Intervista a don Alexandre Luís de Oliveira, ispettore dell’Ispettoria Salesiana di San Paolo

Abbiamo fatto a don Alexandre Luís de Oliveira, nuovo ispettore dell’Ispettoria Salesiana di San Paolo (BSP), alcune domande per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

Don De Oliveira è nato a Campinas, nello Stato di San Paolo, il 18 ottobre 1975. Ha conosciuto i Salesiani proprio nell’opera salesiana di Campinas, dove è stato allievo dell’istituto e ha partecipato ai gruppi giovanili e alle attività parrocchiali.
Sua madre, Tamar A. Da Silva, vive ancora attualmente nella città di Campinas.
Ha svolto il noviziato a Indápolis, presso Dourados, il post-noviziato a Lorena, il tirocinio a San Carlos e Pindamonhangaba e gli studi teologici nella casa di Lapa, a San Paolo. Ha emesso la professione perpetua il 31 gennaio 2004 a San Paolo, ed è stato ordinato sacerdote il 17 dicembre 2005 a Campinas.
Ha trascorso i suoi primi anni da sacerdote nella presenza salesiana di Lorena, presso l’Istituto “San Joaquín” (2006-2008). Dal 2009 al 2011 è stato Direttore e Parroco dell’opera salesiana della città di Americana; nel 2012 è diventato Direttore della Casa Ispettoriale di San Paolo, e al contempo Delegato di Pastorale Giovanile; dal 2013 al 2017 è stato Direttore del Postnoviziato di Lorena e Delegato ispettoriale per la Formazione; dal 2018 al 2022 Direttore e parroco della casa “Maria Ausiliatrice” di Campinas e attualmente è Direttore della casa “San José”, sempre a Campinas. Ha inoltre ricoperto l’incarico di Consigliere Ispettoriale per tre trienni consecutivi, dal 2012 al 2020.
Don De Oliveira succede nell’incarico a don Justo Piccinini, che ha concluso il suo mandato di sei anni come Ispettore.

Può farci una autopresentazione?
Sono don Alexandre Luís de Oliveira, brasiliano, dell’Ispettoria Salesiana di San Paolo (BSP). Ho 49 anni, 25 anni di professione religiosa, 19 anni di ordinazione sacerdotale e attualmente sono ispettore.
Sono della città di Campinas SP. Ho frequentato la casa salesiana da bambino. Sono stato un piccolo corista, un oratoriano e un ex allievo del Centro Professionale Don Bosco presso la Scuola Salesiana di San Giuseppe. Insieme alla mia famiglia, frequentavo anche la cappella della Scuola Salesiana di San Giuseppe e della Parrocchia di Nostra Signora Ausiliatrice. Vivendo con i salesiani e frequentando questi ambienti, mi sono sentito chiamato ad un discernimento vocazionale.

Perché salesiano?
Salesiano, perché mi sento profondamente identificato con il carisma di Don Bosco: l’educazione e l’evangelizzazione dei giovani.

Come ha reagito la tua famiglia?
Fin dall’inizio, la mia famiglia mi ha accompagnato con il suo sostegno e le sue costanti preghiere affinché si compisse la volontà di Dio su di me e che fossi felice del mio progetto di vita.

L’incontro e la persona che più ti hanno colpito
Mi ha sempre colpito la presenza dei salesiani che sono molto vicini ai giovani. Questa facilità di accesso mi riporta sempre alla mente bei ricordi e mi ha anche stimolato nella mia risposta vocazionale.

La gioia più grande?
La mia gioia più grande è la mia consacrazione religiosa e il giorno della mia ordinazione sacerdotale. Essere un sacerdote salesiano mi appaga profondamente.

Quali sono le necessità locali più urgenti e dei giovani?
Credo che il bisogno più urgente dei giovani sia quello di avere riferimenti creativi nel loro processo di formazione/educazione ai valori.

Che cosa si potrebbe fare di più e meglio?
Credo che, come Salesiani di Don Bosco, possiamo essere più vicini ai giovani, possiamo offrire loro maggiori opportunità di contatto con noi consacrati e in questo modo, attraverso la nostra testimonianza, possiamo anche invitarli alle vocazioni.

Programmi per il futuro? Sogni? Iniziative?
Per il presente e per il futuro, possiamo essere segni vivi della presenza di Don Bosco tra i giovani, le nostre comunità possono essere più aperte ad accoglierli e ad offrire loro reali opportunità di crescita spirituale, umana, educativa e professionale.

Ha un messaggio per la Famiglia Salesiana?
Un messaggio di speranza viva, di ritorno alle origini, di ritorno a Don Bosco. Che possiamo sognare il suo sogno e i sogni dei giovani. Che le nostre comunità, le scuole, le opere sociali, le parrocchie e i centri universitari siano una casa per i giovani, un luogo per la loro realizzazione.




Come trovare le risorse per costruire una chiesa

Un segreto da individuare
Si sa, la fama di don Bosco e delle sue capacità realizzatrici si diffondeva in Italia. Visto infatti che riusciva in tante imprese, molti gli chiedevano consigli su come riuscire a fare altrettanto.
Come trovare i fondi per costruire una chiesa? Glielo chiese espressamente la signora Marianna Moschetti di Castagneto di Pisa (oggi Castagneto Carducci-Livorno) nel 1877. La risposta di don Bosco l’11 aprile, nella sua brevità e semplicità, è ammirevole.

Punto di partenza: conoscere la situazione
Anzitutto con la saggezza pratica che gli veniva dall’educazione familiare e dall’esperienza di fondatore-costruttore-realizzatore di tanti progetti, don Bosco mette le mani avanti e intelligentemente scrive che “sarebbe necessario potersi parlare per esaminare quali progetti si possono fare e quali probabilità vi abbia di poterli effettuare”. Senza un sano realismo i migliori progetti rimangono un sogno. Il santo però non vuole scoraggiare subito la sua corrispondente, per cui aggiunge immediatamente “quello che mi pare bene nel Signore”.

In nomine Domini
Incomincia bene, si direbbe, con questo “nel Signore”. Difatti il primo, e dunque il più importante consiglio che dà alla signora, è quello di “Pregare ed invitare altri a pregare e fare delle Comunioni a Dio, come mezzo efficacissimo per meritarci le sue grazie”. La chiesa è la casa del Signore, che non mancherà di benedire un progetto di chiesa se sarà avanzato da chi confida in Lui, da chi Lo prega, da chi vive la vita cristiana e si serve dei mezzi indispensabili. Una vita di grazia merita certamente le grazie del Signore (don Bosco ne è convinto), anche se tutto è grazia: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”.

La collaborazione di tutti
La chiesa è la casa di tutti; certo il parroco ne è il primo responsabile, ma non l’unico. Dunque i laici devono sentirsi corresponsabili e fra loro i più sensibili, i più disponibili, magari i più capaci (quelli che oggi potrebbero far parte del Consiglio pastorale e del Consiglio economico di ogni parrocchia). Ecco allora il secondo consiglio di don Bosco: “Invitare il Parroco a mettersi alla testa di due comitati numerosi, per quanto è possibile. Uno di uomini, l’altro di donne. Ciascun membro di questo comitato si firmi per un’oblazione divisa in tre rate, una per anno”.
Notiamo: due comitati, uno maschile e uno femminile. Certo, l’epoca vedeva normalmente separate le associazioni maschili e femminili di una parrocchia; ma perché anche non vedervi una giusta e leale “concorrenza” nel fare il bene, nel gestire un progetto con le proprie forze, ciascun gruppo “a suo modo”, con le sue strategie? Don Bosco sapeva quanto lui stesso era economicamente debitore al mondo femminile, alle marchese, alle contesse, alle nobildonne in genere: solitamente più religiose dei mariti, più generose nelle opere di carità, più disponibili “a soccorrere le necessità della Chiesa”. Puntare su di loro era saggezza.

Allargare la cerchia
Ecco infatti don Bosco aggiungere subito: “Nel tempo stesso ognuno cerchi oblatori in danaro, in lavoro, o in materiali. Per esempio invitare chi faccia fare un altare, il pulpito, i candelieri, una campana, i telai delle finestre, la porta maggiore, le minori, i vetri ecc. Ma una cosa sola caduno”. Bellissimo. Ognuno si doveva impegnare in qualche cosa che poteva giustamente ritenere un suo personale dono alla chiesa in costruzione.
Don Bosco non aveva fatto studi di psicologia, ma sapeva – come sanno tutti i parroci e non solo loro – che solleticando il legittimo orgoglio delle persone si può ottenere molto anche in fatto di generosità, di solidarietà, di altruismo. Del resto in tutta la sua vita aveva avuto bisogno di altri: per studiare da fanciullo, per andare alle scuole di Chieri da giovane, per entrare in seminario da chierico, per iniziare la sua opera da prete, per svilupparla da fondatore.

Un segreto
Don Bosco fa poi il misterioso con la sua corrispondente: “Se potessi parlare col Parroco potrei in confidenza suggerire altro mezzo; ma mi rincresce affidarlo alla carta”. Di che si trattava? Difficile dirlo. Si potrebbe pensare alla promessa d’indulgenze speciali per tali benefattori, ma sarebbe occorso rivolgersi a Roma e don Bosco sapeva quanto questo fatto poteva suscitare difficoltà con il vescovo e con altri parroci impegnati pure loro sugli stessi fronti edilizi. Forse più probabile era un invito, riservatissimo, di cercare l’appoggio di autorità politiche perché ne sostenessero la causa. Il suggerimento sarebbe però stato meglio farlo oralmente, per non compromettersi né di fronte alle autorità civili, né a quelle religiose, in tempi di durissima opposizione fra loro, con la Sinistra storica al potere, più anticlericale della precedente Destra.
Che poteva dire di più? Una cosa importante per entrambi: la preghiera. E difatti così si commiata dalla sua corrispondente: “Io pregherò che ogni cosa vada bene. L’unico mio appoggio è sempre stato il ricorso a Gesù Sacramentato, ed a Maria Ausiliatrice. Dio la benedica e preghi per me che le sarò sempre in G.C.”.




La rosa

Il poeta tedesco Rilke abitò per un certo periodo a Parigi. Per andare all’Università percorreva ogni giorno, in compagnia di una sua amica francese, una strada molto frequentata.
Un angolo di questa via era permanentemente occupato da una mendicante che chiedeva l’elemosina ai passanti. La donna sedeva sempre allo stesso posto, immobile come una statua, con la mano tesa e gli occhi fissi al suolo.
Rilke non le dava mai nulla, mentre la sua compagna le donava spesso qualche moneta.
Un giorno la giovane francese, meravigliata domandò al poeta:
– Ma perché non dai mai nulla a quella poveretta?
– Dovremmo regalare qualcosa al suo cuore, non alle sue mani, rispose il poeta.
Il giorno dopo, Rilke arrivò con una splendida rosa appena sbocciata, la depose nella mano della mendicante e fece l’atto di andarsene.
Allora accadde qualcosa d’inatteso: la mendicante alzò gli occhi, guardò il poeta, si sollevò a stento da terra, prese la mano dell’uomo e la baciò. Poi se ne andò stringendo la rosa al seno.
Per una intera settimana nessuno la vide più. Ma otto giorni dopo, la mendicante era di nuovo seduta nel solito angolo della via. Silenziosa e immobile come sempre.
– Di che cosa avrà vissuto in tutti questi giorni in cui non ha ricevuto nulla? chiese la giovane francese.
– Della rosa, rispose il poeta.

«Esiste un solo problema, uno solo sulla terra. Come ridare all’umanità un significato spirituale, suscitare un’inquietudine dello spirito. È necessario che l’umanità venga irrorata dall’alto e scenda su di lei qualcosa che assomigli a un canto gregoriano. Vedete, non si può continuare a vivere occupandosi soltanto di frigoriferi, politica, bilanci e parole crociate. Non è possibile andare avanti così», ha scritto Antoine de Saint-Exupéry.




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (1/2)

 

            Dopo dieci anni di studi a Parigi e tre anni all’Università di Padova, Francesco di Sales ritornò in Savoia poco prima dell’inizio della primavera del 1592. Al cugino Louis confidò che era «sempre più deciso di abbracciare lo stato ecclesiastico, nonostante la resistenza dei suoi signori genitori». Tuttavia, accettò di andare a Chambéry per iscriversi al foro del Senato di Savoia.
            In verità, era in gioco l’intero orientamento della sua vita. Da una parte, infatti, c’era l’autorità del padre che gli comandava, essendo Francesco il figlio maggiore, di prendere in considerazione una carriera nel mondo; dall’altra, c’erano le sue inclinazioni e la crescente consapevolezza di dover seguire una vocazione particolare: «essere di Chiesa». Se è vero che «i padri fanno tutto per il bene dei loro figli», è altrettanto vero che le vedute degli uni e degli altri non sempre coincidono. Suo padre, il signor de Boisy sognava per Francesco una magnifica carriera: senatore del ducato e (perché no?) presidente del sovrano Senato di Savoia. Francesco di Sales scriverà un giorno che i padri «non sono mai soddisfatti e non sanno mai smettere di parlare ai loro figli dei mezzi che li possono rendere più grandi».
            Ora, per lui l’ubbidienza era un imperativo fondamentale e ciò che più tardi dirà a Filotea era una regola di vita che certamente seguiva fin dall’infanzia: «Dovete umilmente obbedire ai vostri superiori ecclesiastici, come il papa e il vescovo, il parroco e i loro rappresentanti; dovete poi obbedire ai vostri superiori politici, cioè il vostro principe e i magistrati da lui istituiti nel vostro paese; dovete infine obbedire ai superiori di casa vostra, cioè vostro padre, vostra madre». Il problema nasceva dall’impossibilità di conciliare le differenti obbedienze. Tra la volontà di suo padre e la propria (che percepiva sempre più essere quella di Dio) l’opposizione diventerà inevitabile. Seguiamo le tappe della maturazione vocazionale di un «dolce ribelle».

Sguardo retrospettivo
            Per comprendere il dramma vissuto da Francesco occorre rivisitare il passato, perché tale dramma segnò l’intera sua giovinezza per giungere a soluzione nel 1593. Dall’età di circa dieci anni, Francesco coltivava in sé un proprio progetto di vita. Ne fanno fede non pochi avvenimenti da lui vissuti o provocati. A undici anni, prima di partire per Parigi, aveva chiesto a suo padre il permesso di ricevere la tonsura. Detta cerimonia, durante la quale il vescovo collocava il candidato sul primo gradino della carriera ecclesiastica, ebbe effettivamente luogo il 20 settembre 1578 Clermont-en-Genevois. Suo padre, che in un primo momento si era opposto, alla fine cedette, perché riteneva si trattasse unicamente di un capriccio infantile. Nel corso dell’esame preliminare, stupito per l’esattezza delle risposte e la modestia del candidato, il vescovo gli avrebbe detto: «Ragazzo mio, coraggio, sarai un buon servitore di Dio». Al momento di sacrificare i suoi biondi capelli, Francesco confessò di aver provato un certo dispiacere. Tuttavia l’impegno preso gli resterà sempre fisso nella memoria. Confiderà, infatti, un giorno a madre Angélique Arnauld: «Da dodici anni in poi, sono stato talmente risoluto di essere di Chiesa, che neppure per un regno avrei cambiato la mia intenzione».
            Quando suo padre, che non era insensibile, decise di inviarlo a Parigi per compiervi gli studi, dovette provare nell’animo sentimenti contradditori, descritti nel Teotimo: «Un padre quando manda il figlio a corte o agli studi – scriveva –, non per questo non piange salutandolo, dimostrando che, benché lo voglia secondo la parte superiore, per il bene del figlio, tuttavia, quella partenza causa dispiacere alla parte inferiore, per cui non vorrebbe lasciarlo partire». Si richiamino alla memoria anche la scelta del collegio dei gesuiti a Parigi, preferito a quello di Navarre, il comportamento di Francesco durante la sua formazione, l’influsso della direzione spirituale del padre Possevino a Padova e tutti gli altri fattori che hanno potuto giocare a favore del consolidarsi della vocazione ecclesiastica.
            Ma davanti a lui si ergeva un roccioso ostacolo: la volontà paterna, cui doveva non soltanto umile sottomissione, secondo il costume dell’epoca, ma anche qualcosa di più e di meglio, perché «l’amore e il rispetto che un figlio porta al padre gli fanno decidere non soltanto di vivere secondo i suoi comandi, ma anche secondo i desideri e le preferenze che esprime». A Parigi, verso la fine del suo soggiorno, fu profondamente impressionato dalla decisione del duca di Joyeuse, antico favorito di Enrico III, che si era fatto cappuccino in seguito alla morte della moglie. Secondo il suo amico Jean Pasquelet, «se non avesse avuto paura di turbare l’animo del signor de Boisy, suo padre, essendone il primogenito, si sarebbe fatto senza fallo cappuccino».
            Studiò per ubbidienza, ma anche per rendersi utile al prossimo. «Ed è ancora vero –ha testimoniato il padre de Quoex – quello che mi ha detto mentre era a Parigi e a Padova, che cioè era interessato non tanto a ciò che stava studiando, ma piuttosto a pensare se un giorno avrebbe potuto servire degnamente Dio e aiutare il prossimo mediante gli studi che stava facendo». Nel 1620 confidò a François de Ronis: «Mentre ero a Padova, studiai il diritto per piacere a mio padre, e per piacere a me stesso studiai teologia». Parimenti, François Bochut dichiarò che «allorché venne inviato a Padova a studiare legge per far cosa grata ai genitori, la sua inclinazione lo portava ad abbracciare lo stato ecclesiastico», e che colà «compì la maggior parte dei suoi studi teologici, dedicandovi la maggior parte del suo tempo». Quest’ultima affermazione pare chiaramente esagerata: Francesco di Sales dovette certamente consacrare la parte più importante del suo tempo e delle sue forze agli studi giuridici che rientravano nel suo «dovere di stato». Quanto a suo padre, Jean-Pierre Camus riferisce questa confidenza significativa: «Avevo – mi diceva – il migliore padre del mondo; ma era un brav’uomo che aveva trascorso gran parte dei suoi anni a corte e in guerra, per cui ne conosceva le massime meglio di quelle della teologia».
            Fu probabilmente il padre Possevino colui che divenne il suo miglior sostegno nell’orientarne la vita. Secondo il suo nipote Charles-Auguste, Possevino gli avrebbe detto: «Continui a pensare alle cose divine e a studiare teologia», aggiungendo delicatamente: «Mi creda, il suo spirito non è adatto agli affanni del foro e i suoi occhi non sono fatti per sopportarne il polverone; la strada del secolo è troppo scivolosa, c’è il pericolo di perdersi. Non c’è forse più gloria nell’annunciare la parola del nostro buon Dio a migliaia di esseri umani, dalle cattedre delle chiese, che a scaldarsi le mani battendo i pugni sui banchi dei procuratori per risolverne le controversie»? Fu indubbiamente l’attrattiva per questo ideale a consentirgli di resistere a certe manovre e a farse di cattivo gusto di alcuni compagni che non erano certo modelli di virtù.

Un discernimento e una scelta molto difficili
            Nel viaggio di ritorno da Padova, Francesco di Sales portava con sé una lettera del suo antico professore Panciroli diretta al padre, in cui lo si consigliava di inviare il figlio al Senato. Il signor de Boisy non desiderava altro, e a tale scopo aveva preparato per Francesco una ricca biblioteca di diritto, gli procurò una terra e un titolo, destinandolo ad essere il signore di Villaroget. Infine, gli chiese di incontrare Françoise Suchet, una adolescente di quattordici anni, «figlia unica e molto bella», precisa Charles-Auguste, per avviare «accordi preliminari di matrimonio». Francesco aveva venticinque anni, un’età da maggiorenne nella mentalità dell’epoca e adatta per convolare a nozze. La sua scelta era ormai fatta da lungo tempo, ma non volle creare rotture, preferendo preparare il padre in attesa del momento favorevole.
            Incontrerà a più riprese la signorina, alla quale faceva però comprendere di avere altre intenzioni. «Per compiacere suo padre – dichiarò François Favre al processo di beatificazione – fece visita alla citata signorina, di cui ammirava le virtù», ma «non poté essere convinto ad accettare tale matrimonio, nonostante tutti gli sforzi compiuti al riguardo da suo padre». Francesco rivelò parimenti a Amé Bouvard, suo confidente: «Per obbedire a mio padre vidi la signorina alla quale intendeva di cuore destinarmi, ne ammirai la virtù», aggiungendo, schietto e convinto: «Credimi, ti dico la verità: l’unico mio volere è sempre stato quello di abbracciare la vita ecclesiastica». Claude de Blonay affermava di aver udito dalle stesse labbra di Francesco «che aveva rifiutato tale bella alleanza, non già per disprezzo del matrimonio, del quale aveva grande rispetto in quanto sacramento, quanto piuttosto per un certo ardore, intimo e spirituale, che lo inclinava a porsi totalmente al servizio della Chiesa e a essere tutto di Dio, con un cuore indiviso».
            Nel frattempo, il 24 novembre 1592, nel corso di una seduta in cui diede lodevole prova delle sue capacità, era stato accolto come avvocato nel foro di Chambéry. Di ritorno da Chambéry, scorse un segno celeste in un incidente riferito da Michel Favre: «Il cavallo si accasciò sotto di lui e la spada uscita dal fodero si venne a trovare per terra con la punta rivolta contro di lui, [sicché] da ciò trasse un’ulteriore prova convincente che Dio lo voleva al suo servizio, assieme alla speranza che gliene avrebbe fornito i mezzi». Secondo Charles-Auguste, la spada «uscita dalla guaina aveva tracciato una specie di croce». Ciò che pare sicuro è che la prospettiva di una professione da avvocato non doveva entusiasmarlo, se si presta fede a quanto scriverà successivamente:

[Secondo alcuni,] quando il camaleonte si gonfia, cambia di colore; ciò avviene per la paura e l’apprensione, dicono altri. Democrito afferma che la lingua strappatagli, lui vivente, ha fatto vincere i processi a chi l’aveva in bocca; ciò si applica bene alla lingua degli avvocati, che sono dei veri camaleonti.

            Alcune settimane più tardi gli venne fatta giungere da Torino la patente di senatore. Era un onore straordinario per la sua età, perché se «gli avvocati discutono nel foro con molte parole sui fatti e sui diritti delle parti», «il Parlamento o Senato risolve con un decreto dall’alto tutte le difficoltà». Francesco non volle accettare tale alto incarico, che poteva sconvolgere nuovamente tutti i dati del problema. Nonostante lo stupore scandalizzato del padre e le pressioni dei migliori amici, mantenne rigorosamente il suo rifiuto. E anche quando gli si dimostrò che il cumulo di incarichi civili ed ecclesiastici era ammesso, rispose che «non bisognava mescolare le cose sacre con quelle profane».
            Venne infine il giorno in cui, per un felice concorso di circostanze, gli fu possibile sbrogliare una situazione complicata, la quale poteva degenerare in una dolorosa rottura con la famiglia. Dopo qualche mese, e precisamente dopo la morte del prevosto della cattedrale nell’ottobre del 1592, alcuni confidenti avevano presentato a Roma, a sua insaputa, una domanda per ottenergli tale incarico, che faceva del suo titolare il primo personaggio della diocesi dopo il vescovo. Il 7 maggio 1593 arrivò la nomina romana. Due giorni dopo ebbe luogo l’incontro che stava per segnare la svolta della sua vita. Con l’appoggio della madre, Francesco rivolse al suo vecchio padre la richiesta che non aveva mai osato formulargli: «Abbiate la cortesia, padre mio, […] di permettermi di essere di Chiesa».
            Durissimo fu il colpo per il signor de Boisy, che vedeva d’un tratto crollare i suoi piani. Rimase «sconvolto» perché non si attendeva tale richiesta. Charles-Auguste aggiunge che «la sua signora non lo fu meno», essendo stata presente alla scena. Per il padre, il desiderio del figlio di essere prete era un «umore» che qualcuno gli aveva messo in testa o che gli aveva «consigliato».

Speravo, gli disse, che saresti stato il bastone della mia vecchiaia, ed invece ti allontani prima del tempo da me. Stai attento a ciò che farai. Forse hai ancora bisogno di maturare la decisione. Hai la testa fatta per una berretta più maestosa. Hai dedicato tanti anni allo studio della legge: la giurisprudenza non ti servirà a niente sotto una sottana da prete. Hai dei fratelli ai quali devi fare da padre quando mancherò loro.

            Per Francesco era un’esigenza interiore, una «vocazione» che impegnava tutta la sua persona e l’intera sua vita. Il padre aveva rispetto per il sacerdozio, ma lo reputava ancora una semplice funzione, un mestiere. Ora la riforma cattolica mirava a conferire al sacerdozio una rinnovata configurazione, più alta e più esigente, a considerarlo cioè una chiamata di Dio sancita dalla Chiesa. Al dovere di rispondere a tale appello divino corrispondeva forse anche un nuovo diritto della persona umana, che Francesco difese di fronte alla decisione «unilaterale» del padre. Questi, dopo aver esposto tutte le sue buone ragioni contrarie a tale progetto, sapendo che il figlio avrebbe occupato un posto molto onorevole, finì per cedere: «Per Dio, fai ciò che credi».
            In un’opera apparsa nel 1669, Nicolas de Hauteville commenterà questo episodio paragonando il dramma del signor de Boisy a quello di Abramo, al quale Dio aveva comandato di sacrificargli il figlio. Ma con questa differenza, che era stato Francesco a imporre al padre il sacrificio. In effetti, scriveva l’antico cronista, «l’intera adolescenza e giovinezza [di Francesco] fu un tempo di gioia, di speranza e di consolazione assai gratificante per il suo buon padre, ma alla fin fine occorre confessare che questo [nuovo] Isacco fu per lui un ragazzo causa di preoccupazioni, di amarezze e di dolore». E aggiungeva che «la lotta che si scatenò dentro di lui, lo fece ammalare gravemente, trovando duro consentire a questo amato figlio di sposare un breviario al posto di una signorina avvenente e ricca ereditiera di un nobilissimo e antichissimo casato della Savoia».

(continua)




La lettera da Roma (1884)

Nell’1884, trovandosi a Roma, pochi giorni prima di tornare a Torino, don Bosco ebbe due sogni che gli trascrisse in una lettera che invio ai suoi amati di Valdocco. È conosciuta come “La lettera da Roma” ed è uno dei testi più studiati e commentati. Proponiamo alla lettura il testo integrale, originale.

Miei carissimi figliuoli in G. C.,

            Vicino o lontano io penso sempre a voi. Un solo è il mio desiderio, quello di vedervi felici nel tempo e nell’eternità. Questo pensiero, questo desiderio mi risolsero a scrivervi questa lettera. Sento, o cari miei, il peso della mia lontananza da voi e il non vedervi e il non sentirvi mi cagiona pena, quale voi non potete immaginare. Perciò io avrei desiderato scrivere queste righe una settimana fa, ma le continue occupazioni me lo impedirono. Tuttavia benché pochi giorni manchino al mio ritorno, voglio anticipare la mia venuta fra voi almeno per lettera, non potendolo di persona. Sono le parole di chi vi ama teneramente in Gesù Cristo ed ha dovere di parlarvi colla libertà di un padre. E voi me lo permetterete, non è vero? E mi presterete attenzione e metterete in pratica quello che sono per dirvi.
            Ho affermato che voi siete l’unico ed il continuo pensiero della mia mente. Or dunque in una delle sere scorse io mi era ritirato in camera, e mentre mi disponeva per andare a riposo, aveva incominciato a recitare le preghiere, che mi insegnò la mia buona mamma.
            In quel momento non so bene se preso dal sonno o tratto fuor di me da una distrazione, mi parve che mi si presentassero innanzi due degli antichi giovani dell’Oratorio.
            Uno di questi due mi si avvicinò e salutatomi affettuosamente, mi disse:
            – O Don Bosco! Mi conosce?
            – Sì che ti conosco, risposi.
            – E si ricorda ancora di me? soggiunse quell’uomo.
            – Di te e di tutti gli altri. Tu sei Valfrè ed eri nell’Oratorio prima del 1870.
            – Dica! continuò quell’uomo, vuol vedere i giovani, che erano nell’Oratorio ai miei tempi?
            – Si, fammeli vedere, io risposi, ciò mi cagionerà molto piacere.
            Allora Valfrè mi mostrò i giovani tutti colle stesse sembianze e colla statura e nell’età di quel tempo. Mi pareva di essere nell’antico Oratorio nell’ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Qui si giuocava alla rana, là a bararotta ed al pallone. In un luogo era radunato un crocchio di giovani, che pendeva dal labbro di un prete, il quale narrava una storiella. In un altro luogo un chierico che in mezzo ad altri giovanetti giuocava all’asino vola ed ai mestieri. Si cantava, si rideva da tutte parti e dovunque chierici e preti, e intorno ad essi i giovani che schiamazzavano allegramente. Si vedeva che fra i giovani e i superiori regnava la più grande cordialità e confidenza. Io era incantato a questo spettacolo, e Valfrè mi disse:
            – Veda, la famigliarità porta affetto e l’affetto porta confidenza. Ciò è che apre i cuori e i giovani palesano tutto senza timore ai maestri, agli assistenti ed ai Superiori. Diventano schietti in confessione e fuori di confessione e si prestano docili a tutto ciò, che vuol comandare colui, dal quale sono certi di essere amati.
            In quell’istante si avvicinò a me l’altro mio antico allievo, che aveva la barba tutta bianca e mi disse:
            – Don Bosco, vuole adesso conoscere e vedere i giovani, che attualmente sono nell’Oratorio?
            Costui era Buzzetti Giuseppe.
            – Sì, risposi io; perché è già un mese che più non li vedo!
            E me lì additò: vidi l’Oratorio e tutti voi che facevate ricreazione, Ma non udiva più grida di gioia e cantici, non più vedeva quel moto, quella vita, come nella prima scena.
            Negli atti e nel viso di molti giovani si leggeva una noia, una spossatezza, una musoneria, una diffidenza, che faceva pena al mio cuore. Vidi, è vero, molti che correvano, giuocavano, si agitavano con beata spensieratezza, ma altri non pochi io ne vedeva, star soli, appoggiati ai pilastri in preda a pensieri sconfortanti; altri su per le scale e nei corridoi o sopra i poggioli dalla parte del giardino per sottrarsi alla ricreazione comune; altri passeggiare lentamente in gruppi parlando sottovoce fra di loro, dando attorno occhiate sospettose e maligne: talora sorridere ma con un sorriso accompagnato da occhiate da far non solamente sospettare, ma credere che S. Luigi avrebbe arrossito se si fosse trovato in compagnia di costoro; eziandio fra coloro che giuocavano ve ne erano alcuni così svogliati, che facevano veder chiaramente, come non trovassero gusto nei divertimenti.
            – Ha visto i suoi giovani? mi disse quell’antico allievo.
            – Li vedo, risposi sospirando.
            – Quanto sono differenti da quelli che eravamo noi una volta! esclamò quell’antico allievo.
            – Pur troppo! Quanta svogliatezza in questa ricreazione!
            – E di qui proviene la freddezza in tanti nell’accostarsi ai santi Sacramenti, la trascuranza delle pratiche di pietà in chiesa e altrove, lo star mal volentieri in un luogo ove la Divina Provvidenza li ricolma di ogni bene pel corpo, per l’anima, per l’intelletto. Di qui il non corrispondere che molti fanno alla loro vocazione; di qui le ingratitudini verso i Superiori; di qui i segretumi e le mormorazioni, con tutte le altre deplorevoli conseguenze.
            – Capisco, intendo, risposi io. Ma come si possono rianimare questi miei cari giovani acciocché riprendano l’antica vivacità, allegrezza, espansione?
            – Colla carità!
            – Colla carità? Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu lo sai se io li amo. Tu sai quanto per essi ho sofferto e tollerato pel corso di ben quaranta anni, e quanto tollero e soffro ancora adesso. Quanti stenti quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni, per dare ad essi pane, casa, maestri e specialmente per procurare la salute delle loro anime. Ho fatto quanto ho saputo e potuto per coloro che formano l’affetto di tutta la mia vita.
            – Non parlo di lei!
            – Di chi dunque? Di coloro che fanno le mie veci? Dei direttori, prefetti, maestri, assistenti? Non vedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumano i loro anni giovanili per coloro, che ad essi affidò la Divina Provvidenza?
            – Vedo, conosco; ma ciò non basta: ci manca il meglio.
            – Che cosa manca adunque?
            – Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati.
            – Ma non hanno gli occhi in fronte? Non hanno il lume dell’intelligenza? Non vedono che quanto si fa per essi è tutto per loro amore?
            – No; lo ripeto, ciò non basta.
            – Che cosa ci vuole adunque?
            – Che essendo amati in quelle cose che loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioni infantili, imparino a veder l’amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco; quali sono, la disciplina, lo studio, la mortificazione di sé stessi; e queste cose imparino a far con slancio ed amore.
            – Spiegati meglio!
            – Osservi i giovani in ricreazione.
            Osservai e quindi replicai:
            – E che cosa c’è di speciale da vedere?
            – Sono tanti anni che va educando giovani, e non capisce? Guardi meglio! Dove sono i nostri Salesiani?
            Osservai e vidi che ben pochi preti e chierici si mescolavano fra i giovani e ancor più pochi prendevano parte ai loro divertimenti. I Superiori non erano più l’anima della ricreazione. La maggior parte di essi passeggiavano fra di loro parlando, senza badare che cosa facessero gli allievi: altri guardavano la ricreazione non dandosi nessun pensiero dei giovani: altri sorvegliavano così alla lontana senza avvertire chi commettesse qualche mancanza; qualcuno poi avvertiva ma in atto minaccioso e ciò raramente. Vi era qualche Salesiano che avrebbe desiderato intromettersi in qualche gruppo dì giovani, ma vidi che questi giovani cercavano studiosamente di allontanarsi dai maestri e dai Superiori.
            Allora quel mio amico ripigliò:
            – Negli antichi tempi dell’Oratorio lei non stava sempre in mezzo ai giovani e specialmente in tempo di ricreazione? Si ricorda quei belli anni? Era un tripudio di Paradiso, un’epoca che ricordiamo sempre con amore, perché l’affetto era quello che ci serviva di regola; e noi per lei non avevamo segreti.
            – Certamente! E allora tutto era gioia per me e nei giovani uno slancio per avvicinarsi a me, per volermi parlare, ed una viva ansia di udire i miei consigli e metterli in pratica. Ora però vedi come le udienze continue e gli affari moltiplicati e la mia sanità me lo impediscono.
            – Va bene: ma se lei non può perché i suoi Salesiani non si fanno suoi imitatori? Perché non insiste, non esige che trattino i giovani come li trattava lei?
            – Io parlo, mi spolmono, ma pur troppo molti non si sentono più di far le fatiche di una volta.
            – E quindi trascurando il meno, perdono il più e questo PIÙ sono le loro fatiche. Amino ciò che piace ai giovani e i giovani ameranno ciò che piace ai Superiori. E a questo modo sarà facile la loro fatica. La causa del presente cambiamento nell’Oratorio è che un numero di giovani non ha confidenza nei Superiori. Anticamente i cuori erano tutti aperti ai Superiori, che i giovani amavano ed obbedivano prontamente. Ma ora i Superiori sono considerati come Superiori e non più come padri, fratelli ed amici; quindi sono temuti e poco amati. Perciò se si vuol fare un cuor solo ed un’anima sola, per amore di Gesù bisogna che si rompa quella fatale barriera della diffidenza e sottentri a questa la confidenza cordiale. Quindi l’obbedienza guidi l’allievo come la madre guida il suo fanciullino; allora regnerà nell’Oratorio la pace e l’allegrezza antica.
            – Come dunque fare per rompere questa barriera?
            – Famigliarità coi giovani specialmente in ricreazione. Senza famigliarità non si dimostra l’affetto e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza. Chi vuole essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della famigliarità! Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello.
            Se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa né più né meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama. Quante conversioni non cagionarono alcune sue parole fatte risuonare all’improvviso all’orecchio di un giovane mentre si divertiva! Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. Questa confidenza mette una corrente elettrica fra i giovani ed i Superiori. I cuori si aprono e fanno conoscere i loro bisogni e palesano i loro difetti. Questo amore fa sopportare ai Superiori le fatiche, le noie; le ingratitudini, i disturbi, le mancanze, le negligenze dei giovanetti. Gesù Cristo non spezzo la canna già fessa, né spense il lucignolo che fumigava. Ecco il vostro modello. Allora non si vedrà più chi lavorerà per fine di vanagloria; chi punirà solamente per vendicare l’amor proprio offeso; chi si ritirerà dal campo della sorveglianza per gelosia di una temuta preponderanza altrui; chi mormorerà degli altri volendo essere amato e stimato dai giovani, esclusi tutti gli altri superiori, guadagnando null’altro che disprezzo ed ipocrite moine; chi si lasci rubare il cuore da una creatura e per fare la corte a questa trascurare tutti gli altri giovanetti; chi per amore dei propri comodi tenga in non cale il dovere strettissimo della sorveglianza; chi per un vano rispetto umano si astenga dall’ammonire chi deve essere ammonito. Se ci sarà questo vero amore non si cercherà altro che la gloria di Dio e la salute delle anime. Quando illanguidisce questo amore, allora è che le cose non vanno più bene. Perché si vuoi sostituire alla carità la freddezza di un regolamento? Perché i Superiori si allontanano dall’osservanza di quelle regole di educazione che Don Bosco ha loro dettate? Perché al sistema di prevenire colla vigilanza e amorosamente i disordini, si va sostituendo a poco a poco il sistema meno pesante e più spiccio per chi comanda, di bandir leggi che se si sostengono coi castighi accendono odii e fruttano dispiaceri; se si trascura di farle osservare, fruttano disprezzo per i Superiori e sono causa di disordini gravissimi?
            E ciò accade necessariamente se manca la famigliarità. Se adunque si vuole che l’Oratorio ritorni all’antica felicità, si rimetta in vigore l’antico sistema: il Superiore sia tutto a tutti, pronto ad ascoltar sempre ogni dubbio o lamentanza dei giovani, tutto occhio per sorvegliare paternamente la loro condotta, tutto cuore per cercare il bene spirituale e temporale di coloro che la Provvidenza gli ha affidati. Allora i cuori non saranno più chiusi e non regneranno più certi segretumi che uccidono. Solo in caso di immoralità i Superiori siano inesorabili. É meglio correre pericolo di scacciare dalla casa un innocente, che ritenere uno scandaloso. Gli assistenti si facciano uno strettissimo dovere di coscienza di riferire ai Superiori tutte quelle cose le quali conoscano in qualunque modo esser offesa di Dio.
            Allora io interrogai:
            – E quale è il mezzo precipuo perché trionfi simile famigliarità e simile amore e confidenza?
            – L’osservanza esatta delle regole della casa.
            – E null’altro?
            – Il piatto migliore in un pranzo è quello della buona cera.
            Mentre così il mio antico allievo finiva di parlare ed io continuava ad osservare con vivo dispiacere quella ricreazione, a poco a poco mi sentii oppresso da grande stanchezza che andava ognora crescendo. Questa oppressione giunse al punto che non potendo più resistere mi scossi e rinvenni.
            Mi trovai in piedi vicino al letto. Le mie gambe erano così gonfie e mi facevano così male che non poteva più star ritto. L’ora era tardissima, quindi me ne andai a letto risoluto di scrivere ai miei cari figliuoli queste righe.
            Io desidero di non far questi sogni perché mi stancano troppo. Nel giorno seguente mi sentiva rotto nella persona e non vedeva l’ora di potermi riposare la sera seguente. Ma ecco appena fui in letto ricominciare il sogno. Avevo dinanzi il cortile, i giovani che ora sono nell’Oratorio, e lo stesso antico allievo dell’Oratorio. Io presi ad interrogarlo:
            – Ciò che mi dicesti io lo farò sapere ai miei Salesiani; ma ai giovani dell’Oratorio che cosa debbo dire?
            Mi rispose:
            – Che essi riconoscano quanto i Superiori, i maestri, gli assistenti fatichino e studino per loro amore, poiché se non fosse pel loro bene non si assoggetterebbero a tanti sacrifici; che si ricordino essere l’umiltà la fonte di ogni tranquillità; che sappiano sopportare i difetti degli altri, poiché al mondo non si trova la perfezione, ma questa è solo in Paradiso; che cessino dalle mormorazioni, poiché queste raffreddano i cuori; e soprattutto che procurino di vivere nella santa grazia di Dio. Chi non ha pace con Dio, non ha pace con sé, non ha pace cogli altri.
            – E tu mi dici adunque che vi sono fra i miei giovani di quelli che non hanno la pace con Dio?
            – Questa è la prima causa del mal umore fra le altre che lei sa, alle quali deve porre rimedio, e che non fa d’uopo che ora le dica. Infatti non diffida se non chi ha segreti da custodire, se non chi teme che questi segreti vengano a conoscersi, perché sa che glie ne tornerebbe vergogna e disgrazia. Nello stesso tempo se il cuore non ha la pace con Dio, rimane angosciato, irrequieto, insofferente d’obbedienza, si irrita per nulla, gli sembra che ogni cosa vada a male, e perché esso non ha amore, giudica che i Superiori non lo amino.
            – Eppure, o caro mio, non vedi quanta frequenza di Confessioni e di Comunioni vi è nell’Oratorio?
            – É vero che grande è la frequenza delle Confessioni, ma ciò che manca radicalmente in tanti giovanetti che si confessano è la stabilità nei proponimenti. Si confessano, ma sempre le stesse mancanze, le stesse occasioni prossime, le stesse abitudini cattive, le stesse disobbedienze, le stesse trascuranze nei doveri. Così si va avanti per mesi e mesi, e anche per anni e taluni perfino così continuano alla 5a Ginnasiale.
            Sono confessioni che valgono poco o nulla; quindi non recano pace e se un giovanetto fosse chiamato in quello stato al tribunale di Dio sarebbe un affare ben serio.
            – E di costoro ve n’ha molti all’Oratorio?
            – Pochi in confronto del gran numero di giovani che sono nella casa. Osservi; – e me li additava.
            Io guardai e ad uno ad uno vidi quei giovani. Ma in questi pochi io vidi cose che hanno profondamente amareggiato il mio cuore. Non voglio metterle sulla carta, ma quando sarò di ritorno voglio esporle a ciascuno cui si riferiscono. Qui vi dirò soltanto che è tempo di pregare e di prendere ferme risoluzioni; proporre non colle parole, ma coi fatti, e far vedere che i Comollo, i Savio Domenico, i Besucco e i Saccardi vivono ancora tra noi.
            In ultimo domandai a quel mio amico:
            – Hai nulla altro da dirmi?
            – Predichi a tutti, grandi e piccoli che si ricordino sempre che sono figli di Maria SS. Ausiliatrice. Che essa li ha qui radunati per condurli via dai pericoli del mondo, perché si amassero come fratelli e perché dessero gloria a Dio e a lei colla loro buona condotta; che è la Madonna quella che loro provvede pane e mezzi dì studiare con infinite grazie e portenti. Si ricordino che sono alla vigilia della festa della loro SS. Madre e che coll’aiuto suo deve cadere quella barriera di diffidenza che il demonio ha saputo innalzare tra giovani e Superiori e della quale sa giovarsi per la rovina di certe anime.
            – E ci riusciremo a togliere questa barriera?
            – Sì certamente, purché grandi e piccoli siano pronti a soffrire qualche piccola mortificazione per amore di Maria e mettano in pratica ciò che io ho detto.
            Intanto io continuava a guardare i miei giovinetti e allo spettacolo di coloro che vedeva avviati verso l’eterna perdizione sentii tale stretta al cuore che mi svegliai. Molte cose importantissime che io vidi desidererei ancora narrarvi, ma il tempo e le convenienze non me lo permettono.
            Concludo: Sapete che cosa desidera da voi questo povero vecchio che per i suoi cari giovani ha consumata tutta la vita? Niente altro fuorché, fatte le debite proporzioni, ritornino i giorni felici dell’antico Oratorio. I giorni dell’affetto e della confidenza cristiana tra i giovani ed i Superiori; i giorni dello spinto di accondiscendenza e sopportazione per amore di Gesù Cristo, degli uni verso degli altri; i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore, i giorni della carità e della vera allegrezza per tutti. Ho bisogno che mi consoliate dandomi la speranza e la promessa che voi farete tutto ciò che desidero per il bene delle anime vostre. Voi non conoscete abbastanza quale fortuna sia la vostra di essere stati ricoverati nell’Oratorio. Innanzi a Dio vi protesto: Basta che un giovane entri in una casa Salesiana, perché la Vergine SS. lo prenda subito sotto la sua protezione speciale. Mettiamoci adunque tutti d’accordo. La carità di quelli che comandano, la carità di quelli che devono obbedire faccia regnare fra di noi lo spirito di S. Francesco di Sales. O miei cari figliuoli, si avvicina il tempo nel quale dovrò distaccarmi da voi e partire per la mia eternità. [Nota del Segretario. A questo punto Don Bosco sospese di dettare; gli occhi suoi si empirono di lagrime, non per rincrescimento, ma per ineffabile tenerezza che trapelava dal suo sguardo e dal suono della sua voce: dopo qualche istante continuò]. Quindi io bramo di lasciar voi, o preti, o chierici, o giovani carissimi, per quella via del Signore nella quale esso stesso vi desidera.
            A questo fine il Santo Padre, che io ho visto venerdì 9 di maggio, vi manda di tutto cuore la sua benedizione. Il giorno della festa di Maria Ausiliatrice mi troverò con voi innanzi all’effigie della nostra amorosissima Madre. Voglio che questa gran festa si celebri con ogni solennità e Don Lazzero e Don Marchisio pensino a far sì che stiano allegri anche in refettorio. La festa di Maria Ausiliatrice deve essere il preludio della festa eterna che dobbiamo celebrare tutti insieme uniti un giorno in Paradiso.

Roma, 10 maggio 1884
Vostro aff.mo in G. C.
Sac. GIO. BOSCO.

(MB XVII, 107-114)