Il nostro annuale regalo

Tradizionalmente come Famiglia Salesiana riceviamo ogni anno la Strenna; un regalo di inizio anno, ed in queste poche righe mi è caro guardare dentro a questo dono per accoglierlo come merita, senza perder nulla della freschezza del dono.

Un dono, perché prima di tutto, strenna vuol dire: ti faccio un regalo! Ti regalo una cosa importante per celebrare un tempo nuovo, un anno nuovo. Così la pensò don Bosco e la consegnò a tutti i giovani e gli adulti che stavano con lui.
Questo dono, la strenna, voglio consegnartela per l’inizio dell’anno nuovo, di un tempo nuovo.
Bello ed importante questo: un anno nuovo, un tempo nuovo è un contenitore in cui staranno tutti gli altri contenuti. L’anno che verrà non è uguale a quelli che hai vissuto fin ora, l’anno nuovo necessita uno sguardo nuovo per viverlo in pienezza; perché l’anno nuovo non tornerà! Ogni tempo è unico perché noi siamo diversi dallo scorso anno, da come eravamo l’anno scorso.
La Strenna è prepararsi a questo tempo nuovo, cominciando a guardare dentro a questo nuovo anno, mettendo in luce alcune cose che di questo anno saranno parte importante.

Il filo rosso
Il dono del tempo, della vita; nella vita il dono di Dio e tutti gli altri doni dentro: persone situazioni, occasioni, relazioni umane. Dentro questo provvidenziale modo di vedere il dono del tempo e della vita la strenna, dono che Don Bosco… e dopo di lui i suoi successori fanno ogni anno a tutta la famiglia salesiana… è uno sguardo sull’anno nuovo, sul tempo nuovo, per vederlo con occhi nuovi.
La strenna è un aiuto a vedere il tempo che verrà mettendo a fuoco un filo rosso che guida questo tempo nuovo: il filo rosso che la strenna ci dona è la Speranza. Importante anche questo! L’anno nuovo sicuramente avrà moltissime cose, ma tu non disperderti! Comincia a pensare su quanto è importante…non disperderti, raccogli!
La strenna che il nostro don Angel ci ha imbastito, come un abito nuovo, mette in luce degli eventi che tutti vivremo, e li unisce con un filo rosso, la Speranza!
Gli eventi che la strenna del 2025 mette in risalto sono eventi globali o particolari che ci coinvolgono, perché li viviamo bene:

• Il giubileo ordinario dell’anno 2025: un Giubileo è un evento di Chiesa che, nella tradizione Cattolica, il Santo Padre ci dona. Vivere il Giubileo è vivere questo pellegrinaggio che la Chiesa ci offre per rimettere al centro della nostra vita e della vita del Mondo la presenza del Cristo. Il giubileo che Papa Francesco ha un tema generatore: Spes non confundit! La Speranza non delude! Che meraviglia di tema generatore! Se di una cosa ha bisogno il Mondo in questo momento difficile è proprio la Speranza, ma non la speranza di quanto crediamo di poter fare da soli noi stessi, con il rischio che diventi una illusione. La Speranza della ri-scoperta della Presenza di Dio. Scrive Papa Francesco: “La Speranza ricolmi il cuore!” Non solo scaldi il cuore, lo riempia. Lo riempia in una misura traboccante!
• La Speranza ci rende pellegrini, il Giubileo è pellegrinaggio! Ti mette in moto dentro, altrimenti non è Giubileo. Dentro questo evento di Chiesa che ci fa sentire Chiesa noi, come Congregazione Salesiana e come Famiglia Salesiana, abbiamo un anniversario importante: nel 2025 ricorre
• il 150° della prima spedizione missionaria in Argentina
Don Bosco, a Valdocco, butta il cuore oltre ogni confine: manda i suoi figli dall’altra parte del mondo! Li manda, oltre ogni sicurezza umana, li manda quando non ha nemmeno quelli che gli servirebbero per portare avanti ciò che aveva cominciato.
Li manda e basta! Alla Speranza si obbedisce, perché la Speranza guida la Fede e mette in moto la Carità. Li manda ed i primi confratelli partono e vanno, dove nemmeno loro sapevano! Da lì siamo nati tutti noi, dalla Speranza che ci mette in cammino e ci rende pellegrini.
Questo anniversario va celebrato, come ogni anniversario, perché ci aiuta a riconoscere il Dono, (non è una tua proprietà, ti è stato dato in dono) a ricordare e a dare forza per il tempo che verrà della energia della Missione.
La Speranza fonda la Missione, perché la Speranza è una responsabilità che non puoi nascondere né tenere per te! Non tenere nascosto quanto ti è donato; riconosci il donatore e consegna con la tua vita quanto ti è stato donato alle generazioni successive! Questa è la vita della Chiesa, la vita di ciascuno di noi.
San Pietro che vedeva lungo, nella sua prima lettera scrive: “siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda conto della speranza che è in voi!” (1 Pt, 3,15). Dobbiamo pensare che rispondere non sono parole, è la vita che risponde!
Con la speranza che è in te, vivi e prepari questo nuovo anno che verrà, un cammino con i giovani, con i fratelli per rinnovare il Sogno di Don Bosco ed il Sogno di Dio.

Il nostro stemma
«Sul mio labaro brilla una stella» si cantava un tempo. Sul nostro stemma oltre alla stella, campeggiano una grande ancora e un cuore infiammato.
Ecco alcune immagini semplici per cominciare a muovere il nostro cuore verso il tempo che verrà, “Ancorati nella speranza, pellegrini con giovani”. Ancorati è un termine molto forte: l’ancora è la salvezza della nave nella tempesta, fermi, forti, radicati nella Speranza!
Dentro questo tema generatore ci sarà tutta la nostra vita quotidiana: persone, situazioni, decisioni…il “micro” di ognuno di noi che si salda con il “macro” di quanto tutti insieme vivremo…consegnando a Dio il dono di questo tempo che ci è donato. Perché alla Strenna che tutti riceveremo devi aggiungere la tua parte; il tuo quotidiano che saprai illuminare con quanto abbiamo scritto e riceveremo, altrimenti non è una Speranza, non è ciò su cui si fonda la tua vita e non ti mette in “movimento” rendendoti Pellegrino.
Questo cammino lo affidiamo alla Madre del Signore, Madre della Chiesa e Ausiliatrice nostra; Pellegrina di Speranza insieme a noi.




Missionari 2024

Domenica 29 Settembre, alle 12:30 (UTC+2) presso la basilica di Maria Ausiliatrice a Valdocco, 27 Salesiani di Don Bosco e 8 Figlie di Maria Ausiliatrice riceveranno il crocifisso missionario rinnovando la generosità apostolica a favore di tanti giovani in tutto il mondo.

Come ogni anno, nell’ultima domenica di settembre, si rinnova il cuore missionario di Don Bosco attraverso la disponibilità dei Salesiani di Don Bosco e delle Figlie di Maria Ausiliatrice inviati come missionari ad gentes.
Tanto tempo è passato da quell’11 novembre 1875, giorno nel quale si compì un passo fondamentale: il primo gruppo di missionari salesiani diretto in Argentina iniziò la trasformazione dei salesiani in una congregazione mondiale, oggi estesa in 138 Paesi. Due anni più tardi, anche le FMA attraversarono l’oceano iniziando l’opera di diffusione oltre i confini italiani.

Mentre ci avviciniamo al 150° anniversario della prima spedizione missionaria, possiamo vedere da più vicino la preparazione dei neomissionari salesiani che si sviluppa nel corso “Germoglio”, organizzato dall’equipe del Settore per le Missioni e coordinato da don Reginaldo Cordeiro. Il corso si articola lungo cinque settimane, immediatamente prima della spedizione missionaria. Nella preghiera, nell’ascolto delle testimonianze, nella condivisione delle esperienze, nella riflessione personale e nella convivenza gioiosa con gli altri partenti del corso, i nuovi missionari sono aiutati a verificare, approfondire e, a volte, scoprire le ragioni profonde del proprio andare in missione.

Ovviamente, il discernimento della propria vocazione missionaria inizia molto prima. Tradizionalmente, il 18 dicembre, giorno della fondazione della Congregazione Salesiana, il Rettor Maggiore diffonde un appello missionario indicando le priorità missionarie a cui rivolgere lo sguardo. In risposta all’appello, molti salesiani scrivono la propria disponibilità, dopo essersi messi in ascolto della volontà di Dio, aiutati dalla propria guida spirituale e dal direttore della propria comunità, seguendo gli orientamenti del Settore per le Missioni. Occorre una rilettura profonda della propria vita e un cammino attento di discernimento per maturare la vocazione missonaria ad gentes, ad exteros, ad vitam. Il missionario, infatti, parte per un progetto che durerà tutta la vita, con la prospettiva di inculturarsi in un paese diverso e di incardinarsi in una nuova Ispettoria, in un contesto che diventerà “casa”, nonostante le tante sfide e difficoltà.
Dall’altro lato, è importante che ci sia nelle Ispettorie un progetto missionario ben strutturato, che permetta al missionario che arriva di essere accompagnato, di inserirsi e di mettersi al servizio nel modo migliore possibile.

Il Corso Germoglio inizia a Roma, con un nucleo introduttivo, che mira a fornire ai missionari partenti i fondamenti delle competenze di base e gli atteggiamenti necessarie per un esito positivo del corso. Vengono affrontate le motivazioni della scelta missionaria, in un cammino graduale di consapevolezza e purificazione. Ogni missionario viene invitato ad elaborare un progetto personale di vita missionaria, che metta in luce gli elementi imprescindibili e i passi da compiere per rispondere adeguatamente alla chiamata di Dio. Poi un’introduzione alla cultura italiana ed un incontro sull’ “alfabetizzazione delle emozioni”, fondamentale per vivere al meglio l’esperienza in un contesto diverso dal proprio, e una sessione sull’animazione missionaria e sul volontariato missionario salesiano. Tutto questo in un contesto di comunità, dove i momenti informali sono preziosi e la partecipazione ai momenti comunitari di preghiera è vitale, in uno stile di Pentecoste, dove le lingue e le culture si mischiano per un arricchimento di tutti. In questi giorni, un pellegrinaggio sui luoghi della fede cristiana aiuta a ripercorrere le radici della propria fede, insieme alla vicinanza alla Chiesa universale, manifestata anche nella partecipazione all’udienza papale. Quest’anno il papa, nel giorno 28 Agosto, ha mostrato vicinanza ai missionari, ricordando loro in un breve colloquio durante una foto di gruppo la figura di Sant’Artemide Zatti insieme alla bellezza e all’importanza della vocazione dei coadiutori salesiani.

La seconda parte del corso si sposta a Colle Don Bosco, luogo natale di Don Bosco, dove si entra nel vivo dell’esperienza andando a fondo nella preparazione sotto il punto di vista antropologico, teologico/missiologico e carismatico salesiano. Prepararsi all’inevitabile shock culturale, essere consapevoli dell’importanza e della fatica di conoscere una nuova cultura e una nuova lingua ed essere aperti al dialogo interculturale, sapendo di dover affrontare conflitti e incomprensioni, sono elementi fondamentali per vivere un’esperienza vera, umana e piena. Alcuni fondamenti missiologici aiutano a comprendere cosa sia la missione per la Chiesa e nozioni sul Primo Annuncio e l’evangelizzazione integrale completano la visione del missionario. Infine, le caratteristiche tipicamente salesiane, iniziando da alcuni cenni storici per poi soffermarsi sulla situazione attuale, sul discernimento e la spiritualità salesiana.
Il gruppo dei missionari ha poi l’opportunità di visitare i luoghi di Don Bosco, in una settimana di esercizi spirituali itineranti in cui potersi confrontare con il santo dei giovani e affidare a lui il proprio sogno missionario.

L’esperienza prosegue con un pellegrinaggio a Mornese, dove viene presentato il carisma missionario nella versione femminile di Santa Maria Domenica Mazzarello, insieme alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Gli ultimi giorni vengono vissuti a Valdocco, dove si completa l’itinerario sui luoghi di don Bosco e si completa la preparazione in vista del “sì” alla chiamata missionaria. Il dialogo con il Rettor Maggiore e la Madre Generale chiudono il programma prima della domenica, quando, nella messa delle 12:30, vengono consegnati i crocifissi missionari ai partenti.

Se andiamo a vedere chi sono i salesiani della 155esima spedizione missionaria, subito notiamo come il cambio di paradigma è evidente: tutte le Ispettorie, e tutti i Paesi, possono essere destinatarie e allo stesso tempo mittenti. I missionari non sono più solamente italiani, come era alle origini, o europei, ma provengono dai cinque continenti, in particolare dall’Asia (11 missionari, provenienti dalle due regioni di Asia Sud e Asia Est-Oceania) e dall’Africa (8 missionari), mentre la regione Mediterranea accoglierà il maggior numero dei missionari di questa spedizione. Da qualche anno il Settore per le Missioni prepara una mappa che aiuta graficamente a visualizzare la distribuzione dei nuovi missionari nel mondo (si può scaricare in allegato). Quest’anno ci sono cinque sacerdoti, due coadiutori, un diacono e 19 salesiani studenti. Insieme a loro, si è unito qualche missionario delle passate spedizioni, che non è riuscito a partecipare al corso di preparazione.

Qui sotto, nel dettaglio, la lista dei nuovi missionari:
Donatien Martial Balezou, dalla Rep. Centrafricana (ATE) al Brasile – Belo Horizonte (BBH);
Guy Roger Mutombo, dalla Rep. Dem. del Congo (ACC) all’Italia (IME);
Henri Mufele Ngandwini, dalla Rep. Dem. del Congo (ACC) all’Italia (IME);
il coadiutore Alain Josaphat Mutima Balekage, dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) all’Uruguay (URU);
Clovis Muhindo Tsongo, dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) al Brasile (BPA);
Confiance Kakule Kataliko, dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) all’Uruguay (URU);
don Ephrem Kisenga Mwangwa dalla Rep. Dem. del Congo (AFC) a Taiwan (CIN);
Ernest Kirunda Menya, dall’Uganda (AGL) alla Romania (INE);
Éric Umurundi Ndayicariye, dal Burundi (AGL) alla Mongolia (KOR);
Daniel Armando Nuñez, da El Salvador (CAM) al Nord Africa (CNA);
Marko Dropuljić, dalla Croazia (CRO) alla Mongolia (KOR);
Krešo Maria Gabričević, dalla Croazia (CRO) a Papua Nuova Guinea – Isole Salomone (PGS);
Rafael Gašpar, dalla Croazia (CRO) al Brasile (BBH);
don Marijan Zovak, dalla Croazia (CRO) alla Rep. Dominicana (ANT);
don Enrico Bituin Mercado dalle Filippine (FIN) all’Africa Meridionale (AFM);
Alan Andrew Manuel, dall’India (INB) al Nord Africa (CNA);
don Joseph Reddy Vanga, dall’India (INH) a Papua Nuova Guinea – Isole Salomone (PGS);
don Hubard Thyrniang, dall’India (INS) all’Africa Occidentale Nord (AON);
don Albert Tron Mawa, dall’India (INS) allo Sri Lanka (LKC);
Eruthaya Valan Arockiaraj, dall’India (INT) al Congo (ACC);
Herimamponona Dorisse Angelot Rakotonirina, dal Madagascar (MDG) a Albania/Kosovo/Montenegro (AKM);
il coadiutore Mouzinho Domingos Joaquim Mouzinho, dal Mozambico (MOZ) a Albania/Kosovo/Montenegro (AKM);
Nelson Alves Cabral, da Timor Est (TLS) alla Rep. Dem. del Congo (AFC);
Elisio Ilidio Guterres Dos Santos, da Timor Est (TLS) alla Romania (INE);
Francisco Armindo Viana, da Timor Est (TLS) al Congo (ACC);
Tuấn Anh Joseph Vũ, dal Vietnam (VIE) al Cile (CIL);
Trong Hữu Francis Ɖỗ, dal Vietnam (VIE) al Cile (CIL).

Questi sono i membri della 155esima spedizione missionaria salesiana, mentre le FMA vivranno la 147esima spedizione.

Le Figlie di Maria Ausiliatrice neomissionarie sono:
suor Cecilia Gayo, dall’Uruguay;
suor Maria Goretti Tran Thi Hong Loan, dal Vietnam;
suor Sagma Beronica, dall’India, ispettoria di Shillong;
suor Serah Njeri Ndung’u, dall’ispettoria Africa dell’Est, inviata in Sud Sudan;
suor Lai Marie Pham Thi, dal Vietnam;
suor Maria Bosco Tran Thi Huyen, dal Vietnam;
suor Philina Kholar, dall’India, ispettoria di Shillong, inviata in Italia (Sicilia);
suor Catherine Ramírez Sánchez, dal Cile.
La maggior parte di loro ancora non conosce la destinazione missionaria, che sarà comunicata dopo il corso di formazione.

Quest’anno anche un gruppo appartenente alla Comunità della Missione di Don Bosco (CMB), gruppo della Famiglia Salesiana guidato dal diacono Guido Pedroni, riceverà la croce missionaria insieme ai Salesiani e alle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Preghiamo affinché questa variegata disponibilità vocazionale porti frutto in tutto il mondo!

Marco Fulgaro




Il Buon Pastore dà la vita: don Elia Comini nell’80° del suo sacrificio

            Monte Sole è un’altura dell’Appennino bolognese che fino alla Seconda guerra mondiale aveva diverse piccole località abitate lungo i suoi dorsali: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ‘44, i suoi abitanti, nella maggior parte bambini, donne e anziani, furono vittime di un terribile eccidio da parte delle truppe SS (Schutzstaffel, «squadre di protezione»; organizzazione paramilitare del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori create nella Germania nazista). Morirono 780 persone, molte di loro rifugiatesi nelle chiese. Persero la vita 5 sacerdoti, tra cui don Giovanni Fornasini, proclamato beato e martire nel 2021 da Papa Francesco.
            Questa è una delle stragi più efferate compiute dalle SS naziste in Europa, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno (Bologna) e comunemente nota come la “strage di Marzabotto”. Tra le vittime ci furono alcuni sacerdoti e religiosi, tra cui il Salesiano don Elia Comini, che durante la vita e fino alla fine si sforzò di essere un buon pastore e di spendersi senza riserve, generosamente, in un esodo da sé senza ritorno. Questa è la vera essenza della sua carità pastorale, che lo presenta come modello di pastore che veglia sul gregge, pronto a dare la vita per esso, in difesa dei deboli e degli innocenti.

“Ricevimi pure come una vittima espiatoria”
            Elia Comini nacque a Calvenzano di Vergato (Bologna) il 7 maggio 1910. I genitori Claudio, falegname, ed Emma Limoni, sarta, lo prepararono alla vita e lo educarono alla fede. Fu battezzato a Calvenzano. A Salvaro di Grizzana fece la Prima Comunione e ricevette la Cresima. Fin dalla più giovane età dimostrò molto interesse per il catechismo, per le funzioni di chiesa, per il canto in serena e allegra amicizia con i compagni. L’arciprete di Salvaro, monsignor Fidenzio Mellini, da giovane militare a Torino aveva frequentato l’oratorio di Valdocco e aveva conosciuto don Bosco, che gli aveva profetizzato il sacerdozio. Monsignor Mellini stimava molto Elia per la sua fede, la bontà e le singolari capacità intellettuali e lo spinse a diventare uno dei figli di don Bosco. Per questo lo indirizzò al piccolo seminario salesiano di Finale Emilia (Modena) dove Elia frequentò la scuola media e il ginnasio. Nel 1925 entrò nel noviziato salesiano di Castel De’ Britti (Bologna) e vi emise la professione religiosa il 3 ottobre 1926. Negli anni 1926-1928 frequentò come chierico studente di Filosofia il liceo salesiano di Valsalice (Torino), dove era allora custodita la tomba di don Bosco. Fu in questo luogo che Elia iniziò un impegnativo cammino spirituale, testimoniato da un diario che egli redigerà fino a poco più di due mesi dalla tragica morte. Sono pagine rivelatrici di una vita interiore tanto profonda quanto non percepita all’esterno. Alla vigilia della rinnovazione dei voti egli scriverà: “Sono contento più che mai di questo giorno, alla vigilia dell’olocausto che spero Ti sia gradito. Ricevimi pure come una vittima espiatoria, quantunque non lo meriti. Se credi, dammi qualche ricompensa: perdona i miei peccati della vita passata; aiutami a farmi santo”.
            Compì il tirocinio pratico come assistente educatore a Finale Emilia, a Sondrio e a Chiari. Si laureò in Lettere presso l’Università Statale di Milano. Il 16 marzo 1935 venne ordinato sacerdote a Brescia. Scrisse: “Ho domandato a Gesù: la morte, piuttosto che venir meno alla mia vocazione sacerdotale; e l’amore eroico per le anime”. Dal 1936 al 1941 insegna Lettere nell’aspirantato “San Bernardino” di Chiari (Brescia) dando prova eccellente del suo talento didattico e della sua attenzione ai giovani. Negli anni 1941-1944 l’ubbidienza religiosa lo trasferisce all’istituto salesiano di Treviglio (Bergamo). Incarnò particolarmente la carità pastorale di don Bosco e i tratti dell’amorevolezza salesiana, che trasmetteva ai giovani attraverso il carattere affabile, la bontà e il sorriso.

Triduo di passione
            La dolcezza abituale del suo comportamento e la dedizione eroica al ministero sacerdotale brillarono con chiara evidenza durante i brevi soggiorni annuali estivi presso la mamma, rimasta sola a Salvaro, e presso la sua parrocchia di adozione, dove poi il Signore chiederà a don Elia la donazione totale dell’esistenza. Aveva scritto, tempo prima, nel diario: “Persiste sempre in me il pensiero che debba morire. Chissà! Facciamo come il servo fedele sempre preparato all’appello, a rendere ragione della gestione”. Siamo nel periodo giugno-settembre 1944, quando la terribile situazione creatasi nella zona tra Monte Salvaro e Monte Sole, con l’avanzamento della linea del fronte Alleato, la brigata partigiana Stella Rossa assestata sulle alture e i nazisti a rischio imbottigliamento, portò la popolazione sull’orlo della distruzione totale.
            Il 23 luglio i nazisti, a causa dell’uccisione di un loro soldato, incominciano una serie di rappresaglie: uccisione di dieci uomini, case incendiate. Don Comini si prodiga nell’accogliere i parenti degli uccisi e nel nascondere le persone ricercate. Inoltre aiuta l’anziano parroco di San Michele di Salvaro, mons. Fidenzio Mellini: fa catechismo, guida esercizi spirituali, celebra, predica, esorta, suona, canta e fa cantare per mantenere serena una situazione che va verso il peggio. Poi, insieme al sopraggiunto padre Martino Capelli, Dehoniano, don Elia accorre continuamente a soccorrere, consolare, amministrare i sacramenti, seppellire i morti. In alcuni casi riesce anche a salvare gruppi di persone conducendole in canonica. Il suo eroismo si manifesta con crescente chiarezza alla fine del settembre 1944, quando la Wehrmacht (Le Forze Armate Tedesche) cede ampiamente spazio alle terribili SS.
            Il triduo di passione per don Elia Comini e per padre Martino Capelli inizia venerdì 29 settembre. I nazisti causano il panico nella zona del Monte Salvaro e la popolazione si riversa in parrocchia in cerca di protezione. Don Comini, rischiando la vita, nasconde una settantina di uomini in un locale attiguo alla sagrestia, coprendo la porta con un vecchio armadio.            L’espediente riesce. Infatti i nazisti, perlustrando i vari ambienti per ben tre volte, non se ne accorgono. Giunge intanto la notizia che le terribili SS avevano massacrato in località “Creda” svariate decine di persone, tra le quali c’erano feriti e moribondi bisognosi di conforto. Don Elia celebra la sua ultima Messa al mattino presto e poi insieme a padre Martino, presi l’olio santo e l’Eucarestia, si affrettano sperando di poter ancora soccorrere qualche ferito. Lo fa liberamente. Tutti infatti lo dissuadono: dal parroco alle donne lì presenti. “Non vada, padre. È pericoloso!”. Provano a trattenere don Elia e padre Martino a forza, ma essi prendono questa decisione con piena consapevolezza del pericolo di morte. Don Elia dice: “Pregate, pregate per me, perché ho una missione da compiere”; “Pregate per me, non lasciatemi solo!”.
            Nei pressi della Creda di Salvaro i due sacerdoti vengono catturati; usati “come giumenti”, sono costretti a trasportare munizioni e, a sera, vengono rinchiusi nella scuderia di Pioppe di Salvaro. Sabato 30 settembre, don Elia e padre Martino spendono tutte le proprie energie nel confortare i numerosi uomini rinchiusi insieme a loro. Il Commissario Prefettizio di Vergato Emilio Veggetti, che non conosceva padre Martino, ma conosceva molto bene don Elia, invano cerca di ottenere la liberazione dei prigionieri. I due sacerdoti continuano a pregare e a consolare. A sera si confessano reciprocamente.
            Il giorno seguente, domenica 1° ottobre 1944, sull’imbrunire, la mitraglia falcia inesorabilmente le 46 vittime di quello che sarebbe passato alla storia come l’“Eccidio di Pioppe di Salvaro”: erano gli uomini considerati inabili al lavoro; tra loro, i due sacerdoti, giovani e costretti due giorni prima al lavoro pesante. Testimoni che si trovavano a breve distanza, in linea d’aria, dal luogo dell’eccidio hanno potuto sentire la voce di don Comini che guidava le Litanie e udire poi il rumore degli spari. Don Comini prima di accasciarsi colpito a morte da l’assoluzione a tutti e grida: “Pietà, pietà!”, mentre padre Capelli alzandosi dal fondo della Botte traccia ampi segni di croce, finché non ricade supino con le braccia aperte, in croce. Non fu possibile recuperare nessuna salma. Dopo venti giorni furono aperte le griglie e l’acqua del Reno trascinò via i resti mortali, facendone perdere completamente le tracce. Nella Botte si morì fra benedizioni e invocazioni, fra preghiere, atti di pentimento e di perdono. Qui, come in altri luoghi si morì da cristiani, con fede, con il cuore rivolto a Dio nella speranza della vita eterna.

Storia dell’eccidio di Montesole
            Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 i caduti furono 770, ma nel complesso le vittime di nazisti e fascisti, dalla primavera del 1944 alla liberazione, furono 955, distribuite in 115 diverse località all’interno di un vasto territorio che comprende i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno (e alcune porzioni dei territori limitrofi). Di questi, 216 furono i bambini, 316 le donne, 142 gli anziani, 138 le vittime riconosciute partigiani, cinque i sacerdoti, la cui colpa agli occhi dei nazisti consisteva nell’essere stati vicini, con la preghiera e l’aiuto materiale, a tutta la popolazione di Monte Sole nei tragici mesi di guerra e occupazione militare. Insieme a don Elia Comini, salesiano, e a padre Martino Capelli, dehoniano, in quei tragici giorni furono uccisi anche tre sacerdoti dell’Arcidiocesi di Bologna: don Ubaldo Marchioni, don Ferdinando Casagrande, don Giovanni Fornasini. Di tutti e cinque è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione. Don Giovanni, l’“Angelo di Marzabotto”, cadde, il 13 ottobre 1944. Aveva ventinove anni e il suo corpo rimase insepolto fino al 1945, quando venne ritrovato pesantemente martoriato. È stato beatificato il 26 settembre 2021. Don Ubaldo morì il 29 settembre, ucciso dal mitra sulla predella dell’altare della sua chiesa di Casaglia; aveva 26 anni, era stato ordinato prete due anni prima. I soldati nazisti trovarono lui e la comunità intenti nella preghiera del rosario. Lui fu ucciso lì, ai piedi dell’altare. Gli altri – più di 70 – nel cimitero vicino. Don Ferdinando fu ucciso, il 9 ottobre, da un colpo di pistola alla nuca, con la sorella Giulia; aveva 26 anni.




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (10/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo XIX. Mezzi con cui fu edificata questa Chiesa.
            Quelli che hanno parlato o udito a parlare di questo sacro edifizio avranno desiderio di sapere donde si sono ricavati i mezzi che in complesso superano già il mezzo milione. Io mi trovo in grave difficoltà di rispondere a me stesso, perciò meno in grado di soddisfare agli altri. Dirò adunque che i corpi legali diedero da principio belle speranze; ma in pratica giudicarono di non concorrere. Alcuni agiati cittadini scorgendo la necessità di questo edifizio, fecero promessa di vistose largizioni, ma per lo più cangiarono divisamento e giudicarono meglio di impiegare altrove la loro beneficenza.
            È vero che alcuni benestanti devoti avevano promesso oblazioni, ma a tempo opportuno, cioè avrebbero fatte oblazioni quando avessero avuto certezza dell’opera ed avessero veduti i lavori inoltrati.
            Coll’offerta del Santo Padre e di qualche altra pia persona si poté far acquisto del terreno e non altro; sicché quando si trattò di cominciare i lavori io non aveva un soldo da spendere a questo scopo. Qui da una parte vi era certezza che quell’edifizio era di maggior gloria di Dio, dall’altra contrastava l’assoluta mancanza di mezzi. Allora si conobbe chiaro che la Regina del Cielo voleva non i corpi morali, ma i corpi reali, cioè i veri devoti di Maria dovessero concorrere alla santa impresa, e Maria volle essa medesima porvi la mano e far conoscere che essendo opera sua Ella stessa voleva edificarla: Aedificavit sibi domum Maria.
            Io adunque intraprendo il racconto delle cose come sono succedute, e racconto coscienziosamente la verità, e mi raccomando al benevolo lettore di darmi benigno compatimento se trova qualche cosa che a lui non torni gradita. Ecco adunque. Gli scavi erano cominciati, e si avvicinava il giorno di quindicina quando appunto si dovevano pagare gli zappatori, e non si aveva danaro di sorta; quando un fortunato avvenimento apri una via inaspettata alla beneficenza. A motivo del sacro ministero fui chiamato al letto di persona gravemente inferma. Giaceva immobile da tre mesi, travagliata da tosse e febbre con grave sfinimento di stomaco. Se mai, ella prese a dire, potessi riacquistare un poco di sanità, sarei disposta a fare qualunque preghiera, qualunque sacrificio; sarebbe per me un gran favore se potessi anche solo alzarmi di letto.
            – Che cosa intenderebbe di fare?
            – Quanto mi dice.
            – Faccia una novena a Maria Ausiliatrice.
            – Che cosa dire?
            – Per nove giorni reciti tre Pater, Ave e Gloria al SS. Sacramento con tre SalveRegina alla Beata Vergine.
            – Questo lo farò; e quale opera di carità?
            – Se giudica bene e se otterrà un vero miglioramento alla sua sanità, farà qualche offerta per la chiesa di Maria Ausiliatrice che si sta cominciando in Valdocco.
            – Sì, sì: ben volentieri. Se nel corso di questa novena io otterrò solamente di potermi alzare di letto e fare alcuni passi per questa camera, farò un’offerta per la chiesa di cui mi parla ad onore della Santa Vergine Maria.
            Si cominciò la novena ed eravamo già all’ultimo giorno; io doveva dare in quella sera non meno di mille franchi ai terrazzieri. Vado pertanto a visitare la nostra ammalata, nella cui guarigione erano tutte le mie risorse, e non senza ansietà ed agitazione suono il campanello dell’abitazione di lei. La fantesca mi apre e con gioia mi annunzia che la sua padrona era perfettamente guarita, aveva già fatte due passeggiate ed era già andata in chiesa per ringraziare il Signore.
            Mentre la fantesca in fretta quelle cose raccontava, si avanza giubilante la stessa padrona dicendo: Io sono guarita, sono già andata a ringraziare la Madonna Santissima; venga, ecco il pacco che le ho preparato; è questa la prima offerta, ma non sarà certamente l’ultima. Prendo il pacco, vado a casa, lo verifico, e ci trovo cinquanta napoleoni d’oro, che formavano appunto i mille franchi di cui abbisognava.
            Questo fatto, primo di questo genere, io tenni gelosamente celato; nulladimeno si dilatò come scintilla elettrica. Altri e poi altri si raccomandarono a Maria Ausiliatrice facendo la novena e promettendo qualche oblazione se ottenevano la grazia implorata. E qui so io volessi esporre la moltitudine dei fatti, dovrei farne non un piccolo libretto, ma grossi volumi.
            Male di capo cessato, febbri vinte, piaghe ed ulceri cancrenose sanate, reumatismi cessati, convulsioni risanate, male d’occhi, di orecchi, di denti, di reni istantaneamente guariti; tali sono i mezzi di cui servissi la misericordia del Signore per somministrarci quanto era necessario a condurre a termine questa chiesa.
            Torino, Genova, Bologna, Napoli, ma più di ogni altra città, Milano, Firenze, Roma furono le città che, avendo in modo speciale provata la benefica influenza della Madre delle grazie invocata sotto al nome di aiuto dei cristiani, dimostrarono eziandio la loro gratitudine colle oblazioni. Anche più remoti paesi come Palermo, Vienna, Parigi, Londra e Berlino ricorsero colla solita preghiera e colla solita promessa a Maria Ausiliatrice. Non mi consta che alcuno sia ricorso invano. Un favore spirituale o temporale più o meno segnalato fu sempre il frutto della dimanda e del ricorso fatto alla pietosa Madre, al potente aiuto dei cristiani. Ricorsero, ottennero il celeste favore, fecero la loro offerta senza esserne in alcun modo richiesti.
            Se tu, o lettore, entrerai in questa chiesa, vedrai un pulpito per noi di elegante costruzione; è una persona gravemente inferma, che ne fa promessa a Maria Ausiliatrice; guarisce ed ha compiuto il suo voto. L’altare elegante della cappella a destra è di una matrona romana che lo offre a Maria per grazia ricevuta.
            Se gravi motivi, che ognuno può di leggeri supporre, non persuadessero differirne la pubblicazione, potrei dire paese e nome delle persone che da ogni parte fecero ricorso a Maria. Anzi si potrebbe asserire che ogni angolo, ogni mattone di questo sacro edifizio ricorda un benefizio, una grazia ottenuta da questa augusta Regina del cielo.
            Persona imparziale raccoglierà questi fatti, che a tempo opportuno serviranno a far conoscere alla posterità le meraviglie di Maria Ausiliatrice.
            In questi ultimi tempi la miseria facendosi in modo eccezionale sentire, noi pure andavamo rallentando i lavori per attendere tempi migliori alla continuazione dei medesimi; quando altri mezzi provvidenziali vennero in soccorso. Il colera morbus che infieriva tra noi e nei paesi confinanti commosse i cuori più insensibili e spregiudicati.
            Fra le altre una madre vedendo un suo unico figliuolo strozzato dalla violenza del male, lo invitò a fare ricorso a Maria SS. aiuto dei cristiani. Nell’eccesso del dolore egli profferì queste parole: Maria Auxilium Christianorum, ora pro nobis. Col più vivo affetto del cuore la madre ripeté la medesima giaculatoria. In quel momento si mitigò la violenza del morbo, l’infermo diede in un copioso sudore a segno che in poche ore restò fuori di ogni pericolo, e quasi interamente guarito. La notizia di questo fatto si dilatò, altri e poi altri si raccomandarono con fede in Dio onnipotente e nella potenza di Maria Ausiliatrice con promessa di fare qualche offerta per continuare la costruzione della sua chiesa. Non si sa che alcuno abbia in questo modo ricorso a Maria senza essere stato esaudito. Avverandosi così il detto di s. Bernardo, che non si è mai udito al mondo che alcuno sia con fiducia ricorso invano a Maria. Mentre scrivo ricevo (maggio 1868) un’offerta con una relazione di persona di molta autorità, che mi annunzia come un paese intiero fu in modo straordinario liberato dall’infestazione del colera mercè la medaglia, il ricorso e la preghiera fatta a Maria Ausiliatrice. In questa guisa sopravvennero oblazioni da tutte parti, oblazioni, è vero, di piccola entità, ma che messe insieme bastarono al bisogno.
            Neppure è da passarsi sotto silenzio altro mezzo di beneficenza per questa chiesa, quale è l’offerta di una parte del profitto del commercio, o del frutto delle campagne. Molti, che da parecchi anni non ricavavano più alcun frutto dai bachi da seta e dalle vendemmie, promisero di dare il decimo del prodotto che ne avrebbero ricevuto. Ne furono straordinariamente favoriti; contenti perciò di mostrare alla loro celeste benefattrice speciali segni di gratitudine colle loro offerte.
            Così noi abbiamo condotto questo per noi maestoso edifizio con un dispendio sorprendente senza che alcuno abbia mai fatto questua di sorta. Chi lo crederebbe? Un sesto della spesa fu coperta con oblazioni di persone devote; il rimanente furono tutte oblazioni fatte per grazie ricevute.
            Ora vi sono ancora alcune note da saldare, alcuni lavori da ultimare, molti ornamenti e suppellettili da provvedere, ma abbiamo viva fiducia in questa augusta Regina del cielo, che non cesserà di benedire i suoi devoti e concedere loro grazie speciali, così che per divozione verso di lei e per gratitudine dei benefizi ricevuti continueranno a porgere la loro mano benefica per condurre la santa impresa al termine totale dei lavori. E così, come dice il supremo Gerarca della Chiesa, si accrescano i devoti di Maria sopra la terra e sia maggiore il numero dei fortunati suoi figli, che un giorno le faranno gloriosa corona nel regno dei cieli per lodarla, benedirla e ringraziarla in eterno.

Inno pel vespro della festa di Maria A.
Te Redemptoris, Dominique nostri
            Dicimus Matrem, speciosa virgo,
            Christianorum decus et levamen
                                    Rebus in arctis.
Saeviant portae licet inferorum,
            Hostis antiquus fremat, et minaces,
            Ut Deo sacrum populetur agmen,
                                    Suscitet iras.
Nil truces possunt furiae nocere
            Mentibus castis, prece, quas vocata
            Annuens Virgo fovet, et superno
                                    Robore firmat.
Tanta si nobis faveat Patrona
            Bellici cessat sceleris tumultus,
            Mille sternuntur, fugiuntque turmae,
                                    Mille cohortes.
Tollit ut sancta caput in Sione
            Turris, arx firmo fabricata muro,
            Civitas David, clypeis, et acri
                                    Milite tuta.
Virgo sic fortis Domini potenti
            Dextera, caeli cumulata donis,
            A piis longe famulis repellit
                                    Daemonis ictus.
Te per aeternos veneremur annos,
            Trinitas, summo celebrando plausu,
            Te fide mentes resonoque linguae
                                    Carmine laudent. Amen.

Inno pel vespro della festa di Maria A. – TRADUZIONE
Vergin Madre del Signore,
            Nostr’aïta e nostro vanto,
            Dalla valle ria del pianto
            T’imploriam con fede e amore.
Dalle porte dell’inferno
            Frema l’oste minacciando,
            Tu pietosa stai vegliando
            Con lo sguardo tuo superno.
Le sue furie scatenate
            Passeran senz’onte e danni,
            Se di casti cuor sui vanni
            Son le preci a Te innalzate.
Te Patrona, in ogni guerra
            Diventiam gli eroi del campo;
            Della tua possanza il lampo
            Mille schiere fuga e atterra.
Sei baluardo che circonda
            Di Sion le case sante;
            Di Davide sei la fionda
            Che percote il fier gigante.
Sei lo scudo che respinge
            Di Satanno il brando ignito,
            L’asta sei che il risospinge
            Nell’abisso dond’è uscito.
[…]

Inno per le lodi
Saepe dum Christi populus cruentis
            Hostis infensis premeretur armis,
            Venit adiutrix pia Virgo coelo
                                    Lapsa sereno.
Prisca sic Patrum monumenta narrant,
            Templa testantur spoliis opimis
            Clara, votivo repetita cultu
                                    Festa quotannis.
En novi grates liceat Mariae
            Cantici laetis modulis referre
            Pro novis donis, resonante plausu,
                                    Urbis et orbis.
O dies felix memoranda fastis,
            Qua Petri Sedes fidei Magistrum
            Triste post lustrum reducem beata
                                    Sorte recepit!
Virgines castae, puerique puri,
            Gestiens Clerus, populusque grato
            Corde Reginae celebrare caeli
                                    Munera certent.
Virginum Virgo, benedicta Iesu
            Mater, haec auge bona: fac, precamur,
            Ut gregem Pastor Pius ad salutis
                                    Pascua ducat.
Te per aeternos veneremur annos,
            Trinitas, summo celebrando plausu,
            Te fide mentes, resonoque linguae
                                    Carmine laudent. Amen.

Inno per le lodi – TRADUZIONE.
Quando il nemico acerrimo
            Ad assalir fu visto
            Con l’armi più terribili
            Il popolo di Cristo,
            Sovente alle difese
            Maria dal ciel discese.
Colonne altari e cupule
            Onuste di trofei,
            E riti e feste e cantici
            Fur dedicati a Lei.
            Oh quante le memorie
            Di tante sue vittorie!
Ma nuove grazie rendansi
            Ai nuovi suoi favori;
            Tutte le genti uniscansi
            Ed i superni cori
            In armonia divina
            Con la Città regina.
La Chiesa inconsolabile
            Rasserenato ha il ciglio;
            Il dì spuntò che reduce
            Da lungo tristo esiglio
            Di Pietro all’alma Sede
            Tornava il Sommo Erede.
Le vereconde giovani,
            I casti adolescenti
            Col Clero e con il popolo
            Cantin sì fausti eventi:
            Gareggino in omaggio
            D’affetti e di linguaggio.
O Vergin delle vergini,
            Madre del Dio di pace,
            Possa il Pastor dell’anime
            Col labbro sì verace
            E l’alta sua virtute
            Guidarci alla salute.
[…]

Teol. PAGNONE

(continua)




San Francesco di Sales catechista dei bambini

Formato secondo la dottrina cristiana fin dall’infanzia, nel suo ambiente familiare, poi nelle scuole, e infine a contatto con i gesuiti, Francesco di Sales aveva assimilato in modo perfetto i contenuti e il metodo della catechesi dell’epoca.

Una esperienza di catechismo a Thonon
            Come catechizzare la gioventù di Thonon cresciuta tutta impregnata di calvinismo, si chiedeva il missionario del Chiablese. I mezzi autoritari non erano necessariamente i più efficaci. Non era meglio attirare la gioventù e interessarla? Era il metodo seguito di solito dal prevosto di Sales durante tutto il tempo della missione nel Chiablese.
            Aveva pure tentato un’esperienza che merita di essere ricordata. Il 16 luglio 1596, approfittando della visita dei suoi due giovani fratelli, Jean-François di diciotto anni e Bernard di tredici anni, organizzò una specie di recitazione pubblica del catechismo allo scopo di attirare la gioventù di Thonon. Ne compose egli stesso un testo sotto forma di domande e risposte sulle verità fondamentali della fede, e invitò il fratello Bernard a rispondergli.
            Il metodo del catechista è interessante. Leggendo questo piccolo catechismo dialogato, occorre ricordare che non si tratta semplicemente di un testo scritto, bensì di un dialogo destinato a essere rappresentato davanti a un pubblico di giovani nella fattispecie di un «teatrino». La «rappresentazione» ebbe effettivamente luogo su un «palco», o podio, come soleva avvenire presso i gesuiti nel collegio di Clermont. In effetti, all’inizio si leggono delle indicazioni scenografiche:

Francesco, parlando per primo, dirà: Fratello mio, sei cristiano?
Bernard, posto vis-à-vis di Francesco, risponderà: Si, fratello mio, per grazia di Dio.

            Molto probabilmente l’autore aveva previsto l’uso di gesti per conferire maggiore vivacità alla recitazione. Alla domanda: «Quante cose devi conoscere per essere salvo?», la risposta recita: «Quante le dita della mano!», espressione che Bernardo dovette pronunciare con gesti, cioè indicando le cinque dita della mano: il pollice per la fede, l’indice per la speranza, il medio per la carità, l’anulare per i sacramenti, il mignolo per le buone opere. Parimenti, trattando delle diverse unzioni del battesimo, Bernard dovette portare la mano prima sul petto, per indicare che la prima unzione consiste «nell’essere abbracciati dall’amore di Dio»; poi sulle spalle, perché la seconda unzione è diretta a «renderci forti nel portare il peso dei comandamenti e dei precetti divini»; infine sulla fronte per rivelare che l’ultima unzione ha come scopo quello di «far in modo che confessiamo la fede in Nostro Signore pubblicamente, senza timore e senza vergogna».
            Grande importanza è data al «segno della croce», normalmente accompagnato dalla formula Nel nome del Padre con cui iniziava il catechismo, segno che col gesto della mano segue, sulle parti del corpo, un percorso inverso rispetto all’unzione battesimale: la fronte, il petto e le due spalle. Il segno della croce, doveva dire Bernard, è «il vero segno del cristiano», aggiungendovi che «il cristiano lo deve fare in tutte le sue preghiere e nelle azioni principali».
            Conviene anche notare che l’uso sistematico dei numeri serviva da mezzo mnemonico. In tal modo, infatti, il catechizzato impara che ci sono tre promesse battesimali (rinunciare al diavolo, professare la fede e osservare i comandamenti), dodici articoli del Credo, dieci comandamenti di Dio, tre tipi di cristiani  (eretici, cattivi cristiani e veri cristiani), quattro parti del corpo destinati a essere unti (il petto, le due spalle e la fronte), tre unzioni, cinque cose necessarie per essere salvi (fede, speranza, carità, sacramenti e buone opere), sette sacramenti e tre buone opere (preghiera, digiuno e elemosina).
            Se si esamina attentamente il contenuto di questo catechismo dialogato, è facile rilevarne l’insistenza su parecchi punti contestati dai protestanti. Il tono deciso di certe affermazioni richiama la vicinanza di Thonon a Ginevra e l’ardore polemico dell’epoca.
            Fin dagli inizi figura un’invocazione alla «benedetta Vergine Maria». In tema di osservanza dei dieci comandamenti si precisa che bisogna aggiungervi i precetti della «nostra santa Madre Chiesa». Nei tre tipi di cristiani, gli eretici sono coloro che «altro non hanno se non il nome», «essendo fuori della Chiesa cattolica, apostolica e romana». I sacramenti sono in numero di sette. I riti e le cerimonie della Chiesa non sono solo azioni simboliche, essi infatti producono nell’animo del credente un vero cambiamento dovuto all’efficacia della grazia. Si nota anche l’insistenza sulle «buone opere» per essere salvi e la pratica del «santo segno della Croce».
            Nonostante la «messa in scena» piuttosto eccezionale con la partecipazione del fratello più giovane, questo tipo di catechesi dovette ripetersi sovente e in forme abbastanza simili. Si sa, infatti, che l’apostolo del Chiablese «insegnava il catechismo, il più sovente possibile, in pubblico o in case particolari».

Il vescovo catechista
            Diventato vescovo di Ginevra, ma residente ad Annecy, Francesco di Sales insegnava di persona il catechismo ai fanciulli. Occorreva dare l’esempio ai canonici e ai parroci che esitavano ad abbassarsi a questo tipo di ministero: è noto, dirà un giorno, che «molti vogliono predicare, ma pochi fare il catechismo». Secondo un testimone, il vescovo «si prese la briga di insegnare di persona il catechismo per due anni nella città, senza essere aiutato da altri».
            Un testimone lo descrive assiso «su un piccolo teatro creato allo scopo, e, mentre di là interroga, ascolta, ammaestra non solamente il suo piccolo pubblico, ma anche tutti coloro che accorrono da ogni parte, accogliendoli con una spigliatezza e affabilità incredibili». La sua attenzione era concentrata sui rapporti personali da stabilire con i fanciulli: prima di interrogarli, «li chiamava tutti per nome, come se» ne «avesse in mano la lista».
            Per farsi capire usava un linguaggio semplice, ricavando a volte dalla vita di ogni giorno i paragoni più inattesi, come quello del cagnolino: «Quando veniamo al mondo come nasciamo? Nasciamo come i cagnolini, i quali, leccati dalla loro madre aprono gli occhi. Così, quando nasciamo, la nostra santa madre Chiesa ci apre gli occhi con il battesimo e la dottrina cristiana che ci insegna».
            Il vescovo preparò, con l’aiuto di qualche collaboratore, dei «biglietti» sui quali erano scritti i punti principali da imparare a memoria durante la settimana per saperli recitare la domenica. Ma come fare se i fanciulli non sapevano ancora leggere e le loro famiglie erano anch’esse formate da analfabeti? Era necessario contare sull’aiuto di persone benevole: parroci, viceparroci, maestri di scuola, che durante la settimana fossero disponibili a fare delle ripetizioni.
            Da buon educatore, anch’egli ripeteva sovente le stesse domande con le medesime spiegazioni. Quando il fanciullo sbagliava nella recita dei suoi biglietti o nella pronuncia di parole difficili, «sorrideva così gentilmente e, correggendone lo sbaglio, rimetteva in carreggiata l’interrogato in maniera così amabile da sembrare che se non avesse sbagliato, non avrebbe potuto pronunciarlo tanto bene; il che raddoppiava il coraggio dei piccoli e aumentava in maniera singolare la soddisfazione dei grandicelli».
            La tradizionale pedagogia dell’emulazione e della ricompensa aveva un suo ruolo negli interventi di questo ex-allievo dei gesuiti. Un testimone riferisce questa scenetta: «I piccoli correvano esultanti di gioia, facendo a gara, gli uni contro altri; andavano orgogliosi allorché potevano ricevere dalle mani del Beato qualche regaluccio come immaginette, medaglie, corone e agnus dei, che dava loro, quando avevano risposto bene, e anche carezze particolari che faceva loro per incoraggiarli a imparare bene il catechismo e a rispondere correttamente».
            Ora, questa catechesi ai fanciulli attirava gli adulti, e non soltanto i genitori, ma anche grandi personaggi, «dottori, presidenti di camera, consiglieri e maestri di camera, religiosi e superiori di monasteri». Tutti gli strati sociali erano rappresentati, «sia nobili, che ecclesiastici, che gente del popolo», e la folla era così ammassata che «non ci si poteva muovere». Si accorreva dalla città e dai dintorni.
            S’era quindi creato un movimento, una specie di fenomeno contagioso. Secondo alcuni, «non era più il catechismo dei fanciulli, ma l’istruzione pubblica dell’intero popolo». Il paragone con il movimento creato a Roma mezzo secolo prima dalle vivaci e gioiose assemblee di san Filippo Neri si affaccia spontaneamente alla memoria. Secondo l’espressione del padre Lajeunie, «l’Oratorio di san Filippo sembrava rinascere ad Annecy».
            Il vescovo non si accontentava di formule imparate a memoria, benché fosse lungi da lui deprezzare il ruolo della memoria. Insisteva perché i fanciulli sapessero quello che devono credere e comprendere l’insegnamento.
            Voleva soprattutto che la teoria appresa durante il catechismo diventasse pratica nella vita di ogni giorno. Come scrisse un suo biografo, «insegnava non soltanto ciò che occorre credere, ma persuadeva anche a vivere secondo ciò che si crede». Incoraggiava i suoi uditori di ogni età «ad accostarsi con frequenza ai sacramenti della confessione e della comunione», «insegnava loro personalmente la maniera di prepararsi convenientemente», e «spiegava i comandamenti del decalogo e della Chiesa, i peccati capitali, usando appropriati esempi, similitudini ed esortazioni tanto amorosamente coinvolgenti, che tutti si sentivano dolcemente forzati a fare il loro dovere e ad abbracciare la virtù loro insegnata».
            In ogni caso, il vescovo catechista era felicissimo di ciò che faceva. Quando si trovava in mezzo ai bambini, afferma un testimone, sembrava «essere tra le sue delizie». Uscendo da una di queste scuole di catechismo, nel periodo del carnevale, prese la penna per descriverla a Giovanna di Chantal:

Ho terminato or ora la scuola di catechismo, dove mi sono abbandonato un po’ all’allegria, mettendo alla berlina le maschere e i balli per far ridere l’uditorio; ero in un momento di buon umore, e un grande uditorio mi invitava coi suoi applausi a continuare a fare il bambino coi bambini. Mi si dice che, in questo, riesco bene, e io ci credo!

            Gli piaceva raccontare le belle espressioni dei fanciulli, talvolta strabilianti per la profondità. Nella lettera appena citata riferiva alla baronessa la risposta che gli era appena stata data alla domanda: Gesù Cristo è nostro? «Non bisogna dubitarne minimamente: Gesù Cristo è nostro», gli aveva risposto una bambina, la quale aggiungeva: «Sì, egli è più mio di quanto io sia sua e più di quanto sia mia io stessa».

San Francesco di Sales e il suo “piccolo mondo”
            Il clima familiare, cordiale e gaio che regnava al catechismo era un importante fattore di successo, favorito dalla naturale armonia esistente tra la limpida anima amante di Francesco e i fanciulli, che chiamava il suo «piccolo mondo», perché era riuscito a «conquistarne il cuore».
            Camminando per le strade, i fanciulli gli correvano davanti; lo si vide talvolta attorniato talmente da loro da non poter procedere oltre. Lungi dall’irritarsi, li accarezzava, si intratteneva con loro, chiedendo: «Tu di chi sei figlio? come ti chiami?».
            Secondo il suo biografo, un giorno avrebbe detto «che vorrebbe avere il piacere di vedere e considerare come lo spirito di un fanciullo si va poco a poco aprendo e espandendo».




Primo sogno missionario: la Patagonia (1872)

Ecco il sogno che decise Don Bosco ad iniziare l’apostolato missionario nella Patagonia.
Lo narrò per la prima volta a Pio IX nel marzo 1876. In seguito ne ripeté il racconto anche ad alcuni salesiani in privato. Il primo, ammesso a questa confidenziale narrazione, fu Don Francesco Bodrato, il 30 luglio dello stesso anno. E Don Bodrato, di quella sera medesima, lo raccontava a Don Giulio Barberis, a Lanzo, dov’era andato a passare alcuni giorni di svago con un gruppo di chierici novizi.
Tre giorni dopo Don Barberis si recava a Torino, e trovandosi nella biblioteca in colloquio col Santo, passeggiando un po’ con lui, ne udiva egli pure il racconto. Don Giulio si guardò dal dirgli che l’aveva già udito, lieto di sentirlo ripetere dal suo labbro, anche perché Don Bosco, nel fare questi racconti, ogni volta aveva sempre qualche nuovo particolare interessante.
Anche Don Lemoyne l’apprese dal labbro di Don Bosco; e l’uno e l’altro, Don Barberis e Don Lemoyne, lo misero per iscritto. Don Bosco – dichiarava Don Lemoyne – disse loro che erano i primi a cui svelava dettagliatamente questa specie di visione, che rechiamo qui quasi colle sue stesse parole.

            Mi parve di trovarmi in una regione selvaggia ed affatto sconosciuta. Era un’immensa pianura, tutta incolta, nella quale non si scorgeva né colline né monti. Nelle estremità lontanissime però tutta la profilavano scabrose montagne. Vidi in essa turbe di uomini che la percorrevano. Erano quasi nudi, di un’altezza e statura straordinaria, di un aspetto feroce, coi capelli ispidi e lunghi, di colore abbronzato e nerognolo, e solo vestiti di larghi mantelli di pelli di animali, che loro scendevano dalle spalle. Avevano per armi una specie di lunga lancia e la fionda (il lazo).
            Queste turbe di uomini, sparse qua e là, offrivano allo spettatore scene diverse: questi correvano dando la caccia alle fiere; quelli andavano, portavano conficcati sulle punte delle lance pezzi di carne sanguinolenta. Da una parte gli uni si combattevano fra di loro: altri venivano alle mani con soldati vestiti all’europea, ed il terreno era sparso di cadaveri. Io fremeva a questo spettacolo: ed ecco spuntare all’estremità della pianura molti personaggi, i quali, dal vestito e dal modo di agire, conobbi Missionari di vari Ordini. Costoro si avvicinavano per predicare a quei barbari la religione di Gesù Cristo. Io li fissai ben bene, ma non ne conobbi alcuno. Andarono in mezzo a quei selvaggi; ma i barbari, appena li vedevano, con un furore diabolico, con una gioia infernale, loro erano sopra e tutti li uccidevano, con feroce strazio li squartavano, li tagliavano a pezzi, e ficcavano i brani di quelle carni sulla punta delle loro lunghe picche. Quindi si rinnovavano di tanto in tanto le scene delle precedenti scaramucce fra di loro e con i popoli vicini.
            Dopo di essere stato ad osservare quegli orribili in macelli, dissi tra me: – Come fare a convertire questa gente così brutale? – Intanto vedo in lontananza un drappello d’altri missionari che si avvicinavano ai selvaggi con volto ilare, preceduti da una schiera di giovinetti. Io tremava pensando: – Vengono a farsi uccidere. – E mi avvicinai a loro: erano chierici e preti. Li fissai con attenzione e li riconobbi per nostri Salesiani. I primi mi erano noti e sebbene non abbia potuto conoscere personalmente molti altri che seguivano i primi, mi accorsi essere anch’essi Missionari Salesiani, proprio dei nostri.
            – Come mai va questo? – esclamava. Non avrei voluto lasciarli andare avanti ed era lì per fermarli. Mi aspettava da un momento all’altro che incorressero la stessa sorte degli antichi Missionari. Voleva farli tornare indietro, quando vidi che il loro comparire, mise in allegrezza tutte quelle turbe di barbari, le quali abbassarono le armi, deposero la loro ferocia ed accolsero i nostri Missionari con ogni segno di cortesia. Meravigliato di ciò diceva fra me: – Vediamo un po’ come ciò andrà a finire! – E vidi che i nostri Missionari si avanzavano verso quelle orde di selvaggi; li istruivano ed essi ascoltavano volentieri la loro voce; insegnavano ed essi imparavano con premura; ammonivano, ed essi accettavano e mettevano in pratica le loro ammonizioni.
            Stetti ad osservare, e mi accorsi che i Missionari recitavano il santo Rosario, mentre i selvaggi, correndo da tutte parti, facevano ala al loro passaggio e di buon accordo rispondevano a quella preghiera.
            Dopo un poco i Salesiani andarono a porsi nel centro di quella folla che li circondò, e s’inginocchiarono. I selvaggi, deposte le armi per terra ai piedi dei Missionari, piegarono essi pure le ginocchia.
            Ed ecco uno dei Salesiani intonare: Lodate Maria, o lingue fedeli, e quelle turbe, tutte ad una voce, continuare il canto di detta lode, così all’unisono e con tanta forza di voce, che io, quasi spaventato, mi svegliai.
            Questo sogno l’ebbi quattro o cinque anni fa e fece molta impressione sul mio animo, ritenendo che fosse un avviso celeste. Tuttavia non ne capii bene il significato particolare. Intesi però che trattavasi di Missioni straniere, le quali prima d’ora avevano formato il mio più vivo desiderio.

            Il sogno, adunque, avvenne verso il 1872. Dapprima Don Bosco credette che fossero i popoli dell’Etiopia, poi pensò ai dintorni di Hong-Kong, quindi alle genti dell’Australia e delle Indie; e solo nel 1874, quando ricevette, come vedremo, i più pressanti inviti di mandare i Salesiani all’Argentina, conobbe chiaramente, che i selvaggi veduti in sogno erano gli indigeni di quell’immensa regione, allora quasi sconosciuta, che era la Patagonia.
(MB X, 53-55)




Un vero cieco

Un’antica fiaba persiana racconta di un uomo che aveva un unico pensiero: possedere oro, tutto l’oro possibile.
Era un pensiero vorace che gli divorava il cervello e il cuore. Non riusciva così ad avere nessun altro pensiero, nessun altro desiderio per altre cose che non fossero oro.
Quando passava davanti alle vetrine della sua città, vedeva solo quelle degli orefici. Non si accorgeva di tante altre cose meravigliose.
Non si accorgeva delle persone, non badava al cielo azzurro o al profumo dei fiori.
Un giorno non seppe resistere: entrò di corsa in una gioielleria e cominciò a riempirsi le tasche di bracciali d’oro, anelli o spille.
Naturalmente, mentre usciva dal negozio, fu arrestato. I gendarmi gli dissero: «Ma come potevi credere di farla franca? Il negozio era pieno di gente».
«Davvero?», fece l’uomo stupito. «Non me ne sono accorto. Io vedevo solo l’oro».

«Hanno gli occhi e non vedono», dice la Bibbia degli idoli falsi. Si può dire di tante persone, oggi. Sono abbagliati dal luccichio delle cose che brillano di più: quelle che la pubblicità quotidiana ci fa scorrere sotto gli occhi, come fossero il pendolino di un ipnotizzatore.
Una volta, un maestro fece una macchiolina nera nel centro di un bel foglio di carta bianco e poi lo mostrò agli allievi.
«Che cosa vedete?», chiese.
«Una macchia nera!», risposero in coro.
«Avete visto tutti la macchia nera che è piccola piccola», ribatté il maestro, «e nessuno ha visto il grande foglio bianco».

Nel Talmud, che riunisce la saggezza dei maestri ebrei dei primi cinque secoli, è scritto: «Nel mondo a venire, ciascuno di noi sarà chiamato a rendere conto di tutte le belle cose che Dio ha messo in terra e che abbiamo rifiutato di vedere».
La vita è una serie di momenti: il vero successo sta nel viverli tutti.
Non rischiare di perdere il grande foglio bianco, per inseguire una macchiolina nera.




Un interessante caso giudiziario a Valdocco

Una lettera al pretore della città di Torino del 18 aprile 1865 apre un interessante ed inedito spiraglio sulla vita quotidiana della Valdocco dell’epoca.


Fra i giovani accolti a Valdocco negli anni sessanta, quando ormai erano stati aperti quasi tutti i laboratori per artigiani, spesso orfani, ve ne erano alcuni inviati dalla pubblica sicurezza. Dunque l’Oratorio non accoglieva solo ragazzi buoni e dei giovani vivaci ma di buon cuore, ma anche giovani difficili, problematici, con alle spalle esperienze decisamente negative.

Siamo forse abituati a pensare che a Valdocco, con la presenza di don Bosco, le cose andassero sempre bene, soprattutto negli anni cinquanta e primi anni sessanta quando l’opera salesiana non si era ancora diffusa e don Bosco viveva a contatto diretto e costante con i ragazzi. Invece successivamente, con una grande massa eterogenea di giovani, educatori, apprendisti artigiani, giovani studenti, novizi, studenti di filosofia e di teologia, allievi delle scuole serali, lavoratori “esterni”, sarebbero potute sorgere delle difficoltà nella gestione disciplinare della comunità di Valdocco.

Un fatto piuttosto grave
Una lettera al pretore della città di Torino del 18 aprile 1865 apre un interessante ed inedito spiraglio sulla vita quotidiana della Valdocco dell’epoca. La riproduciamo e poi la commentiamo.

Al Signor Pretore Urbano della città di Torino

Viste le citatorie da intimarsi al chierico Mazzarello assistente nel laboratorio dei legatori della casa detta Oratorio di San Francesco di Sales; viste parimenti quelle dà intimarsi ai giovani Parodi Federico, Castelli Giovanni, Guglielmi Giuseppe e consideratone attentamente il tenore il sac. Bosco Gioanni direttore di questo stabilimento nel desiderio di sciogliere la questione con minori disturbi delle autorità della pretura urbana crede di poter intervenire a nome di tutti nella causa relativa al giovane Boglietti Carlo, pronto a dare a chi che sia le più ampie soddisfazioni.
Prima di accennare il fatto in questione sembra opportuno di notare che l’articolo 650 del codice penale sembra interamente estraneo all’oggetto di cui si tratta, imperciocché interpretato nel senso preteso la pretura urbana si verrebbe ad introdurre nel regime domestico delle famiglie, i genitori e chi ne fa le veci non potrebbero più correggere la propria figliuolanza neppure impedire un’insolenza ed un’insubordinazione, [cose] che tornerebbero a grave danno della moralità pubblica e privata.
Inoltre per tenere in freno certi giovanetti per lo più inviati dall’autorità governativa, si ebbe facoltà di usare tutti quei mezzi che si fossero giudicati opportuni, e in casi estremi di mandare il braccio della pubblica sicurezza siccome si è fatto più volte.
Venendo ora al fatto del Boglietti Carlo si deve con rincrescimento ma francamente asserire, che egli fu più volte paternamente inutilmente avvisato; che egli si dimostrò non solo incorreggibile, ma insultò, minacciò ed imprecò il suo assistente, chierico Mazzarello in faccia ai suoi compagni. Quell’assistente d’indole mitissima, e mansuetissima ne rimase talmente spaventato, che d’allora in poi fu sempre ammalato senza aver mai più potuto ripigliare i suoi doveri e vive tuttora da ammalato.
Dopo quel fatto il Boglietti fuggì dalla casa senza nulla dire ai suoi superiori a cui era indirizzato e fece solamente palese la sua fuga per mezzo della sorella, quando seppe che si voleva consegnare nelle mani della questura. La qual cosa non si fece per conservargli la propria onoratezza.
Intanto si fa istanza affinché siano riparati i danni che l’assistente ha sofferto nell’onore e nella persona almeno finché possa ripigliare le sue ordinarie occupazioni.
Che le spese di questa causa siano a conto di lui. Che né esso Boglietti Carlo, né il sig. Caneparo Stefano suo parente o consigliere non vengano più nel mentovato stabilimento a rinnovare gli atti d’insubordinazione e gli scandali già altre volte cagionati.
[Sac. Gio Bosco]

Che dire? Anzitutto che la lettera documenta come fra i giovani accolti a Valdocco negli anni sessanta, quando ormai erano stati aperti quasi tutti i laboratori per artigiani, spesso orfani, ve ne erano alcuni inviati dalla pubblica sicurezza. Dunque l’Oratorio non accoglieva solo ragazzi come Domenico Savio o Francesco Besucco o anche Michele Magone, vale a dire degli ottimi, dei buoni e dei giovani vivaci ma di buon cuore, ma anche giovani difficili, problematici, con alle spalle esperienze decisamente negative.
Ai giovanissimi educatori salesiani di Valdocco era affidato l’arduo compito di ri­educarli, autorizzati anche a far ricorso a “tutti quei mezzi che si fossero giudicati opportuni”. Quali? Di certo il Sistema Preventivo di don Bosco, di cui l’esperienza in atto da due decenni a Valdocco dimostrava la validità. Ma alla prova dei fatti, “in casi estremi”, per i giovani più incorreggibili, si dovette ricorrere a quella stessa forza pubblica che ve li aveva portati.

Nel caso in questione
Don Bosco, di fronte alla citazione in giudizio di un suo giovane chierico e di alcuni ragazzi dell’Oratorio, si sente in dovere di intervenire direttamente presso l’autorità costituita per la difesa del suo giovane educatore, per la salvaguardia dell’immagine positiva del suo Oratorio e per la tutela della propria autorevolezza educativa. Con estrema chiarezza indica al pretore le possibili conseguenze negative, per sé, per le famiglie e per la società in genere, della rigida, ed a suo giudizio ingiustificata, applicazione di un articolo del codice penale.
Da ottimo avvocato, con una spericolata arringa giuridico­educativa, don Bosco trasforma in tal modo la sua difesa in accusa e l’accusatore in imputato, al punto da fare immediata istanza di indennizzo dei danni fisici e morali causati al giovane assistente Mazzarello, ammalatosi e costretto al riposo forzato.

L’esito della vertenza
Non è dato conoscerlo, probabilmente si concluse con un nulla di fatto. Ma tutta la vicenda ci rivela una serie di atteggiamenti e comportamenti non solo poco conosciuti di don Bosco, ma in qualche modo sempre attuali. Veniamo così a conoscere che pur sotto gli occhi vigili di don Bosco il Sistema Preventivo poté talora andare incontro a degli insuccessi. Il primo interesse da salvaguardare doveva sempre essere quello del singolo giovane, ovviamente a condizione che non entrasse in conflitto con il superiore interesse di altri compagni. Inoltre l’immagine positiva dell’opera salesiana andava difesa anche nelle opportune sedi giudiziali. Nel qual caso saggiamente andavano però messe in conto le possibili conseguenze, onde non trovarsi di fronte a spiacevoli sorprese.




Un beato a Chambéry. Camille Costa de Beauregar, Fondatore di “Bocage”

Camille Costa de Beauregard(1841-1910), sacerdote savoiardo nato a Chambéry, avrebbe potuto trarre vantaggio dal suo alto status sociale. Invece, ha donato la sua vita ai più svantaggiati, dedicandosi agli orfani e ai più poveri tra i poveri, ai giovani e alla loro istruzione. Fondò un orfanotrofio per ragazzi a Le Bocage (Chambéry). Sarà beatificato nel 17 maggio del 2025.

Camille Costa de Beauregard nacque il 17 febbraio 1841. Una targa in marmo sulla facciata principale di un edificio in rue Jean-Pierre Veyrat (allora rue Royale) a Chambéry ricorda l’evento.
Era la residenza invernale della sua famiglia, che viveva il resto dell’anno nel castello di La Motte-Servolex.

Suo padre, il marchese Pantaléon Costa de Beauregard, era un alto deputato di Torino, un uomo di lettere, arte e scienza (era stato nominato per tre volte presidente dell’Accademia di Savoia); era anche un fervente cristiano che non aveva mai compromesso la sua fede. Pur essendo molto vicino al re Carlo Alberto, quando la Savoia fu annessa alla Francia (1860) non esitò a schierarsi con Napoleone III, per il suo regime, più favorevole alla Chiesa rispetto a quello di Cavour.
La rinuncia alla brillante carriera torinese fu compensata dalla nomina a Presidente del Consiglio Generale di Savoia e dall’assegnazione della Legione di Onore. La sua fede, che lo portò a rifiutare ogni compromesso, si nutrì di una pratica religiosa regolare e si concretizzò in numerose azioni caritatevoli.

La madre di Camille, Marthe de Saint Georges de Verac, era stata segnata dalla morte sul patibolo di tre delle sue nonne. Aveva conservato un forte senso della brevità della vita e della natura effimera delle cose terrene. Uno livello spirituale che si riflette nel modo in cui alleva i suoi figli: sei maschi e tre femmine (altri due sono morti in tenera età). Li educò secondo il loro rango, ma con un rigore piuttosto vincolante e un disinteresse per qualsiasi benessere o piacere che non considerasse essenziale. Con il passare del tempo e con il progredire della maternità, divenne più dolce e comprensiva.
Come il marito, la marchesa era molto attenta alle miserie umane. Aveva abituato i suoi figli a dare una moneta a un povero che incontravano o a condividere la merenda con i malati nel piccolo ospedale costruito dal marchese nella tenuta.

Dopo tre anni di studi con i Fratelli delle Scuole Cristiane al Collegio de la Motte-Servolex, il giovane Camille, quinto figlio di una famiglia di fratelli, continuò la sua educazione nelle scuole dei gesuiti in Francia e in Belgio fino alla fine della scuola secondaria. All’età di sedici anni fu colpito dal tifo, aggravato da gravi complicazioni polmonari. I genitori lo richiamarono al castello per continuare gli studi sotto la guida di un precettore, l’abate Chenal, dal settembre 1857.

Insegnante rinomato del collegio di Rumilly, l’abate Chenal si adattò ai ritmi del suo allievo, perché era in grado di discernere la gravità della crisi che il suo allievo stava attraversando a livello fisico, morale e spirituale. Aspettò che avesse superato la sua estrema debolezza (tre mesi a letto), poi lo accompagnò alle cure termali a Aix-les-Bains, a Biarritz…
Camille trascorreva così due o tre anni, alternando il lavoro, la lettura, i viaggi in treno, le sedute di pianoforte o di pittura, le passeggiate sulle colline circostanti e, più tardi, un lungo trekking intorno al Monte Bianco… e persino partecipando alle feste dei giovani nobili e borghesi di Chambéry, dove brillava per la sua cortesia, il suo umorismo, il fascino della sua conversazione e la sua eleganza nel vestire… che gli valsero il soprannome di: “Bel cavaliere”.

In quel periodo, un lassismo religioso lo portò a perdere la fede al punto di non mettere più piede in chiesa. Tuttavia, su consiglio dell’abate Chenal, rimase fedele alla recita quotidiana di una preghiera a Maria, la “Ricordati o piissima Vergine Maria”.

E poi arrivò il giorno in cui tutto cambiò, perché il Signore da cui era fuggito per tanto tempo non aveva mai smesso di aspettarlo. Lo aspettava, infatti, nella cattedrale di Chambéry, dove si sentiva attratto ad entrare suo malgrado. Ed era l’illuminazione della sua anima. Dietro il pilastro contro il quale si era nascosto, improvvisamente riscoprì la fede della sua infanzia e sentì la chiamata al sacerdozio, alla quale decise di rispondere.

“Vedo ancora il pilastro della cattedrale dietro il quale mi inginocchiai… e dove piansi dolci lacrime, perché quello fu il giorno in cui tornai a Dio… In quel giorno, la mia anima prese possesso del mio Dio per sempre, e credo che quella fu l’origine della mia vocazione al sacerdozio”.

Nel settembre del 1863, Camille entra nel seminario francese di Roma, accompagnato dall’abate Chenal. I suoi anni in seminario rimarranno, dirà in seguito, i migliori della sua vita.
Fu ordinato sacerdote nella Basilica di San Giovanni in Laterano il 26 maggio 1866.
Rifiutando l’alta carica ecclesiastica a lui riservata, tornò a Chambéry nel giugno 1867.
Il suo vescovo, monsignor Billiet, gli offrì una posizione onoraria, che egli rifiutò.
Su sua richiesta, gli fu affidato il posto di vicario quattro della cattedrale di Chambéry, senza alloggio né retribuzione. Questo gli permise di occuparsi degli operai che stavano lavorando duramente alla costruzione della cattedrale, che guadagnavano poco e non avevano alcuna copertura sociale.
Per loro istituì una cassa di mutuo soccorso con il nome di “Saint François de Sales”. Mons. Billiet aggiunse al suo ministero le funzioni di confessore e predicatore.

1867 IL COLERA
Nell’agosto del 1867, il colera colpì la città, facendo 135 vittime fino all’autunno. L’abate Costa ebbe pietà di tutti gli orfani che si trovavano senza genitori, senza un tetto sulla testa, senza soldi. Ne accolse una mezza dozzina nel bilocale che aveva affittato in strada Saint-Réal. Ma il loro numero crebbe presto ed egli ebbe bisogno di una casa per ospitarli. A questo scopo, il conte di Boigne, grande benefattore della città di Chambéry, gli concesse l’ex edificio della dogana su un ettaro di terreno: questo era Le Bocage.

L’Abate Camille cercava un assistente che lo aiutasse a far partire la sua opera. L’Abate Chenal, suo ex precettore, rispose favorevolmente alla sua richiesta.
È così che nel marzo 1868 nasce l’Orfanotrofio di Bocage.
Grazie ai propri fondi, a un sostanzioso contributo del conte di Boigne e ai versamenti regolari della sua famiglia (in particolare della madre), dei Padri Certosini e di altri donatori, Camille poté ristrutturare i locali, ampliarli e costruire una cappella… Il numero di alunni salì a 135.

Gli abati Costa e Chenal dovettero circondarsi di persone che si prendessero cura di loro: dopo i Fratelli delle Scuole Cristiane per i primi anni, fecero appello alle Figlie della Carità che svolsero i molteplici ruoli di insegnante, supervisore, infermiere, cuoche e madri sostitutive, soprattutto per i bambini più piccoli…
Dall’età di tredici anni, i ragazzi impararono il mestiere di giardiniere nelle serre costruite su terreni acquistati di anno in anno. Per i più grandi, l’Abate Costa acquistò la tenuta La Villette a La Ravoire nel 1875 (grazie ai fondi donati dalla madre e dalla sorella Félicie), dove si esercitarono a coltivare ortaggi, alberi da frutto, a lavorare nell’orto e anche l’allevamento di pesci. Camille si trasferì con loro a La Villette e affidò la gestione di Le Bocage all’abate Chenal.
Questo esperimento si concluse dieci anni dopo, alla morte dell’abate Chenal. L’Abate Costa tornò a Le Bocage con i suoi apprendisti più anziani, per i quali costruì una nuova ala parallela alla prima.
Nel corso degli anni, fu assistito da un gruppo di sacerdoti formati nello spirito del Bocage, tra cui il nipote Ernest Costa de Beauregard.

Ma cos’è questo spirito del Bocage?
È un’educazione basata su quella di San Francesco di Sales, simile a quella di Don Bosco, che l’abate Costa incontrò a Torino nel 1879. Si trattava di un’educazione preventiva, opposta a quella dei sistemi educativi dell’epoca, fatti di obblighi e divieti, con una forte dose di punizioni per chi trasgredisce le norme.
Un’educazione basata sulla fiducia e sull’affetto, su un profondo spirito familiare, sulla valorizzazione dello sforzo, sull’appello alla ragione e sull’ascolto. Il tutto in un clima di fede che viene trasmesso e vissuto ogni giorno.
Per rendere più efficiente l’orario di lavoro, Camille Costa de Beauregard diede ampio spazio alle attività di svago: passeggiate, teatro, musica (canto, banda di ottoni), nuoto, pasti festivi in occasione delle feste liturgiche, dove gli anziani erano invitati a riunirsi con le loro famiglie.

Appena terminato l’apprendistato, l’abate Costa trovò loro un lavoro come giardinieri e si tenne in stretto contatto con ciascuno di loro. In questo modo, Camille raggiunse il suo obiettivo di formare “buoni cristiani, buoni lavoratori e buoni padri”.
Nonostante la salute cagionevole per tutta la vita, l’abate Costa continuò a guidare Le Bocage fino alla sua morte, avvenuta il 25 marzo 1910. Era il Venerdì Santo, che quell’anno coincideva con la festa dell’Annunciazione.
Fu sepolto nel cimitero di Paradis; un anno dopo, nel 1911, il suo corpo fu riportato a Le Bocage. Si dice che gli anziani e i giovani dell’orfanotrofio disarcionarono i cavalli e tirarono loro stessi il carro funebre fino a Le Bocage, dove il corpo fu deposto in una tomba appositamente preparata.

La prossima generazione è assicurata
Per volontà del Fondatore, il nipote Ernest Costa de Beauregard gli è succeduto alla guida dell’associazione. È il figlio di suo fratello Josselin. Dopo essere diventato sacerdote qualche anno fa, ha raggiunto lo zio nel Bocage ed è diventato uno dei suoi più stretti collaboratori.
Per 44 anni, assistito in particolare dall’abate François Blanchard, anch’egli uno degli orfani accolti da Camille, ha portato avanti l’opera dello zio, facendo in modo che lo spirito del fondatore vivesse e perpetuandone la memoria.

Prima della sua morte, nel 1954, l’abate Ernest consegnò l’opera ai Padri Salesiani di Don Bosco, che rimasero fino al 2016, mantenendola nello stesso spirito. Essi continuano a supervisionare i due stabilimenti che sono ancora oggi molto vivi:
– la Casa dei bambini
– il Liceo Professionale Orticolo (professioni agricole, assistenza alla persona).

2012-2024 – Verso la beatificazione
Non appena il fondatore morì, la sua fama di santità si diffuse a Chambéry.
Nel 1913, Ernest Costa de Beauregard pubblicò la prima biografia dello zio, intitolata “Une âme de saint – Le Serviteur de Dieu, Camille Costa de Beauregard”, che fu ristampata più volte.

Nel 1925, una petizione dei sacerdoti della diocesi fu inviata a Mons. Castellan, vescovo di Chambéry, chiedendogli di prendere provvedimenti per la sua beatificazione. Il primo processo diocesano si tenne nel 1926-1927; nel 1956 fu pubblicata la “Positio Super Introductione Causae”; nel gennaio 1961 Papa Giovanni XXIII emanò il “Decreto di introduzione della Causa”; nel 1965 seguì il processo apostolico, durante il quale fu esumato il corpo del fondatore; la “Positio Super Virtutibus” fu pubblicata nel 1982.

Nel 1991, Camille Costa de Beauregard è stato proclamato Venerabile da Papa Giovanni Paolo II, che ha così riconosciuto l’eroicità delle sue virtù (decreto del 22 gennaio 1991).

Nel 1997, padre Robert FRITSCH, salesiano della comunità di Bocage, ha pubblicato “Camille Costa De Beauregard. Fondateur de L’Œuvre des Jeunes du Bocage à Chambéry, 1841-1910, Chronique d’une Œuvre Sociale et éducative dans la Savoie du XIXeme Siecle”, una cronaca storica di 371 pagine, (La Fontaine de Siloé).

Fu allora che Mons. Ulrich, Arcivescovo di Chambéry, volle rilanciare il processo di beatificazione del fondatore di Le Bocage. Chiese a Françoise Bouchard di scrivere una biografia, che fu pubblicata nel 2010 da Salvator con il titolo “Camille Costa de Beauregard – La Noblesse du Cœur”.

Da allora, il Comitato Costa de Beauregard, istituito nel 2012 da Mons. Ballot, e l’Associazione degli Amici di Camille Costa de Beauregard, creata nel 2017 per sostenere il Comitato, lavorano attivamente per portare avanti la Causa di Beatificazione.
In particolare, l’obiettivo è quello di documentare e promuovere il riconoscimento di un presunto miracolo dovuto all’ intercessione di Camille: la guarigione nel 1910 del giovane René Jacquemond guarisce da una grave ferita all’occhio. Viene compilato un dossier che viene inviato al Dicastero per le Cause dei Santi a Roma tramite don Pierluigi Cameroni, postulatore della Causa.

Cinque rapporti – redatti tra il 2015 e il 2018 nella regione della Savoia e in Francia da oftalmologi riconosciuti – hanno dichiarato che l’affezione che soffriva il giovane “non poteva che progredire verso la non guarigione o addirittura la perdita dell’occhio”, e che la repentinità della guarigione era inspiegabile.

Il culmine di un lungo processo

Alla fine di ottobre 2021, il vescovo Ballot ha convocato un tribunale diocesano presso il santuario di Myans per concludere l’indagine sul presunto miracolo. Un caso dettagliato sarà inviato a Roma.

Il 30 marzo 2023, gli esperti convocati a Roma dal Dicastero per le Cause dei Santi hanno riconosciuto all’unanimità il carattere scientificamente inspiegabile di una guarigione attribuita all’intercessione di Camille. Ci sono ancora diverse tappe da percorrere, ma questo riconoscimento apre la strada alla beatificazione.

Il 19 ottobre 2023, il collegio dei teologi ha emesso un verdetto positivo sulla causa di beatificazione di Camille Costa de Beauregard. La prossima tappa, nel 2024, sarà il parere dato al Papa da un collegio cardinalizio…

Il 27 febbraio 2024, il Dicastero (cardinali e vescovi) si è pronunciato all’unanimità a favore dell’inspiegabilità del miracolo attribuito all’intercessione di Camille Costa de Beauregard.

Il 14 marzo 2024, Papa Francesco ha autorizzato la pubblicazione del decreto che riconosce il miracolo attribuito all’intercessione di Camille Costa de Beauregard, aprendo la strada alla sua beatificazione.

Il rito di beatificazione si svolgerà a Chambéry, nella diocesi che ha promosso la causa del nuovo beato, il 17 maggio 2025.

Il miracolo attribuito à all’intercessione di Camille Costa de Beauregard
Ecco alcune spiegazioni di questo miracolo, avvenuto nel 1910, pochi mesi dopo la morte del fondatore:

“Il 5 novembre 1910, l’oculista Amédée Dénarié, che aveva visitato e curato il bambino, disse: Non esito a dichiarare che la guarigione è avvenuta al di fuori delle leggi della natura e in modo straordinario.”

Il piccolo René, di 10 anni, ospite dell’orfanotrofio, era stato gravemente ferito all’occhio da una palla di bardana lanciatagli contro durante una passeggiata. All’inizio i bambini dissero che si trattava di un sasso lanciato da un’auto di passaggio, ma poco dopo ammisero che stavano giocando a lanciarsi le bardane (si tratta di piante ben note che si trovano lungo i bordi delle strade e che molti bambini usano come proiettili). René ne ha ricevuto uno nell’occhio, lanciato con forza. Per il dolore, cercò di rimuoverla, lacerando la cornea… La ferita peggiorava di giorno in giorno, tanto che dopo alcune settimane si perse ogni speranza di guarigione. Ma l’occhio del bambino guarì in una notte, senza alcun farmaco, dopo che la suora infermiera applicò un panno appartenuto a Camille Costa de Beauregard l’ultimo giorno di novena con il bambino.

Il dossier delle testimonianze raccolte all’epoca è stato conservato con cura negli archivi, anche se per molti anni è stato un po’ dimenticato. Solo quando è stato riscoperto nel 2011 si è deciso, con questi nuovi elementi, di rilanciare la causa di beatificazione del fondatore di Le Bocage.

Beatificazione: con l’atto di beatificazione, il Papa decide che una persona – laica o religiosa – può essere venerata pubblicamente ed è quindi designata dalla Chiesa come “Beata”. Esistono due forme di beatificazione: il martirio o le virtù eroiche.

I due atti di beatificazione e canonizzazione si differenziano per il grado di estensione del culto pubblico. Il culto del beato è limitato a un’area designata dalla Santa Sede. Quello del santo è autorizzato, o addirittura prescritto, ovunque nella Chiesa universale.

Camille in sintesi

Nascita
Nascita: 17 febbraio 1841
Battezzato il giorno seguente nella chiesa di Notre Dame

Giovane sacerdote
Ordinazione: 26 maggio 1866
Ritorno a Chambéry: 1867, vicario della cattedrale

L’opera del Bocage
Creazione dell’Orfanotrofio di Bocage: maggio 1868
La sua morte, avvenuta il 25.03.1910

Servo di Dio
Apertura del processo diocesano: 1926

Venerabile
Processo apostolico: 1965 -1966
Decreto di venerabilità: 22.01.1991

Beato
Riconoscimento del miracolo: 14.03.2024

La celebrazione della beatificazione è programmata per il sabato 17 maggio del 2025.
Un esempio di vita dedicata e luminosa da conoscere e imitare.

Françoise Bouchard




Diffondere lo spirito missionario di don Bosco

Ci avviciniamo alla celebrazione dei 150 anni della Prima Spedizione Missionaria salesiana (1875-2025). La dimensione missionaria della Società Salesiana fa parte del suo “DNA”. È stata così voluta da don Bosco fin dall’inizio, e oggi la congregazione è presente in 136 paesi. Questo slancio iniziale continua anche oggi ed è sostenuto dal Dicastero delle Missioni. Presentiamo brevemente la loro attività e organizzazione.

            Don Bosco, pur non essendo mai partito per terre lontane come missionario ad gentes, ha sempre avuto un cuore missionario ed un ardente desiderio di condividere il carisma salesiano per raggiungere tutti i confini del mondo e contribuire alla salvezza dei giovani.
Questo è stato possibile grazie alla disponibilità di tanti salesiani inviati nelle spedizioni missionarie (a fine settembre di quest’anno si celebrerà la 155esima) che, collaborando con i locali e i laici, hanno permesso la diffusione e l’inculturazione del carisma salesiano. Rispetto ai primi “pionieri” oggi la figura del missionario deve rispondere a sfide diverse, e il paradigma missionario si è aggiornato per essere un veicolo efficace di evangelizzazione nel mondo di oggi. Innanzitutto, come ci ricorda don Alfred Maravilla, Consigliere Generale per le Missioni, (nel 2021 ha scritto una lettera, “La vocazione missionaria salesiana”), le missioni non rispondono più a criteri geografici, come una volta, e i missionari di oggi provengono dai cinque continenti e si inviano ai cinque continenti, perciò non esiste più una netta separazione tra “terre di missione” e altre presenze salesiane. Inoltre, molto importante è la distinzione tra la vocazione missionaria salesiana, ovvero la chiamata che alcuni salesiani ricevono per essere inviati per tutta la vita in un altro luogo come missionari, e lo spirito missionario, tipico di tutti i salesiani e di tutti i membri di una comunità educativo-pastorale, che si manifesta nel cuore oratoriano e nello slancio per l’evangelizzazione dei giovani.

            Il compito di promuovere lo spirito missionario e mantenerlo vivo nei salesiani e nei laici è affidato soprattutto ai “Delegati Ispettoriali per l’Animazione Missionaria” (DIAM), ovvero quei salesiani, o laici, che ricevono dall’Ispettore, il salesiano superiore della provincia (“ispettoria”) in questione, il compito di occuparsi dell’animazione missionaria. Il DIAM ha un ruolo molto importante, è la “sentinella missionaria” che, attraverso la sua sensibilità ed esperienza, si impegna nel diffondere la cultura missionaria a vari livelli (v. Animazione Missionaria Salesiana. Manuale del Delegato Ispettoriale, Roma, 2019).

            Il DIAM innesca la sensibilità missionaria in tutte le comunità dell’Ispettoria e lavora in sinergia con i responsabili delle altre aree per testimoniare l’importanza di questo ambito trasversale e comune ad ogni cristiano. A livello pratico, organizza alcune iniziative, promuove la preghiera per le missioni nel giorno 11 del mese, nel ricordo della prima spedizione missionaria l’11 Novembre 1875, promuove nell’Ispettoria la “Giornata Missionaria Salesiana” ogni anno, diffonde i materiali preparati dalla Congregazione a tema missionario, come il bollettino “Cagliero11” o il video “CaglieroLife”. La Giornata Missionaria Salesiana, che ricorre dal 1988, è un’occasione bella per fermarsi a riflettere e rilanciare l’animazione missionaria. Non deve essere necessariamente una giornata, può essere un itinerario di più giorni e non ha una data fissa, in modo da permettere a tutti di scegliere il miglior momento dell’anno che si adatta al ritmo e al calendario dell’Ispettoria. Ogni anno viene scelto un tema comune e preparati alcuni materiali di animazione come spunto di riflessione e di attività, adattabili e modificabili. Quest’anno il tema è “costruttori di dialogo”, mentre nel 2025 si concentrerà sul 150esimo anniversario della prima spedizione missionaria secondo i tre verbi “Ringraziare, Ripensare, Rilanciare”. Il Cagliero11, invece, è un semplice bollettino di animazione missionaria, creato nel 2009 e pubblicato tutti i mesi, di due pagine che contiene riflessioni missionarie, interviste, notizie, curiosità e la preghiera mensile che viene proposta. Il “CaglieroLife” è un video di un minuto che, sulla base della preghiera missionaria del mese (a su volta basata sull’intenzione mensile proposta dal Papa), aiuta a riflettere sul tema. Questi sono tutti strumenti che permettono al DIAM di svolgere bene il suo compito di promozione dello spirito missionario, in linea con i tempi di oggi.
            Il DIAM collabora o coordina, a seconda delle Ispettorie, il Volontariato Missionario Salesiano (“VMS”), ovvero quelle esperienze giovanili di servizio solidale e gratuito in una comunità diversa dalla propria per un periodo di tempo continuo (in estate, per più mesi, un anno…), motivate dalla fede, con stile missionario e secondo la pedagogia e la spiritualità di Don Bosco (Il Volontariato nella Missione Salesiana. Identità e Orientamenti del Volontariato Missionario Salesiano, Roma, 2019).
            Quest’anno, a marzo, è stato realizzato a Roma un primo incontro dei coordinatori del VMS, che ha visto la presenza di una cinquantina di partecipanti, tra laici e salesiani, sotto la guida di un advisory team misto che ne ha curato l’organizzazione. Tra i punti salienti usciti dall’incontro, ricchissimo soprattutto per la condivisione delle esperienze, ci sono stati l’esplorazione dell’identità del volontario missionario salesiano, la formazione dei volontari e dei coordinatori, la collaborazione tra laici e religiosi, l’accompagnamento a tutti i livelli e il lavoro in rete. È stata presentata una nuova croce simbolica del VMS, che può essere utilizzata da tutti i volontari nelle varie esperienze in tutto il mondo, e la bozza di un nuovo sito web che fungerà come piattaforma di dati e di rete.
            Inoltre, il DIAM visita le comunità dell’Ispettoria e le accompagna dal punto di vista missionario, prendendosi cura soprattutto di quei salesiani che camminano per capire se sono chiamati a diventare missionari ad gentes.

            Ovviamente, tutto questo lavoro non può essere fatto da una singola persona, è importante il lavoro in equipe e la mentalità progettuale. Ogni Ispettoria ha una commissione di animazione missionaria, composta da salesiani, laici e giovani corresponsabili che formula proposte, suggerimenti creativi e coordina le attività. Inoltre, redige il progetto di animazione missionaria ispettoriale, da presentare all’Ispettore, che è la bussola da seguire con obiettivi, tempi scanditi, risorse e passi concreti. In questo modo si evita l’improvvisazione e si agisce seguendo un piano strutturato e strategico sulla base del più ampio progetto educativo pastorale salesiano ispettoriale (PEPSI), promuovendo una visione condivisa dell’animazione missionaria. Nell’Ispettoria vengono organizzati momenti di formazione permanente, di riflessione e di discussione, e si promuove la cultura missionaria a vari livelli. Queste strutture che si sono create nel tempo permettono un’animazione e un coordinamento più efficaci, nell’ottica di dare sempre il meglio per il bene dei giovani.

            Un altro aspetto importante è la condivisione tra DIAM di diversi Paesi e ispettorie. Ogni Regione (ne esistono sette: America Cono Sud, Interamerica, Europa Centro-Nord, Mediterranea, Africa – Madagascar, Asia Est – Oceania e Asia Sud) si incontra regolarmente, in presenza una volta l’anno e on-line ogni tre mesi circa, per mettere in comunione le proprie ricchezze, condividere le sfide e elaborare un cammino regionale. Gli incontri on-line, iniziati da pochi anni, permettono una maggiore conoscenza dei DIAM e dei contesti in cui operano, un aggiornamento continuo e di qualità, e uno scambio proficuo che arricchisce tutti. In ogni Regione c’è un coordinatore, che convoca le riunioni, promuove il cammino regionale e modera i processi comuni, insieme al salesiano referente dell’equipe centrale del Settore per le Missioni, che rappresenta il Consigliere Generale per le Missioni portando idee, spunti e suggerimenti all’interno del gruppo.

            Questo grande impegno, faticoso ma assai utile e pieno di gioia vera, è uno dei tasselli che si unisce alle tante tessere del mosaico salesiano, e fa sì che il sogno di Don Bosco possa continuare ancora oggi.