Terzo sogno missionario: viaggio aereo (1885)

Il sogno di don Bosco alla vigilia della partenza dei missionari per l’America è un evento ricco di significato spirituale e simbolico nella storia della Congregazione Salesiana. Durante quella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, don Bosco ebbe una visione profetica che sottolinea l’importanza della pietà, dello zelo apostolico e della totale fiducia nella Provvidenza Divina per il successo della missione. Questo episodio non solo incoraggiò i missionari, ma consolidò anche la convinzione di Don Bosco sulla necessità di espandere la loro opera oltre i confini italiani, portando educazione, assistenza e speranza alle nuove generazioni in terre lontane.

            S’arrivò frattanto alla vigilia della partenza. Per tutta la giornata il pensiero che Monsignore e gli altri sarebbero andati così lontano, e l’impotenza assoluta di accompagnarli, come le volte precedenti, fino all’imbarco, anzi l’impossibilità forse di dar loro almeno l’addio nella chiesa di Maria Ausiliatrice, gli causarono sussulti di commozione, che in certi momenti lo opprimevano e lo lasciavano abbattuto. Or ecco che nella notte dal 31 gennaio al 1° febbraio fece un sogno simile a quello del 1883 sulle Missioni. Lo raccontò quindi a Don Lemoyne che subito lo scrisse. É il seguente.

            Mi parve di accompagnare i Missionari nel loro viaggio. Ci siamo parlati per un breve momento prima di partire dall’Oratorio. Essi mi stavano attorno e mi chiedevano consigli; e mi pareva di dire loro:
            – Non colla scienza, non colla sanità, non colle ricchezze, ma collo zelo e colla pietà, farete del gran bene, promovendo la gloria di Dio e la salute delle anime.
            Eravamo poco prima all’Oratorio, e poi senza sapere per quale via fossimo andati e con quale mezzo, ci siamo trovati quasi subito in America. Giunto al termine del viaggio mi trovai solo in mezzo ad una vastissima pianura, posta tra il Chile e la Repubblica Argentina. I miei cari Missionari si erano tutti dispersi qua e là per quello spazio senza limiti. Io guardandoli mi meravigliava, poiché mi sembravano pochi. Dopo tanti Salesiani che in varie volte aveva mandati in America, mi pensava di dover vedere un numero maggiore di Missionari. Ma poscia riflettendo conobbi che se piccolo sembrava il loro numero, ciò avveniva perché si erano sparsi in molti luoghi, come seminagione che doveva trasportarsi altrove ad essere coltivata e moltiplicata.
            In quella pianura apparivano molte e lunghissime vie per le quali si vedevano sparse numerose case. Queste vie non erano come le vie di questa terra, e le case non erano come le case di questo mondo. Erano oggetti misteriosi e direi quasi, spirituali. Quelle strade erano percorse da veicoli, o da mezzi di trasporto che correndo prendevano successivamente mille aspetti fantastici e mille forme tutte diverse, benché magnifiche e stupende, sicché io non posso definirne o descriverne una sola. Osservai con stupore che i veicoli giunti vicini ai gruppi di case, ai villaggi, alle città, passavano in alto, cosicché chi viaggiava vedeva sotto di sé i tetti delle case, le quali benché fossero molto elevate, pure di molto sottostavano a quelle vie le quali mentre nel deserto aderivano al suolo, giunte vicine ai luoghi abitati diventavano aeree quasi formando un magico ponte. Di lassù si vedevano gli abitanti nelle case, nei cortili, nelle vie, e nelle campagne occupati a lavorare i loro poderi.
            Ciascheduna di quelle strade faceva capo ad una delle nostre missioni. In fondo ad una lunghissima via che si protendeva dalla parte del Chile io vedeva una casa [tutte le particolarità topografiche che precedono e che seguono, sembrano indicare la casa di Fortìn Mercedes, sulla riva sinistra del Colorado] con molti confratelli Salesiani, i quali si esercitavano nella scienza, nella pietà, in varie arti e mestieri e nell’agricoltura. A mezzodì era la Patagonia. Dalla parte opposta in un colpo d’occhio scorgeva tutte le case nostre nella Repubblica Argentina. Quindi nell’Uruguay, Paysandú, Las Piedras, Villa Colón; nel Brasile il Collegio di Nicteroy e molti altri ospizi sparsi nelle provincie di quell’impero. Ultima ad occidente si apriva un’altra lunghissima strada che traversando fiumi, mari e laghi faceva capo in paesi sconosciuti. In questa regione vidi pochi Salesiani. Osservai con attenzione e potei solamente vederne due.
            In quell’istante apparve vicino a me un personaggio di nobile e vago aspetto, pallidetto di carnagione, grasso, con barba rasa in modo da parere imberbe e per età uomo fatto. Era vestito in bianco, con una specie di cappa color di rosa intrecciata con fili d’oro. Risplendeva tutto. Io conobbi in quello il mio interprete.
            – Dove siamo qui? chiesi io additandogli quest’ultimo paese.
            – Siamo in Mesopotamia, mi rispose l’interprete.
            – In Mesopotamia? io replicai: ma questa è la Patagonia.
            – Ti dico, rispose l’altro, che questa è la Mesopotamia.
            – Ma pure… ma pure… non posso persuadermene.
            – La cosa è così! Questa è la Me.. so.. po.. ta.. mi.. a, concluse l’interprete sillabando la parola, perché mi restasse bene impressa.
            – Ma perché i Salesiani che vedo qui sono così pochi?
            – Ciò che non è, sarà, concluse il mio interprete.
            Io intanto sempre fermo in quella pianura percorreva collo sguardo tutte quelle interminabili vie e contemplava, in modo chiarissimo ma inesplicabile, i luoghi che sono e saranno occupati dai Salesiani. Quante cose magnifiche io vidi! Vidi tutti i singoli collegi. Vidi come in un punto solo il passato, il presente e l’avvenire delle nostre missioni. Siccome vidi tutto complessivamente in uno sguardo solo, è ben difficile, anzi impossibile rappresentare anche languidamente qualche ristretta idea di questo spettacolo. Solamente ciò che io vidi in quella pianura del Chile, del Paraguay, del Brasile, della Repubblica Argentina domanderebbe un grosso volume, volendo indicare qualche sommaria notizia. Vidi pure in quella vasta pianura, la gran quantità di selvaggi che sono sparsi nel Pacifico fino al golfo di Ancud, nello stretto di Magellano, al Capo Horn, nelle isole Diego, nelle isole Malvine. Tutta messe destinata per i Salesiani. Vidi che ora i Salesiani seminano soltanto, ma i nostri posteri raccoglieranno. Uomini e donne ci rinforzeranno e diverranno predicatori. I loro figli stessi che sembra quasi impossibile guadagnare alla fede, eglino stessi diverranno gli evangelizzatori dei loro parenti e dei loro amici. I Salesiani riusciranno a tutto colla umiltà, col lavoro, colla temperanza. Tutte quelle cose che io vedeva in quel momento e che vidi in appresso, riguardavano tutte i Salesiani, il loro regolare stabilimento in quei paesi, il loro aumento meraviglioso, la conversione di tanti indigeni e di tanti Europei colà stabiliti. L’Europa si verserà nell’America del Sud. Dal momento che in Europa si incominciò a spogliare le chiese, incominciò a diminuire la floridezza del commercio, il quale andò e andrà sempre più deperendo. Quindi gli operai e le loro famiglie spinti dalla miseria correranno a cercare ricovero in quelle nuove terre ospitali.
            Visto il campo che ci assegna il Signore ed il glorioso avvenire della Congregazione Salesiana, mi parve di mettermi in viaggio pel ritorno in Italia. Io era trasportato con rapidissimo corso per una via strana, altissima e così giunsi in un attimo sopra l’Oratorio. Tutta Torino era sotto i miei piedi e le case, i palagi, le torri mi sembravano basse casupole, tanto io mi trovava in alto. Piazze, strade, giardini, viali, le ferrovie le mura di cinta, le campagne, e le colline circostanti, le città, i villaggi della provincia, la gigantesca catena delle Alpi coperta di neve stavano sotto i miei occhi presentandomi uno stupendo panorama. Vedeva i giovani là in fondo nell’Oratorio che sembravano tanti topolini. Ma il loro numero era straordinariamente grande; preti, chierici, studenti, capi d’arte ingombravano tutto. Molti partivano in processione ed altri sottentravano alle file di coloro che partivano. Era una continuata processione.
            Tutti si andavano a raccogliere in quella vastissima pianura tra il Chile e la Repubblica Argentina, nella quale io tosto era ritornato in un batter d’occhio. Io li stava, osservando. Un giovane prete il quale sembrava il nostro D. Pavia, ma che non era, con aria affabile, parola cortese, di un aspetto candido, e di carnagione fanciullesca venne verso di me e mi disse:
            – Ecco le anime ed i paesi destinati ai figliuoli di S. Francesco di Sales.
            Io era meravigliato come tanta moltitudine che sì era raccolta colà in un momento disparisse e appena appena in lontananza si scorgesse la direzione che aveva presa.
            Qui io noto che nel narrare il mio sogno vado per sommi capi e non mi è possibile precisare la successione esatta dei magnifici spettacoli che mi si presentavano e i vari accidenti accessori. Lo spirito non regge, la memoria dimentica, la parola non basta. Oltre il mistero che involgeva quelle scene, queste si avvicendavano, talora s’intrecciavano, soventi volte si ripetevano secondo il vario unirsi o dividersi o partire dei missionari, e lo stringersi, o allontanarsi da essi di quei popoli che erano chiamati alla fede o alla conversione. Lo ripeto: vedeva in un punto solo il presente, il passato, l’avvenire di queste missioni, con tutte le fasi, i pericoli, le riuscite, le disdette o disinganni momentanei che accompagneranno questo Apostolato. Allora intendeva chiaramente tutto, ma ora è impossibile sciogliere questo intrigo di fatti, di idee, di personaggi. Sarebbe come chi volesse comprendere in una sola storia e ridurre ad un solo fatto e ad unità tutto lo spettacolo del firmamento, narrando il moto, lo splendore, le proprietà di tutti gli astri colle loro relazioni e leggi particolari e reciproche; mentre un solo astro darebbe materia all’attenzione e allo studio della mente più robusta. E noto ancora che qui si tratta di cose le quali non hanno relazione con gli oggetti materiali.
            Ripigliando adunque il racconto, dico che restai meravigliato nel vedere scomparire tanta moltitudine. Monsignor Cagliero era in quell’istante al mio fianco. Alcuni missionari erano ad una certa distanza. Molti altri erano intorno a me con un bel numero di cooperatori Salesiani, fra i quali distinsi Mons. Espinosa, il Dottor Torrero, il Dottor Caranza e il Vicario generale del Chile [forse si voleva dire di Mons. Domenico Cruz, Vicario Capitolare della diocesi di Concepción]. Allora il solito interprete venne verso di me che parlava con Mons. Cagliero e molti altri, mentre andavamo studiando se quel fatto racchiudesse qualche significazione. Nel modo più cortese l’interprete mi disse:
            – Ascoltate e vedrete.
            Ed ecco in quel momento la vasta pianura divenire una gran sala. Io non posso descrivere esattamente quale apparisse nella sua magnificenza e nella sua ricchezza. Dico solo che se uno si mettesse a descriverla, nessun uomo potrebbe sostenerne lo splendore neppure coll’immaginazione. L’ampiezza era tale che si perdeva a vista d’occhio e non si riusciva a vederne le mura laterali. La sua altezza non si poteva raggiungere. La volta terminava tutta con archi altissimi, larghissimi e risplendentissimi e non si vedeva sopra qual sostegno si appoggiassero. Non vi erano né pilastri, né colonne. In generale sembrava che la cupola di quella gran sala fosse di un candidissimo lino a guisa di tappezziera. Lo stesso dicasi del pavimento. Non vi erano lumi, né sole, né luna, né stelle, ma sebbene uno splendore generale, diffuso egualmente in ogni parte. La stessa bianchezza dei lini luccicava e rendeva visibile ed amena ogni parte, ogni ornamento, ogni finestra, ogni entrata, ogni uscita. Tutto intorno era diffusa una soavissima fragranza, la quale era mescolanza di tutti gli odori più grati.
            Un fenomeno si scorse in quel momento. Una gran quantità di tavole in forma di mensa si trovavano là di una lunghezza straordinaria. Ve ne erano per tutte le direzioni, ma concorrevano ad un centro solo. Erano coperte da eleganti tovaglie e sopra stavano disposti in ordine bellissimi vasi cristallini in cui erano fiori molti e vari.
            La prima cosa che notò Mons. Cagliero fu:
            – Le tavole ci sono, ma i commestibili dove sono?
            Infatti non era apparecchiato nessun cibo e nessuna bevanda, anzi neppure vi erano piatti, coppe o altri recipienti nei quali porre le vivande.
            L’amico interprete rispose allora:
            – Quelli che vengono qui, neque sitient, neque esurient amplius (Non avranno più fame né avranno più sete Ap. 7.16).
            Detto questo incominciò ad entrare gente, tutta vestita in bianco con una semplice striscia come collana, di color di rosa ricamata a fili d’oro che cingeva il collo e le spalle. I primi che entrarono erano in numero limitato. Solo alcuni in piccola schiera. Appena entrati in quella gran sala andavano a sedersi intorno ad una mensa loro preparata, cantando: Evviva! Ma dopo queste, altre schiere più numerose si avanzavano, cantando: Trionfo! Ed allora incominciò a comparire una varietà di persone, grandi e piccoli, uomini e donne, di ogni generazione, diversi di colore, di forme, di atteggiamenti e da tutte parti risuonavano cantici. Si cantava: Evviva! da quelli che erano già al loro posto. Si cantava trionfo! da quelli che entravano. Ogni turba che entrava erano altrettante nazioni o parti di nazioni che saranno tutte convertite dai missionari.
            Ho dato un colpo d’occhio a quelle mense interminabili e conobbi che là sedute e cantando vi erano molte nostre suore e gran numero dei nostri confratelli. Costoro però non avevano nessun distintivo di essere preti, chierici, o suore, ma egualmente come gli altri avevano la veste bianca e il pallio color di rosa.
            Ma la mia meraviglia crebbe quando ho veduto uomini dall’aspetto ruvido, col medesimo vestito degli altri e cantare: Evviva trionfo! In quel momento il nostro interprete disse:
            – Gli stranieri, i selvaggi che bevettero il latte della parola divina dai loro educatori, divennero banditori della parola di Dio.
            Osservai pure in mezzo alla folla schiere di fanciulli con aspetto rozzo e strano e domandai:
            – E questi fanciulli che hanno una pelle così ruvida, che sembra quella di un rospo, ma pure così bella e di un colore così risplendente? Chi sono costoro?
            L’interprete rispose:
            – Questi sono i figliuoli di Cam che non hanno rinunziato alla eredità di Levi. Essi rinforzeranno le armate per tutelare il regno di Dio che finalmente è giunto anche fra noi. Era piccolo il loro numero, ma i figli dei figli loro lo accrebbero. Ora ascoltate e vedete, ma non potete intendere i misteri che vedrete.
            Quei giovanetti appartenevano alla Patagonia ed all’Africa Meridionale.
            In quel mentre si ingrossarono tanto le file di coloro che entrarono in quella sala straordinaria, che ogni sedia pareva occupata. Le sedie e i sedili non avevano forma determinata, ma prendevano quella forma che ciascheduno desiderava. Ognuno era contento del seggio che occupava e del seggio che occupavano gli altri.
            Ed ecco mentre si gridava da tutte Evviva! trionfo! ecco sopraggiungere in ultimo una gran turba che festevolmente veniva incontro agli altri già entrati e cantando: Alleluia, gloria, trionfo!
            Quando la sala apparve interamente piena, e le migliaia dei radunati non si potevano numerare, si fece un profondo silenzio e quindi quella moltitudine incominciò a cantare divisa in diversi cori.
            Il primo coro: Appropinquavit in nos regnum Dei (È vicino a voi il regno di Dio Lc. 10,11); laetentur Coeli et exultet terra (Gioiscano i cieli, esulti la terra, 1Cr 16,31); Dominus regnavit super nos (Il Signore regnò su di noi); alleluia.
            Altro coro: Vicerunt; et ipse Dominus dabit edere de ligno vitae et non esurient in aeternum: alleluia (Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita e non avrà fame in eterno, alleluia Ap. 2,7).
            Un terzo coro: Laudate Dominum omnes gentes, laudate eum omnes populi. (Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode, Ps 117,1)
            Mentre queste ed altre cose cantavano e si alternavano, a un tratto si fece per la seconda volta un profondo silenzio. Quindi incominciarono a risuonare voci che venivano dall’alto e lontane. Il senso del cantico era questo con una armonia che non si può in nessun modo esprimere: Soli Deo honor et gloria in saecula saeculorum ([solo a Dio] onore e gloria nei secoli dei secoli 1Tm 1,17). Altri cori sempre in alto e lontani rispondevano a queste voci: Semper gratiarum actio illi qui erat, est, et venturus est. Illi eucharistia, illi soli honor sempiternus (Ringraziamento in eterno a Colui che era, che è e che verrà. A lui l’Eucaristia, a lui solo l’eterno onore).
            Ma in quel momento quei cori si abbassarono e si avvicinarono. Fra quei musici celesti vi era anche Luigi Colle. Gli altri che stavano nella sala si misero allora tutti a cantare e si unirono, collegandosi le voci insieme in somiglianza di straordinari istrumenti musicali, con suoni la cui estensione non aveva limiti. Quella musica sembrava avesse contemporaneamente mille note e mille gradi di elevazione che si associavano a fare un solo accordo di voci. Le voci in alto salivano così acute che non si può immaginare. Le voci di coloro che erano nella sala scendevano sonore, rotonde così basso che non si può esprimere. Tutti formavano un coro solo, una sola armonia, ma così i bassi come gli alti con tale gusto e bellezza e con tale penetrazione in tutti i sensi dell’uomo e assorbimento di questi, che l’uomo dimenticava la propria esistenza, ed io caddi in ginocchio ai piedi di Mons. Cagliero esclamando:
            – Oh Cagliero! Noi siamo in paradiso!
            Mons. Cagliero mi prese per mano e mi rispose:
            – Non è il paradiso, è una semplice, una debolissima figura di ciò che in realtà sarà in paradiso.
            Intanto unanimi le voci dei due grandiosi cori proseguivano, e cantavano con inesprimibile armonia: Soli Deo honor et gloria, et triumphus alleluia, in aeternum in aeternum! (Solo a Dio onore e gloria e vittoria alleluia, nei secoli dei secoli!) Qui ho dimenticato me stesso e non so più che cosa sia stato di me. Al mattino stentava a levarmi di letto; appena appena potei richiamarmi a me stesso, quando sono andato a celebrare la santa Messa.
            Il pensiero principale che mi restò impresso dopo questo sogno, fu di dare a Mons. Cagliero ed ai miei cari missionari un avviso di somma importanza riguardante le sorti future delle nostre missioni: – Tutte le sollecitudini dei Salesiani e delle suore di Maria Ausiliatrice siano rivolte a promuovere le vocazioni ecclesiastiche e religiose.
(MB XVII, 299-305)




La presenza salesiana in Etiopia ed Eritrea

La missione salesiana in Etiopia ed Eritrea ebbe inizio nel 1975, quando i primi tre salesiani — don Patrick Morrin dall’Irlanda, don Joseph Reza dagli Stati Uniti e don Cesare Bullo dall’Italia — giunsero a Mekele, nel Tigray, in Etiopia. Sotto la guida della Provincia del Medio Oriente (MOR), risposero alla chiamata della Congregazione per esplorare nuove frontiere. Successivamente, nel 1982, altri missionari dell’Ispettoria Italia-Lombardo-Emiliana (ILE) arrivarono a Dilla nell’ambito del Progetto Africa. La presenza salesiana in Eritrea prese avvio a Dekemhare nel 1995. Nel 1998, le comunità delle due ispettorie si unirono per formare la Vice-Provincia “Mariam Kidane Meheret” (AET).

Nell’ottobre 2025 celebreremo il nostro Giubileo d’Oro, segnando 50 anni di presenza salesiana. Sarà un momento per ringraziare e lodare il Signore, ricordando ed esprimendo gratitudine a coloro che hanno reso il carisma salesiano una realtà per i giovani di Etiopia ed Eritrea. Un ringraziamento speciale va a tutti i missionari e benefattori: che Dio vi benedica abbondantemente.

Quando Dio desidera benedire il suo popolo, si serve di altre persone. Quando ha voluto benedire tutte le nazioni, ha chiamato Abramo: “Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce” (Genesi 22,18). Quando ha voluto liberare il suo popolo dalla schiavitù, ha chiamato Mosè (Esodo 3). Quando ha voluto ricordare al suo popolo il suo amore, ha chiamato i profeti. E, nel nostro tempo, Dio ha parlato attraverso suo Figlio: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.” (Ebrei 1,1-2). Il suo amore ci è stato rivelato attraverso l’incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità: il Verbo di Dio si è fatto carne (cfr. Giovanni 1,14) per mostrarci quanto ci ama: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Giovanni 3,16).

Quando Dio ha voluto benedire i giovani etiopi ed eritrei attraverso il carisma salesiano, ha ispirato il defunto Vescovo dell’Eparchia di Adigrat, Sua Eccellenza Abune Hailemariam Kahsay. Egli chiese che i Salesiani venissero nella sua eparchia per offrire un’educazione integrale ai giovani. Quando diciamo “sì” al Signore e collaboriamo con Lui per benedire il suo popolo, dobbiamo essere coerenti, perseveranti e impegnati a comprendere il suo piano e i suoi tempi, oltre a dare il nostro contributo.
Poiché la risposta dei Salesiani tardava ad arrivare, il vescovo Hailemariam chiese a tre dei suoi sacerdoti che studiavano in Italia di diventare salesiani, dando così inizio alla presenza salesiana in Etiopia. Uno di questi sacerdoti, Abba Sebhatleab Worku, dopo essere diventato salesiano e mentre insegnava filosofia in Libano durante la sua formazione iniziale, fu nominato vescovo dell’eparchia di Adigrat, succedendo ad Abune Hailemariam Kahsay. Come dice la Parola di Dio: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Giovanni 12,24). Il frutto non giunse mentre Abune Hailemariam era in vita, ma il seme che aveva seminato portò frutto dopo la sua morte. Abba Sebhatleab Worku emise la sua professione perpetua prima di essere consacrato vescovo e poté accogliere i primi salesiani il 17 ottobre 1975 a Mekele. Da allora, la presenza salesiana si è diffusa in diverse parti dell’Etiopia — Adigrat, Adwa, Shire, Dilla, Soddo, Adamitullu, Zway, Debrezeit, Addis Abeba, Gambella — e in Eritrea — Dekemhare, Asmara e Barentu.

Attualmente, le nostre presenze sono sedici: tredici comunità in Etiopia e tre in Eritrea. In Etiopia gestiamo sei istituti tecnici, otto scuole primarie, cinque scuole secondarie, tredici oratori/centri giovanili, una casa per minori a rischio, cinque parrocchie e tre aspirantati, oltre a case di formazione per novizi e post-novizi.

Geograficamente, l’Etiopia si trova nell’Africa orientale, nel Corno d’Africa, confinando con Kenya, Somalia, Gibuti, Eritrea, Sudan e Sud Sudan. È uno dei Paesi più antichi, talvolta indicato come Regno Aksumita. Storicamente, nonostante i progressi, la mancanza di continuità e i conflitti ricorrenti hanno portato alla distruzione delle conquiste del passato e a ripetuti tentativi di ricominciare da capo, piuttosto che costruire sulle fondamenta esistenti. Ciò ha contribuito a mantenere l’Etiopia tra i paesi meno sviluppati.

In cinquant’anni di presenza salesiana, abbiamo assistito a tre guerre sanguinose. Dal 1974 al 1991 — un periodo di diciassette anni — c’è stata una guerra civile per rovesciare il dittatore e instaurare un governo democratico. Dal 1998 al 2000, una guerra di due anni è stata combattuta con il pretesto di un conflitto di confine con l’Eritrea. Nel 2020 è scoppiato un conflitto tra il Governo federale e i suoi alleati e la Regione del Tigray; sebbene apparentemente sia terminato nel 2022 con l’Accordo di Pretoria, la guerra è proseguita tra il Governo federale e la Regione Amhara ed è tuttora in corso. Inoltre, i conflitti iniziati anni fa nella regione di Oromia — una delle regioni più grandi dell’Etiopia — continuano a persistere.

La guerra consuma immense risorse umane e materiali, distrugge le infrastrutture e le relazioni umane, ostacola gli investimenti e il turismo. Siamo testimoni di questi effetti nei nostri paesi e in molte parti del mondo.

Come salesiani, crediamo che l’unica via d’uscita da conflitti, guerre, povertà e mancanza di pace sia l’educazione. Nonostante guerre e conflitti, abbiamo continuato a fornire istruzione ai giovani poveri, aiutandoli a costruire il loro futuro e a vivere in armonia. Praticando il sistema preventivo salesiano — essere presenti tra i giovani, mostrare interesse per la loro vita, essere pronti ad ascoltare e dialogare con loro, trasmettere valori religiosi, essere ragionevoli e agire sempre con amore — facilitiamo la loro educazione.

Nel corso del nostro cammino cinquantennale, abbiamo affrontato sfide politiche (mancanza di stabilità e guerre), nonché difficoltà sociali ed economiche. Oggi le sfide principali sono l’instabilità politica e le risorse, sia umane (vocazioni) che finanziarie. Seguendo le direttive dei Capitoli Generali, puntiamo a lavorare insieme ai laici; sebbene abbiamo fatto progressi, c’è ancora molta strada da fare. La collaborazione con la Famiglia Salesiana è un’altra sfida da affrontare. Siamo profondamente grati alle Ispettorie che hanno contribuito alla fondazione e alla crescita della presenza salesiana in Etiopia ed Eritrea.

Siamo ancora in una situazione di emergenza a causa della guerra e dell’instabilità in corso, con molti sfollati interni nei campi e nelle scuole — molte scuole governative non forniscono istruzione agli studenti — nel Tigray. Le nostre scuole ospitano studenti tra gli sfollati interni e queste famiglie hanno ancora bisogno di cibo quotidiano. Interveniamo quando possiamo, grazie all’aiuto della rete Don Bosco e di altri benefattori. Gli studenti dipendono completamente da noi per tutto il materiale scolastico.

Per quanto riguarda la nostra vita religiosa, dobbiamo fare i conti con la mancanza di guide formative preparate. Sebbene continuino ad emergere vocazioni, la nostra capacità di occuparcene — soprattutto considerando i tempi che stiamo vivendo — richiede personale più qualificato.

I salesiani in Etiopia ed Eritrea sono 104, inclusi quelli in formazione iniziale. La maggior parte è costituita da vocazioni locali che già ricoprono incarichi di responsabilità, a dimostrazione del fatto che si è creata una solida base. La Vice-Provincia (AET) si sta concentrando su tre priorità principali: l’identità religiosa carismatica salesiana, la pastorale giovanile che coinvolge i laici e l’autosostenibilità.

Speriamo che, gradualmente, impareremo dalla nostra storia e ci impegneremo a vivere insieme in armonia, affinché la missione possa progredire senza ostacoli nel servizio ai giovani bisognosi. In questo modo, ci proponiamo di dare un contributo significativo all’educazione e alla crescita dei giovani, formando buoni credenti e onesti cittadini.

Insieme ai nostri benefattori e a tutti i collaboratori, ci impegniamo a continuare a camminare con i giovani, lavorando per una società migliore e una Chiesa più santa!

don Hailemariam MEDHIN, sdb
superiore della Visitatoria – AET




Il Servo di Dio Andrej Majcen: un salesiano tutto per i giovani

Quest’anno si ricordano i 25 anni dal passaggio all’eternità del Servo di Dio don Andrej Majcen. Da maestro a Radna è arrivato tra le file dei salesiani per amore dei giovani. Una vita tutta donata.

            La prima cosa è che don Andrej amava tantissimo i giovani: per loro ha consacrato la propria vita a Dio come Salesiano, sacerdote, missionario. Essere Salesiani non significa solo donare la propria vita a Dio: significa donargli la vita per i giovani. Quindi senza i giovani don Andrej Majcen non sarebbe stato Salesiano, sacerdote, missionario: per i giovani ha fatto scelte impegnative, accettando condizioni di povertà, stenti, preoccupazioni purché i “suoi ragazzi” trovassero un tetto sopra la testa, un piatto per riempire lo stomaco e una luce per orientarsi nell’esistenza.
Il primo messaggio, quindi, è che don Majcen vuole bene ai giovani e intercede per loro!

            La seconda cosa è che Andrej è stato un giovane capace di ascoltare. Nato nel 1904, ancora piccolo durante la Prima Guerra Mondiale, malato e povero, segnato dalla morte di un fratellino, Andrej custodiva nel cuore grandi desideri e soprattutto tante domande: si apriva alla vita e voleva capire perché meritasse di essere vissuta. Non ha mai fatto sconti sulle domande e si è sempre impegnato a cercare le risposte, anche in ambienti diversi dal proprio, senza chiusure o pregiudizi. Al tempo stesso, Andrej è stato docile: ha prestato attenzione a quello che gli dicevano e gli chiedevano la mamma, il papà, gli educatori… Andrej ha avuto fiducia che altri potessero avere alcune risposte alle sue domande e che nei loro suggerimenti ci fosse non il volersi sostituire a lui, ma l’indicargli una direzione che avrebbe poi percorso con la propria libertà e sulle proprie gambe.
Il papà, per esempio, gli raccomanda di essere sempre buono con tutti e che non se ne sarebbe mai pentito. Egli lavorava per il tribunale, si occupava delle cause di successione, di tante cose difficili dove spesso la gente litiga e anche i legami più sacri vengono offesi. Dal papà, Andrej ha imparato a essere buono, a portare pace, a ricomporre le tensioni, a non giudicare, a stare nel mondo (con le sue tensioni e contraddizioni) da persona giusta. Andrej ha ascoltato e si è fidato del papà.
La mamma era una grande donna di preghiera (Andrej la considerava una religiosa nel mondo e confiderà di non avere raggiunto la sua devozione nemmeno da religioso). Negli anni dell’adolescenza, quando avrebbe potuto smarrirsi a contatto con idee e ideologie, lei gli chiese di entrare ogni giorno per qualche istante in chiesa. Nulla di particolare, o di troppo lungo: «Quando vai alle magistrali, non ti scordare di entrare per un momento nella chiesa francescana. Puoi entrare da una porta e uscire dall’altra; ti fai il segno della croce con l’acqua santa, fai una breve preghiera e ti affidi a Maria». Andrej obbedì alla mamma e tutti i giorni passava a salutare Maria Santissima in chiesa anche se – “là fuori” – lo aspettavano tanti compagni e vivaci dibattiti. Andrej ha ascoltato e si è fidato della mamma, e scoprirà che lì c’erano le radici di tante cose, c’era un legame con Maria che lo avrebbe accompagnato per sempre. Sono queste piccole gocce che scavano in noi grandi profondità, quasi senza che ce ne accorgiamo!
Un professore lo invitò ad andare alla biblioteca e lì gli venne dato un libro con gli Aforismi di Th.G. Masaryk: politico, uomo di governo, oggi diremmo un “laico”. Andrej lesse quel libro che diventò determinante per la sua crescita. Lì scoprì cosa significasse un certo lavoro su di sé, la formazione del carattere, l’impegno. Andrej ascoltò il consiglio e ascoltò Masaryk, senza lasciarsi troppo influenzare dal suo “Curriculum” ma vedendo il bene anche in qualcuno lontano dal modo di pensare cattolico della propria famiglia. Scoprì che ci sono valori umani universali e che c’è una dimensione di impegno e serietà che sono “terreno comune” per tutti.
            Maestro presso i Salesiani, a Radna, un giovane Majcen ascoltò infine chi – in modi diversi – gli fece balenare l’idea di una possibile consacrazione. C’erano molte ragioni per cui Andrej avrebbe potuto tirarsi indietro: l’investimento della famiglia nella sua formazione; il posto di lavoro trovato da pochi mesi; il dovere lasciare tutto esponendosi alla più totale incertezza se poi avesse fallito… Lui in quel momento era un giovane ragazzo proteso al futuro, che non aveva messo in conto quella proposta. Al tempo stesso, cercava qualcosa in più e di diverso e, come uomo e come maestro, si rendeva conto che i Salesiani non solo insegnavano, ma orientavano a Gesù, Maestro di Vita. La pedagogia di Don Bosco fu per lui quel “tassello” che gli mancava. Andrej ascoltò la proposta vocazionale, affrontò una dura lotta durante la preghiera, in ginocchio, e si decise per presentare domanda di ammissione in noviziato: non fece passare tanto tempo, ma rifletté in modo serio, pregò e disse sì. Non perse l’occasione, non fece trascorrere il momento opportuno…: ascoltò, si fidò, decise acconsentendo e conoscendo così poco di ciò cui sarebbe andato incontro.
            Spesso tutti noi crediamo di vederci giusto nella nostra vita, di avere in mano le sue chiavi, il suo segreto: talvolta però sono proprio gli altri che ci invitano a raddrizzare lo sguardo, le orecchie e il cuore, indicandoci vie verso le quali da soli mai ci saremmo indirizzati. Se queste persone sono valide e vogliono il nostro bene, obbedire è importante: lì è nascosto il segreto della felicità. Don Majcen si è fidato, non ha sciupato anni, non ha sciupato vita… Ha detto di sì. Decidersi per tempo era anche il grande segreto raccomandato da don Bosco.

            La terza cosa è che Andrej Majcen si è lasciato sorprendere. Ha sempre accolto le sorprese, le proposte e i cambiamenti: l’incontro con i Salesiani, per esempio; poi l’incontro con un missionario che lo fece ardere dal desiderio di potersi spendere per gli altri in una terra lontana. Accolse anche sorprese non tanto belle: va in Cina e c’è il Comunismo; lo cacciano, entra nel Vietnam del Nord e il Comunismo fa danni anche lì; lo cacciano, procede verso sud, arriva poi nel Vietnam del Sud; ma il Comunismo raggiunge anche quella zona e lo cacciano di nuovo (sembra un film d’azione, con dentro un lungo inseguimento a sirene spiegate!). Rientra in patria, nella sua cara Slovenia e – nel frattempo – lì si è instaurato il regime comunista, c’è la persecuzione della Chiesa. Cos’è? Uno scherzo? Andrej non si è lamentato! Ha vissuto per decenni in paesi in guerra o in situazioni a rischio, con persecuzione, emergenze, lutti… Dormì per più di vent’anni mentre fuori dalla finestra, laggiù, sparavano… Altre volte piangeva… Eppure – benché avesse incarichi di responsabilità e tante vite da salvare – era quasi sempre sereno, con un bel sorriso, tanta gioia e amore nel cuore. Come faceva?
            Lui non aveva messo il cuore negli avvenimenti esteriori, nelle cose, in quello che non si può controllare o… nei propri progetti (“deve essere per forza così perché ho deciso così”: quando poi “non è così” si va in crisi). Lui aveva messo il cuore in Dio, nella Congregazione e nei suoi cari giovani. Allora era veramente libero, poteva cadere il mondo ma le radici erano salve. Le radici erano nelle relazioni, in un modo buono di spendersi per gli altri; le fondamenta erano in qualcosa che non passa.
            Tante volte, a noi basta che spostino una piccola cosa e ci arrabbiamo, perché non è secondo i nostri bisogni, desideri, progetti o aspettative. Andrej Majcen mi dice, ci dice: “sii libero!”, “affida il tuo cuore a chi non te lo ruba né te lo danneggia”, “costruisci su qualcosa che resti per sempre!”, “allora sarai felice anche se ti portano via tutto e avrai sempre il TUTTO”.

            La quarta cosa è che don Andrej Majcen faceva bene l’esame di coscienza. Tutti i giorni si esaminava per capire dove aveva fatto bene, meno bene o male. Quando ne ebbe la possibilità (cioè quando non c’erano più le bombe vicino a casa o i Viet Cong a poca distanza, ecc.) prendeva un quaderno, si segnava delle domande, rifletteva sulla Parola di Dio, verificava di averla messa in pratica… Si interrogava.
            Oggi viviamo in una società che dà molta importanza all’esteriorità: anch’essa è un dono (per esempio: avere cura di sé, vestirsi con proprietà, presentarsi bene), ma non è tutto. Bisogna scavare dentro di noi, scendere in profondità – magari con l’aiuto di qualcuno.
            Andrej ha sempre avuto il coraggio di guardarsi in faccia, di scrutare il proprio cuore e la propria coscienza, di chiedere perdono. Così facendo ha incontrato qualche aspetto poco bello di sé, su cui lavorare e da affidare: però ha visto anche tantissimo bene, bellezza, purezza, amore che altrimenti sarebbero rimasti “sottotraccia”.
            Tante volte, serve più coraggio per viaggiare dentro noi stessi che per andare dall’altra parte del mondo! Don Andrej Majcen ha affrontato entrambi questi viaggi: dalla Slovenia ha raggiunto l’Estremo Oriente eppure l’itinerario più impegnativo è rimasto sempre – fino all’ultimo – quello nel proprio cuore.
            Sant’Agostino, un giovane che ha cercato la verità in tante strade prima di incontrarla nella persona di Gesù, dentro di sé, dice: “Noli foras ire, redi in te ipsum, in interiore homini habitat veritas” (“Non voler uscire fuori, rientra in te stesso, la verità abita nell’interiorità dell’uomo”).
            E così concludo con un piccolo esercizio di latino: una lingua molto cara al nostro Andrej e legata al suo discernimento vocazionale. Ma questa sarebbe davvero…, almeno per ora, una… altra storia!




Il sentiero delle rose

«“Oh! Don Bosco cammina sempre sulle rose. Egli va avanti tranquillissimo: tutto gli va bene” Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere membra. Tuttavia andai avanti». Di spine e di rose è intrecciata ogni vita, come nel celebre sogno del pergolato di rose di don Bosco. La Speranza è la forza che nonostante le spine ci fa andare avanti.

Cari Lettori, amici della famiglia salesiana e benefattori che aiutano l’opera di Don Bosco in tutte le situazioni ed in tutti i contesti, inviandovi un pensiero tramite il Bollettino Salesiano, ho scelto di rimanere ancora un poco sul tema della Speranza, come già abbiamo fatto il mese scorso.
Questo non solo per amore di continuità, ma soprattutto perché è un tema di cui parlare, perché ne abbiamo tutti molto bisogno. È una declinazione della delicatezza di Dio nella nostra vita.
Ma quando parliamo di speranza, prima di tutto, ricordiamo che è un elemento di profonda umanità, ed un criterio chiaro per interpretare la vita, in tutte le religioni.
La speranza ha molto a che fare con la trascendenza e con la fede, l’amore e la vita eterna, sottolinea il filosofo coreano Byung-Chul Han. Noi lavoriamo, produciamo e consumiamo, sottolinea nei suoi scritti questo filosofo, ma in questo modo di vivere non c’è nessuna forma di apertura al trascendente, nessuna Speranza.
Viviamo in un tempo privato della dimensione della festa, anche se siamo pieni di cose che ci stordiscono; un tempo senza festa è un tempo senza speranza. La società dei consumi e della performance in cui viviamo, rischia di renderci incapaci di felicità, di gioire per la situazione in cui ci troviamo. Anche la situazione più difficile ha sempre delle briciole di luce!
La speranza ci fa credenti nel futuro, perché il luogo di sperimentazione più intensa della speranza è la trascendenza.
Lo scrittore e politico Ceco Vaclay Havel, presidente della Cecoslovacchia nell’epoca della “rivoluzione di velluto”, che molti di noi ricordano, definisce la speranza come uno stato d’animo, una dimensione dell’anima.
La speranza è un orientamento del cuore che trascende il mondo immediato dell’esperienza; è un ancoraggio da qualche altra parte oltre all’orizzonte.
Le radici della speranza si trovano da qualche parte dentro il trascendente ecco perché non è la stessa cosa avere Speranza o essere soddisfatti perché le cose vanno bene.
Quando parliamo di futuro lo intendiamo in relazione a cosa accadrà domani, il mese prossimo, tra due anni. Il futuro è quello che possiamo pianificare, prevedere gestire ed ottimizzare.
La Speranza è la costruzione di un futuro che ci unisce al futuro che non finisce, al trascendente, alla dimensione Divina. Coltivare la speranza fa bene al nostro cuore perché mette energia nella costruzione della nostra strada verso il Paradiso.

La parola più pronunciata da Don Bosco
Scrisse Don Alberto Caviglia: «A svolgere le pagine che riportano parole e discorsi di Don Bosco, si trova che quella del Paradiso fu la parola ch’egli ripeteva in ogni circostanza come argomento animatore supremo di ogni attività nel bene e di ogni sopportazione delle avversità».
«Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto!» ripeteva Don Bosco in mezzo alle difficoltà. Anche nelle moderne scuole per manager si insegna che una visione positiva del futuro si trasforma in forza di vita.
Quando, anziano e cadente, attraversava il cortile a passettini di formica, quelli che lo incrociavano gli rivolgevano il solito saluto distratto: «Dove andiamo, Don Bosco?» Sorridendo, il santo rispondeva: «In Paradiso».
Quanto insisteva don Bosco su questo: il Paradiso! Faceva crescere i suoi giovani con la visione del Paradiso nel cuore e negli occhi. Tutti noi sappiamo che possiamo esser cristiani, anche convinti, ma non credere al Paradiso.
Don Bosco ci insegna ad unire il nostro aldiquà, con l’aldilà. E lo fa con la virtù della Speranza.
Portiamo in cuore questo, ed apriamo il nostro cuore alla carità, alla nostra umanità che incarna ciò in cui crediamo profondamente.
Se ricevete questo breve scritto nel mese di novembre, vivete questa speranza con i nostri Santi e con i vostri defunti, tutti uniti in una cordata che parte dal nostro quotidiano e porta all’infinito.
Come don Bosco, vivere come se vedessimo l’invisibile, nutriti dalla Speranza che è la presenza Provvidente di Dio. Solo chi è profondamente concreto, come lo era don Bosco, è in grado di vivere fissando l’invisibile.