Halloween: una festa da celebrare?

I saggi ci dicono che per capire un evento bisogna sapere qual è la sua origine e qual è il suo fine. È anche il caso del fenomeno ormai diffuso di Halloween, che più che una festa da celebrare è una manifestazione su cui riflettere. Questo per evitare di celebrare una cultura della morte che non ha nulla a che vedere con il cristianesimo.

Halloween, come si presenta oggi, è una festa che ha le sue origini commerciali negli Stati Uniti e si è estesa negli ultimi tre decenni in tutto il mondo. Si celebra nella notte tra il 31 ottobre e il 1º novembre e ha alcuni simboli propri:
• I costumi: vestirsi con abiti spaventosi per rappresentare personaggi fantastici o creature mostruose.
• Le zucche intagliate: la tradizione di intagliare zucche, inserendo una luce all’interno per creare lanterne (Jack-o’-lantern).
• Dolcetto o scherzetto: usanza che consiste nel bussare alle porte delle case e chiedere dolci in cambio della promessa di non fare scherzi (“Trick or treat?” – “Dolcetto o scherzetto?”).

Sembra una delle feste commerciali coltivate apposta da alcuni interessati per accrescere i loro incassi. Infatti, nel 2023 solo negli Stati Uniti sono stati spesi 12,2 miliardi di dollari (secondo la National Retail Federation) e nel Regno Unito circa 700 milioni di sterline (secondo gli analisti di mercato). Queste cifre spiegano anche l’ampia diffusione mediatica, con vere e proprie strategie per coltivare l’evento, trasformandolo in un fenomeno di massa e presentandolo come un semplice divertimento occasionale, un gioco collettivo.

Origine
Se andiamo a cercare gli inizi di Halloween — perché ogni cosa contingente ha il suo inizio e la sua fine — scopriamo che risale alle credenze pagane politeiste del mondo celtico.
L’antico popolo dei Celti, un popolo di nomadi che si è sparso per tutta l’Europa, è riuscito a conservare meglio la sua cultura, la sua lingua e le sue credenze nelle isole britanniche, per di più in Irlanda, nella zona dove l’Impero Romano non era mai arrivato. Una delle loro festività pagane, chiamata Samhain, veniva celebrata tra gli ultimi giorni di ottobre e i primi di novembre ed era il “capodanno” che apriva il ciclo annuale. Poiché in quel periodo la durata del giorno diminuiva e quella della notte aumentava, si pensava che il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti diventasse sottile, permettendo alle anime dei defunti di tornare sulla terra (anche in forma di animali) e permettendo inoltre l’ingresso agli spiriti maligni. Per questo usavano maschere spaventose per confondere o allontanare gli spiriti, per non essere toccati dalla loro influenza maligna. La celebrazione era obbligatoria per tutti, iniziava la sera e consisteva in riti magici, fuochi rituali, sacrifici di animali e, probabilmente, anche sacrifici umani. In quelle notti i loro sacerdoti druidi andavano ad ogni casa per ricevere qualcosa da parte della popolazione per i loro sacrifici, sotto la pena di maledizioni.

L’usanza di intagliare una rapa a forma di faccia mostruosa, collocare una luce all’interno e metterla sulla soglia delle case, col tempo ha originato una leggenda che spiega meglio il significato. Si tratta della leggenda del fabbro irlandese Jack il Tirchio (Stingy Jack), un uomo che inganna il diavolo più volte e, alla sua morte, non è ricevuto in paradiso né all’inferno. Essendo nel buio e costretto a cercare un luogo per il suo riposo eterno, chiese e ricevette dal demonio un tizzone ardente, che infilò all’interno di una rapa che aveva con sé, creando una lanterna, la Jack-o’-lantern. Ma non trovò il riposo e continua a vagare ancora oggi. La leggenda vuole simboleggiare le anime dannate che vagano per la terra e che non trovano pace. Così si spiega l’usanza di mettere una brutta rapa davanti alla casa, per incutere timore e cacciare le anime vagabonde che in quella notte si potrebbero avvicinare.

Anche il mondo romano aveva una festa simile, chiamata Lemuria o Lemuralia, dedicata a tenere lontano gli spiriti dei morti dalle case; si celebrava il 9, 11 e 13 maggio. Gli spiriti si chiamavano “lemuri” (il termine “lemure” deriva dal latino larva, che significava “fantasma” o “maschera”). Si pensava che queste celebrazioni fossero associate alla figura di Romolo, fondatore di Roma, che si dice avesse istituito i riti per placare lo spirito del fratello Remo, da lui ucciso; però sembra che la festività sia stata istituita nel primo secolo dopo Cristo.

Questo tipo di celebrazioni pagane, che si trovano anche in altre culture, riflette la coscienza che la vita continua anche dopo la morte, anche se questa consapevolezza è mescolata con tanti errori e superstizioni. La Chiesa non ha voluto negare questo seme di verità che, in una forma o nell’altra, si trovava nell’animo dei pagani, ma ha cercato di correggerlo.

Nella Chiesa, il culto dei martiri c’è stato fin dall’inizio. Verso il IV secolo d.C., si celebrava la commemorazione dei martiri nella prima domenica dopo Pentecoste. Nel 609 d.C., papa Bonifacio IV spostò questa commemorazione alla festa di Tutti i Santi, proprio il 13 maggio. Nel 732 d.C. papa Gregorio III spostò di nuovo la festa di Tutti i Santi (in inglese antico “All Hallows”) al 1º novembre, e il giorno precedente divenne noto come All Hallows’ Eve (Vigilia di Tutti i Santi), da cui deriva la forma abbreviata Halloween.
Dalla vicinanza immediata delle date si può intuire che lo spostamento della commemorazione da parte della Chiesa era dovuto al desiderio di correggere il culto degli antenati. L’ultimo spostamento indica che la festa pagana celtica Samhain era rimasta anche nel mondo cristiano.

Diffusione
Questa celebrazione pagana — una festa principalmente religiosa — conservata nei sotterranei della cultura irlandese anche dopo la cristianizzazione della società, è riapparsa con la migrazione massiccia degli irlandesi negli Stati Uniti, in seguito alla grande carestia che ha colpito il paese negli anni 1845-1846.
Gli immigrati, per conservare l’identità culturale, hanno iniziato a celebrare varie loro feste come momenti di incontro e di svago, tra le quali anche la All Hallows. Forse più che una festa religiosa, era una festa priva di riferimenti religiosi, legata a celebrare l’abbondanza dei raccolti.
Questo ha favorito la ripresa dell’antico uso celtico della lanterna, e si cominciò a utilizzare non più la rapa ma la zucca per le sue dimensioni più grandi e la morbidezza che favoriva l’intaglio.

Nella prima metà del ’900, lo spirito pragmatico degli americani — cogliendo l’opportunità di guadagno — estese questa festa a livello nazionale, e iniziarono a comparire nei mercati, su scala industriale, abiti e costumi per Halloween: fantasmi, scheletri, streghe, vampiri, zombie, ecc.

Dopo 1950, la festa iniziò a diffondersi anche nelle scuole e nelle case. Apparve l’usanza dei ragazzi che vanno in giro a bussare alle case chiedendo in regalo dei dolcetti con l’espressione: “Trick or treat?

Spinti da interessi commerciali, si arriva in questo modo a una vera festa nazionale con connotazioni laiche, priva di elementi religiosi, che sarà esportata in tutto il mondo specialmente negli ultimi decenni.

Riflessione
Se guardiamo bene, sono rimasti gli elementi che si trovavano nei riti celtici della festa pagana Samhain. Si tratta di vestiti, lanterne, minacce di maledizioni.

I vestiti sono mostruosi e spaventosi: fantasmi, pagliacci inquietanti, streghe, zombie, licantropi, vampiri, teste trapassate da pugnali, cadaveri deturpati, diavoli.
Le zucche orrende intagliate a mo’ di testa tagliata con una luce macabra all’interno.
Ragazzi che girano per le case chiedendo “Trick or treat?” (“Dolcetto o scherzetto?”). Tradotto letteralmente significa “scherzetto o dolcetto”, che ricorda il “maledizione o sacrificio” dei sacerdoti druidi.

Ci chiediamo prima di tutto se questi elementi possono essere considerati degni di essere coltivati. E da quando lo spaventoso, il macabro, l’oscurità, l’orrido, la morte senza speranza definiscono la dignità umana? Sono infatti smisuratamente oltraggiosi.

E ci chiediamo poi se tutto questo non contribuisca a coltivare una dimensione occultistica, esoterica, visto che sono gli stessi elementi utilizzati dal mondo oscuro della stregoneria e del satanismo. E se la moda dark e gothic, come tutte le altre decorazioni di zucche macabramente intagliate, ragnatele, pipistrelli e scheletri, non fomentino l’avvicinamento all’occulto.

È un caso che in concomitanza con questa festa avvengano regolarmente fatti tragici?
È un caso che si verifichino regolarmente in questi giorni delle desacralizzazioni, delle offese gravi alla religione cristiana e perfino dei sacrilegi?
È un caso che per i satanisti la festa principale, che segna l’inizio dell’anno satanico, sia Halloween?
Non produce, specialmente per i giovani, una familiarizzazione con una mentalità magica e occulta, lontana e contraria alla fede e alla cultura cristiana, specialmente in questo tempo in cui la prassi cristiana è indebolita dalla secolarizzazione e dal relativismo?

Vediamo alcune testimonianze.

Una signora inglese, Doreen Irvine, ex sacerdotessa satanista convertita al cristianesimo, avverte nel suo libro From Witchcraft to Christ (Dalla magia nera a Cristo) che la tattica usata per avvicinare all’occultismo consiste proprio nel proporre l’occulto con forme attraenti, con misteri che incitano, facendo passare tutto come un’esperienza naturale, anche simpatica.

Il fondatore della Chiesa di Satana, Anton LaVey, dichiarava apertamente la sua gioia che i battezzati partecipino alla festa di Halloween: «Sono contento che i genitori cristiani permettano ai loro figli di adorare il diavolo almeno una notte all’anno. Benvenuti ad Halloween».

Don Aldo Buonaiuto, del Servizio Anti-sette dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, in un suo scritto, Halloween. Lo scherzetto del diavolo, ci avverte che «i cultori di Satana considerano donate a lui le “energie” di tutti coloro che, sia pure per gioco, stanno evocando il mondo delle tenebre nei riti perversi praticati in suo onore, lungo tutto il mese di ottobre e in particolare nella notte tra il 31 ottobre e il 1º novembre».

Padre Francesco Bamonte, esorcista e vicepresidente dell’Associazione Internazionale Esorcisti (ex presidente della stessa per due mandati consecutivi), avverte:

“La mia esperienza, insieme a quella di altri sacerdoti esorcisti, mostra come la ricorrenza di Halloween, incluso il periodo di tempo che la prepara, rappresenti di fatto, per molti giovani, un momento privilegiato di contatto con realtà settarie o comunque legate al mondo dell’occultismo, con conseguenze anche gravi non solo sul piano spirituale, ma anche su quello dell’integrità psicofisica. Anzitutto va detto che questa festa imprime quanto meno la bruttezza. E imprimendo nei bambini la bruttezza, il gusto dell’orrido, del deforme, del mostruoso messi sullo stesso piano del bello, li orienta in qualche modo al male e alla disperazione. In cielo, dove regna la sola bontà, tutto è bello. All’inferno, dove si respira solo odio, tutto è brutto.” […]
“Sulla base del mio ministero di esorcista posso affermare che la ricorrenza di Halloween è, nel calendario dei maghi, degli operatori dell’occulto e dei cultori di Satana, una delle “festività” più importanti; di conseguenza per loro è motivo di grandissima soddisfazione che la mente e il cuore di tanti bambini, adolescenti, giovani e di non pochi adulti vengano indirizzati al macabro, al demoniaco, alla stregoneria, tramite la rappresentazione di bare, teschi, scheletri, vampiri, fantasmi, aderendo così alla visione beffarda e sinistra del momento più importante e decisivo dell’esistenza di un essere umano: la fine della sua vita terrena.” […]
“Noi sacerdoti esorcisti non ci stanchiamo di mettere in guardia contro questa ricorrenza, che non solo attraverso condotte immorali o pericolose, ma anche con la leggerezza del divertimento considerato innocuo (e purtroppo ospitato sempre più spesso anche in spazi parrocchiali) può sia preparare il terreno a una futura azione di disturbo, anche pesante, da parte del demonio, sia permettere al Maligno di intaccare e deturpare le anime dei più giovani.”

Sono soprattutto i giovani che subiscono l’impatto diffuso del fenomeno Halloween. Senza criteri di discernimento seri, rischiano di essere attratti dalla bruttezza e non dalla bellezza, dall’oscurità e non dalla luce, dalla cattiveria e non dalla bontà.

Bisogna riflettere se continuare a celebrare la festa delle tenebre, Halloween, o la festa della luce, Tutti i Santi

Per approfondire il tema, raccomandiamo il libro Il fascino oscuro di Halloween. Domande e risposte di Padre Francesco Bamonte.




La tradizione sicura del Beato Michele Rua (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

2. Alcuni tratti delle virtù teologali in don Rua

2.1. Don Rua uomo di fede
            L’amore per Dio era radicato nella scelta fondamentale per Lui: «…viveva in una continua unione con Dio… All’unione strettissima con Dio faceva riscontro il completo distacco dalle cose del mondo e la noncuranza di tutto ciò che non servisse a glorificare Iddio ed a salvare anime… Mi pare di poter asserire che l’unione con Dio era così consumata in lui che non aveva che questo pensiero generoso, ardente, continuo; amare e fare amare Iddio, Dio sempre, Dio in ogni cosa, non riposo in questo, non mai diversivo, sempre questa sublime uniformità. Dio! Nient’altro che Dio». Tale amore per Dio era la motivazione profonda di ogni sua azione e si concretizzava nel fare la volontà di Dio esattamente, prontamente, con gioia e perseveranza. L’amore di Dio era la motivazione del suo molteplice operare e agire e sosteneva il grande impegno nella promozione e nella coltivazione delle vocazioni sacerdotali e religiose.
            La sorgente che alimentava tale unione era la preghiera: «Don Rua trovava il suo riposo nella preghiera» (don Francesia). «Don Rua nella preghiera, nel contatto con Dio, col riposo ritrovava le forze rinnovate per attuare giorno per giorno quello che era il programma del padre fatto proprio al cento per cento dal figlio fedelissimo: io cerco anime e solo anime». Tale sorgente si alimentava nell’Eucaristia e nell’amore filiale alla Vergine Ausiliatrice. La vita di fede si esprimeva nell’intima unione tra preghiera e azione, alimentate dalla pratica e dallo spirito dell’orazione mentale, che per lui era «l’elemento essenziale della vita del buon religioso», a tal punto che nemmeno durante una scossa di terremoto mentre tutti fuggivano «egli solo non si era mosso ed era rimasto là al suo posto solito, nel suo atteggiamento consueto». Con la meditazione della Parola, era l’Eucaristia il fuoco animatore. L’Eucaristia, celebrata, adorata, visitata e custodita nel proprio cuore: «Formiamoci un tabernacolo nel nostro cuore, andava ripetendo, e teniamoci sempre uniti al SS.mo Sacramento». Verso l’Eucaristia esprimeva una fede e una pietà intense, nutrite da una serie di raccomandazioni e indicazioni: visite, adorazioni, genuflessioni, raccoglimento.
            Don Rua come uomo di Dio e di fede si distingue per una testimonianza che era resa credibile non tanto dall’eloquenza, ma dall’intima convinzione che traspariva dalle parole e soprattutto dalla vita. Essa si alimentava alla conoscenza delle Scritture e a una grande famigliarità con i Padri della Chiesa: fonti a cui si rifaceva nei testi originali greci e latini. Tale formazione si manifestò fin da adolescente nell’impegno d’insegnamento del catechismo e dell’istruzione cristiana non solo nelle forme ordinarie, ma anche nelle missioni e negli esercizi spirituali, ritenendoli elementi costitutivi della missione salesiana a cui tutti i suoi membri erano tenuti, come testimoniò don Amadei: «Ho trovato nelle sue lettere dichiarazioni esplicite che tutti i preti, chierici, e coadiutori salesiani prestino con buona voglia l’opera loro nel catechizzare perché, ripeteva, se trascurassero i catechismi mancherebbero alla loro vocazione». L’opera dei catechismi era il vero scopo dell’istituzione e della propagazione salesiana degli oratori, evitando il rischio di ridurli a semplici ricreatori o centri sportivi. Tale impegno di propagazione della fede animò il grande fronte dell’azione missionaria, altro elemento costitutivo del carisma salesiano, che sostenne con intenso ardore apostolico e con notevole impiego di persone e di risorse. È grande strumento di diffusione dello spirito salesiano e di sostegno alle opere salesiane, soprattutto in terra di missione, fu la diffusione del Bollettino Salesiano.

2.2. Uomo di speranza
            La virtù della speranza teneva viva la meta ultima, il paradiso, e insieme sosteneva l’impegno diuturno nell’operare il bene e combattere il male, come spesso ripeteva anche ai giovani: «“State buoni, abbiate fiducia in Dio e il paradiso sarà vostro”». Voleva che si meritasse questo premio, specialmente con la fuga della colpa e col fare ogni momento la santa volontà di Dio». Tale speranza si traduceva quotidianamente in una incondizionata fiducia nella divina Provvidenza come attestò il terzo successore di Don Bosco, il beato Filippo Rinaldi: «Figlio, seguace del venerabile Don Bosco, il servo di Dio viveva alla giornata, non capitalizzava, essendo principio del fondatore di fidare sempre nella Provvidenza, anche nelle cose materiali». E don Barberis affermò: «Nelle conversazioni, negli ammonimenti, nelle lettere che scriveva, l’esortazione più insistente era la fiducia nella divina Provvidenza. Una volta mi ricordo che ci disse: “Al Signore non costa fatica a farci avere i mezzi necessari; è così buono che quando ne vedrà il bisogno, lo farà”». Anche in frangenti molto grandi conservò sempre un’imperturbabilità e tranquillità che contagiavano anche gli altri.

2.3. Uomo di carità
            L’amore per Dio si manifestava nell’amore per il prossimo: «Parlava con gli umili come coi grandi, coi poveri come coi ricchi, cercando sempre di fare del bene. Pareva anzi, che quanto più una persona era umile egli la trattasse con maggior affabilità e ne cercasse il bene». Tale aspetto andò crescendo in modo speciale dopo la morte di Don Bosco, ritenendolo un’eredità che aveva ricevuto da Don Bosco e voleva trasmettere alla future generazioni:
            «La grande carità che informava il cuore del nostro diletto Don Bosco di santa memoria avviò con l’esempio e con la parola la scintilla di amore che Dio benedetto aveva posto nel mio, ed io crebbi elettrizzato dall’amor suo, per cui, se succedendogli non potei ereditare le grandi virtù del nostro santo fondatore, l’amor suo per i suoi figli spirituali sento che il Signore me lo concesse. Tutti i giorni, tutti i momenti del giorno io li consacro a voi… perciò prego per voi, penso a voi, agisco per voi come una madre per l’unigenito suo». Testo di grande valore che rivela come l’eredità spirituale ricevuta sia frutto di una profonda comunione d’anima, che fa scoccare quella scintilla vitale che sprigiona un fuoco di vera carità. Don Rua è consapevole della differenza di doni che intercorrono tra lui e Don Bosco, ma con verità afferma che il nucleo dello spirito è stato trasmesso: una carità comunicata vitalmente e con la parola che spinge ad una vita offerta e consacrata per le persone con tratti di amore materno.
            L’amore per il prossimo si concretizzò in un amore ordinato, liberale e generoso, con una predilezione speciale per i giovani più poveri e a rischio spirituale, morale, materiale e con preferenza per le aree geografiche più povere e indigenti come l’Italia meridionale. La carità si esercitava con grande dedizione nel ministero della riconciliazione, fino all’esaurimento delle forze, soprattutto in occasione di esercizi spirituali, perché diceva: «Queste sono le mie vendemmie». Similmente si dedicava al ministero del consiglio e della consolazione. Tutti erano destinatari del suo amore, anche i nemici e i detrattori. La sollecitudine per il prossimo era ispirata ad una grande bontà e mansuetudine, tipica della tradizione salesiana e mirata a tutelare la buona fama delle persone e a neutralizzare le espressioni disgreganti della maldicenza e del giudizio: «Coi bei modi, senza offendere, cercava di soffocare fin dall’inizio il discorso appena s’accorgeva che era male indirizzato. Quando poi sorprendeva qualche critica diretta a persona conosciuta, non mancava mai, quasi a distruggere l’effetto della critica stessa, rilevare le buone qualità, le opere, i meriti della persona oggetto della critica».
            Un amore sollecito e personalizzato era per ogni confratello della Congregazione, con il cuore di un padre premuroso e con lo sguardo da vero episcopo del suo gregge: «Conosceva a uno a uno i confratelli delle singole case anche più lontane, e si interessava dei bisogni e del maggior profitto di ciascuno, come fosse sotto il suo sguardo nell’Oratorio». Un esempio concreto era la spedizione della biancheria di ricambio per i confratelli impegnati nel servizio militare. Tale paternità amabile eccelleva nell’esercizio della carità spirituale: «Lo trovai sempre pronto ad ascoltarmi; con sorriso s’interessava di quanto mi stava a cuore, e mi sapeva consigliare e guidare in modo che l’animo mio ne restava del tutto tranquillo». L’esempio di una vita vissuta nella carità lo portava a scrivere a confratelli tra loro in discordia: «Amatevi tutti come fratelli, e pregate pure il Sacro Cuore di Gesù ad accendere in tutti voi quel sacro fuoco che è venuto a portare sulla terra, il fuoco della carità».
            Tale amore aveva una forma di predilezione per i giovani: «Si interessava della salute e dei bisogni di ciascuno… Don Rua era per ciascuno di noi il buon padre, che viveva per noi, in modo che anche i più umili e i più meschini potevano ricorrere liberamente a Lui». Un amore che non conosceva confini: missionari, emigranti, persone bisognose, operai, membri della Famiglia Salesiana, giovani lavoratori, distinguendosi per l’interesse fattivo in merito a vertenze lavorative: «venivano da lui operai disoccupati, ed egli li raccomandava secondo il bisogno ai vari industriali». Ogni giorno dopo aver ascoltato tante persone al confessionale, passava molte ore ad accogliere numerose persone: «Io osservavo tutti i giorni molte persone che io stesso introducevo all’udienza del servo di Dio, le quali venivano a chiedere aiuti materiali, morali, raccomandazioni ecc. Il servo di Dio aveva per tutti trattamento affabile, si interessava dei loro casi, e tutti soccorreva per quanto gli era possibile». Davvero come giurò don Saluzzo: «Era il cuore aperto a tutto il bene».




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (11/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Appendice di cose diverse

I. Antico uso della consacrazione delle chiese.

            Fabbricata che sia la chiesa, non si possono ivi cantare i divini uffizi, celebrarvi il santo sacrificio e le altre ecclesiastiche funzioni, se prima non venga benedetta o consacrata. Il vescovo colla molteplicità delle croci e colle aspersioni dell’acqua benedetta intende purgare e santificare il luogo cogli esorcismi contro ai maligni spiriti. Questa benedizione può eseguirsi dal vescovo o da un semplice sacerdote, ma colla diversità dei riti. Ove intervenga l’unzione del sagro crisma e dei santi olii la benedizione spetta al vescovo, e chiamasi solenne, reale e consecutiva perché ha il compimento di tutte le altre, e molto più perché la materia benedetta e consacrata non può convertirsi in uso profano; perciò rigorosamente dicesi consacrazione. Se poi in tali cerimonie si fanno solo alcune orazioni con riti e cerimonie analoghe, la funzione può essere eseguita da un sacerdote, e suole chiamarsi benedizione.
            La benedizione può essere fatta da qualunque sacerdote, colla licenza però dell’Ordinario, ma la consacrazione spetta al Papa, ed al solo vescovo. Il rito di consacrare le chiese è antichissimo non che pieno di gravi misteri, e G. Cristo ancor bambino ne santificò l’osservanza, mentre la sua capanna ed il presepio si cambiarono in tempio nell’offerta che fecero i Re Magi. La spelonca perciò divenne tempio, ed il presepio un altare. S. Cirillo ci avvisa che dagli apostoli fu consacrato in chiesa il cenacolo ove avevano ricevuto lo Spirito Santo, sala che raffigurò anche la Chiesa universale. Anzi secondo Niceforo Calisto, hist. lib. 2, cap. 33, fu tale la sollecitudine degli apostoli, che in ogni luogo ove predicavano il vangelo consacravano qualche chiesa od oratorio. Il Pontefice s. Clemente I, creato l’anno 93, successore non meno che discepolo di san Pietro, tra le altre sue ordinazioni decretò, che tutti i luoghi di orazione fossero a Dio consacrati. Certamente al tempo di s. Paolo le chiese erano consacrate, come vogliono alcuni dottori, scrivendo ai Corinti al c. III, aut Ecclesiam Dei contemnitis? S. Urbano I, eletto nell’anno 226, consacrò in chiesa la casa di santa Cecilia, come scrisse Burius in vita eius. S. Marcello I, creato l’anno 304, consacrò la chiesa di s. Lucina, come racconta il Papa s. Damaso. Vero è per altro che la solennità della pompa, con cui si compie oggidì la consacrazione, si aumentò in progresso di tempo, dopo che Costantino nel ridonare la pace alla Chiesa fabbricò sontuose basiliche. Anche i templi dei Gentili, già abitazione dei falsi numi, e nido di menzogna, si convertirono in chiese colla approvazione del pio imperatore, e furono consacrati colla santità delle venerande reliquie dei martiri. Laonde il Pontefice san Silvestro I a seconda delle prescrizioni dei suoi predecessori ne stabilì il rito solenne, il quale fu ampliato e confermato da altri Papi, massime da s. Felice III. Si rileva che s. Innocenzo I stabilì che le chiese non si consacrassero più di una volta. Il Pontefice s. Gio. I nel recarsi a Costantinopoli per le cose degli Ariani consacrò in cattoliche le chiese degli eretici, come si legge nel Bernini[1].

II. Spiegazione delle principali cerimonie che si usano nella consacrazione delle chiese.

            Lungo sarebbe descrivere le mistiche spiegazioni che i santi Padri e i Dottori danno ai riti e alle cerimonie della consacrazione della chiesa. Il Cecconi ne parla ai capi X e XI, ed il P. Galluzzi al capo IV, da cui ricaviamo compendiosamente quanto segue.
            I sacri Dottori pertanto non dubitarono di asserire, che la consacrazione della chiesa è una delle più grandi funzioni sacre ecclesiastiche, come si ricava dai sermoni dei santi Padri, e dai trattati liturgici dei più celebri autori dimostrando la eccellenza e nobiltà che racchiude sì bella funzione tutta diretta a far rispettare e venerare la casa di Dio. Si premettono le vigilie, i digiuni e le orazioni a fine di prepararsi agli esorcismi contro il demonio. Le reliquie rappresentano i nostri santi. E perché gli abbiamo sempre in mente e nel cuore si ripongono nella cassetta con tre grani di incenso. La scala per la quale ascende il vescovo all’unzione delle dodici croci ci ricorda che l’ultimo e primario nostro fine è il Paradiso. Le dette croci e le altrettante candele significano i dodici Apostoli, i dodici Patriarchi, e i dodici Profeti che sono la guida e le colonne della Chiesa.
            Inoltre nell’unzione delle dodici croci in altrettanti luoghi distribuite sulla muraglia consiste formalmente la consacrazione, e diconsi la chiesa e le sue mura consacrate, come nota s. Agostino, lib. 4, Contra Crescent. Si chiude la chiesa per figurare la celeste Sionne, ove non si entra se non purgali da ogni imperfezione, e colle diverse preghiere s’invoca l’aiuto dei santi, e il lume dello Spirito Santo. Il girare che fa tre volle il vescovo, in un col clero per la chiesa, si vuole alludere al giro che fecero i sacerdoti coll’arca intorno alle mura di Gerico, non perché cadano le mura della chiesa, ma perché venga fiaccata la superbia del demonio e la sua potenza mediante l’invocazione di Dio, ed alla replica delle sacre preghiere assai più efficaci delle trombe degli antichi sacerdoti o leviti. Le tre percosse che dà il vescovo colla punta del pastorale alla soglia della porta, ci dimostrano la potestà del Redentore sopra la sua Chiesa, non che la dignità sacerdotale che il vescovo esercita. L’alfabeto greco e latino figura l’antica unione dei due popoli prodotta dalla croce del medesimo Redentore; e lo scrivere che fa il vescovo colla punta del pastorale, significa la dottrina ed il ministero apostolico. La forma poi di questa scrittura indica la croce che deve essere l’ordinario e principale oggetto di ogni scienza dei cristiani fedeli. Significa inoltre la credenza e fede di Cristo passata dai Giudei ai Gentili, e da questi trasmessa a noi. Tutte le benedizioni sono ripiene di gravi significati, come lo sono tutte le cose che si adoperano nell’augusta funzione. Le sacre unzioni colle quali s’imbalsamo l’altare e le pareti della chiesa significano la grazia dello Spirito Santo, che non può arricchire il mistico tempio della nostra anima, se prima non è mondata dalle sue macchie. Termina la funzione colla benedizione secondo lo stile della santa Chiesa, la quale sempre incomincia le sue azioni colla benedizione di Dio, e con esse le termina, giacché tutto principia da Dio e in Dio finisce. Si compie col sacrificio non solo per eseguire il pontificio decreto di s. Igino, ma perché non è consacrazione compiuta ove colla Messa non si consuma interamente anche la vittima.
            Dall’imponenza del sacro rito, dall’eloquenza della sua mistica significazione, facilmente possiamo rilevare quanta importanza le attribuisca la santa Chiesa nostra madre e quindi quanta importanza dobbiamo darle noi. Ma ciò che deve accrescere la nostra venerazione verso la casa del Signore, è il vedere quanto questo rito sia fondato e informato dal vero spirito del Signore rivelato nell’Antico Testamento. Lo spirito che guida oggi la Chiesa a circondar di tanta venerazione, i templi del culto cattolico, è lo stesso che inspirava a Giacobbe di santificar coll’olio il luogo dove aveva avuta la visione della scala; è lo stesso che inspirava a Mosè ed a Davide, a Salomone ed a Giuda Maccabeo di onorar con riti speciali i luoghi destinati ai divini misteri. Oh quanto questa unione di spirito dell’uno e dell’altro Testamento, dell’una e l’altra Chiesa ci ammaestra e ci consola! Esso ci dimostra quanto gradisca Dio di essere adorato ed invocato nelle sue chiese, perciò quanto volentieri esaudisca le preghiere che in esse gli rivolgiamo. Quanto rispetto per un luogo, la profanazione del quale armò di flagello la mano di un Dio e lo cambiò di mansueto agnello in severo punitore!
            Accorriamo pertanto al sacro tempio, ma con frequenza, giacché quotidiano e il bisogno che abbiamo di Dio; interveniamovi, ma con fiducia e con religioso timore. Con fiducia, giacché vi troviamo un Padre pronto ad esaudirci, a moltiplicarci il pane delle sue grazie come già sul monte, ad abbracciarci come il figlio, prodigo, a consolarci come la Cananea, nei bisogni temporali come alle nozze di Cana, nei bisogni spirituali come sul Calvario; con timore, giacché quel Padre non cessa di esserci giudice, e se ha orecchi da sentire le nostre preghiere, ha pur occhi da vedere le nostre irriverenze, e se tace ora agnello paziente nel suo tabernacolo, parlerà con voce tremenda nel gran giorno del giudizio. Se lo offendiamo fuori di chiesa, ci resterà ancora la chiesa di scampo per averne il perdono; ma se lo offendiamo dentro la chiesa, dove andremo per essere perdonati?
            Nel tempio si placa la divina giustizia, si riceve la divina misericordia, suscepimus divinam misericordiam tuam in medio templi tui. Nel tempio Maria e Giuseppe trovarono Gesù quando lo ebbero smarrito, nel tempio lo troveremo noi se lo cercheremo con quello spirito di santa fiducia e di santo timore con cui lo cercarono Maria e Giuseppe.

Copia della inscrizione chiusa nella pietra angolare della chiesa dedicata a Maria Ausiliatrice in Valdocco.

D. O. M.

UT VOLUNTATIS ET PIETATIS NOSTRAE
SOLEMNE TESTIMONIUM POSTERIS EXTARET
IN MARIAM AGUSTAM GENITRICEM
CHRISTIANI NOMINIS POTENTEM
TEMPLUM HOC AB INCHOATO EXTRUERE
DIVINA PROVIDENTIA UNICE FRETIS
IN ANIMO FUIT
QUINTA TANDEM CAL. MAI. AN. MDCCCLXV
DUM NOMEN CHRISTIANUM REGERET
SAPIENTIA AC FORTITUDINE
PIUS PAPA IX PONTIFEX MAXIMUS
ANGULAREM AEDIS LAPIDEM
IOAN. ANT. ODO EPISCOPUS SEGUSINORUM
DEUM PRECATUS AQUA LUSTRALI
RITE EXPIAVIT
ET AMADEUS ALLOBROGICUS V. EMM. II FILIUS
EAM PRIMUM IN LOCO SUO CONDIDIT
MAGNO APPARATU AC FREQUENTI CIVIUM CONCURSU
SALVE O VIRGO PARENS
VOLENS PROPITIA TUOS CLIENTES
MAIESTATI TUAE DEVOTOS
E SUPERIS PRAESENTI SOSPITES AUXILIO.

I. B. Francesia scripsit.

Traduzione.

A solenne testimonianza messo i posteri della nostra benevolenza e religione verso l’augusta Madre di Dio Maria Ausiliatrice abbiamo deliberato di edificare cotesto tempio dalle fondamenta addì XXVII aprile dell’anno MDCCCLXV governando la Chiesa Cattolica con sapienza e fortezza il Pontefice Massimo Pio IX secondo i riti religiosi si benedisse la pietra angolare della chiesa da Giovanni Antonio Odone vescovo di Susa ed Amedeo di Savoia figlio di Vittorio E. II la collocò per la prima volta a posto in mezzo a grande apparato e numeroso concorso di popolo. Salve, o Vergine Madre, soccorri benevola ai tuoi cultori alla tua maestà devoti e difendili dal cielo con efficace aiuto.

Inno letto nella solenne benedizione della pietra angolare.

Quando il cultor degli idoli
            Mosse a Gesù la guerra,
            Di quanti mila intrepidi
            S’insanguinò la terra!
            Da fiere lotte incolume
            Di Dio la Chiesa uscita
            Propaga ancor sua vita,
            Dall’uno all’altro mar.

E vanta pur suoi martiri
            Quest’umile vallea,
            Quivi fu morto Ottavio,
            Qui Solutor cadea.
            Bella immortal vittoria!
            Sulle sanguigne zolle
            Dei Martiri s’estolle
            Forse il divino altar.

E qui l’afflitto giovane
            Aprendo i suoi sospiri,
            Un refrigerio all’anima
            Trova nei suoi martiri;
            Qui la sprezzata vedova
            Dal cuor devoto e santo
            Depone l’umil pianto
            In seno al Re dei Re,

E a te che suoli vincere
            Più che non mille spade,
            A Te che vanti glorie
            In tutte le contrade,
            A Te potente ed umile
            Cui tutto il nome dice,
            MARIA AUSILIATRICE,
            Tempio innalziamo a Te.

Dunque, o pietosa Vergine,
            Si grande a’tuoi cultori,
            Sopra di loro in copia
            Deh! versa i tuoi favori.
            Già con pupilla tenera
            Il giovin PRENCE mira,
            Che a’tuoi allori aspira,
            Oh Madre al Redentor!

Egli di mente e d’indole,
            Di nobile sentire,
            A Te si dona, o Vergine,
            Degli anni in sul fiorire;
            Egli con vece assidua
            Ode a Te sacro carme,
            Ed or desia dell’arme
            Il solito fragor.

Ei di Amedeo la gloria,
            Le gran virtù d’Umberto
            Nutre nel cuor, e memora
            Il celestial lor serto;
            E dalle bianche nuvole,
            Dalle celesti squadre
            Della beata Madre
            Ascolta il pio parlar.

Caro e diletto Principe,
            Schiatta di santi eroi,
            Quale pensier benefico
            Ti mena qui fra noi?
            Uso alle aurate regie,
            Del mondo alto splendore
            Del miser lo squallore
            Degnasti visitar?

Bella speranza al popolo,
            In mezzo a cui tu vieni,
            Possa tuoi giorni vivere
            Calmi, dolci e sereni:
            Mai sul tuo capo giovane,
            Sull’alma tua secura
            Non strida la sventura,
            Non surga amaro dì.

Saggio e zelante Presule,
            E nobili Signori,
            Quanto all’Eterno piacciono
            I santi vostri ardori?
            Beata vita e placida
            Vive chi pel decoro
            Del Tempio il suo tesoro
            O l’opera largì.

O dolce e pio spettacolo!
            O giorno memorando!
            Giorno più bello e nobile,
            Qual mai si vide e quando?
            Ben mi favelli all’anima:
            Di questo ancor più bello
            Giorno fia certo quello
            Che il Tempio s’apra al ciel.

Nella difficil opera
            Benefici dorate,
            E presto giunti al termine,
            Con gioia in Dio posate;
            E allor sciogliendo fervido
            Sulla mia cetra un canto:
            Lode diremo al Santo
            Al Forte d’Israel.

(continua)


[1] Compendio delle eresie pag. 170. Sui templi dei gentili convertiti in chiese, vedasi il Butler Vite, novembre, p. 10.




San Francesco di Sales a servizio dell’educazione

            Francesco di Sales era persuaso che «dalla buona o cattiva educazione della gioventù dipende radicalmente il benessere o il malessere della società e dello stato»; riteneva inoltre «che i collegi sono come vivai e seminari, da cui escono coloro che in seguito riempiranno uffici e ricopriranno incarichi, destinati a essere amministrati bene o male nella misura in cui precedentemente gli innesti siano stati bene o male coltivati». Perciò voleva «che la gioventù fosse istruita in maniera uguale nella pietà e nei costumi, come nelle lettere e nelle scienze».

Scuola, collegio e formazione professionale a Thonon
           
La formazione della gioventù negli studi e nella fede cattolica era particolarmente urgente a Thonon, città vicina a Ginevra. Diversi progetti occuparono per lunghi anni lo spirito di Francesco di Sales, all’epoca in cui era prevosto e poi come vescovo.
            Prima del ritorno della città al cattolicesimo, a Thonon c’era una scuola fondata grazie a un lascito che le assicurava risorse sufficienti per l’educazione di dodici scolari. Nel 1579 l’istruzione vi era impartita da due o tre istitutori. Con la restaurazione del cattolicesimo a Thonon nel 1598, il prevosto de Sales chiese che il lascito servisse a dodici allievi «che fossero cattolici».
            Ma il progetto che stava più a cuore al prevosto era quello di portare a Thonon i padri della Compagnia di Gesù: «Chi aggiungesse a tutto questo un collegio di gesuiti in questa città, farebbe partecipare di questo bene tutto il territorio circostante che, quanto a religione, è quasi del tutto indifferente». Il prevosto preparò un Promemoria in cui affermava con forza la convinzione generale: «Non c’è niente di più utile per questa provincia del Chiablese se non costruire un collegio della Compagnia di Gesù nella città di Thonon».
            Alla fine di ottobre 1599 arrivava un primo gesuita, alla fine di novembre un secondo e gli altri erano in viaggio provenienti da Avignone. Verso la fine dell’anno, i gesuiti giunti a Thonon iniziarono con una «piccola scuola», che l’anno successivo conterà centoventi allievi. A seguito delle turbolenze sopravvenute nel 1600, furono dispersi per vari mesi, dopo di che incominciarono di nuovo le scuole con circa trecento allievi.
            Ma a che cosa serviranno le scuole di grammatica se, per le umanità gli allievi saranno obbligati a frequentare i collegi protestanti? Urgeva creare classi secondarie e classi superiori di filosofia, teologia, sacra Scrittura e diritto. All’inizio del mese di dicembre 1602 tutto sembrava pronto per l’apertura del collegio e futura università di Thonon. Ora, alcuni giorni più tardi, il fallito tentativo del duca di Savoia di riprendere Ginevra provocò nuovamente l’allontanamento dei gesuiti. Ben presto saranno costretti a ritirarsi definitivamente.
            Dopo la partenza dei gesuiti, la scuola riprese vita con il concorso del personale locale. Il collegio di Thonon non vedrà un vero sviluppo se non verso la fine del 1615, quando il vescovo farà appello alla congregazione dei barnabiti, già impiantati nel collegio d’Annecy.
            Mentre si provvedeva agli studi letterari, un altro progetto mobilitava le energie del prevosto e dei suoi collaboratori. Nel 1599, Francesco di Sales preconizzava la fondazione di un «albergo di tutte le scienze e arti», cioè una sorte di scuola professionale con una stampa, una fabbrica di carta, un laboratorio di meccanica, una passamaneria e un’armeria.
            L’idea di un’istituzione per la formazione nelle «arti e mestieri» va sottolineata, perché l’apprendimento avveniva normalmente a casa, accanto al padre che insegnava il suo mestiere al figlio destinato a succedergli, oppure presso un artigiano. D’altra parte, si può costatare che Francesco di Sales e i suoi collaboratori si interessavano di mestieri manuali ritenute vili, che la maggioranza degli umanisti sembrava ignorare. Promuovere le «arti meccaniche», significava anche valorizzare gli artigiani che le élites tendevano a disprezzare.

Le piccole scuole della diocesi
            Nel 1606, esistevano in diocesi quindici scuole di ragazzi, dove si insegnavano la grammatica, le lettere e il catechismo. All’apparenza era poco. In realtà, nelle parrocchie veniva realizzata un’alfabetizzazione abbastanza diffusa; brevi corsi erano organizzati in certi periodi dell’anno, soprattutto nella stagione invernale, grazie a temporanei accordi con gli insegnanti e specialmente grazie alla buona volontà dei parroci e dei viceparroci.
            L’insegnamento era elementare e consisteva prima di tutto nell’imparare a leggere tramite un abbecedario. Il maestro non disponeva in genere di un proprio locale, ma utilizzava un ambiente qualunque, una scuderia o una stalla. Talvolta «le sue lezioni, tenute a cielo aperto, perfino a 1500 o a 2000 metri di altezza, con scolari seduti su una pietra, un carretto, un tronco d’abete o sulle braccia dell’aratro, non erano privi di fascino e di pittoresco».
            Come si intuisce, i maestri erano reclutati in linea di massima tra il clero diocesano e tra i religiosi. Nel testamento di un certo Nicolas Clerc è stabilito che il servizio parrocchiale «sarà svolto da un rettore capace di istruire la gioventù fino alla grammatica inclusa»; nel caso in cui «dovesse divagare e trascurare l’ufficio divino o l’istruzione della gioventù, dopo essere stato ammonito per tre volte» e «deferito al vescovo», sarà privato della rendita e sostituito da un altro ecclesiastico.
            Nel 1616 il vescovo accolse la richiesta dei principali della città di Bonne, che lo supplicavano di voler procurare loro un religioso di un convento vicino, incaricandolo «di istruire la gioventù nelle lettere e nella pietà», «atteso il grande frutto e l’utilità che ne può derivare in vista della buona istruzione che ha incominciato a impartire alla gioventù di detta città e vicinanze, le quali intendono inviare in tal luogo i propri fanciulli».

I collegi
            L’insegnamento secondario impartito nei collegi in Savoia è nato per lo più tramite lo sviluppo delle scuole primarie, le quali, grazie a donazioni, erano in grado di aggiungere classi di latino, di grammatica e di belle lettere.
            Monsignore intervenne per salvare il collegio di La Roche, dove egli aveva compiuto i suoi primi studi di grammatica. Il collegio non godette sempre di giorni tranquilli. Nel 1605, Francesco di Sales scrisse ai canonici della collegiata per far tacere «l’opinione personale» di alcuni, pregandoli di «assicurarsi un’altra volta il consenso generale»: «voi potete e dovete contribuire – scriveva loro – non solo con le vostre voci, ma anche con gli avvertimenti e l’opera di convinzione, poiché l’erezione e la conservazione di questo collegio servirà alla gloria di Dio e della Chiesa», e procurerà inoltre «il bene di cotesta città». La finalità spirituale figurava, sì, al primo posto, ma il bene temporale non era dimenticato.
            Ad Annecy, il vescovo seguiva da vicino la vita del collegio fondato da Eustache Chappuis, nel quale egli stesso aveva studiato dal 1575 al 1578. Le difficoltà che stava attraversando lo spinsero probabilmente a visitare di frequente questo istituto. D’altronde, la presenza del vescovo era un onore ricercato, soprattutto in occasione di dispute filosofiche, alle quali era invitato «monsignore, il reverendissimo vescovo di Ginevra».
            I registri delle decisioni del collegio segnalano la sua presenza in occasione di discussioni come pure di interventi diretti ad appoggiare le richieste o alla stesura di contratti con i professori. Secondo un testimone il vescovo vi si recava di buon mattino per assistere a «manifestazioni pubbliche, dispute, rappresentazioni di vicende storiche e altri esercitazioni, per incoraggiare la gioventù, e, in particolare, alle dispute pubbliche di filosofia al termine dei corsi». Il medesimo testimone aggiunge: «Lo vidi sovente partecipare personalmente alle dispute filosofiche».
            In realtà, a detta di uno dei professori dell’epoca, «le belle lettere come pure i sani costumi avevano perso parecchio del loro splendore» e gli introiti erano diminuiti. L’amministrazione conosceva degli urti. Il vescovo sognava una direzione nuova e stabile per il collegio, che gli appariva «quasi come un terreno incolto».
            Nel 1613 di passaggio a Torino, gli fu suggerito il nome di una nuova congregazione che navigava col vento in poppa: i barnabiti. A Milano incontrò il loro superiore generale e l’affare venne concluso. Nel dicembre 1614, firmò il contratto di ingresso dei barnabiti al collegio Chappuis.
            Francesco di Sales era talmente soddisfatto dei barnabiti che, come abbiamo detto, li chiamerà senza tardare a Thonon. Nell’aprile 1615, poteva scrivere a un suo amico: «Certo, i nostri buoni barnabiti sono davvero ottime persone: dolci più di quanto si possa dire, accondiscendenti, umili e gentili assai più di quanto sia di moda nel loro paese». Di conseguenza suggeriva la loro venuta anche in Francia:

Per me, penso che, un giorno, saranno di grande servizio per la Francia, perché non fanno del bene solo con l’istruzione della gioventù (cosa che non è eccessivamente necessaria in un paese in cui la fanno in modo così eccellente i padri gesuiti), ma cantano in coro, confessano, fanno il catechismo anche nei villaggi in cui vengono mandati, predicano; in una parola, fanno tutto quello che si può desiderare, lo fanno molto cordialmente, e non chiedono molto per il loro sostentamento.

            Nel 1619 fu implicato in trattative volte a far sì che i barnabiti si incaricassero del collegio di Beaune, nella Borgogna. Non essendo andato in porto questo affare, essi poterono stabilirsi a Montargis l’anno successivo.

Gli studi superiori
            Il ducato di Savoia, non potendo contare su grandi città e vedendo sovente minacciata la sua stabilità, non possedeva una propria università. Gli studenti che ne avevano le possibilità andavano a studiare all’estero. Il fratello di Francesco di Sales, Louis, fu inviato a Roma per compiervi gli studi di diritto. In Francia si trovavano studenti savoiardi a Montpellier, dove andavano a studiare medicina e a Tolosa, dove ci si recava per gli studi di diritto.
             Ad Avignone, il cardinale savoiardo di Brogny aveva fondato nel suo palazzo un collegio destinato ad accogliere gratuitamente ventiquattro studenti di diritto, di cui sedici della Savoia. Purtroppo i Savoiardi persero i posti loro riservati. Nell’ottobre del 1616 Francesco di Sales compì vari tentativi presso il duca di Savoia e anche a Roma per trovare «qualche rimedio efficace contro i disordini che, nello stesso collegio, si sono verificati» e perché i posti del collegio fossero restituiti ai «sudditi di Vostra Altezza». In occasione del suo ultimo viaggio che lo portò ad Avignone nel novembre del 1621 e prima di terminarlo definitivamente a Lione, parlerà a lungo con il vice-legato del papa per difendere ancora una volta gli interessi savoiardi di detto collegio.
            Si trovavano studenti savoiardi perfino a Lovanio, dove Eustache Chappuis aveva fondato un collegio destinato ai Savoiardi che frequentavano l’università. Il vescovo di Ginevra era in costante e amichevole relazione con Jacques de Bay, presidente del collegio; a più riprese Francesco di Sales gli scriveva per raccomandargli coloro che si recavano colà per porsi, come diceva, «sotto le vostre ali». Nei casi in cui i genitori incontrassero delle difficoltà nel sostenerne le spese, si diceva pronto a rimborsarle. Seguiva i suoi studenti: «Studiate sempre più – scriveva a uno di loro – con spirito di diligenza e d’umiltà».  Possediamo anche una lettera del 1616 al nuovo presidente del collegio, Jean Massen, in favore di uno studente di teologia, proprio parente, del quale auspicava «il progresso nelle lettere e nella virtù».

Scuole per ragazze?
            Tutto quello che è stato fin qui esposto riguarda unicamente l’istruzione dei ragazzi. Solo per loro infatti esistevano le scuole. E per le ragazze? All’epoca di Francesco di Sales, le uniche istituzioni che, a questo riguardo, potevano offrire un aiuto alle famiglie erano i monasteri femminili, i quali però erano interessati prima di tutto al reclutamento. Jeanne de Sales, ultima figlia della signora di Boisy, fu inviata al monastero nel 1605, «per farle cambiare aria e farle prendere il gusto della divozione». Vi entrò a dodici anni, ma siccome non provava nessuna attrattiva per la vita religiosa, non è ragionevole, asseriva Francesco di Sales, «lasciare per tanto tempo in un monastero una giovane che non intende restarvi per sempre». Venne ritirata già al secondo anno.
            Ma che fare se il monastero era loro precluso? C’era la soluzione delle orsoline, che incominciavano ad essere conosciute, in quanto congregazione destinata all’istruzione della gioventù femminile. Erano presenti nella capitale francese dal 1608. Il vescovo incoraggiò la loro venuta a Chambéry, scrivendo nel 1612 che «sarebbe un gran bene che, a Chambéry, vi fossero le orsoline, e io vorrei contribuire facendo qualche cosa per questo»; basterebbero, aggiungeva, «tre figlie o donne coraggiose per cominciare». La fondazione avverrà nell’antica capitale della Savoia solo nel 1625.
            Nel 1614 poté rallegrarsi del recente arrivo delle orsoline a Lione, «una delle congregazioni – diceva – che il mio spirito ama maggiormente». Le voleva altresì nella sua diocesi, in particolare a Thonon. Nel gennaio 1621, scrisse alla superiora delle orsoline di Besançon perché cercasse di favorire questo progetto, perché – scriveva – «ho sempre amato, stimato e onorato quelle opere di grandissima carità che usa praticare la vostra congregazione, e quindi, ho sempre desiderato profondamente la sua diffusione anche in questa provincia della Savoia». Il progetto, però, poté essere attuato soltanto nel 1634.

L’educazione delle giovani nei monasteri della Visitazione
            Quando, a partire dal 1610, Francesco di Sales fondò con Giovanna di Chantal quello che diventerà l’ordine della Visitazione, ben presto si pose la questione dell’ammissione ed educazione delle giovani destinate o meno alla vita religiosa. Si conosce il caso della figlia della signora di Chantal, l’allegra e civettuola Franceschetta, che era solo undicenne quando sua madre, volendola religiosa, la prese con sé nella casa che sarebbe diventata la dimora delle prime visitandine. Ma la fanciulla doveva prendere un’altra strada. Le ragazze mandate nei monasteri controvoglia non avevano altra scelta se non quella di rendersi insopportabili.
            Nel 1614, una bambina di nove anni, figlia del custode del castello d’Annecy, fu accolta al primo monastero della Visitazione. A quattordici anni, a forza di insistere, ottenne di vestire l’abito religioso, ma senza avere i requisiti per essere novizia; ammalatasi ai polmoni, suscitò l’ammirazione del fondatore, che provò «un’incredibile consolazione, trovandola indifferente alla morte e alla vita, in un atteggiamento soave di pazienza e con un volto sorridente, a dispetto della febbre altissima e dei molti dolori che soffriva. Per sua unica consolazione, mi chiese di poter fare la professione prima di morire». Molto differente, invece, era un’altra compagna, una giovane di Lione, figlia del capo dei mercanti e grande benefattore, la quale si rese insopportabile nella comunità al punto che la madre di Chantal dovette correggerla.
            Alla Visitazione di Grenoble, una ragazza di dodici anni chiese di vivere con le religiose. Alla superiora che esitava ad accogliere questa «rosa» che poteva recare qualche spina, il fondatore consigliava sorridendo e con una punta di furbizia:

È vero che queste giovanette danno dei grattacapi; ma che cosa si dovrebbe fare? In questo mondo, non ho mai trovato un bene che non costasse qualcosa. Dobbiamo disporre le nostre volontà in modo che non cerchino le comodità, o, se le cercano e le desiderano, sappiano però adattarsi serenamente alle difficoltà che sono sempre inseparabili dalle comodità. In questo mondo, non abbiamo vino senza fondaccio. Dobbiamo dunque calcolar bene. È meglio che, nel nostro giardino, vi siano spine perché possiamo aver rose, oppure che non abbiamo rose per non avere spine? Se cotesta figliola porta più bene che male, sarà bene ammetterla; se porta più male che bene, non bisogna ammetterla.

            In fin dei conti, il fondatore si mostrerà assai circospetto nell’ammettere le giovani nei monasteri della Visitazione, a motivo dell’incompatibilità con la maniera di vivere delle religiose.
            In effetti, la Visitazione non era stata concepita e voluta per tale opera: «Dio – scriveva il fondatore alla superiora di Nevers – non ha eletto il vostro istituto per l’educazione delle figliolette, ma per la perfezione delle donne e delle giovani che a esso sono chiamate in quell’età in cui sono già in grado di rispondere di quello che fanno». Sapeva bene che la vita di un monastero poteva difficilmente fornire un ambiente adatto allo sviluppo delle ragazze: «Non solo l’esperienza, ma anche la ragione ci insegna che ragazze così giovani, messe sotto la disciplina d’un monastero, generalmente sproporzionata per la loro età, prendono a detestarla e odiarla».
            Nonostante qualche rincrescimento, Francesco di Sales non divenne il fondatore di un istituto dedito all’educazione. Tuttavia, sta di fatto che gli sforzi da lui profusi a favore dell’istruzione e dell’educazione dei ragazzi e delle ragazze, in tutte le sue forme, furono numerosi e gravosi. Il motivo dominante che lo guidava era di ordine spirituale, soprattutto quando si trattava di tener lontana la gioventù dal «veleno dell’eresia», e al riguardo ci riusciva piuttosto bene, perché la riforma cattolica guadagnava terreno; tuttavia egli non trascurava il bene temporale costituito dalla formazione della gioventù a beneficio della società.




Il secondo sogno missionario: attraverso l’America (1883)

            Don Bosco raccontò questo sogno il 4 settembre nella seduta ante meridiana del Capitolo Generale. Don Lemoyne lo mise subito in carta e il Servo di Dio rivide da capo a fondo lo scritto, aggiungendo e modificando. Noi stamperemo in corsivo le parti che nell’originale rivelano la mano del Santo; chiuderemo invece fra parentesi quadre alcuni tratti, che Don Lemoyne introdusse posteriormente a modo di chiose, mercè ulteriori spiegazioni dategli da Don Bosco.

            Era la notte che precedeva la festa di S. Rosa di Lima [30 agosto] ed io ho fatto un sogno. Mi accorgeva di dormire e nello stesso tempo mi sembrava di correre molto, a segno che mi sentiva stanco di correre, di parlare, di scrivere e di faticare nel disimpegno delle altre mie solite occupazioni. Mentre pensava se il mio fosse un sogno ovvero realtà, mi parve di entrare in una sala di trattenimento dove erano molte persone che stavano parlando di cose diverse.
            Un lungo discorso si aggirò intorno alla moltitudine dei selvaggi che nell’Australia, nelle Indie, nella China, nell’Africa e più particolarmente nell’America, in numero sterminato sono tuttora sepolti nell’ombra di morte.
            – L’Europa, disse con serietà un ragionatore, la cristiana Europa, la grande maestra di civiltà e di Cattolicismo pare sia venuta apatica per le missioni estere. Pochi sono quelli che sono abbastanza arditi di affrontare lunghe navigazioni e sconosciuti paesi per salvare le anime di milioni di uomini che pur furono redente dal Figlio di Dio, da Cristo Gesù.
            Disse un altro:
            – Che quantità di idolatri vivono infelici fuori della Chiesa e lontani dalla conoscenza del Vangelo nella sola America! Gli uomini si pensano (ed i geografi s’ingannano) che le Cordigliere d’America siano come un muro che divide quella gran parte del mondo. Non è così. Quelle lunghissime catene di alte montagne fanno molti seni di mille e più chilometri in sola lunghezza. In essi vi sono selve non mai visitate, vi sono piante, animali, e poi si trovano pietre di cui colà si scarseggia. Carbon fossile, petrolio, piombo, rame, ferro, argento ed oro stanno nascosti in quelle montagne, nei siti dove furono
collocati dalla mano onnipotente del Creatore a benefizio degli uomini. O Cordigliere, Cordigliere, quanto mai è ricco il vostro oriente!
            In quel momento mi sentii preso da vivo desiderio di chiedere spiegazioni di più cose e di interrogare chi fossero quelle persone colà raccolte e in quale luogo io mi trovassi. Ma dissi fra me: – Prima di parlare bisogna
che osservi qual gente sia questa! E volsi curiosamente lo sguardo attorno. Se non che tutti quei personaggi mi erano sconosciuti. Essi intanto, come se in quel momento soltanto mi avessero veduto, mi invitarono a farmi innanzi e mi accolsero con bontà.
            Io chiesi allora:
            – Ditemi, di grazia! Siamo a Torino, a Londra, a Madrid, a Parigi? Ove siamo? E voi chi siete? Con chi ho il piacere di parlare? Ma tutti quei personaggi rispondevano vagamente sempre discorrendo delle missioni.
            In quel mentre si avvicinò a me un giovane in sui sedici anni, amabile per sovrumana bellezza e tutto raggiante di viva luce più chiara di quella del sole. Il suo vestito era intessuto con celestiale ricchezza e il suo capo era cinto di un berretto a foggia di corona, tempestato di brillantissime pietre preziose. Fissandomi con sguardo benevolo, mi dimostrava un interesse speciale. Il suo sorriso esprimeva un affetto di irresistibile attraenza. Mi chiamò per nome, mi prese per mano ed incominciò a parlarmi della Congregazione Salesiana.
            Io ero incantato al suono di quella voce. Ad un certo punto l’interruppi:
            – Con chi ho l’onore di parlare? Favoritemi il vostro nome? E quel giovane:
            – Non dubitate! Parlate pure con piena confidenza, che siete con un amico.
            – Ma il vostro nome?
            – Ve lo direi il mio nome, se ciò facesse di bisogno; ma non occorre, poiché mi dovete conoscere.
            Così dicendo sorrideva.
            Fissai meglio quella fisionomia cinta di luce. Oh quanto era bella! E riconobbi allora in lui il figlio del Conte Fiorito Colle di Tolone, insigne benefattore della nostra Casa e specialmente delle nostre Missioni Americane. Questo giovinetto era morto poco tempo prima.
            – Oh! voi? dissi io chiamandolo per nome. Luigi! E tutti costoro chi sono?
            – Sono amici dei vostri Salesiani, ed io come amico vostro e dei Salesiani, a – nome di Dio, vorrei darvi un po’ di lavoro.
            – Vediamo di che si tratta. Quale è questo lavoro?
            – Mettetevi qui a questa tavola e poi tirate giù questa corda.
            In mezzo a quella gran sala vi era un tavolo, sul quale stava aggomitolata una corda, e questa corda vidi che era segnata come il metro, con linee e numeri. Più tardi mi accorsi eziandio come quella sala fosse posta nell’America del Sud, proprio sulla linea dell’Equatore, e come i numeri stampati sulla corda corrispondessero ai gradi geografici di latitudine. Io presi adunque l’estremità di quella corda, la guardai e vidi che sul principio aveva segnato il numero zero.
            Io rideva. E quell’angelico giovinetto:
            – Non è tempo di ridere, mi disse. Osservate! che cosa sta scritto sopra la corda?
            – Numero zero.
            – Tirate un poco!
            Tirai alquanto la corda, ed ecco il numero 1.
            – Tirate ancora e fate un gran rotolo di quella corda.
            Tirai e venne fuori il numero 2, 3, 4, fino al 20.
            – Basta? dissi io.
            – No; più in su; più in su! Andate finché troverete un nodo! rispose quel giovanetto.
            Tirai fino al numero 47, dove trovai un grosso nodo. Da questo punto la corda continuava ancora ma divisa in tante cordicelle che si sparpagliavano ad oriente, ad occidente, a mezzodì.
            – Basta? replicai.
            – Che numero è? interrogò quel giovane. È il numero 47. 47 Più 3 quanto fa? 50! E più 5? 55! Notate; cinquantacinque.
            E poi mi disse:
            – Tirate ancora.
            – Sono alla fine! io risposi.
            – Ora dunque voltatevi indietro e tirate la corda dall’altra parte. Tirai la fune dalla parte opposta, fino al numero 10.
            Quel giovane replicò:
            – Tirate ancora!
            – C’è più niente!
            – Come! C’è più niente? Osservate ancora! Che cosa c’è?
            – C’è dell’acqua, risposi.
            Infatti in quell’istante si operava in me un fenomeno straordinario, quale non è possibile descrivere. Io mi trovava in quella stanza, tirava quella corda e nello stesso tempo si svolgeva sotto i miei occhi come un panorama di un paese immenso, che io dominava quasi a volo d’uccello e che si stendeva collo stendersi della corda.
            Dal primo zero al numero 55 era una terra sterminata che dopo uno stretto di mare, in fondo si frastagliava in cento isole di cui una assai maggiore delle altre. A queste isole pareva alludessero le cordicelle sparpagliate che partivano dal gran nodo. Ogni cordicella faceva capo ad un’isola. Alcune di queste erano abitate da indigeni abbastanza numerosi; altre sterili, nude, rocciose, disabitate; altre tutte coperte di neve e ghiaccio. Ad occidente gruppi numerosi di isole, abitate da molti selvaggi. [Pare che il nodo posto sul numero o grado 47 figurasse il luogo di partenza, il centro Salesiano, la missione principale donde i missionari nostri si diramavano alle isole Malvine, alla Terra del fuoco e alle altre isole di quei paesi dell’America].
            Dalla parte opposta poi, cioè dallo zero al 10 continuava la stessa terra e finiva in quell’acqua da me vista per l’ultima cosa. Mi parve essere quell’acqua il mare delle Antille, che vedeva allora in un modo così sorprendente, da non essere possibile che io spieghi a parole quel modo di vedere.
            Or dunque avendo io risposto:
            – C’è dell’acqua! – quel giovanetto rispose:
            – Ora mettete insieme 55 più 10. A che cosa è eguale?
            Ed io:
            – Somma 65.
            – Ora mettete tutto insieme e ne farete una corda sola.
            – E poi?
            – Da questa parte che cosa c’è? – E mi accennava un punto sul panorama.
            – All’occidente vedo altissime montagne, e all’oriente c’è il mare!
            [Noto qui che allora io vedeva in compendio, come in miniatura tutto ciò che poi vidi, come dirò, nella sua reale grandezza ed estensione, e i gradi segnati dalla corda corrispondenti con esattezza ai gradi geografici di latitudine, furono quelli che mi permisero di ritenere a memoria per vari anni i successivi punti che visitai viaggiando nella seconda parte di questo stesso sogno].
            Il giovane mio amico proseguiva:
            – Or bene: queste montagne sono come una sponda, un confine. Fin qui, fin là è la messe offerta ai Salesiani. Sono migliaia e milioni di abitanti che attendono il vostro aiuto, attendono la fede.
            Queste montagne erano le Cordigliere dell’America del Sud e quel mare l’Oceano Atlantico.
            – E come fare? io ripresi; come riusciremo a condurre tanti popoli all’ovile di Gesù Cristo?
            – Come fare? Guardate!
            Ed ecco giungere Don Lago [don Angelo Lago, segretario particolare di Don Rua, morto in concetto di santità nel 1914] il quale portava un canestro di fichi piccoli e verdi: e mi disse:
            – Prenda, Don Bosco!
            – Che cosa mi porti? risposi io guardando ciò che conteneva il canestro.
            – Mi hanno detto di portarli a lei.
            – Ma questi fichi non sono buoni da mangiare; non sono maturi.
            Allora il mio giovane amico prese quel canestro, che era molto largo, ma aveva poco fondo e me lo presentava, dicendo:
            – Ecco il regalo che vi fo!
            – E che cosa debbo fare di questi fichi?
            – Questi fichi sono immaturi, ma appartengono al gran fico della vita. E voi cercate il modo di farli maturare.
            – E come? Se fossero più grossi!… potrebbero farsi maturare colla paglia, come si usa cogli altri frutti; ma così piccoli… così verdi… È cosa impossibile.
            – Anzi sappiate che per farli maturare, bisogna che facciate in modo che tutti questi fichi siano di nuovo attaccati alla pianta.
            – Cosa incredibile! E come fare?
            – Guardate!
            E prese uno di quei fichi e lo mise a bagno in un vasetto di sangue; poscia lo immerse in un altro vasetto pieno di acqua, e disse:
            – Col sudore e col sangue i selvaggi ritorneranno ad essere attaccati alla pianta e ad essere gradevoli al padrone della vita.
            Io pensava: Ma per ciò conseguire ci vuol tempo. E quindi ad alta voce esclamai:
            – Io non so più che cosa rispondere.
            Ma quel caro giovane, leggendo ne’ miei pensieri, proseguì:
            – Questo avvenimento sarà ottenuto prima che sia compiuta la seconda generazione.
            – E quale sarà la seconda generazione?
            – Questa presente non si conta. Sarà un’altra e poi un’altra.
            Io parlava confuso, imbrogliato e quasi balbettando nell’ascoltare i magnifici destini che son preparati per la nostra Congregazione, e domandai:
            – Ma ognuna di queste generazioni quanti anni comprende?
            – Sessanta anni!
            – E dopo?
            – Volete vedere quello che sarà? Venite!
            E senza saper come, mi trovai ad una stazione di ferrovia. Quivi era radunata molta gente. Salimmo sul treno. Io domandai ove fossimo. Quel giovane rispose:
            – Notate bene! Guardate! Noi andiamo in viaggio lungo le Cordigliere. Avete la strada aperta anche all’Oriente fino al mare. É un altro dono del Signore.
            – E a Boston, dove ci attendono, quando andremo?
            – Ogni cosa a suo tempo.
            Così dicendo trasse fuori una carta ove in grande era rilevata la diocesi di Cartagena. [Era questo il punto di partenza].
            Mentre io guardava quella carta, la macchina mandò il fischio e il treno si mise in moto. Viaggiando, il mio amico parlava molto, ma io per il rumore del convoglio non poteva capirlo interamente. Tuttavia imparai cose bellissime e nuove sull’astronomia, sulla nautica, sulla meteorologia, sulla mineralogia, sulla fauna, sulla flora, sulla topografia di quelle contrade, che esso mi spiegava con meravigliosa precisione. Condiva frattanto le sue parole con una contegnosa e nello stesso tempo con una tenera famigliarità, che dimostrava quanto mi amasse. Fin dal principio mi aveva preso per mano e mi tenne sempre così affettuosamente stretto fino alla fine del sogno. Io portava talora l’altra mia mano libera sulla sua, ma questa sembrava sfuggire di sotto alla mia quasi svaporasse e la mia sinistra stringeva solamente la mia destra. Il giovinetto sorrideva al mio inutile tentativo.
            Io frattanto guardava dai finestrini del carrozzone e mi vedeva sfuggire innanzi svariate, ma stupende regioni. Boschi, montagne, pianure, fiumi lunghissimi e maestosi che io non credeva così grandi in regioni tanto distanti dalle foci. Per più di mille miglia abbiamo costeggiato il lembo di una foresta vergine, oggi giorno ancora inesplorata. Il mio sguardo acquistava una potenza visiva meravigliosa. Non aveva ostacoli per spingersi su quelle regioni. Non so spiegare come accadesse nei miei occhi questo sorprendente fenomeno. Io era come chi, sovra una collina, vedendo distesa ai suoi piedi una grande regione, se pone innanzi agli occhi a piccola distanza un listello anche stretto di carta, più nulla vede o ben poco: che se toglie quel listello o solo lo alza o abbassa alquanto, ecco che la sua vista può estendersi fino allo estremo orizzonte. Così successe a me per quella straordinaria intuizione acquisita; ma con questa differenza; di mano in mano che io fissavo un punto, e questo punto mi passava innanzi, era come un successivo alzarsi di singoli sipari ed io vedeva a sterminate incalcolabili distanze. Non solo vedeva le Cordigliere eziandio quando ne era lontano, ma anche le catene di montagne, isolate in quei piani immensurabili, erano da me contemplate con ogni loro più piccolo accidente. [Quelle della Nuova Granata, di Venezuela, delle tre Guyane; quelle del Brasile, e della Bolivia, fino agli ultimi confini].
            Potei quindi verificare la giustezza di quelle frasi udite al principio del sogno nella gran sala posta sul grado zero. Io vedeva nelle viscere delle montagne e nelle profonde latebre delle pianure. Aveva sott’occhio le ricchezze incomparabili di questi paesi che un giorno verranno scoperte. Vedeva miniere numerose di metalli preziosi, cave inesauribili di carbon fossile, depositi di petrolio così abbondanti quali mai finora si trovarono in altri luoghi. Ma ciò non era tutto. Tra il grado 15 e il 20 vi era un seno assai largo e assai lungo che partiva da un punto ove si formava un lago. Allora una voce disse ripetutamente:
            – Quando si verranno a scavare le miniere nascoste in mezzo a questi monti, apparirà qui la terra promessa fluente latte e miele. Sarà una ricchezza inconcepibile.
            Ma ciò non era tutto. Quello che maggiormente mi sorprese fu il vedere in vari siti le Cordigliere che rientrando in sé stesse formavano vallate, delle quali i presenti geografi neppur sospettano l’esistenza, immaginandosi che in quelle parti le falde delle montagne siano come una specie di muro diritto. In questi seni e in queste valli che talora si stendevano fino a mille chilometri, abitavano folte popolazioni non ancor venute a contatto cogli Europei, nazioni ancora pienamente sconosciute.
            Il convoglio intanto continuava a correre e va e va, e gira di qua e gira di là, finalmente si fermò. Quivi discese una gran parte di viaggiatori, che passava sotto le Cordigliere, andando verso occidente.
            [D. Bosco accennò la Bolivia. La stazione era forse La Paz ove una galleria aprendo passaggio al littorale del Pacifico può mettere in comunicazione il Brasile con Lima per mezzo di un’altra linea di via ferrata].
            Il treno di bel nuovo si rimise in moto, andando sempre avanti. Come nella prima parte del viaggio attraversavamo foreste, penetravamo in gallerie, passavamo sovra giganteschi viadotti, ci internavamo fra gole di montagne, costeggiavamo laghi e paludi su ponti, valicavamo fiumi larghi, correvamo in mezzo a praterie ed a pianure. Siamo passati sulle sponde dell’Uruguay. Mi pensava che fosse fiume di poco corso, ma invece è lunghissimo. In un punto vidi il fiume Paranà che si avvicinava all’Uruguay, come se andasse a portargli il tributo delle sue acque, ma invece dopo essere corso per un tratto quasi parallelamente, se ne allontanava facendo un largo gomito. Tutti e due questi fiumi erano larghissimi [Arguendo da questi pochi dati sembra che questa futura linea di ferrovia partendo da La – Paz, toccherà Santa – Cruz, passerà per l’unica apertura che è nei monti Cruz della Sierra ed è attraversata dal fiume Guapay; valicherà il fiume Parapiti nella provincia Chiquitos della Bolivia; taglierà l’estremo lembo nord della Repubblica del Paraguay; entrerà nella provincia di S. Paolo nel Brasile e di qui farà capo a Rio Janeiro. Da una stazione intermedia nella provincia di S. Paolo partirà forse la linea ferroviaria che passando tra il Rio Paranà e il Rio Uruguay congiungerà la capitale del Brasile colla Repubblica dell’Uruguay e colla Repubblica Argentina].
            E il treno andava sempre in giù, e gira da una parte e gira da un’altra, dopo un lungo spazio di tempo si fermò la seconda volta. Quivi molta altra gente scese dal convoglio e passava essa pure sotto le Cordigliere andando verso occidente. [Don Bosco indicò nella Repubblica Argentina la provincia di Mendoza. Quindi la stazione era forse Mendoza e quella galleria metteva a Santiago capitale della Repubblica del Chile].
            Il treno riprese la sua corsa attraverso le Pampas e la Patagonia. I campi coltivati e le case sparse qua e là indicavano che la civiltà prendeva possesso di quei deserti.
            Sul principio della Patagonia passammo una diramazione del Rio Colorado ovvero del Rio Chubut [o forse del Rio Negro?]. Non poteva vedere la sua corrente da qual parte andasse, se verso le Cordigliere ovvero verso l’Atlantico. Cercava di sciogliere questo mio problema, ma non poteva orizzontarmi.
            Finalmente giungemmo allo stretto di Magellano. Io guardava. Scendemmo. Aveva innanzi Punt’Arenas. Il suolo per varie miglia era tutto ingombro di depositi di carbon fossile, di tavole, di travi, di legna, di mucchi immensi di metallo, parte greggio, parte lavorato. Lunghe file di vagoni per mercanzie stavano sui binari.
            Il mio amico mi accennò a tutte queste cose. Allora domandai:
            – E adesso che cosa vuoi dire con questo?
            Mi rispose:
            – Ciò che adesso è in progetto, un giorno sarà realtà. Questi selvaggi in futuro saranno così docili da venire essi stessi per ricevere istruzione, religione, civiltà e commercio. Ciò che altrove desta meraviglia, qui sarà tale meraviglia da superare quanto ora reca stupore in tutti gli altri popoli.
            – Ho visto abbastanza, io conclusi; ora conducetemi a vedere i miei Salesiani in Patagonia.
            Ritornammo alla stazione e risalimmo sul treno per ritornare. Dopo aver percorso un lunghissimo tratto di via, la macchina si fermò innanzi ad un borgo considerevole. [Posto forse sul grado 47 ove sul principio del sogno aveva visto quel grosso nodo della corda]. Alla stazione non vi era alcuno ad aspettarmi. Discesi dal vapore e trovai subito i Salesiani. Ivi erano molte case con abitanti in gran numero; più chiese, scuole, vari ospizi di giovanetti e adulti, artigiani e coltivatori, ed un educatorio di figlie che si occupavano in svariati lavori domestici. I nostri missionari guidavano insieme giovinetti ed adulti.
            Io andai in mezzo a loro. Erano molti, ma io non li conosceva e fra loro non vi era alcuno degli antichi miei figli. Tutti mi guardavano stupiti, come se fossi persona nuova, ed io diceva loro:
            – Non mi conoscete? Non conoscete voi Don Bosco?
            – Oh Don Bosco! Noi lo conosciamo di fama, ma l’abbiamo visto solamente nei ritratti! Di persona, no, certo!
            – E Don Fagnano, Don Costamagna, Don Lasagna, Don Milanesio, dove sono essi?
            – Noi non li abbiamo conosciuti. Sono coloro che vennero qui una volta nei tempi passati: i primi Salesiani che arrivarono in questi paesi dall’Europa. Ma oramai scorsero tanti anni da che sono morti!
            A questa risposta io pensavo meravigliato: – Ma questo è un sogno ovvero una realtà? E batteva le mani una contro dell’altra, mi toccava le braccia, e mi scuoteva, mentre realmente udiva il suono delle mie mani e sentiva me stesso e mi persuadeva di non essere addormentato.
            Questa visita fu cosa di un istante. Visto il meraviglioso progresso della Chiesa Cattolica, della nostra Congregazione e della civiltà in quelle regioni, io ringraziava la Divina Provvidenza che si fosse degnata di servirsi di me come istrumento della sua gloria e della salute di tante anime.
            Il giovinetto Colle frattanto mi fece segno, che era tempo di ritornare indietro: quindi, salutati i miei Salesiani, ritornammo alla stazione, ove il convoglio era pronto per la partenza. Risalimmo, fischiò la macchina, e via verso il nord.
            Mi cagionò meraviglia una novità che mi cadde sotto gli occhi. Il territorio della Patagonia nella parte più vicina allo stretto di Magellano, tra le Cordigliere e il mare Atlantico, era meno largo di quello che si crede comunemente dai geografi.
            Il treno si avanzava nella sua corsa velocissima e mi parve che percorresse le provincie, che ora sono già civilizzate nella Repubblica Argentina.
            Procedendo entrammo in una foresta vergine, larghissima, lunghissima, interminabile. Ad un certo punto la macchina si fermò e sotto gli occhi nostri apparve un doloroso spettacolo. Una turba grandissima di selvaggi stava radunata in uno spazio sgombro in mezzo alla foresta. I loro volti erano deformi e schifosi; le loro persone vestite, come sembrava, di pelli d’animali cucite insieme. Circondavano un uomo legato che stava seduto sopra una pietra. Esso era molto grasso; perché i selvaggi lo avevano fatto a bello studio ingrassare. Quel poveretto era stato fatto prigioniero e sembrava appartenesse ad una nazione straniera dalla maggiore regolarità dei suoi lineamenti. Le turbe dei selvaggi lo interrogavano ed esso rispondeva narrando le varie avventure, che gli erano occorse nei suoi viaggi. A un tratto un selvaggio si alza e brandendo un grosso ferro che non era spada, ma però molto affilato, si slancia sul prigioniero e con un colpo solo gli tronca il capo. Tutti i viaggiatori del convoglio stavano agli sportelli e alle finestrine dei vagoni attenti e muti per l’orrore. Lo stesso Colle guardava e taceva. La vittima aveva mandato un grido straziante nell’atto che era colpita. Sul cadavere che giaceva in un lago di sangue si slanciarono allora quei cannibali e fattolo a pezzi, posero le carni ancora calde e palpitatiti sovra fuochi appositamente accesi e, fattele arrostire alquanto, così mezze crude le divorarono. Al grido di quel disgraziato la macchina si era messa in moto e a poco a poco riprese la sua vertiginosa velocità.
            Per lunghissime ore si avanzò sulle sponde di un fiume larghissimo. E ora il treno correva sulla sponda destra ed ora sulla sinistra di questo. Io non feci caso dal finestrino, su quali ponti facessimo questi frequenti tragitti. Intanto su quelle rive comparivano di tratto in tratto numerose tribù di selvaggi. Tutte le volte che vedevamo queste turbe il giovanetto Colle andava ripetendo:
            – Ecco la messe dei Salesiani! Ecco la messe dei Salesiani!
            Entrammo poscia in una regione piena di animali feroci e di rettili velenosi, di forme strane ed orribili. Ne formicolavano le falde dei monti, i seni delle colline; i poggerelli da questi monti e da questi colli ombreggiati, le rive dei laghi, le sponde dei fiumi, le pianure, i declivi, le ripe. Gli uni sembravano cani che avessero le ali ed erano panciuti straordinariamente [gola, lussuria, superbia]. Gli altri erano rospi grossissimi che mangiavano rane. Si vedevano certi ripostigli pieni di animali, diversi di forma dai nostri. Queste tre specie d’animali erano mischiate insieme e grugnivano sordamente come se volessero mordersi. Si vedevano pure tigri, iene, leoni, ma di forma diversa dalle specie dell’Asia e dell’Africa. Il mio compagno mi rivolse eziandio qui la parola e, accennandomi quelle belve, esclamò:
            – I Salesiani le mansueferanno.
            Il treno intanto si avvicinava al luogo della prima partenza e ne eravamo poco lontani. Il giovane Colle trasse allora fuori una carta topografica di una bellezza stupenda e mi disse:
            – Volete vedere il viaggio che avete fatto? Le regioni da noi percorse?
            – Volentieri! risposi io.
            Esso allora spiegò quella carta nella quale era disegnata con esattezza meravigliosa tutta l’America del Sud. Di più ancora, ivi era rappresentato tutto ciò che fu, tutto ciò che è, tutto ciò che sarà in quelle regioni, ma senza confusione, anzi con una lucidezza tale che con un colpo d’occhio si vedeva tutto. Io compresi subito ogni cosa, ma per la molteplicità di quelle circostanze, simile chiarezza mi durò per brev’ora e adesso nella mia mente si è formata una piena confusione.
            Mentre io osservava quella carta aspettando che il giovanetto aggiungesse qualche spiegazione, essendo io tutto agitato per la sorpresa di ciò che avevo sott’occhi, mi sembrò che Quirino (santo coadiutore, matematico, poliglotta e campanaro) suonasse l’Ave Maria dell’alba; ma, svegliatomi, mi accorsi che erano i tocchi delle campane della parrocchia di S. Benigno. Il sogno aveva durato tutta la notte.

            Don Bosco pose termine al suo racconto con queste parole:
            – Con la dolcezza di S. Francesco di Sales i Salesiani tireranno a Gesù Cristo le popolazioni dell’America. Sarà cosa difficilissima moralizzare i selvaggi; ma i loro figli obbediranno con tutta facilità alle parole dei Missionari e con essi si fonderanno colonie, la civiltà prenderà il posto della barbarie e così molti selvaggi verranno a far parte dell’ovile di Gesù Cristo.
(MB XVI, 385-394)




Ricordare la predica

Una domenica, verso mezzogiorno, una giovane donna stava lavando l’insalata in cucina, quando le si avvicinò il marito che, per prenderla in giro, le chiese:
«Mi sapresti dire che cosa ha detto il parroco nella predica di questa mattina?».
«Non lo ricordo più», confessò la donna.
«Perché allora vai in chiesa a sentir prediche, se non le ricordi?».
«Vedi, caro: l’acqua lava la mia insalata e tuttavia non resta nel paniere; eppure la mia insalata è completamente lavata».

Non è importante prendere appunti. È importante lasciarsi «lavare» dalla Parola di Dio.




La tradizione sicura del Beato Michele Rua (1/2)

“State buoni, abbiate fiducia in Dio e il paradiso sarà vostro” (Beato Michele RUA)

            Il beato Michele Rua (1837-1910), primo successore di Don Bosco, come hanno dimostrato anche gli studi, le ricerche e i convegni svolti in occasione del centenario della morte viene a superare il cliché tradizionale di “copia di Don Bosco», talvolta con tratti meno attraenti o addirittura in contrapposizione al fondatore, per liberarne una figura più completa, armonica e simpatica.
            Don Rua è la consacrazione e l’esaltazione delle origini salesiane. Fu testimoniato nei processi: «Don Rua non va posto nella schiera dei comuni seguaci di Don Bosco, anche i più fervorosi, perché tutti li precede quale perfetto esemplare, e per questa ragione dovranno studiare lui pure quanti vogliono conoscere bene Don Bosco, perché il servo di Dio compì su Don Bosco uno studio che nessun altro potrà compiere» Nessuno come lui capì e interpretò il fondatore nella sua azione e spiritualità educativa ed ecclesiale. Vocazione e ideale di don Rua furono la vita, le intenzioni, le opere, le virtù, la santità del padre e guida della sua esistenza giovanile, sacerdotale e religiosa. Don Rua rimane sempre di vitale attualità per il mondo salesiano.

            Quando si trattò di trovare il direttore della prima casa fuori Torino, a Mirabello Monferrato nel 1863, Don Bosco scelse don Rua «ammirando in lui, oltre la condotta esemplare, il lavoro indefesso, l’esperienza grande ed uno spirito di sacrificio che si direbbe inenarrabile, nonché i bei modi, tanto da farsi amare da tutti». Più direttamente don Cerruti, dopo aver affermato di aver trovato nel giovane direttore il ritratto e l’immagine del Padre (Don Bosco), testimonia: «Ricordo sempre quella sua operosità instancabile, quella sua prudenza così fine e delicata di governo, quel suo zelo per il bene non solo religioso e morale, ma intellettuale e fisico dei confratelli e giovani a lui affidati». Questi aspetti sintetizzano e incarnano il motto salesiano “lavoro e temperanza”. Vero discepolo di Don Bosco verbo et opere, in una mirabile sintesi di preghiera e di lavoro. Un discepolo che seguì il maestro fin dalla prima fanciullezza facendo in tutto a metà, assimilando in forma vitale lo spirito delle origini carismatiche; un figlio che si sentì generato da un amore unico, come tanti dei primi ragazzi dell’oratorio di Valdocco, che decisero di “restare con Don Bosco» e tra i quali eccellono in modo paradigmatico i primi tre successori del padre e maestro dei giovani: don Michele Rua, don Paolo Albera, don Filippo Rinaldi.

1. Alcuni dei tratti della vita virtuosa di don Rua, espressione di continuità e fedeltà
            Si tratta della tradizione di chi riceve un dono e a sua volta lo trasmette cercando di non disperderne il dinamismo e la vitalità apostolica, spirituale e affettiva che devono permeare le istituzioni e le opere. Don Bosco lo aveva già intuito: «Se Dio mi dicesse: Preparati che devi morire e scegli un tuo successore perché non voglio che l’Opera da te incominciata venga meno e chiedi per questo tuo successore quante grazie, virtù, doni e carismi credi necessari, perché possa disimpegnare bene il suo ufficio, che io tutti glieli darò, ti assicuro che non saprei che cosa domandare al Signore per questo scopo, perché tutto quanto già lo vedo posseduto da don Rua». Ciò era frutto di frequentazione assidua, del far tesoro di ogni consiglio, dello studio continuo nell’osservare e notare ogni atto, ogni parola, ogni ideale di Don Bosco.

1.1. Condotta esemplare
            Significativa la testimonianza del salesiano coadiutore Giuseppe Balestra, assistente personale di don Rua. Balestra è molto attento agli aspetti di vita quotidiana e in essi sa cogliere i tratti di una santità a tutta prova che segneranno anche il suo cammino religioso. Ancora oggi nelle camerette di Don Bosco si può vedere il divano che per 20 anni fu il letto del beato Michele Rua. Succeduto a Don Bosco, e presone il posto in questa stanza, don Rua non volle mai un letto personale. Alla sera, il coadiutore Balestra distendeva due lenzuola su quel divano, che don Rua usava per dormire. Al mattino le lenzuola venivano piegate e il divano riprendeva la sua forma solita. «Io ho la persuasione che il servo di Dio fosse un santo, perché negli 11 anni in cui ebbi la fortuna di vivergli proprio affianco e di osservarlo continuamente ho riscontrato sempre e in ogni cosa una massima perfezione; di qui la mia convinzione che sia stato fedelissimo nel compimento di tutti i suoi doveri e perciò nell’osservanza esattissima di tutti i Comandamenti di Dio, della Chiesa e obbligazioni del proprio stato».

1.2. Lavoro indefesso, operosità instancabile e attività straordinaria
            Sembra incredibile che un uomo dal corpo così fragile, con la salute tutt’altro che florida, abbia potuto affrontare un’attività così intensa e diuturna, vastissima, interessandosi dei settori più diversi dell’apostolato salesiano, promuovendo e attuando iniziative che se apparivano in quel tempo straordinarie e ardite, sono anche oggi indicazione validissima e sprone. Tale laboriosità instancabile, tratto tipico della spiritualità salesiana, venne riconosciuto a don Rua da Don Bosco fin dalla giovinezza, come attestò don Lemoyne: «È vero, nell’oratorio si lavora molto, ma non è il lavoro la causa della morte. C’è uno solo qui nell’Oratorio che dovrebbe, senza l’aiuto di Dio, morire per la fatica, e questi è don Rua, che continua sempre a lavorare più degli altri».
            Tale dedizione al lavoro era espressione dello spirito e della pratica della povertà che distinsero in modo singolare la vita e l’azione di don Rua: «Amò immensamente la povertà che gli fu compagna graditissima fin da fanciullo e ne possedette lo spirito in maniera perfetta… L’esercitava con allegria». La pratica della povertà, espressa in molteplici forme, puntava sul valore dell’esempio della vita e del tenere in conto della Provvidenza divina. Ammoniva: «Persuadetevi che ad un fine ben più alto tendono le mie esortazioni, si tratta di far sì che regni fra noi il vero spirito di povertà, a cui ci obbligammo per voto. Se non si cura l’economia, e troppo si concede al nostro corpo nel trattamento, nel vestiario, nei viaggi, nelle comodità, come avere fervore nelle pratiche di pietà? Come essere disposti a quei sacrifizi che sono inerenti alla vita salesiana? Sarebbe impossibile ogni vero progresso nella perfezione, impossibile essere veri figli di Don Bosco».

1.3. Grande esperienza e prudenza di governo
            La prudenza definisce meglio di ogni altra qualità il profilo virtuoso del beato Michele Rua: fin dalla fanciullezza si pose alla sequela di san Giovanni Bosco, affrettandosi sotto la sua guida ad abbracciare lo stato religioso; si formò attraverso l’assidua meditazione e il diligentissimo esame di coscienza; fuggì l’ozio, operò instancabilmente nel bene e condusse una vita irreprensibile. E come da adolescente tale rimase da sacerdote, educatore, superiore vicario e successore di Don Bosco.
            Nell’ambito di una Congregazione dedita all’educazione dei giovani introdusse nell’iter formativo la prassi del tirocinio, periodo di tre anni durante il quale i giovani salesiani «venivano inviati nelle case a compiere differenti attribuzioni, ma per lo più di assistenti o maestri, allo scopo precipuo che essi facessero vita comune coi giovani, ne studiassero la mentalità, crescessero con loro, e questo sotto la guida, sorveglianza del catechista e Direttore». Inoltre offriva indicazioni precise e direttive chiare nei più svariati campi della missione salesiana, con spirito di evangelica vigilanza.
            Tale esercizio della prudenza era caratterizzato da una docilità allo Spirito e da una spiccata capacità di discernimento circa le persone chiamate a ricoprire cariche di responsabilità, soprattutto nel campo della formazione e del governo delle case e delle ispettorie, circa le opere e le diverse situazioni; come quando ad esempio scelse don Paolo Albera come visitatore delle case d’America o don Filippo Rinaldi come prefetto generale. «Inculcava a tutti i confratelli, specie ai direttori e ispettori l’esatta osservanza delle Regole, l’adempimento esemplare delle pratiche di pietà e sempre l’esercizio della carità; ed egli stesso li precedeva tutti coll’esempio, dicendo: “Un mezzo di guadagnarsi sempre più le confidenze dei dipendenti è quello di non trascurare mai i propri doveri”».
            La pratica della prudenza soprattutto nell’esercizio del governo produsse come frutto la filiale confidenza dei confratelli nei suoi confronti, considerandolo come esperto consigliere e direttore di spirito, non solo per le cose dell’anima, ma anche quelle materiali: «La prudenza del servo di Dio brillò in modo straordinario nel conservare gelosamente il segreto confidenziale, che seppelliva nell’anima sua. Osservava con le maggiori cautele il segreto della corrispondenza personale: questa era una confessione generale, e quindi i confratelli si rivolgevano a lui con grande confidenza perché rispondeva a tutti nel modo più delicato».

1.4. “Sacerdote del Papa»
            Tale espressione di papa Giovanni XXIII davanti all’urna di Don Bosco nel 1959, esprime molto bene come don Rua sulla scia di Don Bosco nel suo quotidiano cammino vide e trovò nel papa la luce e la guida per la sua azione. «La Provvidenza riservò a don Rua più che a Don Bosco prove ancor più dure e direi eroiche di questa fedeltà e docilità. Durante il suo rettorato, dalla Santa Sede vennero vari decreti che sembravano far crollare tradizioni ritenute in Congregazione importanti e caratteristiche del nostro spirito. Don Rua, pur sentendo profondamente il colpo degli improvvisi provvedimenti ed essendone afflittissimo, si fece subito paladino dell’obbedienza alle disposizioni della S. Sede, invitando i Salesiani, quali veri figli della Chiesa e di Don Bosco, ad accettarle serenamente e con fiducia».
            È questo uno degli elementi di maturazione del carisma salesiano nell’obbedienza alla Chiesa e in fedeltà al fondatore. Certamente fu un travaglio molto esigente, ma che forgiò sia la santità di don Rua che il sentire cum ecclesia e quella fedeltà al Papa dell’intera Congregazione e della Famiglia Salesiana, che in Don Bosco furono note caratteristiche e imprescindibili. Obbedienza fatta di fede, di amore, tradotti in un servizio umile ma cordiale, in spirito di docilità filiale e di fedeltà agli insegnamenti e alle direttive del Santo Padre.
            È interessante notare come anche nei processi di beatificazione don Rua abbia fatto a metà con Don Bosco, ma non secondo uno stereotipo ripetitivo, ma con originalità, mettendo proprio in luce quegli aspetti che nel processo di Don Bosco avevano suscitato le animadversiones più controverse: «Può destare qualche sorpresa e perplessità la conclusione più evidente a cui approda il confronto tra le due Positiones, cioè il fatto che le stesse virtù maggiormente invocate per delineare la santità di don Rua sono quelle costantemente impugnate per contestare la santità di Don Bosco. È vero infatti che proprio la prudenza, la temperanza e la povertà sono i “cavalli di battaglia” delle animadversiones raccolte nella Positio del fondatore».

(continua)




John Lee Tae Seok (1962-2010), un salesiano di cui si parlerà ancora

John Lee Tae Seok, noto anche come “Fr. Jolly” (don Allegro), è stato un salesiano coreano che ha dedicato la sua vita alla cura dei più poveri e sofferenti, specialmente in Sud Sudan. Nonostante la sua vita sia stata purtroppo breve, ha lasciato un segno indelebile nel cuore delle persone che ha incontrato, grazie al suo impegno come medico, educatore e uomo di fede. La sua eredità continua a ispirare migliaia di persone in tutto il mondo.

Infanzia e radici della vocazione
Yohan Lee Tae Seok (John Lee) nacque il 19 settembre 1962 a Busan, città meridionale della Corea del Sud. Era il nono di dieci figli, quattro maschi e sei femmine, in una famiglia profondamente cattolica (un fratello, Tae-Young Lee, divenne frate francescano e una sorella, Cristina, consacrata nel Movimento dei Focolari).
Già da giovane mostrava segni di straordinaria leadership e un’inclinazione verso il servizio agli altri. Partecipava quotidianamente alla Messa ed era dotato per la musica. All’età di dieci anni perse il padre, e sua madre divenne il suo punto di riferimento, sostenendolo nel suo cammino di fede e negli studi.
Nonostante il desiderio di diventare sacerdote già all’età di quindici anni, la madre lo convinse a proseguire gli studi di medicina.
Nel 1987, dopo essersi laureato a pieni voti alla Inje University Medical School, John iniziò a lavorare come medico militare durante il servizio di leva obbligatorio. Fu in quel periodo che incontrò i Salesiani attraverso un cappellano militare, un incontro che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Deciso a seguire la vocazione salesiana, John provò per mesi a comunicare la sua decisione alla madre, senza riuscirci.
Egli stesso racconta:

«È stata direttamente Maria Ausiliatrice a prendere in mano la situazione. Mi ero deciso ad incamminarmi nella vita salesiana con grande gioia, ma avevo l’angoscia di comunicare la mia decisione alla mia mamma. Siccome mio papà era mancato quando avevo dieci anni, la mamma aveva dovuto faticare molto per farmi studiare medicina. E grazie ai suoi molti sacrifici ero potuto diventare medico. Avrei dovuto cominciare ad aiutare la mamma per ricompensarla dei sacrifici che aveva fatto senza rinfacciarmi mai niente. Per questo mi era tanto difficile comunicarle la mia decisione. Per me era quasi impossibile dirglielo.
Avevo tentato tante volte, ma non ci ero mai riuscito perché guardandola, mi veniva meno il coraggio. Tentai pure di dirlo ad una delle mie sorelle con la quale parlavo di tutto senza problemi e alla quale confidavo tutto. Ma non ci riuscivo proprio. Così sono passati mesi senza che riuscissi a dire qualcosa.
Ma venne un giorno bellissimo. Andai da mia sorella per un altro tentativo, ma rimasi a bocca aperta: mia sorella sapeva già tutto della mia decisione. Un sogno nella notte precedente le aveva spiegato tutto. Mi piacerebbe dirvi il contenuto del sogno, però non posso senza il permesso del Vescovo. Comunque mia sorella raccontò il suo sogno alla mamma e tutte le mie difficoltà si sciolsero in un attimo.
Non avevo pensato ad un diretto aiuto di Maria Ausiliatrice fino a quando non ho sentito, per la prima volta, dal maestro dei novizi che tutte le vocazioni di tutti i salesiani sono collegate a Maria Ausiliatrice.
Non avevo chiesto l’aiuto a Maria. Maria si era accorta della mia difficoltà e mi aveva aiutato in modo silenzioso e discreto. Questa è stata la prima esperienza di Maria che ho potuto avere. Per me, questa esperienza è stata preziosissima perché così ho potuto capire la realtà di “Maria aiuto dei cristiani” e imparare l’atteggiamento che dobbiamo avere quando aiutiamo gli altri: cioè stare attenti al bisogno degli altri ed essere pronti a dare loro l’aiuto necessario. D’allora in poi potevo parlare ai ragazzi con certezza della presenza di Maria Ausiliatrice
».

La vocazione salesiana e il servizio ai poveri
Inizia il noviziato il 24 gennaio 1993 e fa la sua prima professione il 30 gennaio 1994.
Dopo aver completato il suo corso di filosofia di due anni alla Gwangju Catholic University, svolge il tirocinio presso la Casa Salesiana a Dae Rim Dong, Seoul. Lì assisteva un’ottantina di ragazzi a rischio, con tanta creatività in classe e nel cortile. Teneva questa classe di ragazzi difficili, che imparavano — a 18 anni d’età — a scrivere l’alfabeto coreano. Con le sue doti musicali faceva cantare a questi ragazzi ogni domenica sera un Tantum Ergo in latino, a ritmo pop composto proprio da lui.

Continua i suoi studi teologici.
Inviato a Roma a studiare alla Pontificia Università Salesiana nel 1997, incontra un missionario, frate Comino, che per vent’anni aveva prestato il suo servizio in Corea del Sud e poi era stato inviato in Sudan nel 1991, e in quel momento si trovava in vacanza. Raccontando la sua esperienza missionaria, rafforza il desiderio di John Lee di diventare missionario.
La visione del film “Molokai”, un film biografico su padre Damian, un missionario belga che lavorava al Kalaupapa Leprosy Settlement sull’isola hawaiana di Molokai, lo spinse ancora di più a impegnarsi a vivere come padre Damian.
Durante le vacanze del 1999 fa un’esperienza missionaria in Kenya e incontra don James Pulickal, un salesiano di origine indiana attivo a Tonj, nel Sudan del Sud. Visita Tonj, quando ancora c’era la guerra, rimane fortemente colpito e decide di dedicare la sua vita ai bambini poveri di Tonj. Questo piccolo villaggio del Sud Sudan, distrutto dalla guerra civile, dove incontrò lebbrosi e poveri, cambia la sua vita per sempre.
Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 2001, John Lee tornò a Tonj, determinato a servire la popolazione locale come medico, sacerdote e salesiano, e a trattare i malati come fossero Gesù. Si inserì nella comunità salesiana di Tonj, composta da confratelli di diverse nazionalità, con l’obiettivo di ricostruire — dopo la guerra — la comunità cristiana, l’oratorio, le scuole e le stazioni missionarie nei villaggi circostanti.

La missione in Sud Sudan: Tonj, un piccolo miracolo
Le condizioni dopo la guerra erano pessime. Questo spinse don John Lee Tae Seok a lavorare per migliorare la vita degli abitanti del villaggio. Prima di tutto, aprì una piccola clinica, che in breve tempo divenne l’unico centro medico disponibile in una vasta area. Curava ogni tipo di malattia, spesso con mezzi limitati, ma con un’immensa dedizione. Oltre a fornire cure mediche immediate, si impegnò a lungo termine per educare la popolazione locale riguardo alla prevenzione delle malattie e all’igiene, argomenti di cui la gente del posto era largamente inconsapevole a causa della mancanza di istruzione.

Oltre al suo lavoro come medico, Lee Tae Seok era un instancabile educatore. Fondò una scuola per i bambini del villaggio, in cui insegnava non solo materie scolastiche, ma anche valori di convivenza pacifica e rispetto reciproco, essenziali in un contesto post-bellico come quello del Sud Sudan. Grazie alla sua passione per la musica, insegnò anche ai bambini a suonare strumenti musicali, creando una banda musicale che divenne famosa nella regione. La banda non solo offriva ai giovani un modo per esprimersi, ma contribuiva anche a costruire un senso di comunità e di speranza per il futuro.

Un medico con un cuore di sacerdote
Il lavoro di John Lee Tae Seok non si limitava alla medicina e all’istruzione. Essendo sacerdote, il suo obiettivo principale era quello di portare speranza spirituale a una popolazione che aveva vissuto anni di sofferenze. Celebrava la Messa regolarmente, amministrava i sacramenti e offriva conforto spirituale a coloro che avevano perso tutto a causa della guerra. La sua fede profonda era evidente in ogni aspetto del suo lavoro, e la sua presenza portava un senso di pace e speranza anche nei momenti più difficili.

Uno degli aspetti più ammirevoli della sua missione era la sua capacità di vedere la dignità in ogni persona, indipendentemente dalla loro condizione sociale o dal loro stato di salute. Trattava i malati con immenso rispetto e dedicava il suo tempo a chiunque avesse bisogno di aiuto, anche quando era stremato dalle lunghe ore di lavoro nella clinica o dalla mancanza di risorse. Questa profonda compassione non passò inosservata: la gente del villaggio lo considerava non solo come un medico e un prete, ma come un vero e proprio amico e fratello.

La lotta contro la malattia e la sua eredità
Nonostante l’instancabile lavoro e l’amore che donava agli altri, John Lee Tae Seok stesso era afflitto da una grave malattia. Durante il suo soggiorno in Sud Sudan, iniziò a mostrare segni di una malattia avanzata, che in seguito si rivelò essere un tumore al colon. Quando la malattia fu diagnosticata, era già in uno stadio avanzato, ma Lee Tae Seok continuò il suo lavoro il più a lungo possibile, rifiutando di abbandonare le persone che dipendevano da lui.

Il 14 gennaio 2010, a soli 47 anni, John Lee Tae Seok morì a Seul, Corea del Sud, dopo tredici mesi di battaglia contro il cancro. La notizia della sua morte lasciò un profondo vuoto nella comunità di Tonj e tra tutti coloro che lo avevano conosciuto. Il suo funerale fu un evento commovente, con migliaia di persone che parteciparono per onorare un uomo che aveva dedicato la sua vita al servizio degli altri.

Nonostante la sua morte prematura, l’eredità di John Lee Tae Seok continua a vivere. Le sue ultime parole furono un invito a portare avanti i suoi sogni per Tonj: «Non sarò in grado di realizzare i miei sogni per Tonj, ma vi prego di portarli avanti». La clinica che ha fondato a Tonj continua la sua attività, e molte delle persone che ha formato, sia in campo medico che educativo, stanno continuando il suo lavoro. La banda musicale da lui creata continua a suonare e a portare gioia nella vita delle persone.

Testimonianze
Racconta don Václav KLEMENT, salesiano, che è stato suo superiore (missionario in Corea del Sud negli anni 1986-2002):

«Durante gli ultimi 22 anni, da quando l’obbedienza mi ha portato in tanti paesi dell’Asia Est-Oceania e in tutto il mondo salesiano, ho visto tanti piccoli “miracoli” che ha fatto don John Lee attraverso il film (“Don’t Cry for Me, Sudan” e altri), i suoi scritti (“The Rays of the Sun in Africa are still sad” e “Will you be my Friend?”) oppure le varie pubblicazioni che raccontano la sua vita.
Un giovane studente delle superiori in Giappone ha fatto il passo verso il catecumenato dopo aver visto il film “Don’t Cry for Me, Sudan”, un catecumeno tailandese – nel cammino verso il battesimo – è stato “confermato” nella sua fede grazie alla testimonianza della vita gioiosamente sacrificata di don John Lee. Un giovane salesiano vietnamita, che godeva tutta la felicità nella sua “zona di conforto”, è stato svegliato e motivato per la vita missionaria proprio dal film “Don’t Cry for Me, Sudan”. Sì, ci sono tanti cristiani e non, che sono stati svegliati, confermati nella fede o ispirati per un cammino vocazionale grazie a don John Lee.
I Salesiani dell’Ispettoria di Corea hanno avviato una nuova presenza salesiana a Busan, città natale di don John Lee. In 2020 hanno aperto una nuova comunità con sede nella “Fr. John Lee Memorial Hall” a Busan, proprio nel quartiere dove John è nato nel 1962. L’edificio di quattro piani costruito dal governo locale di Busan – Seogu è affidato ai Salesiani di Don Bosco. Cosi la storia di don John Lee viene raccontata dai suoi confratelli salesiani immersi nella vita del quartiere che accolgono tanti giovani e fedeli per avvicinarli alla radiante testimonianza di vita missionaria.»

L’impatto internazionale e l’eredità spirituale
La spiritualità di don John Lee era profondamente legata a Maria Ausiliatrice. Interpretò molti eventi della sua vita come segni della presenza materna di Maria. Questa devozione influenzò anche il suo approccio al servizio: aiutare gli altri in modo silenzioso e discreto, essere attenti ai bisogni altrui e pronti a offrire sostegno.
Don John Lee Tae Seok incarnò pienamente lo spirito salesiano, dedicando la sua vita ai giovani e ai poveri, seguendo l’esempio di don Bosco. La sua capacità di unire medicina, educazione e spiritualità fece di lui una figura unica, capace di lasciare un’impronta duratura in una terra segnata dalla sofferenza.
La sua attività continua nella “Fondazione John Lee”, che prosegue a sostenere le opere salesiane in Sudan.

Il suo ricordo è stato immortalato in numerosi premi internazionali e documentari.
Nel 2011, dopo la sua morte, il Ministero della Pubblica Amministrazione e della Sicurezza della Corea del Sud — su raccomandazione del pubblico — gli ha conferito un premio, insieme ad altre persone che hanno contribuito alla società attraverso il volontariato, le donazioni e le buone azioni contro ogni previsione. Il premio è il più alto, quello dell’Ordine Mugunghwa.
Il 9 settembre 2010 la televisione coreana KBS realizzò un film sulla sua opera a Tonj, intitolato “Don’t Cry For Me Sudan”. Il documentario toccò il cuore di centinaia di migliaia di persone e contribuì a far conoscere la figura di don John Lee e la sua missione in tutto il mondo.
Nel 2018 il ministro dell’Istruzione del Sudan del Sud, Deng Deng Hoc Yai, ha introdotto lo studio della vita di don John Lee nei libri di testo di studi sociali per le scuole elementari e in due pagine del libro di testo di cittadinanza per le scuole medie. È la prima volta che i libri di testo del Sudan del Sud includono la storia di uno straniero per il suo servizio di volontariato nel paese.
Il successo del film documentario “Don’t Cry for Me, Sudan” ha indotto i produttori a proseguire. Il 9 settembre 2020 il regista Soo-Hwan Goo ha lanciato un nuovo documentario intitolato “Resurrection” che segue la storia degli studenti di Lee un decennio dopo la sua morte e ne presenta circa settanta di loro, sia nella Repubblica del Sudan del Sud che in Etiopia.

John Lee Tae Seok è stato un esempio vivente di amore cristiano e solidarietà. La sua vita ci insegna che anche nelle circostanze più difficili, con fede e dedizione, possiamo fare la differenza nel mondo. I sogni di John per Tonj continuano a vivere grazie a coloro che, ispirati dalla sua figura, lavorano per costruire un futuro migliore per i più poveri e i più bisognosi.

Un salesiano di cui si parlerà ancora.




Che cos’è l’azione ordinaria del demonio e come contrastarla

La tentazione diabolica non produce le sue devastanti conseguenze se la nostra volontà umana, con l’aiuto di Dio, si impegna a resisterle. Noi, infatti, siamo liberi di accettare o di respingere le suggestioni del demonio. E Dio, da parte sua, tra i diversi aiuti, ci dà la possibilità di sapere distinguere quello che ci suggerisce Lui e quello che ci suggerisce il demonio.

La catechesi di Papa Francesco ci offre l’occasione per riflettere sull’azione ordinaria del demonio. Essa corrisponde alla tentazione e coinvolge tutti, nessuno escluso. L’azione straordinaria, come la vessazione o la possessione, certamente impressiona per le sue manifestazioni, ma è quella ordinaria l’azione diabolica più pericolosa perché vuole portarci alla definitiva ed assoluta prospettiva della sofferenza eterna. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 74 è chiaro: “Tutta l’opera dei demoni in mezzo agli uomini è tentare di associarli alla loro ribellione contro Dio”.

A questo fine, Satana e i demoni studiano a fondo i punti deboli di ciascuno di noi agendo con la tentazione sulla nostra sfera psichica con l’intento di alterare il giudizio del nostro intelletto ed ottenere il consenso della nostra volontà. Per tentarci, si servono di due potenti alleati: la “carne” e il “mondo”.

La carne è la nostra natura umana ferita dal peccato originale e che anche dopo il battesimo resta vulnerabile, perché inclinata al male da quella che il linguaggio tradizionale indica col termine concupiscenza. Il mondo non è semplicemente l’ambiente in cui viviamo o il genere umano in generale, ma, come scrive l’evangelista Giovanni, coloro che, con diversi gradi di consapevolezza, vivono separati da Dio, formando l’insieme di quanti, in effetti, servono il “principe di questo mondo”, cioè Satana, diffondendo il peccato nella società.
Come ha ricordato il Papa, il mondo, compresi i mezzi tecnologici creati e gestiti dall’uomo, ci presenta continuamente occasioni di peccato istigandoci a fare il contrario di quello che Gesù ci ha insegnato.

Ecco che allora il demonio, attraverso il mondo, ci propone come amabili e imitabili gli scandali e i cattivi esempi, gli spettacoli corrotti, i piaceri e divertimenti raffinati e immorali.

E allo stesso tempo semina discordie, scatena guerre, crea divisioni, confonde le menti anche attraverso ideologie rivestite di falso umanitarismo. Egli oggi utilizza i potenti mezzi di comunicazione sociale, media e social, per orientare e condizionare il pensiero dell’umanità contro Dio, separandola dal suo Amore.
Una tentazione con cui da sempre Satana insidia gli esseri umani, e che Papa Francesco ha indicato nella sua catechesi, è quella dell’esoterismo, dell’occultismo, della stregoneria e del satanismo. Satana si sforza di far credere agli uomini che mediante queste pratiche si possa ottenere elevazione spirituale, poteri straordinari, autorealizzazione e l’appagamento dei propri desideri e felicità. In realtà è esattamente il contrario.
L’uomo aderendo alla mentalità magica e alle pratiche occulte percorre la strada indicata da Satana, poiché cresce sempre più nel desiderio di voler diventare come Dio, facendo propria l’antica sfida degli angeli ribelli, giungendo a porsi illusoriamente al posto di Dio. La sua rovina a quel punto è inevitabile.
Concludendo, non va mai dimenticato che la tentazione diabolica non produce le sue devastanti conseguenze se la nostra volontà umana, con l’aiuto di Dio, si impegna a resisterle.

Noi, infatti, siamo liberi di accettare o di respingere le suggestioni del demonio.

E Dio, da parte sua, tra i diversi aiuti, ci dà la possibilità di sapere distinguere quello che ci suggerisce Lui e quello che ci suggerisce il demonio.
San Paolo nella lettera agli Efesini ci insegna come respingere il demonio: “Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo” (Ef 6, 11) e poi aggiunge “attingete forza dal Signore” (Ef 6, 10).
Dobbiamo essere vigilanti nella preghiera, assidui ai Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, intrattenendoci spesso con Gesù nell’adorazione eucaristica. In particolare, dobbiamo coltivare una vera devozione mariana, amando con amore di predilezione la preghiera del Rosario e, uniti alla Madonna, compiere bene il nostro dovere quotidiano in spirito di fede e d’amore verso tutti.
Se poi, per poca vigilanza o per altro, dovesse talvolta prevalere la tentazione e ci capitasse di cadere nel peccato, non dobbiamo perdere la speranza. Il Signore è sempre pronto a perdonare i suoi figli che, sinceramente pentiti, bussano alla porta della sua Misericordia. A tal fine ha istituito il sacramento della Confessione, che, lo ricordiamo, non serve solo a rimettere i peccati, ma è anche un mezzo per attuare quella conversione continua di cui abbiamo bisogno.

Padre Francesco Bamonte, Servo del Cuore Immacolato di Maria (I.C.S.M.)
esorcista e vicepresidente
dell’Associazione Internazionale Esorcisti (ex presidente per due mandati consecutivi dal 2012 al 2023), autore di vari libri.
Fonte: agensir.it, col permesso dell’autore.




I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana

Il 4 giugno 2024 sono stati inaugurati e benedetti dall’allora Rettor Maggiore, il Cardinale Ángel Fernández Artime, i nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana situati presso la comunità “Zeffirino Namuncurà” in Via della Bufalotta a Roma. Nel piano di ristrutturazione della Sede Centrale, il Rettor Maggiore con il suo Consiglio decise di collocare gli ambienti relativi alla Postulazione Generale Salesiana in questa nuova presenza salesiana in Roma.

            Da don Bosco fino ai nostri giorni riconosciamo una tradizione di santità a cui merita dare attenzione, perché incarnazione del carisma che da lui ha avuto origine e che si è espresso in una pluralità di stati di vita e di forme. Si tratta di uomini e donne, giovani e adulti, consacrati e laici, vescovi e missionari che in contesti storici, culturali, sociali diversi nel tempo e nello spazio hanno fatto brillare di singolare luce il carisma salesiano, rappresentando un patrimonio che svolge un ruolo efficace nella vita e nella comunità dei credenti e per gli uomini di buona volontà. La Postulazione accompagna 64 Cause di Beatificazione e Canonizzazione riguardanti 179 tra Santi, Beati, Venerabili, Servi di Dio. Merita sottolineare che circa la metà dei gruppi della Famiglia Salesiana (15 su 32) hanno in corso almeno una Causa di Beatificazione e Canonizzazione.

Il progetto dei lavori è stato elaborato e seguito dall’architetto Toti Cameroni. Individuato lo spazio per la collocazione degli ambienti della Postulazione, comprendente originariamente un lungo e ampio corridoio e un grande salone, si è passati allo studio della distribuzione degli stessi, in base alle esigenze richieste. La soluzione definitiva è stata così progettata e realizzata:

La biblioteca con librerie a tutta altezza divise in quadrotti da cm. 40×40 che rivestono completamente le pareti. Lo scopo è raccogliere e custodire le diverse pubblicazioni relative alle figure di santità, nella consapevolezza che le vite e gli scritti dei santi hanno costituito, fin dall’antichità, una lettura frequente tra i fedeli, suscitando conversione e desiderio di vita più buona: essi riflettono lo splendore della bontà, della verità e della carità di Cristo. Inoltre, tale spazio si presta bene anche per ricerche personali, accoglienza di gruppi e riunioni.

            Da qui si passa all’ambiente dell’accoglienza che vuole essere uno spazio di spiritualità e di meditazione, come nelle visite ai monasteri del Monte Athos, dove l’ospite veniva introdotto prima di tutto nella cappella delle reliquie dei Santi: è lì che si trovava il cuore del monastero e da lì proveniva l’incitamento alla santità per i monaci. In questo spazio è stata realizzata una serie di piccole vetrinette che illuminano reliquiari o oggetti di valore inerenti alla santità salesiana. La parete di destra è rivestita da una boiserie in legno con inseriti pannelli sostituibili che rappresentano alcuni dei santi, beati, venerabili e servi di Dio della Famiglia Salesiana.

            Una porta immette nel locale più grande della postulazione: l’archivio. Un compattatore di 640 metri lineari permette di archiviare moltissimi documenti relativi ai diversi processi di Beatificazione e Canonizzazione. Una lunga cassettiera è posizionata sotto le finestre: sono collocate immaginette e paramenti liturgici.
            Un piccolo corridoio dall’accoglienza, dove sulle pareti si possono ammirare tele e dipinti, introduce prima in due luminosi uffici con arredi e poi nella custodia delle reliquie. Anche in questo spazio l’arredo riempie le pareti, armadiature e cassettiere accolgono le reliquie e i paramenti liturgici.

Un deposito e un piccolo locale adibito a zona break completano gli ambenti della postulazione.
            L’inaugurazione e la benedizione di questi locali ricorda che siamo depositari di una preziosa eredità che merita di essere conosciuta e valorizzata. Oltre all’aspetto liturgico-celebrativo, occorre valorizzare appieno le potenzialità di tipo spirituale, pastorale, ecclesiale, educativo, culturale, storico, sociale, missionario… delle Cause. La santità riconosciuta, o in via di riconoscimento, da un lato è già realizzazione della radicalità evangelica e della fedeltà al progetto apostolico di don Bosco, cui guardare come risorsa spirituale e pastorale; dall’altro è provocazione a vivere con fedeltà la propria vocazione per essere disponibili a testimoniare l’amore sino all’estremo. I nostri Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio sono l’autentica incarnazione del carisma salesiano e delle Costituzioni o Regolamenti dei nostri Istituti e Gruppi nel tempo e nelle situazioni più diverse, vincendo quella mondanità e superficialità spirituale che minano alla radice la nostra credibilità e fecondità.
            L’esperienza conferma sempre più che la promozione e la cura delle Cause di Beatificazione e Canonizzazione della nostra Famiglia, la celebrazione corale di eventi inerenti alla santità, sono dinamiche di grazia che suscitano gioia evangelica e senso di appartenenza carismatica, rinnovando propositi ed impegni di fedeltà alla chiamata ricevuta e generando fecondità apostolica e vocazionale. I santi sono veri mistici del primato di Dio nel dono generoso di sé, profeti di fraternità evangelica, servi dei fratelli con creatività.

            Al fine di promuovere le Cause di Beatificazione e Canonizzazione della Famiglia Salesiana e conoscere da vicino il patrimonio della santità fiorita da don Bosco la Postulazione è disponibile ad accogliere persone e gruppi che vogliono conoscere e visitare questi ambienti, offrendo anche la possibilità mini-ritiri con percorsi su tematiche specifiche e la presentazione di documenti, reliquie, oggetti significativi. Per informazioni scrivere a postulatore@sdb.org.

Galleria foto – nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana

1 / 18

2 / 18

3 / 18

4 / 18

5 / 18

6 / 18

7 / 18

8 / 18

9 / 18

10 / 18

11 / 18


I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana
I nuovi ambienti della Postulazione Generale Salesiana