia; e, infine, quella del 13 dello stesso mese, per presenziare alla stesura dello strumento notarile di acquisto della medesima casa Graglia.
            Due furono le visite del 1921: il 16 marzo, con l’Arch. Valotti, per il progetto di una strada che conducesse al Santuario e di un Pilone e di un Capannone per pellegrini sulla piazzetta; il 12-13 settembre, con l’Arch. Valotti ed il Cav. Melle, per lo stesso scopo.
            Nel 1922 don Rinaldi fu di nuovo ai Becchi due volte: il 4 maggio con il Card. Cagliero, don Ricaldone, don Conelli e tutti i Membri del Capitolo Generale (inclusi i Vescovi Salesiani), per pregare presso la Casetta dopo la sua elezione a Rettor Maggiore; ed il 28 settembre con i suoi più diretti collaboratori.
            Vi giunse poi il 10 giugno 1923 per celebrare la Festa di Maria Ausiliatrice. Presiedette ai Vespri nel santuario, fece la predica ed impartì la benedizione eucaristica. Nell’Accademia che seguì, presentò la Croce «Pro Ecclesia et Pontifice» al sig. Giovanni Febbraro, nostro benefattore. Vi ritornò poi in ottobre con il Card. G. Cagliero per la festa del Santo Rosario, celebrando la Santa Messa alle ore 7 e portando il SS. nella processione eucaristica cui seguì la Benedizione impartita dal Cardinale.
            Il 7 settembre 1924 don Rinaldi guidò ai Becchi il Pellegrinaggio dei Padri di Famiglia e de-gli Exallievi delle Case di Torino. Celebrò la Santa Messa, fece la predica e poi, dopo colazione, partecipò al Concerto organizzato per l’occasione. Ritornò ancora il 22 ottobre dello stesso anno assieme a don Ricaldone, ed ai sigg. Valotti e Barberis, per risolvere la spinosa questione della strada al santuario che implicava difficoltà da parte dei proprietari dei terreni adiacenti.
            Ben tre volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1925: il 21 maggio per lo scoprimento della lapide a don Bosco, e poi il 23 luglio ed il 19 settembre, accompagnato questa volta nuovamente dal Card. Cagliero.
            Il 13 maggio 1926 don Rinaldi guidò un pellegrinaggio di circa 200 soci dell’Unione Insegnanti don Bosco, celebrando la Santa Messa e presiedendo alla loro adunanza. Il 24 luglio dello stesso anno ritornò, assieme a tutto il Capitolo Superiore, alla guida del pellegrinaggio dei Direttori delle Case d’Europa; e, di nuovo, il 28 agosto con il Capitolo Superiore ed i Direttori delle case d’Italia.

Ristrutturazione del centro storico
            Tre altre visite di don Rinaldi ai Becchi risalgono al 1927: quella del 30 maggio con don Giraudi ed il sig. Valotti per definire i lavori edilizi (costruzione del portico ecc.); quella del 30 agosto con don Tirone e con i Direttori degli Oratori festivi; e quella del 10 ottobre con don Tirone ed i giovani missionari di Ivrea. In quest’ultima occasione don Rinaldi esortò il Direttore di allora, don Fracchia, a collocare piante dietro la casa Graglia e nel prato del Sogno,
            Quattro volte don Rinaldi fu ai Becchi nel 1928: — Il 12 aprile con don Ricaldone per l’esame dei lavori eseguiti e di quelli in corso. — Il 9-10 giugno con don Candela e don V. Bettazzi per la Festa di Maria Ausiliatrice e per l’inaugurazione del Pilone del Sogno. In quest’occasione cantò la Santa Messa e, dopo i Vespri e la Benedizione eucaristica pomeridiana, benedisse il Pilone del Sogno ed il nuovo Portico, dirigendo a tutti dalla veranda la sua parola. Alla sera assistette alla luminaria. — Il 30 settembre giunse con don Ricaldone e don Giraudi per visitare la località «Gaj». — L’8 ottobre ritornò alla testa del pellegrinaggio annuale dei giovani missionari della casa di Ivrea. Fu in quell’anno che don Rinaldi manifestò il desiderio dell’acquisto della villa Damevino per adibirla ad alloggio per pellegrini o, meglio ancora, destinarla ai Figli di Maria aspiranti missionari.
            Ben sei furono le visite ai Becchi nel 1929: — La prima, del 10 marzo, con don Ricaldone, fu per visitare la villa Damevino e la casa Graglia (la prima delle quali venne poi acquistata quello stesso anno). Essendo ormai imminente la beatificazione di don Bosco, don Rinaldi volle pure che si allestisse un altarino al Beato nella cucina della Casetta (il che fu poi eseguito più tardi, nel 1931). — La seconda, del 2 maggio, fu pure una visita di studio, con don Giraudi, il sig. Valotti ed il pittore prof. Guglielmino. — La terza, del 26 maggio, fu per partecipare alla festa di Maria Ausiliatrice. — La quarta, del 16 giugno, la fece con il Capitolo Superiore e con tutti i Membri del Capitolo Generale per la Festa di don Bosco. — La quinta, del 27 luglio, fu una breve visita con don Tirone e Mons. Massa. — La sesta, infine, fu con Mons. Mederlet ed i giovani missionari della Casa di Ivrea, per i quali don Rinaldi non nascondeva le sue predilezioni.
            Nel 1930 don Rinaldi venne ancora due volte ai Becchi: il 26 giugno per una breve visita di ricognizione delle varie località; ed il 6 agosto, con don Ricaldone, il sig. Valotti ed il cav. Sartorio, per la ricerca dell’acqua (trovata poi da don Ricaldone in due punti, a 14 e a 11 metri di distanza dalla fonte chiamata Bacolla).
            L’anno 1931, che fu l’anno della sua morte, avvenuta il 5 dicembre, don Rinaldi giunse ai Becchi almeno tre volte: Il 19 luglio, di pomeriggio. In quell’occasione raccomandò di fare la commemorazione di don Bosco il 16 di ogni mese o la domenica seguente. Il 16 settembre, quando approvò e lodò il campo di ricreazione preparato per i giovani della Comunità. Il 25 settembre, e fu l’ultima, quando, con don Giraudi ed il sig. Valotti, esaminò il progetto degli alberi da piantare nella zona (sarà eseguito più tardi, nel 1990, quando cominciò la realizzazione del progetto di alberazione di 3000 piante sui vari versanti del Colle dei Becchi, proprio nell’anno della sua beatificazione).
            Non calcolando eventuali visite precedenti, sono quindi 41 le visite fatte da don Rinaldi ai Becchi tra il 1918 e il 1931.




Quarto sogno missionario in Africa e Cina (1885)

La medesima Provvidenza non cessava di squarciare ogni tanto dinanzi agli occhi di Don Bosco il velo del futuro sui progressi della Società Salesiana nel campo sconfinato delle Missioni. Anche nel 1885 un sogno rivelatore venne a manifestargli quali fossero i disegni di Dio nel remoto avvenire. Don Bosco lo narrò e commentò a tutto il Capitolo la sera del 2 luglio; Don Lemoyne si affrettò a scriverlo.

            Mi parve di essere innanzi ad una montagna elevatissima, sulla cui vetta stava un Angelo splendentissimo per luce, sicché illuminava le contrade più remote. Intorno al monte vi era un vasto regno di genti sconosciute.
            L’Angelo colla destra teneva sollevata in alto una spada che splendeva come fiamma vivissima e colla sinistra mi indicava le regioni all’intorno. Mi diceva: Angelus Arfaxad vocat vos ad proelianda bella Domini et ad congregandos populos in horrea Domini (L’Angelo di Arfaxad vi chiama a combattere le battaglie del Signore ed a radunare i popoli nei granai del Signore). La sua parola però non era come le altre volte in forma di comando, ma a modo di proposta.
            Una turba meravigliosa di Angeli, di cui non ho saputo o potuto ritenere il nome, lo circondava. Fra questi vi era Luigi Colle, al quale faceva corona una moltitudine di giovanetti, a cui egli insegnava a cantare lodi a Dio, cantando lui stesso.
            Intorno alla montagna, ai piedi di essa, e sopra i suoi dorsi abitava molta gente. Tutti parlavano fra di loro, ma era un linguaggio sconosciuto ed io non intendeva. Solo capiva ciò che diceva l’Angelo. Non posso descrivere quello che ho visto. Sono cose che si vedono, s’intendono, ma non si possono spiegare. Contemporaneamente vedeva oggetti separati, simultanei, i quali trasfiguravano lo spettacolo che mi stava dinanzi. Quindi ora mi pareva la pianura della Mesopotamia, ora un altissimo monte; e quella stessa montagna su cui era l’Angelo di Arfaxad ad ogni istante prendeva mille aspetti, fino a sembrare ombre vagolanti quelle genti che l’abitavano.
            Innanzi a questo monte e in tutto questo viaggio mi sembrava di essere sollevato ad una altezza sterminata, come sopra le nuvole, circondato da uno spazio immenso. Chi può esprimere a parole quell’altezza, quella larghezza, quella luce, quel chiarore, quello spettacolo? Si può godere, ma non si può descrivere.
            In questa e nelle altre vedute vi erano molti che mi accompagnavano e m’incoraggiavano, e facevano animo anche ai Salesiani, perché non si fermassero nella loro strada. Fra costoro che calorosamente mi tiravano, a così dire, per mano affinché andassi avanti, vi era il caro Luigi Colle e schiere di Angeli, i quali facevano eco ai cantici di quei giovanetti che stavano a lui d’intorno.
            Quindi mi parve di essere nel centro dell’Africa in un vastissimo deserto ed era scritto in terra a grossi caratteri trasparenti: Negri. Nel mezzo vi era l’Angelo di Cam, il quale diceva: – Cessabit maledictum (è finita la maledizione) e la benedizione del Creatore discenderà sopra i riprovati suoi figli e il miele e il balsamo guariranno i morsi fatti dai serpenti; dopo saranno coperte le turpitudini dei figliuoli di Cam.
            Quei popoli erano tutti nudi.
            Finalmente mi parve d’essere in Australia.
            Qui pure vi era un Angelo, ma non aveva nessun nome. Egli guidava e camminava e faceva camminare la gente verso il mezzodì. L’Australia non era un continente, ma un aggregato di tante isole, i cui abitanti erano di carattere e di figura diversa. Una moltitudine di fanciulli che colà abitavano, tentavano di venire verso di noi, ma erano impediti dalla distanza e dalle acque che li separavano. Tendevano però le mani stese verso Don Bosco ed i Salesiani, dicendo: -Venite in nostro aiuto! Perché non compite l’opera che i vostri padri hanno incominciata? – Molti si fermarono; altri con mille sforzi passarono in mezzo ad animali feroci e vennero a mischiarsi coi Salesiani, i quali io non conosceva, e si misero a cantare: Benedictus qui venit in nomine Domini (benedetto colui che viene nel nome del Signore, Ps 118,26; Mt 21,9; et passim). A qualche distanza si vedevano aggregati di isole innumerabili; ma io non ne potei discernere le particolarità. Mi pare che tutto questo insieme indicasse che la divina Provvidenza offriva una porzione del campo evangelico ai Salesiani, ma in tempo futuro. Le loro fatiche otterranno frutto, perché la mano del Signore sarà costantemente con loro, se non demeriteranno dei suoi favori.
            Se potessi imbalsamare e conservare vivi un cinquanta Salesiani di quelli che ora sono fra di noi, da qui a cinquecento anni vedrebbero quali stupendi destini ci riserba la Provvidenza, se saremo fedeli.
            Di qui a centocinquanta o duecento anni i Salesiani sarebbero padroni di tutto il mondo.
            Noi saremo ben visti sempre, anche dai cattivi, perché il nostro campo speciale è di tal fatta da tirare le simpatie di tutti, buoni ed empi. Potrà essere qualche testa matta che ci voglia distrutti, ma saranno progetti isolati e senza appoggio degli altri.
            Tutto sta che i Salesiani non si lascino prendere dall’amore delle comodità e quindi rifuggano dal lavoro. Mantenendo anche solo le nostre opere già esistenti, e non dandosi al vizio della gola, avranno caparra di lunga durata.
            La Società Salesiana prospererà materialmente, se procureremo di sostenere e di estendere il Bollettino, l’opera dei Figli di Maria Ausiliatrice, e l’estenderemo. Sono così buoni tanti di questi figliuoli! La loro istituzione è quella che ci darà valenti Confratelli risoluti nella loro vocazione.

            Queste sono le tre cose che Don Bosco vide più distintamente, che meglio ricordò e che narrò la prima volta; ma, come espose successivamente a Don Lemoyne, egli aveva visto assai più. Aveva visto tutti i paesi, nei quali i Salesiani sarebbero stati chiamati con l’andare del tempo, ma in una visione fugace, facendo un rapidissimo viaggio, in cui, partito da un punto, là era ritornato. Diceva essere stato come un lampo; tuttavia nel percorrere quello spazio immenso aver distinto in un attimo regioni, città, abitanti, mari, fiumi, isole, costumi e mille fatti che s’intrecciavano e cambiamenti simultanei di spettacoli impossibili a descriversi. Di tutto perciò il fantasmagorico itinerario serbava appena un ricordo indistinto ne sapeva più farne una particolareggiata descrizione. Gli era sembrato di aver con sé molti, che incoraggiavano lui e i Salesiani a non mai arrestarsi per via. Fra i più animati a spronare perché si andasse sempre avanti, appariva Luigi Colle, del quale scriveva al padre il 10 agosto: “Il nostro amico Luigi mi ha condotto a fare una gita nel centro dell’Africa, terra di Cam, diceva egli, e nelle terre di Arfaxad ossia in Cina. Se il Signore vorrà che ci troviamo insieme, ne avremo delle cose da dire”.
            Percorse una zona circolare intorno alla parte meridionale della sfera terrestre. Ecco la descrizione del viaggio, secondo che Don Lemoyne asserisce averla udita dalla sua bocca. Partì da Santiago del Cile e vide Buenos Aires, S. Paolo nel Brasile, Rio de Janeiro, Capo di Buona Speranza, Madagascar, Golfo Persico, sponde del Mar Caspio, Sermaar, monte Ararat, Senegal, Ceylon, Hong-Hong, Macao sull’entrata di un mare sterminato e davanti all’alta montagna da cui si scopriva la Cina; poi l’Impero Cinese, l’Australia, le isole Diego Ramirez; si chiuse infine la peregrinazione con il ritorno a Santiago del Cile. Nel fulmineo giro Don Bosco distingueva isole, terre e nazioni sparse sui vari gradi e molte regioni poco abitate e sconosciute. Dei nomi di tante località vedute nel sogno più non ricordava con esattezza i nomi; Macao, per esempio, la chiamava Meaco. Delle parti più meridionali dell’America fece parola con il capitano Bove; ma questi, non avendo passato il capo di Magellano per mancanza di mezzi e perché costretto poi da diversi affari a tornar indietro, non gli poté fornire alcuno schiarimento.
            Dobbiamo dire qualche cosa di quell’enigmatico Arfaxad. Prima del sogno Don Bosco non sapeva chi fosse; dopo invece ne parlava con certa frequenza. Incaricò il chierico Festa di cercare in dizionari biblici, in storie e geografie, in periodici, per scoprire con quali popoli della terra quel supposto personaggio avesse avuto rapporti. Finalmente si credette d’aver trovato la chiave del mistero nel primo volume del Rohrbacher, il quale asserisce che da Arfaxad discendono i Cinesi.
            Il suo nome compare nel capo decimo del Genesi, dove si fa la genealogia dei figli di Noè, che si divisero il mondo dopo il diluvio. Al versetto 22 si legge: Filii Sem Aelam et Assur et Arphaxad et Lud et Gether et Mes. Qui, come in altre parti del grande quadro etnografico, i nomi propri designano individui che furono padri di popoli, con riferimento pure alle contrade dai medesimi popolate. Così Aelam che significa paese alto, accenna all’Elimaide che con la Susiana divenne poi provincia della Persia; Assur è il padre degli Assiri. Sul terzo nome gli esegeti non vanno d’accordo nel determina e il popolo a cui si riferisce. Alcuni, come il Vigouroux (tanto per citarne uno dei più alla mano), assegnano ad Arfaxad la Mesopotamia. In ogni modo, essendo elencato fra progenitori di schiatte asiatiche e precisamente dopo due di essi che popolarono il lembo più orientale della terra descritta nel documento mosaico, si può arguire che anche Arphaxad stia a indicare una popolazione da collocarsi al seguito delle precedenti, propagatasi poi sempre più verso l’Oriente. Non parrebbe dunque improbabile che nell’Angelo di Arfaxad sia da vedere quello dell’India e della Cina.
            Don Bosco si fissò particolarmente sulla Cina e diceva sembrargli che colà fra non molto sarebbero stati chiamati i Salesiani, una volta anzi aggiunse:
            – Se io avessi venti Missionari da spedire in Cina, è certo che vi riceverebbero un’accoglienza trionfale nonostante la persecuzione. – Perciò d’allora in poi s’interessava assai per tutto quello che poteva riguardare il celeste impero.
            A questo sogno mostrava di pensare sovente, ne discorreva volentieri e ravvisava in esso una conferma dei sogni precedenti sulle Missioni.
(MB XVII 643-645)