Il sogno dell’elefante (1863)

D. Bosco, non avendo potuto dare l’ultimo giorno dell’anno la strenna ai suoi alunni, ritornato da Borgo Cornalense, il giorno 4, domenica, aveva promesso loro di darla la sera della festa dell’Epifania. Era il 6 del mese di gennaio 1863 e tutti i giovani, artigiani e studenti, radunati nel medesimo parlatorio, aspettavano ansiosi la strenna. Recitate le orazioni, il buon padre salì sulla tribuna solita e così prese a dire:

            Ecco la sera della strenna. Ogni anno sino dalle feste Natalizie, soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi qualche strenna, che possa esservi di giovamento. Ma quest’anno raddoppiai le preghiere stante il cresciuto numero dei giovani. Scorse però l’ultimo giorno dell’anno, venne il giovedì, il venerdì e nulla di nuovo. La sera del venerdì vado a letto, stanco delle fatiche del giorno, né mi fu dato prendere sonno lungo la notte, di modo che al mattino mi levai spossato, quasi semimorto. Non mi conturbai per questo, anzi mi rallegrai, poiché sapeva che ordinariamente quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo malissimo la notte antecedente. Continuai le mie solite occupazioni nel paese di Borgo Cornalense e la sera del sabato giunsi qui tra voi. Dopo aver confessato mi posi a letto, e per la stanchezza cagionata dalla predicazione e dalle confessioni a Borgo, e dal poco riposo della notte antecedente facilmente mi addormentai. Ecco, qui comincia il sogno da cui riceverete la strenna.
            Cari giovani, sognai che era giorno di festa, dopo pranzo, nelle ore di ricreazione e voi eravate intenti a divertirvi in mille modi. Mi parve di essere nella mia camera col Cav. Vallauri, professore di belle lettere: avevamo discorso di parecchie cose letterarie e di altre riguardanti la religione, quando improvvisamente sento all’uscio un ticc, tacc di chi bussava.
Corro a vedere. Era mia madre, morta da sei anni, che affannata mi chiamava.
            – Vieni a vedere, vieni a vedere.
            – Che c’è? risposi.
            – Vieni, vieni! replicò.
            A queste istanze mi portai sul balcone ed ecco in cortile vedo in mezzo ai giovani un elefante di smisurata grandezza.
            – Ma come va? esclamai! Corriamo sotto! E sbigottito mi rivolgeva al Cav. Vallauri, ed egli a me, come per interrogarci in qual modo fosse entrata quella belva mostruosa. Scendemmo tosto precipitosi nel porticato col professore.
            Molti di voi, come è naturale, erano accorsi a vederla. Quell’elefante sembrava mite, docile: si divertiva correndo coi giovani; li accarezzava colla proboscide: era tanto intelligente che obbediva ai comandi, come se fosse stato ammaestrato ed allevato qui nell’Oratorio dalla sua prima età, di modo che era sempre seguito ed accarezzato da un gran numero di giovani. Non tutti però eravate intorno a lui vidi che la maggior parte spaventati fuggivate qua e là, cercando un luogo ove ricoverarvi e infine vi siete rifugiati in Chiesa. Io pure cercai d’entrarvi per l’uscio che mette nel cortile; ma nel passare vicino alla statua della Vergine, collocata presso la pompa, avendo io toccato l’estremità del suo manto, come in segno d’invocarne il patrocinio, essa alzò il braccio destro. Vallauri volle imitare il mio atto dall’altra parte e la Vergine mosse il braccio sinistro.
            Io rimasi sorpreso non sapendo come spiegare un fatto così straordinario.
            Venne intanto l’ora delle sacre funzioni e voi, o giovanetti, andaste tutti in Chiesa, lo pure entrai, e vidi l’elefante ritto in fondo vicino alla porta. Si cantarono i vespri, e dopo la predica andai all’altare assistito dal Sac. D. Alasonatti e da D. Savio per impartire la benedizione col SS. Sacramento. Ma nel momento solenne nel quale tutti erano profondamente inchinati ad adorare il Santo dei santi, vidi sempre al fondo della Chiesa, in mezzo al passaggio, fra le due file dei banchi, l’elefante inginocchiato e inchinato in senso inverso, col muso cioè e le orribili zane rivolte alla porta principale.
            Terminate le funzioni io voleva subito uscire nel cortile per osservare ciò che avvenisse, ma trattenuto da alcuno in sacrestia che bramava darmi qualche avviso, dovetti indugiare.
            Esco dopo breve tempo, sotto i portici e voi nel cortile per incominciare i divertimenti come prima. L’elefante uscito di chiesa si avanzò nel secondo cortile intorno al quale sono in costruzione gli edifizi. Notate bene questa circostanza, poiché in quel cortile, accadde la scena straziante che ora vi descriverò.
            In quel mentre là al fondo compariva uno stendardo, su cui stava scritto a caratteri cubitali: Sancta Maria succurre miseris (Santa Maria, soccorri i miseri) e lo seguivano i giovani processionalmente. Quando a un tratto, all’impensata di tutti, vidi quel brutto animale, che prima pareva tanto gentile, avventarsi con furiosi barriti in mezzo agli alunni circostanti e prendendo i più vicini colla proboscide scagliarli in alto, sfracellarli sbattendoli in terra, e coi piedi farne uno strazio orrendo. Tuttavia quelli che erano siffattamente maltrattati non rimanevano morti, ma in uno stato da poter guarire, quantunque le ferite fossero orribili. Era un fuggi fuggi generale; chi gridava, chi piangeva, e chi ferito invocava l’aiuto dei compagni: mentre, cosa straziante, alcuni giovani risparmiati dall’elefante, invece di aiutare e soccorrere i feriti, avevano fatta alleanza col mostro per procacciargli altre vittime.
            Mentre avvenivano queste cose (ed io mi trovava nel secondo arco del porticato presso la pompa) quella statuetta che vedete là (indicava la statua della SS. Vergine) si animò e s’ingrandì, divenne persona di alta statura, alzò le braccia ed aperse il manto, nel quale erano intessute con arte stupenda molte iscrizioni. Questo poi si allargò smisuratamente tanto, da coprire tutti coloro che vi si ricoveravano sotto: quivi erano sicuri della vita, pel primo un numero scelto dei più buoni corse a quel rifugio. Ma vedendo Maria SS. che molti non si prendevano cura di affrettarsi a Lei, gridava ad alta voce: Venite ad me omnes (Venite a me, tutti), ed ecco che cresceva la folla dei giovanetti sotto il manto che sempre si allargava. Alcuni però invece di ricoverarsi sotto il manto, correvano da una parte all’altra e venivano feriti prima che fosse loro dato di ripararsi al sicuro. La Vergine SS. affannata, rossa in viso, continuava a gridare, ma più rari si vedevano quelli i quali correvano a Lei. L’elefante seguitava la strage e parecchi giovani, che maneggiando una spada, chi due, sparsi qua e là, impedivano ai compagni, che ancora si trovavano nel cortile, col minacciarli e col ferirli, di andare a Maria. E costoro l’elefante non li toccava menomamente.
            Alcuni dei giovani ricoverati vicino a Maria e da lei incoraggiati, facevano intanto rapide scorrerie. Strappavano all’elefante qualche preda e trasportavano il ferito sotto il manto della statua misteriosa e quegli subito restava guarito. E quindi ripartivano correndo a nuove conquiste. Varii armati di bastone allontanavano l’elefante dalle sue vittime, e si opponevano ai suoi complici. E non cessarono, anche a rischio della loro vita da quel lavoro, finché quasi tutti li ebbero seco loro condotti in salvo.
            Il cortile ormai era deserto. Alcuni erano distesi a terra pressoché morti. Da una parte presso i portici una moltitudine di fanciulli sotto il manto della Vergine. Dall’altra in distanza l’elefante col quale erano rimasti solamente un dieci o dodici giovani, che lo avevano coadiuvato a far tanto male e che insolentemente imperterriti brandivano le spade.
            Quand’ecco quell’elefante sollevatosi sulle gambe posteriori, cambiarsi in un fantasma orribile con lunghe corna; e preso un nero copertone o rete che fosse, avviluppò quei miseri, che avevano parteggiato con lui, e mandò un ruggito, Allora un denso fumo tutti li involse e si sprofondarono e sparirono col mostro in una voragine improvvisamente apertasi sotto i loro piedi.
            Terminata questa orrenda scena mi guardai attorno per esporre qualche mia riflessione a mia madre ed al Cav. Vallauri, ma più non li vidi.
            Mi rivolsi a Maria, desideroso di leggere le iscrizioni, che apparivano intessute sovra il suo manto e vidi che parecchie erano tratte letteralmente dalla Sacra Scrittura e altre pure scritturali, ma alquanto modificate. Ne lessi alcune: Qui elucidant me vitám aeternam habebunt (Chi mi fa conoscere avrà la vita eterna, Sir. 24,31), Qui me invenerit inveniet vitam (Chi trova me, trova la vita, Pr. 8,35), Si quis est parvulus veniat ad me (Chi è piccolo venga a me, Pr. 9,4), Refugium peccatorum (Rifugio dei peccatori), Salus credentium (Salvezza dei credenti), Plena omnis pietatis, mansuetudinis et misericordiae (Piena di ogni pietà, mitezza e misericordia), Beati qui custodiunt vias meas (Beati quelli che seguono le mie vie, Pr. 8,32)
            Dopo la scomparsa dell’elefante tutto era tranquillo. La Vergine pareva quasi stanca dal suo lungo gridare. Dopo breve silenzio, rivolse ai giovani belle parole di conforto, di speranza; e, ripetendo quelle parole che là vedete sotto quella nicchia, fatte scrivere da me: Qui elucidant me, vitam aeternam habebunt, disse:
            – Voi che avete ascoltata la mia voce, e siete sfuggiti dalla strage del demonio, avete veduto ed avete potuto osservare quei vostri compagni sfracellati. Volete sapere quale è la cagione della loro perdita? Sunt colloquia prava (sono le conversazioni sbagliate); sono i cattivi discorsi contro la purità, quelle opere disoneste che tennero immediatamente dietro ai cattivi discorsi. Avete pur veduto quei vostri compagni armati colla spada: ecco quelli che cercano la vostra dannazione, allontanandovi da me e che cagionarono la perdita di tanti vostri condiscepoli. Ma quos diutius expectat durius damnat (coloro che Dio aspetta con più pazienza, più rigorosamente poi punisce, se restano ingrati). Quelli che Dio più a lungo aspetta più severamente punisce: e quel demonio infernale avviluppatili, seco li condusse all’eterna perdizione. Ora voi andatevene tranquilli ma ricordatevi delle mie parole: Fuggite quei compagni amici di Satana, fuggite i cattivi discorsi specialmente contro la purità abbiate in me una illimitata confidenza ed il mio manto vi sarà sempre sicuro rifugio.
            Dette queste ed altre simili parole, si dileguò e null’altro rimase al solito posto, se non la nostra cara statuetta. Allora mi vidi ricomparire la defunta mia madre, di bel nuovo si innalzò lo stendardo colla scritta: Sancta Maria succurre miseris; tutti i giovani si ordinarono dietro a questo in processione ed intonarono il canto “Lodate Maria, o lingue fedeli”.
            Ma non andò molto che il canto incominciò ad illanguidirsi, poi svanì tutto quello spettacolo ed io mi svegliai bagnato interamente di sudore. Ecco! Questo è quanto ho sognato.
            O figli miei; ricavate voi stessi la strenna: chi era sotto il manto chi era gettato in alto dall’elefante, e chi aveva la spada se ne accorgerà dall’esaminare la propria coscienza. Io non vi ripeto che le parole della Vergine SS.: Venite ad me omnes; ricorrete tutti a Lei, in ogni pericolo invocate Maria e vi assicuro che sarete esauditi. Del resto pensino coloro che furono sì maltrattati dalla belva a fuggire i cattivi discorsi, i cattivi compagni; e quelli che cercavano di allontanare gli altri da Maria, o mutino vita o partano subito da questa Casa. Chi poi vorrà sapere il posto che teneva, venga da me anche nella mia camera, ed io glielo manifesterò. Ma lo ripeto; i ministri di Satana o cambiare o partire. Buona notte!
            Queste parole furono pronunziate con tanta unzione e commozione di cuore, che i giovani meditando tal sogno per una settimana più non lo lasciarono in pace. Al mattino molte confessioni, dopo pranzo quasi tutti da lui per sapere qual luogo tenessero in quel sogno misterioso.
            E che non fosse sogno, ma visione, lo aveva pure indirettamente affermato D. Bosco stesso, dicendo:
            “- Quando il Signore è per manifestarmi qualche cosa, passo ecc…Soglio innalzare a Dio preghiere, perché voglia ispirarmi…” e poi col proibire che fece qualunque scherzo intorno a questa narrazione.
            Ma vi è ancora di più.
            Questa volta egli stesso scriveva in un foglietto il nome degli alunni, che nel sogno aveva visti feriti, di quelli che maneggiavano una spada, e di altri che ne maneggiavano due: e lo consegnò a D. Celestino Durando, dandogli incarico di sorvegliarli. D. Durando ci trasmise questa lista e l’abbiamo sottocchio. I feriti sono 13 quelli probabilmente che non furono ricoverati sotto il manto della Madonna, quelli che avevano una spada erano diciassette; quelli che ne avevano due si riducevano a tre. Qualche nota a fianco di un nome indica mutazione di condotta. Si osservi ancora che il sogno, come vedremo, non rappresentava solamente il tempo presente, ma riguardava anche il futuro.
            Ma soprattutto che questo sogno abbia dato nel segno lo comprovarono gli stessi giovani. Uno di questi riferiva: “Non credevo che D. Bosco così mi conoscesse; mi ha manifestato lo stato dell’anima mia, le tentazioni cui sono soggetto con tale precisione, che nulla potrei aggiungere. Due altri giovani cui D. Bosco aveva detto che portavano la spada – Ah! sì, è vero, dicevano, è molto tempo che me ne sono accorto; lo sapeva anch’io. E mutarono condotta.
            “Un giorno dopo pranzo egli parlava del suo sogno, e dopo di aver riferito come alcuni già erano partiti ed altri dovevano partire per allontanare la loro spada dalla Casa, venne a discorrere della sua furberia, come egli diceva, ed a tal proposito riferiva questo fatto. – Un giovane scriveva, è poco tempo, a casa sua appioppando alle persone dell’Oratorio più degne di stima, come a superiori e a preti, gravi calunnie ed insulti. Temendo che D. Bosco potesse vedere quel foglio, cercò, studiò finché gli fu possibile impostarlo senza, che alcuno lo sapesse. La lettera partì. Dopo pranzo lo mandai a chiamare: si presenta nella mia camera ed io, dopo di avergli mostrato il suo fallo, lo interrogava che cosa lo avesse indotto a scrivere tante menzogne. Egli negò sfacciatamente il fatto, io lo lasciai parlare, poscia, cominciando dalla prima parola, gli recitai tutta la lettera. Confuso allora e spaventato, piangendo si gettò ai miei piedi, dicendo: – Non è dunque andata la mia lettera? – Sì, gli risposi, a quest’ora sarà a casa tua, ma pensa tu di ripararvi. – Gli alunni lo interrogarono in qual modo avesse ciò saputo. – Oh! la mia furbizia, rispose ridendo …”.
            Questa furbizia doveva essere quella stessa del sogno, il quale riguardava non solo il presente stato, ma la vita futura di ciascun giovane, uno dei quali, in stretta relazione con Don Rua, cosi gli scriveva molti anni dopo. Si noti che il foglio porta il nome e cognome dello scrivente, col titolo della strada e il numero della sua abitazione in Torino.

Carissimo D. Rua,

            Fra le altre cose mi ricordo di una visione, che D. Bosco ebbe nel 1863, mentre io era ritirato nella sua casa; nella quale vide la vita fu tura di tutti i suoi, e raccontataci da lui stesso dopo le orazioni della sera. Fu il sogno dell’elefante. (Qui descritto quanto sopra abbiamo esposto, continua): Don Bosco terminata la sua narrazione ci disse:
            – Se voi desiderate sapere dove vi siete trovati venite da me nella mia camera, ed io ve lo dirò.
            Dunque anch’io andai.
            – Tu, mi disse, eri uno di coloro che correvi appresso all’elefante prima e dopo le funzioni, quindi naturalmente fosti sua preda; fosti lanciato in alto colla proboscide e cadendo rimanesti malconcio in modo, che non potevi più fuggire, ancorché facessi ogni sforzo. Quando un tuo compagno sacerdote, a te incognito, viene ti prende per un braccio e ti trasporta sotto il manto della Madonna. Fosti salvo.
            Questo non sogno, come diceva D. Bosco, ma vera rivelazione del futuro che il Signore faceva al suo Servo, avvenne nel secondo anno che io era nell’Oratorio, in un tempo che io era di esempio ai miei compagni sì nello studio che nella pietà; eppure Don Bosco mi vide in quello stato.
            Vennero le vacanze scolastiche del 1863. Andai in vacanza per motivi di salute e non ritornai più all’Oratorio. Aveva 13 anni compiuti. L’anno seguente il mio padre mi mise ad imparare il mestiere da calzolaio. Due anni dopo (1866) mi recai in Francia per ultimare d’imparare il mio mestiere. Quivi m’incontrai con gente settaria e poco per volta lasciai la Chiesa e le pratiche religiose, principiai a leggere libri scettici ed arrivai al punto di abborrire la S. Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, come la più pestifera delle religioni.
            Dopo due anni ritornai in patria e qui pure continuai sempre a leggere libri empii e sempre più lui allontanavo dalla vera Chiesa.
            In tutto questo tempo però non ho mai tralasciato di pregare il Signore Iddio Padre a nome di G. C., affinché mi illuminasse e mi facesse conoscere la vera religione.
            Durarono questi tempi ben 13 anni, durante i quali io faceva ogni sforzo per rialzarmi, ma era ferito, era preda dell’elefante, non mi poteva muovere.
            Sul finire dell’anno 1878 si diede una missione spirituale in una parrocchia. Molti intervenivano a queste istruzioni ed anch’io cominciai ad andarci tanto per sentire quei “famosi oratori”.
            Trovai tutte cose belle, verità incontestabili, e finalmente l’ultima predica che trattava appunto del SS. Sacramento, ultimo punto e principale che mi restava in dubbio (poiché io non credeva più alla presenza di G. C. nel SS. Sacramento, né reale, né spirituale) seppe l’oratore sì bene spiegare la verità, confutare gli errori e convincermi, che io tocco dalla grazia del Signore mi decisi a fare la mia confessione e ritornare sotto il manto della B. Vergine. D’allora in poi non tralascio più di ringraziare Dio e la B. Vergine della grazia ricevuta.
            Noti bene che a compimento della visione, seppi poi che quell’oratore missionario era mio compagno nell’Oratorio di D. Bosco.
            Torino, 25 febbraio 1891.

DOMENICO N…

P.S. – Se la S. V. Rev. crede bene di pubblicare questa mia, Le do ampia facoltà anche di ritoccarla, purché non si scambi il senso essendo questa la pura verità. Rispettosamente Le bacio la mano, caro Don Rua, intendendo con questo bacio di baciare quella del nostro amato D. Bosco.

            Ma da questo sogno D. Bosco aveva certamente ricevuto eziandio lume per poter giudicare le vocazioni allo stato religioso o ecclesiastico, le attitudini degli uni e degli altri nel fare in vario modo il bene. Aveva visti quei coraggiosi che affrontavano l’elefante e i suoi partigiani per salvare i compagni e strappar loro i feriti per portarli sotto il manto della Madonna. Egli perciò continuava ad accogliere le domande di quelli fra costoro, che desideravano far parte della Pia Società, oppure ad ammetterli, essendo già ascritti, a pronunciare i voti triennali. E per loro sarà in eterno titolo onorifico la scelta che ne fece D. Bosco. Una parte di questi non pronunciò i voti o compiuta la triennale promessa, uscì dall’Oratorio; ma è un fatto che questi perseverarono quasi tutti nella, loro missione di salvare ed istruire la gioventù o come preti in diocesi o come professori secolari nelle regie scuole.
            I loro nomi stanno nei tre seguenti verbali del Capitolo Salesiano.
(MBVII, 356-363)




Un sorriso all’aurora

Una toccante testimonianza di Raoul Follereau. Si trovava in un lebbrosario in un’isola del Pacifico. Un incubo di orrore. Solo cadaveri ambulanti, disperazione, rabbia, piaghe e mutilazioni orrende.
Eppure, in mezzo a tanta devastazione, un anziano malato conservava occhi sorprendentemente luminosi e sorridenti. Soffriva nel corpo, come i suoi infelici compagni, ma dimostrava attaccamento alla vita, non disperazione, e dolcezza nel trattare gli altri.
Incuriosito da quel vero miracolo di vita, nell’inferno del lebbrosario, Follereau volle cercarne la spiegazione: che cosa mai poteva dare tanta forza di vivere a quel vecchio così colpito dal male?
Lo pedinò, discretamente. Scoprì che, immancabilmente, allo spuntar dell’alba, il vecchietto si trascinava al recinto che circondava il lebbrosario, e raggiungeva un posto ben preciso.
Si metteva a sedere e aspettava.
Non era il sorgere del sole che aspettava. Né lo spettacolo dell’aurora del Pacifico.
Aspettava fino a quando, dall’altra parte del recinto, spuntava una donna, anziana anche lei, con il volto coperto di rughe finissime, gli occhi pieni di dolcezza.
La donna non parlava. Lanciava solo un messaggio silenzioso e discreto: un sorriso. Ma l’uomo si illuminava a quel sorriso e rispondeva con un altro sorriso.
Il muto colloquio durava pochi istanti, poi il vecchio si rialzava e trotterellava verso le baracche. Tutte le mattine. Una specie di comunione quotidiana. Il lebbroso, alimentato e fortificato da quel sorriso, poteva sopportare una nuova giornata e resistere fino al nuovo appuntamento con il sorriso di quel volto femminile.
Quando Follereau glielo chiese, il lebbroso gli disse: «è mia moglie!».
E dopo un attimo di silenzio: «Prima che venissi qui, mi ha curato in segreto, con tutto ciò che riusciva a trovare. Uno stregone le aveva dato una pomata. Lei tutti i giorni me ne spalmava la faccia, salvo una piccola parte, sufficiente per apporvi le sue labbra per un bacio… Ma tutto è stato inutile. Allora mi hanno preso, mi hanno portato qui. Ma lei mi ha seguito. E quando ogni giorno la rivedo, solo da lei so che sono ancora vivo, solo per lei mi piace ancora vivere».

Certamente qualcuno ti ha sorriso stamattina, anche se tu non te ne sei accorto. Certamente qualcuno aspetta il tuo sorriso oggi. Se entri in una chiesa e spalanchi la tua anima al silenzio, ti accorgerai che Dio, per primo, ti accoglie con un sorriso.




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (9/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo XVII. Continuazione e termine dell’edifizio.

            Sembra che la santa Vergine abbia di fatto esaudita la preghiera fatta pubblicamente nella benedizione della pietra angolare. I lavori proseguirono colla massima celerità, e nel corso del 1865 l’edifizio fu condotto fino al tetto, coperto, compiuta la volta, ad eccezione del tratto compreso nella periferia della cupola. L’anno 1866 si compié la cupola, il cupolino, mentre ogni cosa venne coperta di rame stagnato.
            L’anno 1867 fu terminata la statua rappresentante Maria madre di misericordia in atto di benedire i suoi devoti. A piè della statua si trova questa iscrizione: Angela e Benedetto coniugi Chirio in ossequio a Maria Ausiliatrice FF. Queste parole ricordano i nomi dei benemeriti oblatori di questa statua che è di rame battuto. L’altezza è di circa quattro metri, sormontata da dodici stelle dorate che fanno corona sopra il capo della gloriosa Regina del cielo. Quando la statua venne collocata al suo posto era semplicemente bronzata: la qual cosa rilevava assai bene i lavori dell’arte, ma a qualche distanza diveniva appena visibile, laonde si giudicò bene di indorarla. Una pia persona già per molti titoli benemerita s’incaricò di quella spesa.
            Ora risplende luminosa, e a chi la guarda di lontano al momento che è battuta dai raggi del sole, sembra che parli e voglia dire:
            Io sono bella come la luna, eletta come il sole: Pulcra ut luna, electa ut sol. Io sono qui per accogliere le suppliche dei miei figli, per arricchire di grazie e di benedizioni quelli che mi amano. Ego in altissimis habito ut ditem diligentes me, et thesauros eorum repleam.
            Finiti i lavori di fregio e di ornamento della statua fu essa benedetta con una delle più devote solennità.
            Monsignor Riccardi nostro veneratissimo Arcivescovo assistito da tre canonici della Metropolitana e da molti Sacerdoti si compiacque di venire Egli stesso a fare quella sacra funzione. Dopo breve discorso diretto a dimostrare l’uso antico delle immagini presso al popolo Ebreo e nella Chiesa primitiva, si compartiva la benedizione col Venerabile.
            Coll’anno 1867 i lavori vennero quasi ultimati. Il rimanente dell’interno della chiesa fu fatto nei cinque primi mesi dell’anno corrente 1868.
            Sono pertanto cinque gli altari tutti di marmo lavorato con disegni e con fregi diversi. Per preziosità di marmi primeggia quello della cappella laterale a destra, che contiene verde antico, rosso di Spagna, alabastro orientale e della malachite. Le balaustre sono eziandio di marmo; i pavimenti ed i presbiteri sono l’atti in mosaico. Le pareti interne della chiesa furono semplicemente colorite senza pittura pel timore che la recente costruzione delle mura potesse contraffare la specie dei colori.
            Dalla prima base alla maggiore altezza sono metri 70; i basamenti, i legami, gli stillicidi, i cornicioni sono di granito. Nell’interno della chiesa e della cupola vi sono ringhiere in ferro per assicurare quelli che dovessero ivi eseguire qualche lavoro. Nell’esterno della cupola ve ne sono tre con una scala, se non molto comoda, certamente sicura per chi desiderasse salire fino al piedestallo della statua. Vi sono due campanili sormontati da due statue dell’altezza di due metri e mezzo caduno. Una di queste statue rappresenta l’Angelo Gabriele in atto di offrire una corona alla Santa Vergine; l’altro s. Michele che tiene una bandiera in mano, su cui è scritto in caratteri grossi: Lepanto. E ciò per ricordare la grande vittoria riportata dai Cristiani contro i Turchi presso Lepanto ad intercessione di Maria SS. Sopra uno dei campanili si trova un concerto in Mi bemolle di cinque campane che alcuni benemeriti devoti hanno promosso colle loro offerte. Sopra le campane sono incise parecchie immagini con analoghe iscrizioni. Una di queste campane è dedicata al supremo Gerarca della Chiesa Pio IX, un’altra a Mons. Riccardi nostro Arcivescovo.

Capo XVIII. Ancona maggiore. Dipinto di s. Giuseppe – Pulpito.

            Nella crociera a sinistra si trova l’altare dedicato a s. Giuseppe. Il quadro del santo è lavoro dell’artista Tomaso Lorenzone. La composizione è simbolica. Il Salvatore è presentato in età fanciullesca nell’atto che porge un canestro di fiori alla santa Vergine quasi dicendo: flores mei, flores honoris et honestatis. L’Augusta sua Madre dice di offrirlo a s. Giuseppe suo sposo, affinché per mano di esso siano regalati ai fedeli che a mani levate li stanno attendendo. I fiori figurano le grazie che Gesù offre a Maria, mentre essa ne costituisce s. Giuseppe assoluto dispensiere, come appunto lo saluta Santa Chiesa: constituit eum dominum domus suae.
            L’altezza del dipinto è di metri 4 per 2 di larghezza.
            Il pulpito è assai maestoso; il disegno è parimenti del cav. Antonio Spezia; la scultura con tutti gli altri lavori sono opera dei giovanetti dell’Oratorio di san Francesco di Sales. La materia è di noce lavorata e le tavole sono ben connesse. La posizione del medesimo è tale, che da qualunque angolo della chiesa si può vedere il predicatore.
            Ma il più glorioso monumento di questa chiesa è l’ancona ossia il gran dipinto che sovrasta all’altare maggiore in coro. Esso è parimenti lavoro del Lorenzone. La sua altezza è di oltre a sette metri per quattro. Si presenta allo sguardo come una comparsa di Maria Ausiliatrice nel modo seguente:
            La Vergine campeggia in un mare di luce e di maestà, assisa sopra di un trono di nubi. La copre un manto che è sostenuto da una schiera di Angeli, i quali facendole corona le porgono ossequio come loro Regina. Colla destra tiene lo scettro che è simbolo della sua potenza, quasi alludendo alle parole da Lei proferite nel santo Vangelo: Fecit mihi magna qui potens est. Colui, Dio, che è potente, fece a me cose grandi. Colla sinistra tiene il Bambino che ha le braccia aperte offrendo così le sue grazie e la sua misericordia a chi fa ricorso all’Augusta sua Genitrice. In capo ha il diadema ossia corona con cui è proclamata Regina del cielo e della terra. Da una parte superiore discende un raggio di luce celeste che dall’occhio di Dio va a posarsi sul capo di Maria. In esso sono scritte le parole: virtus altissimi obumbrabit tibi: la virtù dell’Altissimo Iddio ti adombrerà cioè ti coprirà e ti fortificherà.
            Dall’opposta parte superiore calano altri raggi dalla colomba, Spirito Santo, che vanno eziandio a posarsi sul capo di Maria con in mezzo le parole: Ave, gratia plena: Dio ti salvi, o Maria, tu sei piena di grazia. Questo fu il saluto fatto a Maria dall’Arcangelo Gabriele quando a nome di Dio le annunziò che doveva diventar Madre del Salvatore.
            Più in basso sono i santi Apostoli e gli Evangelisti s. Luca, s. Marco in figura alquanto maggiore del naturale. Essi trasportati da dolce estasi quasi esclamando: Regina Apostolorum, ora pro nobis, rimirano attoniti la Santa Vergine che loro appare maestosa sopra le nubi. Finalmente in fondo del dipinto si trova la città di Torino con altri devoti che ringraziano la S. Vergine dei benefizi ricevuti e la supplicano a continuare a mostrarsi madre di misericordia nei gravi pericoli della presente vita.
            In generale il lavoro è ben espresso, proporzionato, naturale; ma il pregio che non mai perderà è l’idea religiosa che genera una devota impressione nel cuore di chiunque la rimiri.

(continua)




San Francesco di Sales forma i suoi collaboratori

            Francesco di Sales non desiderava diventare vescovo. «Io non sono nato per comandare», avrebbe detto a un confratello, il quale per incoraggiarlo gli diceva: «Ma tutti vi vogliono!». Accettò quando riconobbe il volere di Dio in quello del duca, del vescovo mons. de Granier, del clero e del popolo. Fu consacrato vescovo di Ginevra l’8 dicembre 1602 nella piccola chiesa della sua parrocchia di Thorens. In una lettera a Giovanna di Chantal scriverà che, in quel giorno, «Dio mi aveva tolto a me stesso per prendermi per sé, e quindi, darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro».
            Per compiere la missione pastorale affidatagli e volta al servizio di «questa misera et afflitta diocesi di Ginevra», aveva bisogno di collaboratori. Certo, secondo le circostanze amava chiamare tutti i fedeli «miei fratelli e miei collaboratori», ma tale appellativo era diretto a maggior ragione ai membri del clero, suoi «confratelli». La riforma del popolo auspicata dal concilio di Trento poteva iniziare anzi tutto da loro e per mezzo di loro.

La pedagogia dell’esempio
            Prima di tutto, il vescovo doveva dare l’esempio: il pastore doveva divenire il modello del gregge a lui affidato, e in primo luogo del clero. A tale scopo, Francesco di Sales si impose un Regolamento episcopale. Redatto in terza persona, prevedeva non soltanto i doveri strettamente religiosi dell’incarico pastorale, ma anche la pratica di un certo numero di virtù sociali, quali la semplicità della vita, la cura abituale dei poveri, la buona educazione e la decenza. Fin dall’inizio si legge un articolo contro la vanità ecclesiastica:

In primo luogo, quanto al comportamento esterno Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, non indosserà abiti di seta e neppure vesti che siano più preziose di quelle finora portate; tuttavia esse saranno pulite, ben confezionate in modo da essere indossate con proprietà attorno al corpo.

            Nella sua casa episcopale si contenterà di due ecclesiastici e di qualche servo, sovente giovanissimo. Saranno anch’essi formati alla semplicità, alla cortesia e al senso dell’accoglienza. La tavola sarà frugale, ma curata e pulita. La sua casa dovrà essere aperta a tutti, perché «la casa d’un vescovo deve essere come una fontana pubblica, dove i poveri e i ricchi hanno lo stesso diritto di avvicinarsi per attingere l’acqua».
            Inoltre, il vescovo dovrà continuare a formarsi e a studiare: «Farà in modo di imparare ogni giorno qualcosa comunque utile e che sia conveniente per la sua professione». Di norma consacrerà due ore per studiare, tra le sette e le nove del mattino, e dopo la cena potrà leggere per la durata di un’ora. Riconosceva che lo studio gli piaceva, esso però gli era indispensabile: si considerava come un «perpetuo studente di teologia».

Conoscere le persone e le situazioni
            Un vescovo di questa levatura non poteva contentarsi di essere unicamente un buon amministratore. Per condurre il gregge, il pastore deve conoscerlo, e per conoscere l’esatta situazione della diocesi e del clero in particolare, Francesco di Sales intraprese una serie impressionante di visite pastorali. Nel 1605 visitò 76 parrocchie situate nella zona francese della diocesi e rientrò «dopo aver battuto le campagne per sei settimane senza interruzione». L’anno seguente, un grande giro pastorale durato alcuni mesi lo portò in 185 parrocchie, circondate da «monti spaventosi, coperti d’una lastra di ghiaccio spessa da dieci a dodici pertiche». Nel 1607 si rese presente in 70 parrocchie e, nel 1608, pose fine alle visite ufficiali della sua diocesi spostandosi in 20 parrocchie nei dintorni d’Annecy, ma continuerà a fare ancora non poche visite nel 1610 ad Annecy e nelle parrocchie circostanti. Nel corso di sei anni avrà visitato 311 parrocchie con le loro filiali.
            Grazie a queste visite e ai contatti personali, acquistò una conoscenza precisa della situazione reale e dei bisogni concreti della popolazione. Costatò l’ignoranza e la mancanza di spirito sacerdotale di certi preti, senza dimenticare gli scandali di alcuni monasteri dove la Regola non era più osservata. Il culto interessato, ridotto a funzione e inficiato dalla ricerca del guadagno, richiamava fin troppo i cattivi esempi tratti dalla Bibbia: «Assomigliamo a Nabal e Assalonne, che gioivano solo alla tosatura del gregge».
            Allargando il suo sguardo sulla Chiesa, giungeva a denunciare la vanità di certi prelati, veri «cortigiani di Chiesa», che paragonava ai coccodrilli e ai camaleonti: «Il coccodrillo è un animale a volte terrestre e a volte acquatico, partorisce sulla terra e va a caccia in acqua; così si comportano i cortigiani di Chiesa. Gli alberi dopo il solstizio rigirano le foglie: l’olmo, il tiglio, il pioppo, l’ulivo, il salice; avviene lo stesso tra gli ecclesiastici».
            Alle lagnanze riguardanti il comportamento del clero aggiungeva i rimproveri per la loro debolezza di fronte alle ingiustizie commesse dal potere temporale. Ricordando alcuni vescovi coraggiosi del passato, esclamava: «Oh! come vorrei vedere degli Ambrogio che comandano a Teodosio, dei Crisostomo che sgridano Eudossia, degli Ilario che correggono Costanzo!». Se si presta fede a una confidenza della madre Angelica Arnauld, mons. di Sales gemeva anche sui «disordini della Curia di Roma», veri «argomenti lacrimevoli», ben convinto però che «parlarne al mondo nella situazione in cui esso si trova, è causa di inutile scandalo».

Selezione e formazione dei candidati
            Il rinnovamento della Chiesa comportava uno sforzo teso al discernimento e alla formazione dei futuri preti, assai numerosi all’epoca. In occasione della prima visita pastorale nel 1605, il vescovo ricevette 175 giovani candidati; l’anno successivo ne ebbe 176; in meno di due anni aveva incontrato 570 candidati al ministero presbiterale o novizi nei monasteri.
            Il male nasceva in primo luogo dall’assenza di vocazione in un buon numero di loro. Sovente era preminente l’attrattiva del beneficio temporale o il desiderio delle famiglie di collocare i loro secondogeniti. In ogni caso si imponeva un discernimento diretto a valutare se la vocazione veniva «dal cielo o dalla terra».
            Il vescovo di Ginevra prendeva molto sul serio i decreti del concilio di Trento, il quale aveva previsto la creazione di seminari. La formazione doveva iniziare in tenera età. Fin dal 1603, si tentò di dar vita a un embrione di seminario minore a Thonon. Gli adolescenti erano poco numerosi, probabilmente per mancanza di mezzi e di spazio. Nel 1618 Francesco di Sales si propose di ricorrere direttamente all’autorità della Santa Sede per ottenere un appoggio giuridico e finanziario al proprio progetto. Voleva erigere un seminario, scriveva, nel quale i candidati potessero «imparare a osservare le cerimonie, a catechizzare ed esortare, a cantare ed esercitare le altre virtù clericali». Tutti i suoi sforzi, però, furono vani per la mancanza di risorse materiali.
            Come assicurare la formazione dei futuri preti in tali condizioni? Alcuni frequentavano i collegi o le università all’estero, mentre in maggioranza si formavano nelle canoniche, sotto la guida di un prete saggio e istruito o nei monasteri. Francesco di Sales voleva che in ogni centro importante della diocesi ci fosse un «teologale», ossia un membro del capitolo della cattedrale incaricato d’insegnare la sacra Scrittura e la teologia.
            L’ordinazione, ad ogni modo, era preceduta da un esame e prima di vedersi assegnata una parrocchia (con l’annesso beneficio), il candidato doveva superare un concorso. Il vescovo vi assisteva e interrogava di persona il candidato per cerziorarsi che possedesse le conoscenze e le qualità morali richieste.

Formazione permanente
            La formazione non doveva fermarsi al momento dell’ordinazione o dell’assegnazione di una parrocchia. Per assicurare la formazione continua dei suoi preti, il mezzo principale di cui disponeva il vescovo era l’annuale convocazione del sinodo diocesano. Il primo giorno di detta assemblea era solennizzato da una messa pontificale e da una processione attraverso la città di Annecy. Il secondo giorno, il vescovo lasciava la parola a uno dei suoi canonici, faceva rileggere gli statuti dei sinodi precedenti e raccoglieva le osservazioni dei parroci presenti. Dopo ciò incominciava il lavoro in commissioni per discutere di questioni riguardanti la disciplina ecclesiastica e il servizio spirituale e materiale delle parrocchie.
            Siccome le costituzioni sinodali contenevano parecchie norme disciplinari e rituali, la cura della formazione permanente, intellettuale e spirituale vi era visibile. Si riferivano ai canoni degli antichi concili, ma soprattutto ai decreti del «santissimo concilio di Trento». D’altra parte, vi si raccomandava la lettura di opere che trattavano di pastorale o di spiritualità, come quelle del Gersone (probabilmente l’Istruzione dei parroci per istruire il popolo semplice) e quelle del domenicano spagnolo Luis de Granada, autore di un’Introduzione al simbolo.
            La scienza, scriveva in una sua Esortazione agli ecclesiastici, «è l’ottavo sacramento della gerarchia della Chiesa». I mali della Chiesa erano dovuti principalmente all’ignoranza e alla pigrizia del clero. Per fortuna, sono venuti i padri gesuiti! Modelli di preti istruiti e zelanti, questi «grandi uomini», che «divorano i libri con i loro incessanti studi», hanno «ristabilito e consolidato la nostra dottrina e tutti i santi misteri della nostra fede; sicché ancor oggi, grazie al loro encomiabile lavoro, riempiono il mondo di uomini dotti che distruggono ovunque l’eresia». Nella conclusione, il vescovo riassumeva tutto il suo pensiero: «Siccome la divina Provvidenza, senza aver riguardo della mia incapacità, mi ha stabilito vostro vescovo, vi esorto a studiare senza stancarvi, affinché essendo dotti ed esemplari, siate irreprensibili, e pronti a rispondere a tutti coloro che vi interrogano su argomenti di fede».

Formare i predicatori
            Francesco di Sales predicava tanto sovente e così bene da essere considerato come uno dei migliori predicatori del suo tempo e modello dei predicatori. Predicò non soltanto nella sua diocesi, ma accettò di predicare anche a Parigi, a Chambéry, a Digione, a Grenoble e a Lione. Predicò inoltre nella Franca Contea, a Sion nel Vallese e in parecchie città del Piemonte, in particolare a Carmagnola, Mondovì, Pinerolo, Chieri e Torino.
            Per conoscere il suo pensiero sulla predicazione occorre far riferimento alla lettera che indirizzò, nel 1604, ad Andrea Frémyot, fratello della baronessa di Chantal, giovane arcivescovo di Bourges (aveva solo trentun anni), che gli aveva chiesto consiglio sul modo di predicare. Per predicare bene, diceva, occorrono due cose: la scienza e la virtù. Per ottenere un buon risultato, il predicatore deve cercare di istruire i suoi uditori e di toccare il loro cuore.
            Per istruirli bisogna andare sempre alla fonte: la Sacra Scrittura. Le opere dei Padri non dovranno essere trascurate; in effetti, «che cos’è la dottrina dei Padri della Chiesa, se non una spiegazione del Vangelo e un’esposizione della sacra Scrittura?». È bene servirsi ugualmente della vita dei santi che ci fanno sentire la musica del Vangelo. Quanto al grande libro della natura, creazione di Dio, opera della sua parola, esso costituisce una sorgente straordinaria di ispirazione se lo si sa osservare e meditare. «È un libro – scrive – che contiene la parola di Dio». Da uomo del suo tempo, cresciuto alla scuola degli umanisti classici, Francesco di Sales non escludeva dalle sue prediche gli autori pagani dell’antichità e persino un pizzico della loro mitologia, ma occorreva servirsene «come si usano i funghi, cioè, solo per stuzzicare l’appetito».
            Inoltre, ciò che aiuta parecchio la comprensione della predicazione e che la rende gradevole, è l’uso delle immagini, dei paragoni e degli esempi, tratti dalla Bibbia, dagli antichi autori o dall’osservazione personale. Le similitudini, infatti, possiedono «un’efficacia incredibile quando si tratta d’illuminare l’intelligenza e muovere la volontà».
            Ma il vero segreto dell’efficacia della predicazione è la carità e lo zelo del predicatore, che sa trovare nel più profondo del suo cuore le parole adatte. Bisogna parlare «con calore e con devozione, con semplicità, con candore e con fiducia, essere profondamente convinti di quello che si insegna e si inculca agli altri». Le parole devono uscire dal cuore più che dalla bocca, perché «il cuore parla al cuore, mentre la bocca non parla che alle orecchie».

Formare i confessori
            Un altro compito assunto da Francesco di Sales fin dagli albori del suo episcopato fu redigere una serie di Avvertimenti ai confessori. Contengono non solo una dottrina sulla grazia di questo sacramento, ma anche norme pedagogiche dirette a coloro che hanno una responsabilità di guida delle persone.
            Innanzi tutto, chi è chiamato a lavorare alla formazione delle coscienze e al progresso spirituale degli altri deve incominciare da sé stesso, per non meritare il rimprovero: «Medico, cura te stesso»; e l’ammonimento dell’apostolo: «Tu che giudichi gli altri, condanni te stesso». Il confessore è un giudice: compete a lui decidere se assolvere o meno il peccatore, tenuto conto delle disposizioni interiori del penitente e delle norme in vigore. È insieme medico, perché «i peccati sono malattie e ferite spirituali», per cui spetta a lui prescrivere i rimedi appropriati. Francesco di Sales, però, evidenzia che il confessore è soprattutto un padre:

Ricordatevi che i poveri penitenti dando inizio alla loro confessione vi chiamano padre, e che in effetti voi dovete avere un cuore paterno nei loro confronti. Accoglieteli con immenso amore, sopportandone pazientemente la rozzezza, l’ignoranza, la debolezza, la lentezza nel comprendere e altre imperfezioni, non desistendo mai dall’aiutarli e soccorrerli fin tanto che in loro c’è qualche speranza che possano correggersi.

            Un buon confessore deve essere attento allo stato di vita di ciascuno e procedere in maniera diversificata, tenendo conto della professione di ognuno, “sposato o no, ecclesiastico o no, religioso o secolare, avvocato o procuratore, artigiano o contadino”. Il tipo di accoglienza, però, doveva essere uguale per tutti. Egli, a detta della madre di Chantal, riceveva tutti «con uguale amore e dolcezza»: «signori e signore, borghesi, soldati, cameriere, contadini, mendicanti, malati, galeotti puzzolenti e abietti».
            Riguardo alle disposizioni interiori, ogni penitente si presenta a modo suo, e Francesco di Sales può fare appello alla propria esperienza quando traccia una specie di tipologia di penitenti. C’è chi si accosta «tormentato dalla paura e dalla vergogna», chi si mostra «sfrontato e senza alcun timore», chi è «timido e nutre qualche sospetto di ottenere il perdono dei suoi peccati» e chi, infine, è «perplesso perché non sa dire i propri peccati oppure perché non sa fare il proprio esame di coscienza».
            Una buona maniera di incoraggiare il penitente timido e di infondergli fiducia consiste nel riconoscere voi stessi che «non siete un angelo», e che «non trovate strano che gli uomini commettano peccati». Con lo sfrontato occorre comportarsi con serietà e gravità, ricordandogli che «all’ora della morte di nient’altro renderà strettissimo conto se non delle confessioni mal fatte». Ma soprattutto, il vescovo di Ginevra insisteva su questa raccomandazione: «Siate caritatevoli e discreti verso tutti i penitenti e specialmente verso le donne». Si ritrova questa tonalità salesiana nel frammento del seguente consiglio: «Guardatevi bene dall’usare parole troppo rudi verso i penitenti; perché talvolta noi siamo così austeri nelle nostre correzioni da mostrarci biasimevoli più di quanto sono colpevoli coloro che rimproveriamo». Inoltre, cercherà di «non imporre ai penitenti penitenze confuse, bensì specifiche, e di essere più incline alla dolcezza che al rigore».

Formarsi insieme
            Conviene infine prendere in considerazione una preoccupazione del vescovo di Ginevra concernente l’aspetto comunitario della formazione, perché era persuaso dell’utilità dell’incontro, dell’animazione vicendevole e dell’esempio. Non ci si forma bene se non insieme; di qui il desiderio di riunire i preti e anche, per quanto possibile, di dividerli in gruppi. Le assemblee sinodali che, ad Annecy, vedevano riuniti una volta all’anno i parroci attorno al loro vescovo erano una cosa buona, anche insostituibile, ma non sufficiente.
            A tal fine, il vescovo di Ginevra allargò il ruolo dei «sorveglianti», una specie di animatori di settori pastorali con la «facoltà e la missione di sostenere, avvertire, esortare gli altri preti e di vegliare sulla loro condotta». Erano incaricati non soltanto di visitare i parroci e le chiese di loro competenza, ma anche di riunire i loro confratelli due volte all’anno per trattare problematiche pastorali. Il vescovo ci teneva molto a queste riunioni, «rimarcava l’importanza delle assemblee, e ingiungeva ai suoi sorveglianti di inviargli i registri dei presenti e le ragioni degli assenti». A detta di un testimone, vi faceva tenere «prediche sulle virtù richieste a un prete e sui doveri dei pastori riguardanti il bene delle anime loro affidate». Era prevista anche «una conferenza spirituale attinente le difficoltà che potevano nascere circa il significato delle Costituzioni sinodali oppure i mezzi necessari per ottenere migliori risultati in vista della salvezza delle anime».
            Il desiderio di raggruppare i preti fervorosi gli suggerì un progetto sul modello degli Oblati di sant’Ambrogio, fondati da san Carlo Borromeo per aiutarlo nel rinnovamento del clero. Non si potrebbe forse tentare qualche cosa di simile in Savoia per favorire tra le file del clero non soltanto la riforma ma anche la devozione? Di fatto, secondo l’amico mons. Camus, Francesco di Sales avrebbe coltivato il progetto di creare una congregazione di preti secolari «libera e senza voti». Vi rinunciò quando fu fondata a Parigi la congregazione dell’Oratorio, una società di «sacerdoti riformati» che lui stesso cercò di portare in Savoia.
            I suoi sforzi non furono coronati sempre dal successo; testimoniano, in ogni caso, la sua costante cura di formare i propri collaboratori nel quadro di un progetto globale di rinnovamento della vita ecclesiale.




Dov’è nato don Bosco?

            Nel primo anniversario della morte di don Bosco i suoi Antichi Alunni vollero continuare a celebrare la Festa della Riconoscenza, come avevano fatto ogni anno al 24 giugno, organizzandola per il nuovo Rettor Maggiore, don Rua.
            Il 23 giugno del 1889, dopo aver posto una lapide-ricordo nella Cripta di Valsalice dove don Bosco era sepolto, il giorno 24 festeggiarono don Rua a Valdocco.
            Il prof. Alessandro Fabre, exallievo degli anni 1858-66, presa la parola, disse fra l’altro:
            «Non le sarà discaro di sapere, ottimo sig. don Rua, che abbiamo deciso di aggiungere come appendice l’inaugurazione pel 15 agosto prossimo venturo di un’altra lapide, di cui è già data la commissione e qui riprodotto il disegno, e che porremo sulla casa ove nacque e molti anni abitò il nostro caro don Bosco, perché rimanga segnalato ai contemporanei ed ai posteri il luogo dove prima palpitò per Dio e per gli uomini il cuore di quel Grande che del suo nome, delle sue virtù, delle sue istituzioni ammirabili doveva riempire più tardi l’Europa e il mondo».
            Come si vede, l’intenzione degli Antichi Alunni era di porre una lapide sulla Casetta dei Becchi, da tutti creduta la casa natia di don Bosco, perché egli l’aveva sempre indicata come la sua casa. Ma poi, trovando la Casetta in rovina, furono indotti a ritoccare la bozza dell’iscrizione e a collocare la lapide sulla vicina casa di Giuseppe con la seguente dicitura dettata dal Prof. Fabre stesso:
            L’11 agosto, pochi giorni prima del compleanno di don Bosco, gli Antichi Alunni si recarono ai Becchi per scoprire la lapide. Tenne il discorso d’occasione il Teol. Felice Reviglio, Curato di S. Agostino, uno dei primissimi allievi di don Bosco. Parlando della Casetta egli disse: «La casa stessa qui presso ove nacque, che è quasi del tutto rovinata…» è «un vero monumento dell’evangelica povertà di don Bosco».
            Della «completa rovina» della Casetta aveva già fatto cenno il Bollettino Salesiano nel marzo del 1887 (BS 1887, marzo, p. 31), e di tale situazione parlavano, evidentemente, don Reviglio e l’iscrizione sulla lapide («una casa ora demolita»). L’iscrizione copriva pietosamente il fatto increscioso che la Casetta, non ancora di proprietà salesiana, pareva ormai inesorabilmente perduta.
            Ma don Rua non si diede per vinto e nel 1901 si offerse di restaurarla a spese dei salesiani nella speranza di poterla poi ottenere dagli eredi di Antonio e Giuseppe Bosco, come avvenne nel 1919 e 1926 rispettivamente.
            A lavori ultimati una lapide fu posta sulla «Casetta» con l’iscrizione seguente: IN QUEST’UMILE CASETTA ORA PIAMENTE restaurata nacque don giovanni bosco il dì 16 agosto 1815
            Poi anche l’iscrizione sulla casa di Giuseppe venne così corretta: «Nato qui presso in una casa ora ristorata… ecc.», con relativa sostituzione della lapide.
            Quando poi, nel 1915 si celebrò il centenario della nascita di don Bosco, il Bollettino pubblicò la foto della Casetta, precisando: «E quella ove il 16 agosto 1815 nacque il Venerabile Giovanni Bosco. Essa fu salvata dalla rovina alla quale l’edacità del tempo l’aveva condannata, con una provvida riparazione generale, l’anno 1901».
            Negli anni ’70 le ricerche d’archivio compiute dal Comm. Secondo Caselle, convinsero i Salesiani che don Bosco era, sì, vissuto dal 1817 al 1831 alla Casetta acquistata da suo padre, casa sua quindi, come egli aveva sempre detto, ma era nato alla cascina Biglione, di cui il padre era massaro abitandovi con la famiglia, fino alla sua morte avvenuta l’11 maggio 1817, sul sommo del Colle ove ora sorge il Tempio a San Giovanni Bosco.
            La lapide sulla casa di Giuseppe era stata cambiata, mentre quella sulla Casetta venne sostituita dall’attuale iscrizione marmorea: questa è la mia casa Don Bosco
            Rimane così sfatata l’opinione recentemente espressa, secondo la quale gli Antichi Alunni, nel 1889, con le parole: «Nato qui presso in una casa ora demolita» non intendevano parlare della Casetta dei Becchi.

I toponimi dei Becchi
            Abitavano i Bosco alla Cascina Biglione quando nacque Giovanni?
            Qualcuno ha affermato che è permesso dubitarne, perché, quasi certamente abitavano, invece, in un’altra casa di proprietà Biglione al «Meinito». Prova ne sarebbe il Testamento di Francesco Bosco, stilato dal notaio C. G. Montalenti l’8 maggio del 1817, dove si legge: «…in casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore nella regione del Monastero borgata di Meinito…» (S. CASELLE, Cascinali e Contadini del Monferrato: i Bosco di Chieri nel secolo XVIII, Roma, LAS, 1975, p. 94).
            Che dire di questa opinione?
            Oggi «Meinito» (o «Mainito») è solo più il sito di una cascina posta a sud del Colle Don Bosco, al di là della strada provinciale che da Castelnuovo va in direzione di Capriglio, ma un tempo indicava un territorio più esteso, contiguo a quello chiamato Sbaraneo (o Sbaruau). E Sbaraneo non era altro che il vallone ad est del Colle.
«Monastero», poi, non corrispondeva solo all’attuale zona boschiva a ridosso del Mainito, ma copriva un’area molto vasta, dal Mainito alla Barosca, tanto è vero che la stessa «Casetta» dei Becchi venne registrata nel 1817 in «regione di Cavallo, Monastero» (S. CASELLE, o. c., p. 96).
            Quando non c’erano ancora mappe con lotti numerati, cascine e poderi venivano individuati a base di toponimi o nomi di luogo, derivati da cognomi di antiche famiglie o da caratteristiche geografiche e storiche.
            Essi servivano da punti di riferimento, ma non corrispondevano all’attuale significato di «regione» o «borgata» se non molto approssimativamente, e venivano usati con molta libertà di scelta da parte dei notai.
            La più antica Carta del Castelnovese, conservata nell’archivio comunale e gentilmente postaci a disposizione, risale al 1742 e viene chiamata «Carta napoleonica» probabilmente per il maggior uso fattone durante l’occupazione francese. Un estratto di questa mappa, curato nel 1978 con elaborazione fotografica del testo originale dai Sigg. Polato e Occhiena, che confrontarono i documenti d’archivio con i lotti numerati sulla Carta napoleonica, dà l’indicazione di tutti i terreni di proprietà dei Biglione sin dal 1773 e lavorati dai Bosco dal 1793 al 1817. Da questo «Estratto» risulta che i Biglione non possedevano alcun terreno o casa al Mainito. E d’altra parte non è sinora reperibile altro documento che provi il contrario.
            E allora che significato possono avere quelle parole «in casa del Signor Biglione… in regione Monastero borgata di Meinito»?
            Anzitutto è bene sapere che solo nove giorni dopo, lo stesso notaio che redasse il testamento di Francesco Bosco, scriveva nell’inventario della sua eredità: «…in casa del Signor Giacinto Biglione abitata degli infranominati pupilli [i figli di Francesco] regione di Meinito…» (S. CASELLE, o. c., p. 96), promuovendo così in pochi giorni Mainito da «borgata» a «regione». E poi è curioso constatare che anche la Cascina Biglione propriamente detta, in documenti diversi risulta a Sbaconatto, a Sbaraneo o Monastero, al Castellero, e chi più ne ha più ne metta.
            E allora come la mettiamo? Tenuto conto di tutto, non è difficile accorgersi che si tratta sempre della stessa zona, il Monastero, che al suo centro aveva come punti di riferimento Sbaconatto e Castellerò, ad est lo Sbaraneo, a sud il Mainito. Il notaio Montalenti scelse «Meinito» come altri scelsero «Sbaraneo» o «Sbaconatto» o «Castellero». Ma il sito e la casa erano sempre gli stessi!
            Sappiamo, inoltre, che i Sigg. Damevino, proprietari della Cascina Biglione dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca; ma, come assicurano gli anziani del luogo, non possedettero mai case al Mainito. Eppure avevano acquistato le proprietà che i Biglione avevano venduto al Sig. Giuseppe Chiardi nel 1818.
            Non resta che concludere che il documento stilato dal notaio Montalenti l’8 maggio 1817, se pur non contiene errori, si riferisce alla Cascina Biglione propriamente detta, ove il 16 agosto 1815 nacque don Bosco, l’11 maggio 1817 morì suo padre e, ai giorni nostri, fu costruito il grandioso Tempio a san Giovanni Bosco.
            L’esistenza, infine, di una fantomatica casa dei Biglione abitata dai Bosco al Mainito e poi demolita non si sa quando né da chi né perché prima del 1889, come da qualcuno si è ipotizzato, non ha (almeno sinora) alcuna vera prova in suo favore. Gli stessi Antichi Alunni quando posero sulla lapide dei Becchi le parole «Nato qui presso…» (si veda il nostro articolo di gennaio) non potevano certo riferirsi al Mainito che dista oltre un chilometro dalla Casa di Giuseppe!

Cascine, massari e mezzadri
            Francesco Bosco, massaro della Cascina Biglione, desiderando mettersi in proprio, acquistò terreni e la casetta dei Becchi, ma la morte lo colse all’improvviso l’11 maggio 1817 prima di aver potuto pagare tutti i relativi debiti contratti. Nel novembre la vedova, Margherita Occhiena, si trasferì con i figli e la suocera nella «Casetta» fatta ristrutturare allo scopo. Prima di allora quella Casetta, già contrattata dal marito sin dal 1815 ma non ancora pagata, consisteva solo di «una crotta e stalla accanto, coperta a coppi, in cattivo stato» (S. CASELLE, Cascinali e contadini […], p. 96-97), e quindi inabitabile da una famiglia di cinque persone, con animali ed attrezzi da lavoro. Nel febbraio del 1817 era stato stilato l’atto notarile di vendita, ma il debito rimaneva ancora aperto. Margherita dovette risolvere la situazione come tutrice di Antonio, Giuseppe e Giovanni Bosco, ormai piccoli proprietari ai Becchi.
            Non era la prima volta che i Bosco passavano dalla condizione di massari a quella di piccoli proprietari e viceversa. Ce ne ha data ampia documentazione il compianto Comm. Secondo Caselle.
            Il trisavolo di don Bosco, Giovanni Pietro, già massaro alla Cascina Croce di Pane, tra Chieri e Andezeno, proprietà dei Padri Barnabiti, nel 1724 andò massaro alla Cascina di San Silvestro presso Chieri, appartenente alla Prevostura di San Giorgio. E che egli abitasse proprio nella Cascina di San Silvestro con i familiari risulta dai «Registri del Sale» del 1724. Suo nipote, Filippo Antonio, orfano di padre e preso in casa dal figlio maggiore di Giovanni Pietro, Giovanni Francesco Bosco, fu adottato da un pro-zio, da cui ereditò casa, giardino e 2 ettari di terreno a Castelnuovo. Ma, per la critica situazione economica in cui venne a trovarsi, dovette vendere la casa e gran parte delle sue terre e trasferirsi con la famiglia nella frazione Morialdo, come massaro della Cascina Biglione, ove morì nel 1802.
            Paolo, suo figlio di primo letto, divenne così il capo-famiglia e il massaro, come risulta dal censimento del 1804. Ma qualche anno dopo lasciò la cascina al fratellastro Francesco e andò a stabilirsi a Castelnuovo dopo essersi presa la sua parte di eredità e aver operato delle compra-vendite. Fu allora che Francesco Bosco, figlio di Filippo Antonio e di Margherita Zucca, divenne massaro della Cascina Biglione.
            Che cosa s’intendeva in quei luoghi per «cascina», per «massaro» e per «mezzadro»?
            La parola «cascina» (in piemontese: cassin-a) indica in sé una casa colonica o l’insieme di un’azienda agricola; ma nei luoghi di cui parliamo, l’accento era posto sulla casa, cioè sul caseggiato agricolo adibito in parte ad abitazione e in parte a rustico per l’allevamento del bestiame, ecc. Il «massaro» (in piemontese: massé) in sé è il conduttore della cascina e dei poderi, mentre il «mezzadro» (in piemontese: masoé) è solo il coltivatore di terre di un padrone con cui divide i raccolti. Ma in pratica in quei luoghi il massaro era anche mezzadro e viceversa, tanto che la parola massé non era gran ché usata, mentre masoé indicava generalmente anche il massaro.
            I Sigg. Damevino, proprietari della Cascina «Bion» o Biglione al Castellero dal 1845 al 1929, possedevano anche altre cascine, alla Scajota e alla Barosca e, come ci assicurò il sig. Angelo Agagliate, avevano 5 massari o mezzadri, uno alla Cascina Biglione, due alla Scajota e due alla Barosca. Naturalmente i vari massari abitavano nella cascina loro propria.
            Ora, se un contadino era massaro, ad es., della Cascina Scajota, proprietà dei Damevino, non lo si diceva «abitante in casa Damevino», ma semplicemente «alla Scajota». Se Francesco Bosco avesse abitato nella supposta casa dei Biglione al Mainito, non lo si sarebbe, quindi, detto, abitante «in casa del signor Biglione» anche se questa casa fosse ai Biglione appartenuta. Se il notaio scrisse: «In casa del signor Biglione abitata dall’infrascritto testatore» era segno che Francesco abitava con la famiglia alla Cascina Biglione propriamente detta.
            E questa è un’ulteriore conferma ai precedenti articoli che smentiscono l’ipotesi dalla nascita di don Bosco al Mainito «in una casa ora demolita».
            Concludendo, non si può dare esclusiva importanza al significato letterale di certe espressioni, ma occorre vagliarne il vero senso nell’uso locale del tempo. In studi di questo genere il lavoro del ricercatore locale è complementare a quello dello storico accademico, e particolarmente importante, perché il primo, favorito dalla conoscenza dettagliata del territorio, può fornire al secondo, il materiale occorrente per le sue conclusioni generali, ed evitargli erronee interpretazioni.




Comunicato del Rettor Maggiore alla fine del suo mandato

Ai miei Confratelli Salesiani
Ai miei fratelli e sorelle della Famiglia Salesiana

Carissimi fratelli e sorelle,
nel giorno in cui ricordiamo la nascita del nostro Padre Don Bosco, ricevete il mio affettuoso e fraterno saluto.

Le parole che invio vi giungono a pochi minuti dal termine della solenne celebrazione eucaristica in onore di Don Bosco, che nacque, proprio qui ai Becchi, il 16 agosto 1815. Quel bambino è diventato un meraviglioso strumento dello Spirito di Dio, chiamato a dare vita a questo grande movimento che è oggi la Famiglia di Don Bosco.

Questa mattina, alla presenza del Vicario del Rettor Maggiore, di molti confratelli salesiani, della Famiglia salesiana, degli amici di Don Bosco, delle autorità civili e militari e dei 375 giovani provenienti da tutto il mondo, che hanno partecipato al Sinodo dei Giovani, ho firmato le mie dimissioni da Rettor Maggiore, come previsto dalle Costituzioni e dai Regolamenti dei Salesiani di Don Bosco. Infatti, come molti di voi sapranno, Papa Francesco mi ha chiamato ad un altro servizio per il bene della Chiesa.

Con queste parole desidero esprimere nella fede e nella speranza, a tutto il mondo salesiano, come il Signore ci ha guidati fin qui e manifestare la mia gratitudine per il tanto bene ricevuto in questi dieci anni e mezzo come Rettor Maggiore della Congregazione Salesiana e come Padre, a nome di Don Bosco, di tutta la Famiglia Salesiana.

Innanzitutto, cari fratelli e sorelle, ringrazio Dio per questi anni in cui Lui stesso ha benedetto la nostra Congregazione e la Famiglia Salesiana e dove abbiamo vissuto momenti e realtà molto diversi, perché la Congregazione è presente in 136 nazioni. Credo di poter dire che in questi dieci abbiamo affrontato tutto con uno sguardo di fede, con grande speranza e determinazione, sempre per il bene della missione e nella fedeltà al carisma che abbiamo ricevuto.

Ringrazio il Signore perché in questi anni non mi è mancata – e non ci è mancata – quella serenità e quella forza che viene da Lui. Infatti, è proprio vero ciò che il Signore risorto dice a San Paolo: «Ti basta la mia grazia» (2 Cor 12,9). È proprio così che ho vissuto personalmente e insieme al Consiglio generale il servizio di animazione e di governo a me affidato. In particolare, vorrei ringraziare i due consigli generali che mi hanno accompagnato in questi dieci anni e mezzo per la fedeltà al progetto comune, per la loro dedizione e il loro servizio.

Al termine di questo tempo alla guida della Congregazione Salesiana, esprimo un particolare ringraziamento al Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio, che assume il compito di guidare la Congregazione con totale dedizione e generosità. Nei prossimi mesi il lavoro e la responsabilità saranno grandi, ma la sua personalità, la sua fraternità, la sua capacità e il suo ottimismo, con l’aiuto del Signore e del Consiglio generale, faciliteranno il cammino che condurrà la Congregazione al 29° Capitolo generale.

Esprimo la mia profonda gratitudine a tutti i miei confratelli salesiani. In ogni parte del mondo mi sono sempre sentito accolto, amato e fraternamente accettato e ho trovato collaborazione e generosità. È proprio vero che i Salesiani amano e si prendono cura del Rettor Maggiore come farebbero con Don Bosco stesso – come lui stesso ci ha chiesto nel suo testamento spirituale. Grazie per questa generosità.

Desidero anche manifestare la mia gratitudine a tutti i gruppi della Famiglia Salesiana: alle nostre sorelle, le Figlie di Maria Ausiliatrice, ai Salesiani Cooperatori, all’Associazione di Maria Ausiliatrice (ADMA) – fondati dallo stesso Don Bosco – e a tutti i 32 gruppi che oggi compongono questo grande albero carismatico. Sono stati anni di crescita e di benedizione. Grazie a tutti coloro che, confidando nel Signore, hanno reso possibile tutto questo.

In questi dieci anni di servizio di animazione e di governo, nei quali ho potuto visitare le 120 nazioni in cui sono presenti la Congregazione e la Famiglia Salesiana, ho ricevuto il grande dono di incontrare giovani, ragazzi, adolescenti, bambini e bambine di ogni paese e cultura. Ho potuto “toccare con gli occhi e con il cuore”, in prima persona, come “i miracoli educativi che guariscono e trasformano le vite” continuano ad accadere ogni giorno in tante presenze salesiane e nella nostra Famiglia. Tutto questo è stato una delle mie gioie più profonde.

Ho un ultimo ringraziamento da presentare. In questi anni sono stato incoraggiato e sostenuto da un amore incondizionato: quello della mia famiglia di sangue. I miei genitori, che riposano in Dio, mi hanno accompagnato per nove anni con amore sereno, con le loro preghiere, dicendomi sempre di non preoccuparmi per loro. Loro e tutti i membri della mia famiglia sono sempre stati presenti, mi hanno sostenuto con la loro presenza, rimanendo un porto sicuro da raggiungere per non dimenticare mai le mie umili origini.

Concludo riferendomi a quanto dissi il 25 marzo 2014, quando il IX Successore di Don Bosco, Don Pascual Chavez, mi domandò, a nome del 27° Capitolo Generale che mi aveva eletto, se avrei accettato il ruolo di Rettor Maggiore.

Ricordo che, nel mio povero italiano di allora, dissi – non senza profonda emozione – che confidando nella Grazia del Signore e nella fede, con la certezza che sarei stato sempre sostenuto dai miei confratelli salesiani, poiché amo veramente i giovani che porto nel mio cuore salesiano, accettavo quanto mi veniva chiesto.

Oggi, con riconoscenza, posso affermare che, con la grazia di Dio, tutto ciò che avevo sperato è
diventato realtà.

Rivolgo un’ultima parola a nostro padre Don Bosco e all’Ausiliatrice.

Sono certo che Don Bosco in questi anni ha vegliato e sostenuto la sua Congregazione e la sua Famiglia. Non ho alcun dubbio che in tutto questo tempo si sia realizzato quello che lui stesso ci aveva assicurato: «Ha fatto tutto lei». Così è stato con Don Bosco, così è stato in questi anni e così senza dubbio continuerà ad essere.

A Lei, Madre Ausiliatrice, ci affidiamo.

Grazie di cuore, e arrivederci da questo vostro fratello che è e sarà sempre un salesiano di Don Bosco.

Con tutto il mio affetto,

Ángel Fernández Cardinale Artime
Prot. 24/0427
Colle Don Bosco, 16.08.2024

Aggiungiamo anche l’atto di cessazione ufficio.

Io, sottoscritto Ángel Fernández Cardinale Artime, Rettore Maggiore della Società di San Francesco di Sales,

– atteso che nel Concistoro del 30 settembre 2023 il Santo Padre Francesco mi ha creato e pubblicato Cardinale della Diaconia di Santa Maria Ausiliatrice in Via Tuscolana; che in data 5 marzo 2024 Egli mi ha assegnato la sede titolare di Ursona, con dignità arcivescovile, e che il 20 aprile 2024 ho ricevuto la Ordinazione Episcopale nella Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma;
– considerato che il religioso elevato all’Episcopato è soggetto soltanto al Romano Pontefice (can.705);
– tenuto conto che, a norma del can. 184 §1 CIC “l’ufficio ecclesiastico si perde con lo scadere del tempo prestabilito” e che, con decreto del 19 aprile 2024 il Santo Padre ha disposto “in via eccezionale e solo per questo caso” la prosecuzione del mio servizio come Rettore Maggiore, dopo l’ordinazione episcopale, fino al 16 agosto 2024,
con il presente atto

DICHIARO

che, essendo compiuto il tempo prestabilito dal suddetto decreto, a partire dalla data odierna cesso dall’ufficio di Rettore Maggiore della Società di San Francesco di Sales.

A norma dell’art. 143 delle Costituzioni, il Vicario Don Stefano Martoglio assume, contestualmente, ad interim il governo della Società, fino alla elezione del Rettore Maggiore che avverrà nel corso del 29° Capitolo Generale convocato in Torino dal 16 febbraio al 12 aprile 2025.

Ángel Fernández Cardinale Artime
Prot. 24/0406
Roma, 16.08.2024




Intervista con Nelson Javier MORENO RUIZ, ispettore in Cile

Don Nelson ha 57 anni ed è nato nella città di Concepción l’11 settembre 1965. Ha conosciuto i Salesiani presso il Collegio Salesiano di Concepción, dove era studente e partecipava ai gruppi giovanili e alle attività pastorali.
I suoi genitori Fabriciano Moreno e María Mercedes Ruiz vivono attualmente nella città di Concepción.
Ha svolto tutta la sua formazione iniziale nella città di Santiago. Ha emesso la professione perpetua l’8 agosto 1992 a Santiago (La Florida). È stato ordinato sacerdote il 6 agosto 1994 a Santiago. I suoi primi anni da sacerdote sono stati trascorsi nella presenza salesiana del Colegio San José de Punta Arenas e nella scuola salesiana di Concepción, dove ha lavorato nella pastorale. Dal 2001 al 2006 è stato direttore della presenza salesiana a Puerto Natales e dal 2006 al 2012 direttore della presenza salesiana a Puerto Montt.
Dal 2012 al 2017 è stato economo provinciale e direttore della casa provinciale. Nel 2018 è stato direttore della presenza salesiana di Gratitud Nacional nel centro della città di Santiago e dal 2019 direttore dell’opera a Puerto Montt, dove si trova attualmente.
Don Moreno Ruiz succede a Don Carlo Lira Airola, che ha concluso il suo mandato di sei anni nel gennaio 2024.

Può farci un’autopresentazione?
Sono un salesiano contento della vita, che nella vocazione religiosa salesiana ha trovato la presenza di Dio nei giovani, che servo e accompagno come pastore educatore.
Sono Padre Nelson Moreno Ruiz, Ispettore dell’Ispettoria del Cile. Sono stato chiamato a questo servizio di animazione dal Vescovo Rettor Maggiore e Cardinale Ángel Fernández Artime, assumendo questa responsabilità dal gennaio di quest’anno.
Ho conosciuto i Salesiani in giovane età, quando sono entrato nella scuola salesiana della città di Concepción, che è la prima opera nel nostro Paese, dove i missionari inviati da Don Bosco arrivarono dall’Argentina al Cile nel 1887.
In questo ambiente scolastico salesiano sono cresciuto intorno alla proposta educativa pastorale offerta dalla scuola; incontri sportivi, attività pastorali missionarie e molte attività di servizio sociale, tutto questo ha avuto un’eco nella mia vita di giovane; era anche importante vedere e incontrare i salesiani nel cortile della scuola, e con queste esperienze si è sviluppata la mia vocazione e nel tempo mi sono sentito chiamato a seguire le orme di Don Bosco come salesiano.
Il mio gruppo familiare è composto dai miei genitori, ormai anziani, mio padre Fabriciano di 93 anni e mia madre di 83, i miei quattro fratelli, i tre ragazzi che hanno studiato alla scuola salesiana, e mia sorella maggiore, che spesso aveva il compito di prendersi cura di noi. Siamo una famiglia relativamente piccola, completata da quattro nipoti, che ora sono giovani professionisti.
Come salesiano, ho fatto la mia prima professione religiosa il 31 gennaio 1987, quindi sono stato religioso per 37 anni e sono stato ordinato sacerdote il 6 agosto 1994. Nella mia vita religiosa, ho avuto l’opportunità di animare alcune comunità come direttore delle opere, oltre a servire come economo provinciale prima di diventare ispettore.
Ritengo che una delle mie caratteristiche sia quella di essere attento a rendere un buon servizio ovunque il Signore lo voglia, quindi ho dedicato del tempo a prepararmi e a studiare per la missione. Dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore presso la scuola salesiana di Concepción, sono entrato nella Congregazione dove ho studiato Filosofia presso la Congregazione, poi ho ottenuto la Licenza in Teologia presso la Pontificia Università Cattolica del Cile, la Laurea in Educazione Religiosa e la Licenza in Educazione in Gestione Scolastica presso l’Università Cattolica Raúl Silva Henríquez; in seguito, ho conseguito un Master in Gestione dell’Educazione presso l’Università di Concepción in Cile, un Master in Qualità ed Eccellenza nell’Educazione presso l’Università di Santiago de Compostela in Spagna e un Dottorato in Scienze dell’Educazione presso l’Università di Siviglia, Spagna.
E ora, con umiltà e semplicità, servo la mia Ispettoria, nei fratelli e nell’animazione delle opere.

Cosa sognava da bambino?
Da bambino, insieme ai miei fratelli e ai miei amici, ho avuto un’infanzia molto normale e felice, mi piaceva molto lo sport, giocavo regolarmente a calcio in un club locale e questo mi ha portato a sognare di dedicarmi allo sport in futuro, ciò che mi piaceva di più era condividere e avere amici, e questo era ciò che lo sport mi offriva.
Quando sono entrato a scuola e mi sono unito alle varie attività pastorali, mi sono reso conto che mi piaceva anche insegnare ai bambini e ai giovani con cui avevo contatti in queste attività pastorali. Il tema educativo e pedagogico aveva molto senso per me ed è diventato parte del mio progetto di vita, poiché lo vedevo come un sogno che era possibile realizzare.
Queste preoccupazioni si sono mescolate con la mia inclinazione a studiare qualcosa legato all’area della salute; questa motivazione era molto presente, dal momento che nella mia famiglia alcuni di loro erano impegnati in professioni in questo settore.
Vedo che il filo conduttore di queste inclinazioni che ho avvertito dall’infanzia all’adolescenza, sono sempre state orientate a lavorare con le persone, a essere al loro servizio, a essere utili a loro, a servirle, a insegnare loro, ad accompagnarle.

Qual è la storia della sua vocazione?
La mia storia vocazionale, senza dubbio, inizia nella mia famiglia, provengo da una casa in cui si viveva la fede, attraverso la devozione a San Sebastiano e a Santa Rita da Cascia, e sono stati i miei genitori a inculcarci la fede, permettendoci di ricevere il sacramento del battesimo e della cresima. La mia vocazione è iniziata a casa, in modo molto semplice, con un senso di Dio percepito in modo naturale e senza grandi pratiche religiose, ma con un profondo senso di gratitudine verso Dio nella vita quotidiana.
Nella scuola salesiana di Concepción, ho scoperto un mondo nuovo, perché era una scuola enorme e prestigiosa della città. Quando sono arrivato, mi sono sentito subito accolto e motivato a partecipare alle proposte che aveva per i suoi studenti, soprattutto alle attività pastorali, nelle quali sono stato gradualmente coinvolto, così come allo sport, che era una parte importante della mia vita a quell’età.
Quando studiavo alla scuola salesiana, ero molto interessato a tutte le attività pastorali e nell’ultimo anno di scuola elementare, ho avuto l’opportunità di partecipare come monitore ai “Campi estivi – Villa Feliz”, dove ho scoperto che potevo essere utile e dare qualcosa ai bambini più poveri; da quel momento in poi ho assunto l’impegno di continuare su questo percorso di servizio, che ha dato molto significato alle mie preoccupazioni adolescenziali.

È stato nei gruppi giovanili che la mia vocazione alla vita religiosa si è definita più chiaramente, sono entrato a far parte del ministero sacramentale, come monitore della Cresima, dove ho riaffermato la mia chiamata a servire.
Tutta questa vita pastorale mi ha dato l’opportunità di incontrare e condividere con i Salesiani che, con la loro testimonianza e vicinanza, mi hanno presentato una proposta vocazionale che ha catturato la mia attenzione, in quanto erano belle testimonianze di un servizio vicino ai giovani. Questo è stato già il seme della mia vocazione religiosa, che mi ha dato l’impulso di decidere di entrare nella Congregazione, l’inizio del cammino vocazionale nella chiamata che il Signore mi ha fatto, dove sono un sacerdote salesiano da 30 anni, accompagnato dal motto che ho scelto per la mia ordinazione sacerdotale: “Signore, tu conosci ogni cosa, tu sai che io ti amo” (Gv. 21,17),

Perché salesiano?
Perché salesiano? Perché è stato in una scuola della Congregazione dove ho studiato, dove mi sono formato, dove sono cresciuto, dove si sono formate le mie convinzioni, le mie certezze e il mio progetto di vita.
Con i Salesiani, attraverso le attività pastorali, ho conosciuto più a fondo la missione della Chiesa, tutto questo ambiente ha dato un senso pieno alla mia vita, confermando che il carisma della gioia, dei giovani e dell’educazione, era la strada che il Signore mi presentava, alla quale partecipavo attivamente, perché rispondeva alle mie preoccupazioni e ai miei desideri, e mi rendeva felice; non c’era possibilità di un’altra risposta, perché i Salesiani erano ciò che copriva tutto ciò che cercavo e desideravo e che conoscevo fin dalla mia infanzia.
Durante la mia formazione, ho avuto contatti con altre congregazioni e carismi, che mi hanno aiutato a confermare, ancora di più, che la spiritualità salesiana era il mio stile, ciò che copriva il significato di ciò che volevo fare; la vita di Don Bosco, il lavoro con i giovani, il lavoro pastorale, tutto, il frutto dell’esperienza che ho avuto con loro, dove mi sono formato, dove ho servito e dove la mia vocazione si è formata e consolidata.
Il Signore mi ha fatto il dono di conoscere Don Bosco e la spiritualità salesiana, è stata la proposta che mi ha invitato a seguire e io l’ho accettata, ho consacrato la mia vita qui, e ad oggi sento che la mia vocazione di salesiana mi rende tutto ciò che sono.

Come ha reagito la sua famiglia?
Una volta presa la decisione di fare il passo di entrare nei Salesiani, l’ho detto alla mia famiglia, soprattutto ai miei genitori. Erano sorpresi, e fu mia madre che per prima mi capì, mi sostenne e mi accompagnò, invitandomi a fare questo passo.
Il padre, preoccupato, mi chiese se ero davvero sicuro, se era quello che volevo veramente, cosa mi rendeva felice e se era la mia strada; a tutte queste domande risposi di sì. Lui, confermando che se era quello che volevo ed era disposto a vedere se era davvero il mio futuro, e chiarendo che potevo sempre contare su di loro e di non dimenticare che avrei sempre avuto la mia casa, nel caso in cui non fosse stata la mia strada, mi ha detto che potevo contare su tutto il suo sostegno.
Sentire così chiaramente il sostegno dei miei genitori è stato molto bello, mi ha dato molta gioia e serenità, dato che stavo iniziando un percorso senza essere sicuro che fosse davvero il percorso per una persona giovane.
Anche i miei fratelli sono rimasti sorpresi, perché avevo una vita molto naturale, legata allo sport, con gli amici, ma quando sono stati sicuri che volevo davvero seguire la chiamata del Signore, mi hanno sostenuto.
Mi sono sempre sentito molto accompagnato e sostenuto dai miei genitori e dai miei fratelli, il che mi ha dato molta serenità per iniziare il processo di formazione; ad oggi, conto su di loro, so che mi accompagnano con amore fatto preghiera.

Quali sono i bisogni locali e giovanili più urgenti?
In Cile, oggi, la popolazione da 0 a 17 anni è di 4.259.115 abitanti, pari al 24% della popolazione totale del Paese. E noi salesiani ci dedichiamo in modo particolare all’educazione formale di questo segmento della popolazione. Abbiamo 22 scuole, dove studiano bambini e giovani dai 4 ai 19 anni, con un totale di 31.000 studenti che vengono educati nelle nostre scuole. Oggi è la più grande rete scolastica del Paese che offre questo servizio ai giovani.
A ciò si aggiungono un’Università, che serve circa 7.000 studenti, e la Fondazione Don Bosco, dedicata all’accoglienza e all’accompagnamento dei bambini di strada, il segmento più vulnerabile tra loro, che serve più di 7.000 bambini e giovani.
La necessità più urgente che vivono e soffrono i nostri giovani è che sono molto esposti al consumo di alcol e droghe, oltre che all’uso indiscriminato della tecnologia. Questo, insieme alla solitudine che sperimentano a causa della disgregazione delle loro famiglie, li porta spesso a soffrire di situazioni di ‘salute mentale’, depressione, ansia, angoscia e crisi di panico o simili.
Questa realtà ci spinge a cercare di accompagnarli nella loro ricerca di significato, di benessere emotivo e di stabilità emotiva, tutti bisogni fondamentali degli esseri umani, soprattutto di quelli che si stanno sviluppando e crescendo. Cerchiamo anche di fornire loro i valori cristiani, affinché passo dopo passo si impegnino a vivere la loro fede nelle comunità giovanili e nella Chiesa cilena, oltre a fornire loro l’educazione necessaria per integrarsi nella società.
I giovani sono la parte preferita di Don Bosco e lo dobbiamo a loro, per cui ci impegniamo a fornire loro istruzione e strumenti affinché possano diventare “buoni cristiani e onesti cittadini”.

Quali sono le opere più significative nella sua area?
L’Ispettoria cilena ha una gamma variegata di opere di cui si occupa: parrocchie, centri di pastorale giovanile, centri di accoglienza, scuole e università. Ma la proposta pastorale si è concentrata fondamentalmente sull’educazione formale nelle scuole, che forniscono un’istruzione dall’età prescolare – 4 anni – all’istruzione secondaria – 19 anni.
L’istruzione cilena fornisce una formazione sia per preparare i giovani ad accedere all’istruzione superiore, alle università, sia per fornire un’istruzione tecnico-professionale, in cui gli studenti si diplomano con un diploma tecnico in una carriera di loro scelta.
Possiamo dire che l’istruzione tecnica professionale è uno dei lavori più significativi che abbiamo, perché costituisce una vera e propria promozione dei giovani, permettendo loro di entrare nel mondo del lavoro con un diploma tecnico che, anche se è vero che non è tutto, facilita la possibilità di collaborare con le loro famiglie, e spesso finanzia il loro proseguimento dell’istruzione superiore.
Vorrei anche sottolineare il lavoro che svolgiamo nella “Fundación don Bosco”, che si occupa di bambini in situazioni di strada, che non hanno o non hanno una famiglia, svolgendo con loro un lavoro di contenimento, riabilitazione, promozione e inserimento sociale, realizzando – come faceva Don Bosco – bambini e giovani evangelizzati con valori.

Comunicate attraverso riviste, blog, Facebook o altri media?
I social media oggi sono molto importanti e di grande aiuto per raggiungere molti giovani e adulti. Comunico regolarmente con la Famiglia Salesiana attraverso la rivista Bollettino Salesiano, il blog “Agorà”, i siti ufficiali dell’Ispettoria, il sito web e Instagram.

Quali sono le aree più importanti?
Della missione che devo svolgere oggi nell’Ispettoria, credo che la cosa più importante sia accompagnare e animare la vita dei miei confratelli, soprattutto quelli con cui lavoro e condivido la responsabilità dell’Ispettoria come consiglieri, e i confratelli che hanno la responsabilità di animare e accompagnare i confratelli come direttori di comunità e opere. In breve, la priorità è accompagnare i miei confratelli salesiani.
Allo stesso modo, mi sembra rilevante, il compito di animare la vita della Famiglia Salesiana, un compito importante, animando nella fedeltà al carisma, tutti coloro che ne fanno parte; Salesiani consacrati, Figlie di Maria Ausiliatrice, Salesiani Cooperatori, Volontarire di Don Bosco, Associazione di Maria Ausiliatrice e altri.
Non possiamo non menzionare come compito rilevante, quello di animare la vita dei giovani, attraverso la pastorale giovanile, le associazioni e i diversi gruppi che possono esistere sotto il carisma salesiano, dando un posto importante tra questi, alla pastorale vocazionale, e a quei giovani che sentono il desiderio di rispondere alla chiamata del Signore nella nostra Congregazione.

Come vede il futuro?
Di fronte a una società assetata di significato in ciò che è e in ciò che fa, mi sembra che noi Salesiani siamo chiamati a rispondere a queste ricerche e a dare un senso a ciò che facciamo, a dare un senso alla vita, soprattutto per i giovani.
Abbiamo un compito fondamentale, che è quello di educare i giovani, e coloro che li educano e lavorano con loro devono certamente essere portatori di sogni e di speranza.
Il mondo è in costante costruzione e spetta a noi Salesiani contribuire, con la nostra vita, le nostre azioni e la nostra missione, alla sua costruzione, attraverso l’educazione dei giovani di oggi, affinché sapendo di essere amati, preziosi, capaci e tirando fuori il meglio di loro, possano dare un senso alla loro vita ed essere costruttori di speranza nelle loro famiglie e nella società.

Ha un messaggio per la Famiglia Salesiana?
Il messaggio che posso condividere con tutta la Famiglia Salesiana, prima di tutto, è che siamo custodi e portatori di un dono, un dono che Dio fa alla Chiesa, che è il carisma salesiano, un dono e un compito per ciascuno di noi.
Quest’anno, il Cardinale e Rettor Maggiore della Congregazione, Padre Ángel Fernández Artime, ci invita a sognare, a imitazione di nostro padre Don Bosco, un padre sognatore. Don Bosco sognava cose che sembravano impossibili, ma la sua grande fiducia in Maria Ausiliatrice e il suo lavoro perseverante e tenace lo portarono a realizzare i suoi sogni. Anche noi, degni figli di questo padre, siamo chiamati a sognare e ad aggiungere i giovani a questi sogni, che non sono altro che desiderare un mondo migliore per loro, dove possano inserirsi, costruendo una società più amabile e più sensibile ai valori umani e cristiani. Insieme a loro, vogliamo contribuire e diventare buoni cristiani e onesti cittadini, sentendoci profondamente amati da Dio.




Intervista a don Luis Víctor SEQUEIRA GUTIÉRREZ, ispettore dell’Ispettoria Angola

Abbiamo fatto a don Luis Víctor SEQUEIRA GUTIÉRREZ, nuovo ispettore della Visitatoria Angola (ANG), alcune domande per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

La sua nomina è dovuta al fatto che il precedente superiore dei Salesiani in Angola, don Martin Lasarte, è stato nominato Vescovo della Diocesi di Lwena.
Con questa nomina, il Rettor Maggiore ha anche deciso, sempre dopo aver consultato il suo Consiglio, di elevare la Visitatoria dell’Angola al rango di Ispettoria, a partire dal giorno dell’insediamento di don Sequeira Gutiérrez. Questi sarà, pertanto, il primo Ispettore della nuova Ispettoria.
Figlio di Cristóbal Sequeira e Victoria Gutiérrez, Victor Luís Sequeira Gutiérrez è nato il 22 marzo 1964, ad Asunción, in Paraguay. Ha frequentato l’aspirantato salesiano a Ypacaraí nel 1984, il prenoviziato nel 1985 e infine al noviziato a La Plata, in Argentina, nel 1986. Ha emesso la prima professione il 31 gennaio 1987. Gli studi di filosofia lo hanno portato a San Paolo, in Brasile, e all’Università Cattolica di Asunción.
Dal 1992 al 2020, ha lavorato come missionario in Angola, ricoprendo diversi incarichi: Economo della casa di formazione “Don Bosco” di Luanda (1997-98), Direttore della Missione Cattolica di Libolo (1998-2005), Direttore e parroco di Dondo (2005-11). Dal 2011 al 2014 è stato direttore del Centro di Formazione di Luanda, nonché Vicedirettore dell’“Institut Supérieur de Philosophie et Pédagogie Don Bosco” di Luanda, ora noto come ISDB.
È già stato Superiore dei Salesiani dell’Angola per il sessennio 2014-2020.
Nel novembre 2020 è stato inviato in Portogallo per far parte dell’équipe di formazione per gli studenti di Teologia a Lisbona, svolgendo anche un breve servizio come cappellano presso il Centro Medico di Riabilitazione di Alcoitão. Infine, dal febbraio 2023, è tornato in Angola, dove recentemente era stato nominato Direttore e Parroco della comunità di Lwena.
Don Sequeira Gutiérrez parla correntemente spagnolo, guaranì, francese, italiano e portoghese.

Ci può fare un’autopresentazione?
Sono Padre Victor Luís Sequeira Gutiérrez, Ispettore dell’Angola. Sono in Angola da 32 anni e sono paraguaiano.

Come è nata la tua vocazione?
In un periodo di dittatura militare e in una Chiesa in cui i giovani trovavano un luogo di libera espressione, l’incontro con la Parola mi ha portato alla conversione e all’impegno. Mi sono sentito chiamato a essere al servizio di questa Chiesa che porta alla liberazione, soprattutto dei giovani.

Perché salesiano?
Perché le mie radici sono salesiane, mia madre conosceva gli ambienti salesiani a contatto con le FMA e mio padre l’oratorio e i sacerdoti che erano dei veri padri (papà); inoltre sono nato e cresciuto in una parrocchia salesiana, possiamo dire che la mia natura è salesiana.

Ricordi qualche educatore in particolare?
Padre Edmundo Candia, Padre Rojas, Padre Aquino.

Perché missionario?
Tutto è iniziato con l’aspirazione, quando sono entrato in contatto con le missioni nel Chaco, poi anche con le missioni in Africa e il progetto Africa. Da quel momento in poi mi sono sentito chiamato.

Quali sono le maggiori difficoltà che hai incontrato?
L’incontro del Vangelo con la cultura locale, dove la vita e la dignità delle persone devono essere valorizzate.

Quali sono le gioie più grandi che hai incontrato?
Il modo in cui le persone non perdono la speranza e ti regalano sempre un sorriso, la gratitudine che hanno per i missionari.

Come trovi il lavoro in questo ambiente?
Soprattutto, utile come strumento di Dio, non indispensabile, e quindi realizzato come persona consacrata e missionaria.

Come sono i giovani della zona?
Sono allegri, pieni di vitalità, pronti a imparare, a essere formati e a svilupparsi.

I cristiani sono perseguitati nella zona?
No, grazie a Dio, l’Angola è prevalentemente cristiana.

Quali sono le grandi sfide dell’evangelizzazione e della missione oggi?
La formazione umana e l’annuncio del Vangelo, il dialogo approfondito con la cultura.

Cosa si potrebbe fare di più e meglio?
Dare un’istruzione e una formazione professionale di qualità, rendere il Vangelo più incarnato nella cultura, una catechesi che tocchi la realtà attuale.




Un pergolato di rose (1847)

I sogni di don Bosco sono doni dall’Alto per orientare, avvertire, correggere, incoraggiare. Alcuni di loro sono stati fissati per iscritto e si sono conservati. Uno di questi – fatto all’inizio della missione del santo dei giovani – è quello del pergolato di rose, fatto nel 1847. Lo presentiamo integralmente.

            Nel 1864 una sera dopo le orazioni radunava a conferenza nella sua anticamera, come era solito a fare di quando in quando, coloro che già appartenevano alla sua Congregazione: tra i quali D. Alasonatti Vittorio, D. Michele Rua, D. Cagliero Giovanni, D. Durando Celestino, D. Lazzero, Giuseppe e D. Barberis Giulio. Dopo aver loro parlato del distacco dal mondo e dalle proprie famiglie per seguire l’esempio di N. S. Gesù Cristo, continuò in questi termini:
            Vi ho già raccontato diverse cose in forma di sogno, dalle quali possiamo argomentare quanto la Madonna SS. ci ami e ci aiuti; ma giacché siamo qui noi soli, perché ognuno di noi abbia la sicurezza essere Maria Vergine che vuole la nostra Congregazione e affinché ci animiamo sempre più a lavorare per la maggior gloria di Dio, vi racconterò non già la descrizione di un sogno, ma quello che la stessa Beata Madre si compiacque di farmi vedere. Essa vuole che riponiamo in Lei tutta la nostra fiducia. Io vi parlo in tutta confidenza, ma desidero che quanto io sono per dirvi, non si propali ad altri della Casa, o fuori dell’Oratorio, affinché non si dia appiglio alle critiche dei maligni.

            Un giorno dell’anno 1847 avendo io molto meditato sul modo di far del bene, specialmente a vantaggio della gioventù, mi comparve la Regina del cielo e mi condusse in un giardino incantevole. Ivi era come un rustico, ma bellissimo e vasto porticato, fatto a forma di vestibolo. Piante rampicanti ne ornavano e fasciavano i pilastri e coi rami ricchissimi di foglie e di fiori protendendo in alto le une verso le altre le loro cime ed intrecciandosi vi stendevano sopra un grazioso velario. Questo portico metteva in una bella via, sulla quale a vista d’occhio si prolungava un pergolato incantevole a vedersi, che era fiancheggiato e coperto da meravigliosi rosai in piena fioritura. Il suolo eziandio era tutto coperto di rose. La Beata Vergine mi disse:
            – Togliti le scarpe!
            E poiché me l’ebbi tolte, soggiunse:
            – Va avanti per quel pergolato: è quella la strada che devi percorrere.
            Fui contento di aver deposto i calzari perché mi avrebbe rincresciuto calpestare quelle rose, tanto erano vaghe. E cominciai a camminare; ma subito sentii che quelle rose celavano spine acutissime, cosicché i miei piedi sanguinavano. Quindi, fatti appena pochi passi, fui costretto a fermarmi e poi a ritornare indietro.
            – Qui ci vogliono le scarpe, dissi allora alla mia guida.
            – Certamente, mi rispose: ci vogliono buone scarpe.
            – Mi calzai e mi rimisi sulla via con un certo numero di compagni, i quali erano apparsi in quel momento, chiedendo di camminar meco. Essi mi tennero dietro sotto il pergolato, che era di una vaghezza incredibile; ma avanzandomi quello appariva stretto e basso. Molti rami scendevano dall’alto e rimontavano come festoni; altri pendevano perpendicolari sopra il sentiero. Dai fusti dei rosai altri rami si protendevano di qua e di là ad intervalli, orizzontalmente; altri formando talora una più folta siepe, invadevano una parte della via; altri serpeggiavano a poca altezza da terra. Erano però tutti rivestiti di rose, ed io non vedeva che rose ai lati, rose di sopra, rose innanzi ai miei passi. Io mentre ancora provava vivi dolori nei piedi e alquanto mi contorceva, toccava le rose di qua e di là e sentii che spine ancora più pungenti stavano nascoste sotto di quelle. Tuttavia andai avanti. Le mie gambe si impigliavano nei rami stesi per terra e ne rimanevano ferite; rimoveva un ramo traversale, che mi impediva la via oppure per schivarlo rasentava la spalliera, e mi pungevo e sanguinavo non solo nelle mani, ma in tutta la persona. Al di sopra le rose che pendevano, celavano pure grandissima quantità di spine, che mi si infiggevano nel capo. Ciò non per tanto, incoraggiato dalla Beata. Vergine proseguii il mio cammino. Di quando in quando però mi toccavano eziandio punture più acute e penetranti, che mi cagionavano uno spasimo ancor più doloroso.
            Intanto tutti coloro, ed erano moltissimi, che mi osservavano a camminare per quel pergolato dicevano: Oh! come D. Bosco cammina sempre sulle rose: egli va avanti tranquillissimo; tutto gli va bene. Ma essi non vedevano le spine che laceravano le mie povere membra. Molti chierici, preti e laici da me invitati si erano messi a seguitarmi festanti, allettati dalla bellezza di quei fiori; ma quando si accorsero che si doveva camminare sulle spine pungenti e che queste spuntavano da ogni parte, incominciarono a gridare dicendo: Siamo stati ingannati! Io risposi:
            – Chi vuol camminare deliziosamente sulle rose torni indietro: gli altri mi seguano.
            Non pochi ritornarono indietro. Percorso un bel tratto di via, mi rivolsi per dare uno sguardo ai miei compagni. Ma qual fu il mio dolore quando vidi che una parte di questi era scomparsa, ed un’altra parte mi aveva già voltate le spalle e si allontanava. Tosto ritornai anch’io indietro per richiamarli, ma inutilmente, poiché neppure mi davano ascolto. Allora incominciai a piangere dirottamente ed a querelarmi dicendo:
            – Possibile che debba io solo percorrere tutta questa via così faticosa?
            Ma fui tosto consolato. Vedo avanzarsi verso di me uno stuolo di preti, di chierici e di secolari, i quali mi dissero: Eccoci; siamo tutti suoi, pronti a seguirla. Precedendoli mi rimisi in via. Solo alcuni si perdettero d’animo e si arrestarono, ma una gran parte di essi giunse con me alla meta.
            Percorso in tutta la sua lunghezza il pergolato, mi trovai in un altro amenissimo giardino, ove mi circondarono i miei pochi seguaci, tutti dimagriti, scarmigliati, sanguinanti. Allora si levò un fresco venticello e a quel soffio tutti guarirono. Soffiò un altro vento e come per incanto mi trovai attorniato da un numero immenso di giovani e di chierici, di laici coadiutori ed anche di preti, che si posero a lavorare con me guidando quella gioventù. Parecchi li conobbi, di fisonomia, molti non li conosceva ancora.
            Intanto, essendo io giunto ad un luogo elevato del giardino mi vidi innanzi un edifizio monumentale sorprendente per magnificenza di arte, e varcatane la soglia, entrai in una spaziosissima sala, di tale ricchezza che nessuna reggia al mondo può vantarne una eguale. Era tutta sparsa e adorna di rose freschissime e senza spine dalle quali emanava una soavissima fragranza. Allora la Vergine SS., che era stata la mia guida, mi interrogò:
            – Sai che cosa significa ciò che tu vedi ora, e ciò che hai visto prima?
            – No, risposi: vi prego di spiegarmelo.
            Allora Ella mi disse:
            – Sappi che la via da te percorsa tra le rose e le spine significa la cura che tu hai da prenderti della gioventù: tu vi devi camminare colle scarpe della mortificazione. Le spine per terra rappresentano le affezioni sensibili, le simpatie o antipatie umane che distraggono l’educatore dal vero fine, lo feriscono, lo arrestano nella sua missione, gli impediscono di procedere e raccogliere corone per la vita eterna. Le rose sono simbolo della carità ardente che, deve distinguere te e tutti i tuoi coadiutori. Le altre spine significano gli ostacoli, i patimenti, i dispiaceri che vi toccheranno. Ma non vi perdete di coraggio. Colla carità e colla mortificazione, tutto supererete e giungerete alle rose senza spine.
            Appena la Madre dì Dio ebbe finito di parlare, rinvenni in me e mi trovai nella mia camera.
            D. Bosco, che aveva intesa la qualità del sogno, concludeva affermando che dopo quel tempo vedeva benissimo la strada che doveva percorrere, che le opposizioni e le arti colle quali si tentava di arrestarlo, gli erano già palesi e che sebbene molte dovessero essere le spine tra le quali aveva da camminare, era certo, sicuro della volontà di Dio e del riuscimento della sua grande intrapresa.
            Con questo sogno D. Bosco era avvisato eziandio di non scoraggiarsi per le defezioni che sarebbero avvenute fra coloro che parevano destinati a coadiuvarlo nella sua missione. I primi che si allontanano dal pergolato, sono i preti diocesani ed i secolari, che sul principio si erano consacrati all’Oratorio festivo. Gli altri che sopraggiungono, rappresentano i Salesiani, ai quali è promesso l’aiuto e il conforto divino, figurato dal soffiare del vento. Più tardi D. Bosco manifestò essersi ripetuto questo sogno o visione in anni diversi, cioè nel 1848 e nel 1856, e che ogni volta gli si presentava con. qualche variazione di circostanze. Noi qui le abbiamo collegate in un solo racconto, per non dar luogo a superflue ripetizioni.
(MB III, 32-36)




Intervista ad Aurelien MUKANGWA, Superiore della Visitatoria Africa Congo Congo

Abbiamo fatto a don Aurelien MUKANGWA, Superiore della Visitatoria Africa Congo Congo (ACC), alcune domande per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

Don Aurélien è nato il 9 novembre 1975 a Lubumbashi, Repubblica Democratica del Congo. Ha compiuto il suo noviziato a Kansebula dal 24 agosto 1999 al 24 agosto 2000. Ha poi emesso la professione perpetua a Lubumbashi l’8 luglio 2006 ed è stato ordinato sacerdote il 12 luglio 2008.
Ha ricoperto gli incarichi, a livello locale, di Direttore a Uvira, Kinshasa, Lukunga e Le Gombe, e di Preside scolastico a Masina. Prima della nascita dell’attuale Visitatoria ACC, fu proprio lui ad essere scelto come Superiore della Delegazione di RDC-OVEST, per quattro anni, e al momento di questa nomina, era di nuovo Delegato dell’Ispettore nella nuova Delegazione AFC Est, con sede a Goma.
Don Mukangwa è figlio di Donatien Symba Mukangwa e Judith Munyampala Mwange, titolare di un Diploma in Pedagogia. Ha assunto questo nuovo servizio di animazione e di governo della Visitatoria ACC – che ricopre parte della Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica del Congo – per il sessennio 2023-2029.

Può farci una autopresentazione?
Mi chiamo Mukangwa Mwanangoy Aurélien, sono nato a Lubumbashi (Haut Katanga), nella Repubblica Democratica del Congo, il 09 novembre 1975 da mio padre Donatien Symba Mukangwa e da mia madre Judith Munyampara Mwange. Sono il secondo di 11 figli, 7 maschi e quattro femmine.
Sono diventato salesiano di Don Bosco quasi 24 anni fa, il 24 agosto 2000. E dal 24 maggio 2023 sono stato insediato come secondo superiore provinciale della vice-provincia di Maria Ausiliatrice Africa Congo-Congo (ACC). Subito dopo la formazione iniziale, ho lavorato a Uvira, Kinshasa, Lubumbashi e Goma, e ora sono nella sede della Viceprovincia a Kinshasa.

Qual è la storia della tua vocazione?
Grazie mille per questa bella domanda, che trovo molto essenziale, perché per me è importante l’incontro con Don Bosco che mi ha portato a essere salesiano.
L’influenza vocazionale che ho avuto dipende dal luogo in cui sono nato, dalla mia infanzia e dalla mia giovinezza. Sono nato e cresciuto in un comune che era servito pastoralmente esclusivamente dai Salesiani di Don Bosco. All’epoca, tutte le parrocchie del comune del Kenya (Lubumbashi-RDC) erano gestite dai Salesiani di Don Bosco. Il mio primo contatto con i salesiani è stato alla scuola materna (4 anni), dove ho conosciuto salesiani come i padri Eugène, Carlos Sardo, Angelo Pozzi e Luigi Landoni. Nella mia parrocchia di Saint Benoit (Kenya), quando ero molto giovane, andavo all’oratorio e al parco giochi, dove ho incontrato anche padre Jacques Hantson, sdb, e i giovani salesiani in formazione che venivano da Kansebula (post-noviziato). Nella stessa parrocchia ho conosciuto anche padre André Ongenaert, sdb. Intorno al 1987, la famiglia si trasferì nel quartiere dietro la Cité des Jeunes de Lubumbashi, fondata dai Salesiani. Lì ho avuto il privilegio di conoscere molti salesiani e missionari africani.
Così, fin da piccolo, ho covato il desiderio di diventare come questi salesiani che venivano a fare pastorale nella mia parrocchia, perché mi ispiravano tanto il loro modo di fare e di stare con noi, il loro modo di accogliere i bambini e la disponibilità che avevano ad ascoltare i giovani, soprattutto il loro impegno al servizio dei giovani poveri e la gioia che mettevano intorno a tutti noi.

Come ha conosciuto Don Bosco / i Salesiani?
Come ho detto prima, ho conosciuto Don Bosco attraverso i Salesiani di Don Bosco nella mia parrocchia, nella mia scuola, nella mia formazione attraverso i Salesiani, i libri e i film su Don Bosco.

Ricorda un educatore in particolare?
Padre Jacques Hantson, per lo spirito salesiano e missionario con cui ci guidava nell’oratorio della parrocchia di Saint Benoît a Lubumbashi. Padre Hantson era un missionario belga e oggi riposa presso il Padre celeste.

Quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato?
Le maggiori difficoltà che abbiamo incontrato finora sono la miseria dei giovani abbandonati dallo Stato, dai genitori e dagli adulti; giovani che sono diventati vittime della guerra, della disoccupazione, della droga, della prostituzione, della povertà e dello sfruttamento in varie forme. L’altra difficoltà è la mancanza di soluzioni reali ai problemi dei giovani e la mancanza di risorse umane, materiali e finanziarie per fornire un’assistenza adeguata a questi giovani vulnerabili in difficoltà.

Qual è la tua esperienza più bella?
L’esperienza più bella della mia vita salesiana è stata quella di assistente nella casa di pre-noviziato, nelle attività oratoriane e nella pastorale scolastica e sociale.
Nel corso del tempo ho imparato che dalle esperienze positive e negative bisogna trarre buoni insegnamenti per la vita e cercare di essere positivi per realizzare l’ottimismo salesiano.

I cristiani nella regione sono perseguitati?
Devo dire che l’area geografica della nostra visitatoria è, per grazia, prevalentemente cristiana. Quindi i cristiani non sono perseguitati qui. Tuttavia, a volte sono vittime della situazione socio-politica e di sicurezza dei Paesi che compongono la nostra visitatoria.

Quali sono le grandi sfide dell’evangelizzazione e della missione oggi?
Oggi le grandi sfide dell’evangelizzazione e della missione sono quelle del mondo digitale, dove troviamo un numero abbastanza elevato di giovani che si confrontano con l’intelligenza artificiale, con tutte le sue insidie.
Un’altra sfida specifica per la nostra visitatoria è l’espansione della missione salesiana in tutta la nostra area geografica. Ci sono giovani in periferia che hanno bisogno del carisma di Don Bosco. Ma perché questo avvenga, dobbiamo investire molto nella formazione di salesiani di qualità che siano veramente “appassionati di Gesù Cristo e dedicati ai giovani”.

Che ruolo ha Maria Ausiliatrice nella sua vita?
Come cristiano cattolico e salesiano di Don Bosco, Maria ha un posto importante nella mia vita. Grazie alla spiritualità salesiana, ho imparato ad approfondire la dimensione della devozione a Maria Ausiliatrice. Ogni mattina, al termine della nostra meditazione, recitiamo la preghiera salesiana a Maria Ausiliatrice, e trovo il tempo, durante il giorno e la sera, di chiedere alla Vergine Maria aiuto per la mia vocazione, per la missione salesiana, per la famiglia salesiana e soprattutto per i giovani. Ho una grande fiducia in Lei. Lei è mia Madre. È intrinsecamente legata alla mia vocazione, anzi la devo a lei.

Cosa direbbe ai giovani di oggi?
Viste le sfide che i giovani di oggi devono affrontare, ci sono molte cose da dire. Ai giovani dico che Dio ha fatto loro un grande dono nella persona di Don Bosco attraverso il carisma salesiano. Ogni giovane che incontra Don Bosco ha il dovere di costruire la propria vita sui valori salesiani. Non c’è bisogno che vi ricordi l’ordine che Don Bosco ci ha lasciato: “Insegnate ai giovani la bruttezza del peccato e la bellezza della virtù”. Chi non ha ancora conosciuto Don Bosco dovrebbe rivolgersi a un’organizzazione salesiana. Cari giovani, voi siete i protagonisti del vostro futuro, un futuro migliore e radioso! Perciò non perdete tempo. Impegnatevi. Approfittate del carisma salesiano. È lì per voi.