Sulle ali della speranza. Messaggio del Vicario del Rettor Maggiore

Con molta semplicità, tranquillamente e in totale continuità, rimanendo nel mio servizio di Vicario nei prossimi mesi supplirò il Rettor Maggiore portando la Congregazione a Capitolo Generale, il 29°, nel febbraio 2025.

            Cari lettori del Bollettino Salesiano, mi accingo a scrivere queste righe con trepidazione perché, essendo un lettore del Bollettino Salesiano fin da quando ero bambino nella mia famiglia, ora mi trovo in una pagina diversa a dover scrivere nel primo articolo, quello riservato al Rettor Maggiore.
Lo faccio volentieri, perché questo onore mi permette di rendere grazie a Dio per il nostro don Ángel, ora Cardinale di Santa Romana Chiesa, che ha appena terminato 10 anni di prezioso servizio alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana, dopo la sua elezione al Capitolo Generale 27° nel 2014.
            A distanza di 10 anni da quel giorno, ora è pienamente al servizio del Santo Padre, per quanto papa Francesco gli affiderà. Noi lo portiamo nel cuore e lo accompagniamo con la preghiera riconoscente, per il bene che ci ha fatto, perché il tempo non diminuisce ma rafforza la riconoscenza. La sua storia personale è un evento storico per lui, ma anche per tutti noi.
Il suo andare via, nel senso canonico per un servizio ancora più grande alla Chiesa, è un rimanere sempre con noi e dentro di noi.

In totale continuità
            E adesso come Congregazione, e per estensione come Famiglia Salesiana, come andiamo avanti?
            Con molta semplicità, tranquillamente e in totale continuità. Il Vicario del Rettor Maggiore secondo le Costituzioni Salesiane ha anche il compito di sostituire, o supplire al Rettor Maggiore in caso di necessità. Così sarà, fino al prossimo Capitolo Generale.
            Le Costituzioni Salesiane lo dicono in modo più organico e articolato, ma il concetto fondamentale è questo. Rimanendo nel mio servizio di Vicario nei prossimi mesi supplirò il Rettor Maggiore portando la Congregazione a Capitolo Generale, il 29° nel febbraio 2025.
            Questo sì è un compito impegnativo per cui vi chiedo subito preghiere e invocazione allo Spirito Santo per esser fedeli al Signore Gesù Cristo, con il cuore di don Bosco.

Mi chiamo Stefano
            Prima di passare alle cose importanti, due parole per presentarmi: io mi chiamo Stefano, son nato a Torino da una famiglia tipica della nostra terra; figlio di un papà exallievo salesiano, che ha voluto mandarmi alla stessa scuola dove era passato lui ai suoi tempi, e di una mamma maestra, anche lei exallieva di una scuola cattolica. Da loro ho ricevuto la vita e la vita di fede, semplice e concreta. Così siamo cresciuti io e mia sorella, siamo solo due.
            I miei genitori sono già in cielo, nelle mani di Dio, e si faranno dei grandi sorrisoni a vedere le cose che capitano al loro figlio… commenteranno sicuramente: dun Bosch tenje nà man sla testa! (don Bosco tienigli una mano sulla testa!)
            Salesianamente parlando son stato sempre parte dell’Ispettoria salesiana del Piemonte Valle d’Aosta, fin a quando al CG27 mi è stato chiesto di coordinare la Regione Mediterranea (tutte le realtà Salesiane intorno al Mar Mediterraneo, sui tre continenti che vi si affacciano… ma includendo anche il Portogallo ed alcune aree dell’est Europa). Un’esperienza salesiana bellissima, che mi ha trasformato, rendendomi internazionale nel modo di vedere e sentire le cose. Il CG28 ha fatto il secondo passo, chiedendomi di diventare Vicario del Rettor Maggiore, e qui siamo! 10 anni a fianco di don Ángel imparando in questi anni a sentire il cuore del mondo, per una congregazione che è veramente diffusa su tutta la terra.

Il futuro prossimo
            Il servizio di questi mesi prossimi, fino al febbraio 2025 è quindi di accompagnare la Congregazione al prossimo Capitolo Generale, che si celebrerà a Torino Valdocco dal prossimo 16 febbraio 2025.
            Cari amici, il Capitolo Generale è il momento più alto ed importante della vita della Congregazione, in cui si raduno i rappresentanti di tutte le Ispettorie della Congregazione (stiamo parlando di più di 250 confratelli) essenzialmente per tre cose: conoscersi, pregare e riflettere per “pensare il presente ed il futuro della congregazione” ed eleggere il prossimo Rettor Maggiore e tutto il suo Consiglio. Un momento quindi molto importante che il nostro don Ángel ha indirizzato nella riflessione al tema “Appassionati di Gesù Cristo e dedicati ai giovani”. Questo tema che il Rettor Maggiore ha scelto per la congregazione si articolerà in tre aspetti diversi e complementari: la centralità di Cristo nella nostra vita personale, la consacrazione religiosa; la dimensione della nostra vocazione comunitaria, nella fraternità e nella corresponsabilità laicale a cui è affidata la missione; gli aspetti istituzionali della nostra congregazione, la verifica dell’animazione e del governo nell’accompagnare la Congregazione. Tre aspetti per un unico tema generativo.
            La nostra Congregazione ha molto bisogno di vivere questo Capitolo Generale che viene dopo tante vicende che tutti ci hanno toccato. Pensate che lo scorso Capitolo Generale è stato celebrato a ridosso della Pandemia, e proprio dal Covid è stato anticipatamente chiuso.

Costruire la Speranza
            Celebrare un Capitolo Generale è celebrare la Speranza, costruire la Speranza tramite le decisioni istituzionali e personali che consentono di proseguire il “sogno” di don Bosco, di dargli presente e futuro. Ogni persona è chiamata ad esser un sogno, nel cuore di Dio, un sogno realizzato.
            Nella tradizione salesiana, c’è quella bella frase che don Bosco disse a don Rua, richiamato a Valdocco per prendere concretamente il posto di don Bosco:
            «Hai fatto don Bosco a Mirabello. Adesso lo farai qui, all’Oratorio».
            Questo è ciò che veramente conta: «Essere don Bosco oggi» ed è il dono più grande che possiamo fare a questo mondo.




Convegno sulla Comunicazione 2024, Shaping Tomorrow

Dall’1 al 7 agosto 2024 si terrà a Roma, presso l’Università Pontificia Salesiana (UPS) un Convegno sulla Comunicazione, intitolato “Shaping Tomorrow”. Organizzatori sono il Settore per la Comunicazione della Congregazione Salesiana e la Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Università Pontificia Salesiana. Si vuole indicare nuove strade nella comunicazione sociale, per “dare forma al domani”. Presentiamo la visione degli organizzatori.

             “Quando preghi per la pioggia, il fango va messo in conto”. Così ha detto Denzel Washington, ricordando le parole di suo padre. Nel contesto dei media e della comunicazione, la pioggia è rappresentata dai nuovi strumenti tecnologici e dalle opportunità del XXI secolo, come l’intelligenza artificiale, Internet ad alta velocità, i social media, i computer, i portatili, gli smartphone e i tablet. Il fango è rappresentato dalle fake news, dal cyberbullismo e da hate speech, dalla scomparsa delle competenze sociali e comunicative, dai filtri e dalle bolle informative, dall’esclusione digitale, tra gli altri.

            Shaping Tomorrow è lo slogan del Convegno Comunicazione 2024, che si terrà a Roma dall’1 al 7 agosto 2024. Nella comunicazione sociale non è un ombrello protettivo contro l’acquazzone; dopo tutto, aspettiamo la pioggia, proprio come desideriamo una buona comunicazione. Piuttosto riguarda la costruzione di strade, marciapiedi, tombini e ponti, evitando e riducendo il fango nella città chiamata comunicazione sociale, Internet o social media. Nel contesto delle nuove forme di comunicazione, ciò significa sviluppare le possibilità tecnologiche, pur essendo consapevoli degli aspetti negativi e delle sfide.

            Shaping Tomorrow, mentre l’era della comunicazione cambia, è come aprire la porta giusta senza l’atteggiamento di ingenuità che ci sia una persona che ci aspetta dietro ogni porta. L’ingenuità nel mondo della tecnologia moderna è come condividere le proprie emozioni con l’intelligenza artificiale e credere che questa mostrerà un’empatia senza limiti. Uno smartphone moderno non è umano, un computer portatile non è umano, un server non è umano. Eppure, a volte ci comportiamo in modo ingenuo, come se l’hardware e il software sostituissero nostra madre, nostro padre, la nostra famiglia, la nostra comunità e le relative emozioni che viviamo, i desideri da realizzare e i bisogni da soddisfare. Cerchiamo un essere umano dove non c’è. Quello che otteniamo è invece un sostituto caricaturale dell’umanità, delle relazioni interpersonali e dell’amore tanto desiderato: il bisogno di amare gli altri e il bisogno di essere amati dagli altri. Shaping Tomorrow, invece, significa costruire una comunicazione basata su una sana antropologia cristiana – senza una caricatura dell’umanità e nel rispetto della dignità umana.

            Lo sviluppo della tecnologia della comunicazione negli ultimi decenni ha reso la nostra società un villaggio globale, dove le informazioni viaggiano alla velocità della luce. A volte il potere di una piccola notizia è pari a quello di un uragano di cui parla tutto il mondo. In un mondo in cui la comunicazione sta diventando non solo una questione di trasmissione di informazioni, ma anche di costruzione di relazioni e di influenza sulla società, Shaping Tomorrow è un invito a partecipare attivamente alla formazione del mondo che deve ancora venire. Mette al centro l’essere umano e la sua dignità, in linea con la norma personalista di Giovanni Paolo II.

Shaping Tomorrow
            – intendiamo come una chiamata a plasmare il futuro della comunicazione salesiana attraverso una comunicazione responsabile ed efficace;
            – significa mettere al centro l’essere umano e la sua dignità;
            – è promuovere l’insegnamento della Chiesa sulla comunicazione sociale;
            – riguarda l’etica nella comunicazione sociale basata su una solida antropologia;
            – vuole generare e promuovere soluzioni nel campo della comunicazione, conducendo ricerche e fornendo analisi, soprattutto da una prospettiva salesiana;
            – è raccogliere competenze e informazioni per generare nuove idee, risultati e raccomandazioni nel campo della comunicazione sociale;
            – nel bel mezzo della rivoluzione digitale richiede la formazione dei professionisti dei media.
            – è partecipare attivamente al dibattito pubblico e cercare soluzioni ai problemi della comunicazione sociale;
            – è agire a livello internazionale e influenzare i processi decisionali fornendo raccomandazioni e soluzioni.

Argomenti che saranno trattati al convegno:

1. Cambiamento epocale: cultura digitale e Intelligenza Artificiale – Fabio Pasqualetti, sdb
2. Cambiamenti epocali nella comunicazione – Fabio Bolzetta
3. Creatori di nuovi linguaggi e paradigmi per l’evangelizzazione, soprattutto nell’ambiente digitale – Sr. Xiskya Valladares
4. Comunicazione con i migranti e rifugiati – Maurizio di Schino
5. Buone pratiche di evangelizzazione sui social media – Sr. Xiskya Valladares
6. La Chiesa nel digitale e approccio alle nuove tecnologie nella comunicazione della Chiesa – Fabio Bolzetta
7. La comunicazione con le nuove generazioni, in particolare con la Generazione Z e Alpha. Come si configura la comunicazione con le nuove generazioni nel XXI secolo, sia faccia a faccia che in ambiente digitale? – Mark McCrindle
8. Comunicazione interna ed esterna nella Chiesa – i tre papi – Valentina Alazraki
9. Comunicazione di crisi – Valentina Alazraki
10. Coinvolgere il pubblico giovane – 10 consigli per rivolgersi al pubblico della Gen Z – Laura Wagner-Meyer
11. Giornalismo mobile – Simone Ferretti
12. Creatori di contenuti – Simone Ferretti
13. Migranti e rifugiati – nel contesto della comunicazione con le giovani generazioni attraverso i social media – Laura Wagner-Meyer
14. Come può il lavoro della Chiesa cattolica comprendere meglio le trasformazioni digitali in atto nel mondo moderno? – Andy Stalman
15. Come può la strategia di marca cambiare in meglio l’opera salesiana nel mondo? – Andy Stalman
16. Comunicazione con i migranti e i rifugiati – Donatella Parisi

Dettagli sul convegno nel sito dedicato, https://www.shapingtomorrowsdb.org




L’inondazione e la zattera salvatrice (1886)

Nessuno può salvarsi da solo dalla furia delle acque nelle grandi inondazioni. Tutti hanno bisogno di un soccorritore che lo prendano sulle loro barche. Chi non sale sulla barca rischia di essere travolto dalle acque impetuose. Don Bosco capi un senso più profondo nel suo sogno, quello della zattera salvatrice, e lo trasmesse ai suoi giovani.


            Don Bosco adunque, innanzi alla moltitudine dei suoi giovani, così parlò il lunedì a sera, primo giorno del 1866.

            Mi parva di trovarmi poco distante da un paese che all’aspetto mi pareva Castelnuovo d’Asti, ma non lo era. I giovani tutti dell’Oratorio allegramente si ricreavano in un’immensa prateria; quand’ecco all’improvviso si vedono le acque comparire sui margini di quella pianura, e ci vedemmo da ogni parte circondati da una inondazione, la quale cresceva a misura che si avanzava verso noi. Il Po era straripato e immensi e desolanti torrenti traboccano dalle sue sponde.
            Noi, sopraffatti da terrore, la demmo a gambe alla volta di un grande molino isolato, distante da altre abitazioni colle mura grosse come quelle di una fortezza; ed io feci sosta nel suo cortile in mezzo ai miei cari giovani costernati. Ma le acque incominciando a penetrare anche in quell’area, fummo costretti a ritirarci tutti in casa e poi a salire nelle stanze superiori. Dalle finestre si vedeva l’estensione del disastro. Dai colli di Superga alle Alpi, invece di prati, campi coltivati, orti, boschi, cascine, villaggi, città, non si scorgeva più altro che la superficie di un lago immenso. A misura che l’acqua cresceva, noi montavamo da un piano all’altro. Perduta ogni umana speranza di salvarci, presi ad incoraggiare i miei cari, dicendo che si mettessero tutti con piena fiducia nelle mani di Dio e nelle braccia della nostra cara madre Maria.
            Ma l’acqua già era quasi al livello dell’ultimo piano. Allora lo spavento fu universale ed altro scampo non vedemmo che ritirarci in una grandissima zattera, in forma di nave, apparsa in quell’istante, che galleggiava vicino a noi. Ognuno respirando affannosamente voleva essere il primo a rifugiarvisi, ma nessuno osava, perché non si poteva avvicinare il barcone alla casa a cagione di un muro che emergeva un po’ più alto del livello delle acque. Poteva però prestare un sol mezzo al tragitto un lungo e stretto tronco di albero: ma era tanto più difficile il passaggio in quanto che quel tronco poggiando per una estremità sulla barca, si moveva seguendo il beccheggio della barca stessa, agitata dalle onde.
            Fattomi coraggio vi passai per il primo e, per facilitare il trasbordo ai giovani e tranquillarli, stabilii chierici e preti che dal molino sorreggessero alquanto chi partiva, e dal barcone dessero mano a chi arrivava. Ma caso singolare! Dopo un po’ di quel lavoro, i chierici e i preti si trovavano così stanchi che chi qua, chi là cadevano di sfinimento; e quelli che li surrogavano correvano la medesima sorte. Meravigliato anche io volli pormi alla prova ed io pure mi sentii cosi spossato da non potermi più reggere.
            Intanto molti giovani impazienti, sia per timore della morte, sia per mostrarsi coraggiosi, trovato un pezzo di asse lungo abbastanza e un po’ più largo del tronco d’albero, ne fecero un secondo ponte e, senza aspettare l’aiuto dei chierici e dei preti, precipitosi stavano per slanciarvisi non dando ascolto alle mie grida.
            — Cessate, cessate, se no cadrete! — io gridava; ed avvenne che molti, o urtati, o perdendo l’equilibrio, prima di arrivare alla barca, caddero e ingoiati da quelle torbide e putride acque più non si videro. Anche il fragile ponte si era sprofondato con quanti gli stavano sopra. E si grande fu il numero di quei disgraziati che un quarto de’ nostri giovani restò vittima del loro capriccio.
            Io che fino allora aveva tenuto ferma l’estremità del tronco d’albero mentre i giovani vi montavano sopra, accortomi che l’inondazione aveva superato l’ostacolo di quella muraglia, trovai modo di spingere la zattera presso il molino. Qui stava D. Caglierò il quale, con un piede sulla finestra e coll’altro sull’orlo della barca, vi fece saltare i giovani rimasti in quelle camere, dando loro la mano e mettendoli in sicuro sulla zattera.
            Ma non tutti i giovani erano ancora salvati. Un certo numero erano ascesi nelle soffitte e di qui sul tetto, ove si erano aggruppati sul colmo stretti gli uni agli altri, mentre l’inondazione, crescendo sempre senza fermarsi un istante, copriva già le grondaie ed una parte delle sponde del tetto. Ma coll’acqua era pur salita la barca ed io vedendo quei poveretti in cosi orribile frangente, gridai loro che pregassero di cuore, che stessero zitti, che scendessero uniti, legati insieme colle braccia per non scivolare. Obbedirono, e siccome il fianco della nave era aderente alla grondaia, aiutati dai compagni vennero essi pure a bordo. Qui si vedeva una grande quantità di pani, custoditi in molti canestri.
            Quando furono tutti sulla barca, incerti ancora di uscire da quel pericolo, presi il comando di capitano e dissi ai giovani:
            — Maria è la Stella del mare. Essa non abbandona chi in Lei confida: mettiamoci tutti sotto il suo manto; Ella ci scamperà dai perigli e ci guiderà a porto tranquillo.
            Quindi abbandonammo ai flutti la nave, che galleggiava ottimamente e si muoveva, allontanandosi da quel luogo (Facta est quasi navis institoris, de longe portans panem suum). L’impeto delle onde agitate dal vento la spingeva con tale velocità, che noi abbracciati l’un l’altro facemmo un sol corpo per non cadere.
            Percorso molto spazio in brevissimo tempo, tutt’a un tratto la barca si fermò e si mise a girare attorno a sé stessa con straordinaria rapidità, sicché pareva dovesse affondarsi. Ma un soffio violentissimo la spinse fuori del vortice. Prese quindi un corso più regolare e ripetendosi ogni tanto qualche mulinello e il soffio del vento salvatore, andò a fermarsi vicino ad una ripa asciutta, bella e vasta che sembrava ergersi come una collina in mezzo a quel mare.
            Molti giovani se ne invaghirono e dicendo che il Signore aveva posto l’uomo sulla terra e non sulle acque, senza domandarne il permesso, uscirono dalla barca giubilando, e, invitando ancor altri a seguirli, ascesero su quella ripa. Breve fu il loro contento, perché gonfiandosi di nuovo le acque, per un subito infuriare della tempesta invasero le falde di quella bella ripa, e in breve gettando grida disperate quegli infelici si trovarono nell’acqua fino ai fianchi; e poi capovolti dalle onde scomparvero. Io esclamai:
            — È proprio vero che chi fa di sua testa, paga di borsa.
            La nave intanto in balia di quel turbine minacciava di nuovo di andare a fondo. Vidi allora i miei giovani pallidi in volto e ansanti e: — Fatevi coraggio, gridai loro; Maria non ci abbandonerà. — E unanimi e di cuore recitammo gli atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione, alcuni Pater ed Ave e la Salve Regina; quindi, ginocchioni, tenendoci per mano gli uni cogli altri recitavamo ciascuno particolari preghiere. Però parecchi insensati, indifferenti a quel pericolo, quasi nulla fosse avvenuto, alzatisi in piedi e dimenandosi, si aggiravano or qua or là, sghignazzando fra di loro e burlandosi quasi degli atteggiamenti supplichevoli dei loro compagni. Ed ecco che si arresta all’improvviso la nave, e gira con rapidità su sé stessa, e un vento furioso sbatte nelle onde quei sciagurati. Erano trenta, ed essendo l’acqua profonda e melmosa appena vi furono dentro, più nulla si vide di loro. Noi intonammo la Salve Regina e più che mai invocammo di cuore la protezione della Stella del mare.
            Sopravvenne la calma. Ma la nave, a guisa di un pesce, continuava ad avanzare senza che sapessimo ove ci avrebbe condotti. A bordo ferveva continuamente e in varie guise un’opera di salvazione. Si faceva di tutto per impedire ai giovani di cadere nelle acque e per salvarne i caduti. Poiché vi erano di quelli che sporgendosi incautamente dalle basse sponde della zattera cadevano nel lago; e ve ne erano altri sfacciati e crudeli che, chiamando alcuni compagni vicino alle sponde, con un untone li gettavano giù. Perciò vari preti preparavano canne robuste, grosse lenze, ed ami di varie specie. Altri attaccavano gli ami alle canne e li distribuivano a questi e a quelli: altri già si trovavano al loro posto colle canne alzate, follo sguardo fisso sulle onde, e attenti al grido di soccorso. Appena cadeva un giovane le canne si abbassavano e il naufrago si afferrava alla lenza, oppure coll’amo restava uncinato nella cintura o nelle vesti e cosi veniva tratto in salvo. Ma anche fra i deputati alla pesca alcuni disturbavano e impedivano i pescatori e coloro che preparavano e distribuivano gli ami. I chierici poi vigilavano tutt’intorno per tenere indietro i giovanetti che erano ancora una moltitudine.
            Io stava ai piedi di un alto pennone piantato nel centro, circondato da moltissimi giovani e da preti e chierici che eseguivano gli ordini miei. Fintantoché furono docili ed obbedienti alle mie parole, tutto andava bene: eravamo tranquilli, contenti, sicuri. Ma non pochi incominciarono a trovar incomoda quella zattera, a temere il viaggio troppo lungo, a lamentarsi de’ disagi e pericoli di quella traversata, a disputare sul luogo ove avremmo approdato, a pensare al modo di trovare altro rifugio, ad illudersi colla speranza che poco lungi vi fosse terra nella quale troverebbero sicuro ricovero, a dubitare che presto sarebbero mancate le vettovaglie, a questionare fra di loro, a rifiutarmi obbedienza. Invano io cercava di persuaderli colle ragioni.
            Ed ecco in vista altre zattere le quali avvicinandosi sembrava tenessero un corso diverso dal nostro, e quegli imprudenti deliberarono di secondare i loro capricci, di allontanarsi da me e di fare a loro modo. Gettarono nelle acque alcune tavole che erano nella nostra zattera e scopertene altre abbastanza larghe che galleggiavano non molto discosto, vi saltarono sopra e si allontanarono alla volta delle zattere apparse. Fu una scena indescrivibile e dolorosa per me: vedeva quegli infelici che andavano incontro alla rovina. Soffiava il vento, i flutti erano agitati: ed ecco alcuni si sprofondarono sotto di questi che si sollevavano e abbassavano furiosamente: altri furono involti tra le spire dei vortici e trascinati negli abissi: altri urtarono in ostacoli a fior d’acqua e capovolti sparirono: parecchi riuscirono a salir sulle zattere le quali però non tardarono a sommergersi. La notte si fece oscura e buia: e in lontananza si udiva le grida strazianti di coloro che perivano. Naufragarono tutti. In mare mundi submergentur omnes illi quos non suscipit navis ista, cioè la nave di Maria SS.ma.
            Il numero dei miei cari figliuoli era diminuito di molto; ciò non ostante continuando a confidare nella Madonna, dopo un intiera notte tenebrosa la nave entrò finalmente come in una specie di stretto angustissimo, tra due sponde limacciose, coperte da cespugli, e grosse schegge, ciottoli, pali, fascine, assi spezzate, antenne, remi. Tutto intorno alla barca si vedevano tarantole, rospi, serpenti, dragoni, coccodrilli, squali, vipere e mille altri animali schifosi. Sopra salici piangenti, i cui rami pendevano sopra la nostra barca, stavano gattoni di forma singolare che sbranavano pezzi di membra umane; e molti scimmioni che penzolando dai rami si sforzavano di toccare e arroncigliare i giovani; ma questi curvandosi impauriti schivavano quelle insidie.
            Fu colà, in quel greto, che rivedemmo con grande sorpresa ed orrore i poveri compagni perduti, o che avevano disertato da noi. Dopo il naufragio, erano stati gettati dalle onde su quella spiaggia. De membra di alcuni erano state fatte a pezzi per l’urto violentissimo contro gli scogli. Altri era sotterrato nel padule e non se ne vedevano che i capelli e la metà di un braccio. Qui sporgeva dal fango un dorso, più in là una testa: altrove galleggiava interamente visibile qualche cadavere.
            A un tratto si ode la voce di un giovane della barca, il quale grida: — Qui è un mostro che divora le carni del tale dei tali!
            E chiama ripetutamente per nome quel disgraziato, additandolo ai compagni esterrefatti.
            Ma ben altro spettacolo si presentava ai nostri occhi. A poca distanza si innalzava una gigantesca fornace nella quale divampava un fuoco grande e ardentissimo. In questo apparivano forme umane e si vedevano piedi, gambe, braccia, mani, teste, ora salire ora discendere tra quelle fiamme, confusamente, nella stessa maniera delle civaie nella pentola quando questa bolle. Osservando attentamente, vi scorgemmo tanti nostri allievi e rimanemmo spaventati. Sopra quel fuoco vi era come un gran coperchio, sul quale stavano scritte a grossi caratteri queste parole: —IL SESTO E IL SETTIMO CONDUCONO QUI.
            Là vicino v’era pure ima vasta e alta prominenza di terra con numerosi alberi silvestri disordinatamente disposti ove si muoveva ancora una moltitudine dei nostri giovani, o caduti nelle onde o allontanatisi nel corso del viaggio. Io scesi a terra, non badando al pericolo, mi avvicinai e vidi che avevano gli occhi, le orecchie, i capelli o persino il cuore pieno d’insetti e vermi schifosi che li rosicchiavano, e cagionavano loro grandissimo dolore. Uno di questi soffriva più degli altri; voleva accostarmi a lui, ma egli mi fuggiva nascondendosi dietro gli alberi. Altri ne vidi che aprendo pel dolore gli abiti, mostravano la persona cinta di serpenti: altri avevano in seno delle vipere.
            Additai a tutti una fonte che gettava in gran copia acqua fresca e ferruginosa; chiunque andava a lavarsi in quella guariva all’istante e poteva ritornare alla barca. La maggior parte di quegli infelici ubbidì al mio invito; ma alcuni si rifiutarono. Allora io troncando gli indugi, mi rivolsi a quelli che erano risanati, i quali alle mie istanze mi seguirono con sicurezza, essendosi ritirati i mostri. Appena fummo sulla zattera, questa, spinta dal vento, usci da quello stretto dalla parte opposta a quella per la quale era entrata e si slanciò di nuovo in un oceano senza confini.
            Noi, compiangendo la triste sorte e il fine lagrimevole dei nostri compagni abbandonati in quel luogo, ci mettemmo a cantare: Lodate Maria, o lingue fedeli, in ringraziamento alla gran Madre celeste, di averci sino allora protetti; e sull’istante, quasi al comando di Maria, cessò l’infuriare del vento e la nave prese a scorrere rapida sulle placide onde con una facilità che non si può descrivere. Sembrava che si avanzasse al solo impulso che le davano scherzando i giovani spingendo indietro l’acqua colla palma della mano.
            Ed ecco comparire in cielo un’iride, più meravigliosa e varia di un’aurora boreale, ove passando leggemmo scritta a grossi caratteri di luce la parola MEDOUM, senza intenderne il significato. A me parve però che ogni lettera fosse l’iniziale di queste parole: Mater Et Domina Omnis Universi Maria.
            Dopo un lungo tratto di viaggio, ecco spuntar terra in fondo all’orizzonte, alla quale a poco a poco avvicinandoci sentivamo destarcisi in cuore una gioia inesprimibile. Quella terra, amenissima per boschetti con ogni specie di alberi presentava il panorama più incantevole, perché illuminata come dalla luce del sole nascente alle spalle delle sue colline. Era una luce che brillava ineffabilmente quieta, simile a quella di una splendida sera d’estate, che infondeva un senso di riposo e di pace.
            E finalmente urtando contro le sabbie del lido e strisciando su di esse la zattera si fermò all’asciutto ai piedi di una bellissima vigna. Si può ben dire di questa zattera: Eam tu Deus pontem fecisti, quo a mundi fluctibus trajicientes ad tranquillum portum tuum deveniamus.
            I giovani erano desiderosi di entrare in quella vigna ed alcuni curiosi più degli altri con un salto furono sul lido. Ma fatti appena alcuni passi ricordandosi della sorte disgraziata toccata a quei primi che s’invaghirono della ripa posta in mezzo al mare burrascoso, frettolosi ritornarono alla barca.
            Gli occhi di tutti erano a me rivolti e sulla fronte di ognuno si leggeva la domanda:
            — D. Bosco, è tempo di discendere e fermarci?
            Io prima riflettei alquanto e poi dissi loro: — Discendiamo: è giunto il tempo: ora siamo in sicuro!
            Fu mi grido generale di gioia! ed ognuno stropicciandosi le mani per la contentezza, entrò in quella vigna disposta col massimo ordine. Dalle viti pendevano grappoli di uva simili a quelli della terra promessa e sugli alberi era ogni sorta di frutti che possono desiderarsi nella bella stagione, di un gusto mai più sentito. In mezzo a quella vastissima vigna sorgeva un gran castello attorniato da un delizioso e regale giardino e da forti mura.
            Volemmo il passo a quella volta per visitarlo, e ci fu concessa libera entrata. Eravamo stanchi ed affamati ed in un’ampia sala tutta guernita d’oro stava apparecchiata per noi una gran tavola con ogni sorta di cibi i più squisiti, di cui ognuno poté servirsi a piacimento. Mentre finivamo di rifocillarci entrò nella sala un nobile garzone, riccamente vestito, di un’avvenenza indescrivibile, il quale con affettuosa e familiare cortesia ci salutò chiamandoci tutti per nome. Vedendoci stupiti e meravigliati per la sua bellezza e per quella di tante cose già osservate, ci disse: — Questo è niente; venite e vedrete.
            Noi tutti gli tenemmo dietro e dai parapetti delle logge ci fece contemplare i giardini, dicendoci che di quelli eravamo padroni noi per le nostre ricreazioni. E ci condusse di sala in sala, una più magnifica dell’altra per architettura, colonnati e ornamenti di ogni specie. Aperta poscia una porta che metteva in una cappella, ci invitò ad entrare. Di fuori la cappella sembrava piccola, ma appena ne valicammo la soglia, la scorgemmo si ampia che da un’estremità all’altra appena ci potevamo vedere. Il pavimento, le mura, le vòlte erano guernite e ricche con mirabile artificio di marmi, di argento, di oro, e di pietre preziose, che io estatico di meraviglia esclamai: — Ma questa è una bellezza di paradiso: faccio patto di rimaner qui per sempre!
            In mezzo a questo gran tempio s’innalzava sovra ricca base una grande, magnifica statua rappresentante Maria Ausiliatrice. Chiamati molti giovani che si erano sparsi qua e là per esaminare la bellezza di quel sacro edificio, tutta la moltitudine si recò innanzi a quella statua per ringraziare la Vergine Celeste dei tanti favori prestatici. Qui mi accorsi dell’immensità di quella chiesa, poiché tutte quelle migliaia di giovani sembravano un piccolo gruppo che occupasse il centro di quella.
            Mentre i giovani stavano mirando quella statua che aveva una vaghezza di fisonomia veramente celeste, ad un tratto essa parve animarsi e sorridere. Ed ecco un mormorio, una commozione tra la folla. —• La Madonna muove gli occhi! — esclamarono alcuni. E infatti Maria SS. girava con ineffabile bontà i suoi occhi materni su quei giovanetti. Poco dopo un secondo grido generale: — La Madonna muove le mani. — E infatti lentamente aprendo le braccia essa sollevava il manto come per accoglierci tutti sotto di quello. Le lagrime scorrevano per forza di commozione sulle nostre guance. — La Madonna muove le labbra! — dissero alcuni. Si fece un silenzio profondo; e la Madonna aperse la bocca e con una voce argentina, soavissima ci diceva:
            — SE VOI SARETE PER ME FIGLIUOLI DEVOTI, IO SARÒ PER VOI MADRE PIETOSA!
            A queste parole cademmo tutti in ginocchio ed intonammo il canto: Lodate Maria, o lingue fedeli.

            Questa armonia era così forte, così soave, che sopraffatto da essa io mi svegliai e cosi terminò la visione.

Don Bosco conchiudeva:
            Vedete, miei cari figliuoli? In questo sogno possiamo riconoscere il mare burrascoso di questo mondo. Se voi sarete docili ed obbedienti alle mie parole e non darete retta ai cattivi consiglieri, dopo esserci affaticati a fare il bene e fuggire il male, vinte tutte le nostre cattive tendenze, arriveremo finalmente sul termine di nostra vita, ad una spiaggia sicura. Allora ci verrà incontro, mandato dalla Madonna SS. chi, a nome del nostro buon Dio, c’introdurrà, per ristorarci delle nostre fatiche, nel suo reale giardino, cioè nel Paradiso, alla amabilissima sua divina presenza. Ma se facendo il contrario di ciò che io vi predico, vorrete scapricciarvi a vostro modo e non dar retta ai miei consigli, farete miserando naufragio.

            Don Bosco dava in circostanze diverse e in privato qualche spiegazione specificata di questo sogno, riguardante non solo l’Oratorio, ma eziandio, come sembra, la Pia Società.
            «Il prato è il mondo; l’acqua che minacciava di affogarci, i pericoli del mondo. L’inondazione cosi terribilmente estesa, i vizi e le massime irreligiose, e le persecuzioni contro i buoni. — Il molino, cioè un posto isolato e tranquillo, ma pur minacciato, la casa del pane, la Chiesa Cattolica. — I canestri di pane, la SS. Eucaristia che serve di viatico ai naviganti. — La zattera, l’Oratorio. — Il tronco d’albero che forma il passaggio dal molino alla barca è la Croce, ossia il sacrificio di sé stesso a Dio colla mortificazione cristiana. — L’asse messo dai giovani, come ponte più agevole per entrare nella barca, è la regola trasgredita. Molti vi entrano con fini strani e bassi: di far carriera, di lucro, di onori, di comodità, di mutar condizione e stato; costoro sono quelli che poi non pregano e che si burlano della pietà altrui. — I Sacerdoti e i chierici simboleggiano l’obbedienza e indicano i portenti di salvezza che con questa riescono ad operare. — I vortici, le varie e tremende persecuzioni che sorsero e sorgeranno. — L’isola che è sommersa, i disobbedienti che non vogliono star sulla barca e rientrano nel mondo sprezzando la vocazione. — Lo stesso si dica di quelli che cercano di rifugiarsi in altre zattere. — Molti caduti nell’acqua porgevano la mano a coloro che stavano sulla barca ed aiutati dai compagni si rimettevano sopra. Erano quelli di buona volontà, che caduti disgraziatamente in peccato si rimettono in grazia di Dio per mezzo della penitenza. — Lo stretto, i gattoni, gli scimmioni e gli altri mostri sono le rivoluzioni, le occasioni e gli allettamenti alla colpa, ecc. — Gli insetti negli occhi, sulla lingua, nel cuore, gli sguardi cattivi, i discorsi osceni, gli affetti disordinati. — La fontana di acqua ferruginosa, che aveva la virtù di far morire tutti gli insetti e di guarire all’istante, sono i Sacramenti della Confessione e della Comunione. — La fanghiglia e il fuoco sono luogo di peccati e di dannazione. E però da osservarsi che ciò non vuol dire che tutti quelli che caddero nella fanghiglia e più non si videro, e tutti quelli che bruciavano tra le fiamme debbano andar’ perduti nell’inferno; no! ci liberi Iddio dal dir questo. Ma vuol dire che quelli si trovavano allora in disgrazia di Dio, e se fossero morti in quel momento sarebbero andati eternamente perduti. — L’isola felice, il tempio, è la Società Salesiana, stabilita e trionfante. E lo splendido garzone che accoglie i giovani e conduce a visitare il palazzo e il tempio sembra essere un alunno defunto in possesso del paradiso, forse Domenico Savio. (MB VIII, 275-283)




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (8/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo XV. Divozione e progetto di una chiesa a Maria A. in Torino.

            Prima di parlare della chiesa eretta in Torino ad onore di Maria Ausiliatrice stimo bene di notare, come la divozione dei Torinesi verso di questa celeste Benefattrice rimonta ai primi tempi del cristianesimo. S. Massimo primo vescovo di questa città ne parla come di un fatto pubblico ed antico.
            Il santuario della Consolata è un meraviglioso monumento parlante di quanto diciamo. Ma dopo la vittoria di Lepanto i Torinesi furono dei primi ad invocare Maria sotto al titolo speciale di Ausiliatrice. Il cardinale Maurizio principe di Savoia ha grandemente promossa questa divozione, e sul principio del secolo decimosettimo fece costruire nella chiesa di s. Francesco di Paola una cappella con altare e con una bellissima statua dedicata a Maria Ausiliatrice, di marmo prezioso ed elegante. La Vergine è presentata tenente in mano il Divin Fanciullo.
            Questo principe era fervoroso devoto di Maria Ausiliatrice, e siccome vivendo faceva sovente l’offerta del cuore alla sua celeste Madre, così morendo lasciò per testamento che appunto il cuore, qual pegno più caro di sé stesso, fosse deposto in una cassa e collocato nel muro a destra dell’altare[1].
            Il tempo avendo logorato e resa questa cappella alquanto abbietta, il re Vittorio Emanuele II ordinò che ogni cosa fosse a sue spese ristorata.
            Così il pavimento, la predella, e lo stesso altare furono come rinnovati.
            Osservando i Torinesi il ricorso a Maria Ausiliatrice essere mezzo efficacissimo per ottenere grazie straordinarie, cominciarono ad aggregarsi alla Confraternita di Monaco in Baviera, ma pel numero stragrande dei confratelli fu instituita in questa medesima chiesa una Confraternita. Essa ebbe l’apostolica approvazione del Pontefice Pio VI, che con rescritto 9 febbraio 1798 concedeva molte indulgenze con altri favori spirituali.
            Così andava ognora più dilatandosi la divozione dei Torinesi all’augusta Madre del Salvatore, e ne provavano i più salutari effetti, quando fu ideato il progetto di una chiesa da dedicarsi appunto a Maria Ausiliatrice in Valdocco popolatissimo quartiere di questa città. Qui adunque abitano molte migliaia di cittadini senza chiesa di sorta fuori quella di Borgo Dora, la quale tuttavia non può contenere più di 1500 persone[2].
            In questo distretto esistevano le chiesette della Piccola Casa della divina Provvidenza e dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, ma si l’una che l’altra appena bastavano al servizio delle rispettive loro comunità.
            Nel vivo desiderio pertanto di provvedere all’urgente bisogno degli abitanti di Valdocco, e dei molti giovani che nei di festivi vengono all’Oratorio dalle varie parti della città, e che non possono più contenersi nella chiesetta attuale, si deliberò di tentare la costruzione di una chiesa abbastanza capace per questo doppio scopo. Ma un motivo tutto speciale della costruzione di questa chiesa era un bisogno comunemente sentito di dare un segno pubblico di venerazione alla B. Vergine Maria, che con viscere di Madre veramente misericordiosa aveva protetto i nostri paesi scampandoci dai mali cui tanti altri soggiacquero.
            Due cose si presentavano davanti per dar mano alla pia impresa; il luogo dell’edifizio, il titolo sotto cui dovesse consacrarsi. Affinché si potessero secondare i disegni della Divina Provvidenza, questa chiesa doveva edificarsi nella via Cottolengo in sito spazioso, libero, nel centro di quella grande popolazione. Venne pertanto scelto un’area posta fra la detta via Cottolengo e l’Oratorio di s. Francesco di Sales.
            Mentre poi si stava deliberando intorno al titolo sotto cui porre il novello edifizio, un incidente sciolse ogni dubbio. Il sommo Pontefice il regnante Pio IX, cui nulla sfugge di quanto può tornare vantaggioso alla Religione, informato della necessità di una chiesa nel luogo sopra indicato, mandò la sua prima graziosa offerta di franchi 500, facendo sentire che Maria Ausiliatrice sarebbe stato un titolo certamente gradito all’augusta Regina del cielo. Accompagnava poi la caritatevole offerta con una speciale benedizione agli oblatori aggiungendo queste parole: “Questa tenue offerta abbia più potenti e generosi oblatori che cooperino a promuovere la gloria dell’augusta Madre di Dio in terra, e così si accresca il numero di quelli che un giorno le faranno gloriosa corona in cielo.”
            Stabilito così il luogo e il nome dell’edifizio, un benemerito ingegnere, cav. Antonio Spezia, ne concepì il disegno, lo sviluppò in forma di croce latina sopra una superficie di 1200 metri quadrati. In questo tratto di tempo nacquero non piccole difficoltà, ma la Santa Vergine, che voleva questo edifizio a sua maggior gloria, dileguò, o meglio allontanò tutti gli ostacoli che si presentavano allora e che più gravi ancora si sarebbero in appresso presentati. Laonde non si pensò più ad altro che a dar cominciamento al sospirato edifizio.

Capo XVI. Principio dell’edifizio e funzione della pietra fondamentale.

            Fatti gli scavi all’ordinaria profondità, eravamo in procinto di gettare giù le prime pietre, e la prima calce, quando ci siamo accorti che le fondamenta appoggiavano sopra terreno di alluvione e perciò inetto a sostenere le basi di un edifizio di quella fatta. Si dovettero perciò approfondare di più gli scavi, fare una forte e larga palificata corrispondente alla periferia della progettata costruzione.
            Il palificare e scavare a notabile profondità fu cagione di maggiori spese sia per l’aumento dei lavori, sia per la copia di materiali e di legnami che dovevano collocarsi sotto terra. Ciò nonostante i lavori furono alacremente continuati, e il 27 aprile 1865 si poterono benedire le fondamenta e porre la pietra angolare.
            Per comprendere il significato di questa funzione conviene osservare essere disciplina della Chiesa Cattolica che niuno debba incominciare la fabbrica di un sacro edifizio senza espressa licenza del vescovo, sotto la cui giurisdizione si ritrova il terreno che si vuole destinare a questo scopo. Aedificare ecclesiam nemo potest, nisi auctoritate dioecesani[3].
            Conosciuta la necessità della Chiesa e stabilitone il luogo, il vescovo in persona o per mezzo di un suo incaricato va a porre la pietra fondamentale. Questa pietra figura Gesù Cristo che nei libri santi è detto pietra angolare, ovvero il fondamento di ogni autorità, di ogni santità. Il vescovo poi con quell’atto indica che egli riconosce la sua autorità da Gesù Cristo, cui quell’edificio appartiene, e da cui deve dipendere ogni esercizio religioso che sia per farsi in avvenire in quella chiesa, mentre il vescovo ne prende possesso spirituale mettendo la pietra fondamentale.
            I fedeli della Chiesa primitiva, quando volevano fabbricare qualche chiesa, ne contrassegnavano prima il luogo colla croce per denotare che quel sito, destinandosi al culto del vero Dio, non poteva più servire ad uso profano.
            La benedizione poi si fa dal vescovo ad esempio di quanto fece il patriarca Giacobbe allora che in un deserto alzò una pietra sopra cui fece sacrificio al Signore: Lapis iste, quem erexi in titulum, vocabitur domus Dei.
            È pur bene qui di notare che ogni chiesa, ed ogni culto che in quella si esercita è sempre rivolto a Dio, cui ogni atto, ogni parola, ogni segno è dedicato e consacrato. Questo atto religioso si dice Latria ossia culto supremo, o servizio per eccellenza che si presta solamente a Dio. Le chiese si sogliono anche dedicare ai santi con un secondo culto che si dice Dulia, che vuol dire servizio prestato ai servi del Signore.
            Quando poi il culto è indirizzato alla Beata Vergine dicesi Iperdulia, vale a dire servizio sopra eminente a quello che si rende ai santi. Ma la gloria e l’onore che si tributano ai santi ed alla B. Vergine non si fermano in loro, ma per loro mezzo vanno a finire in Dio che è il termine delle nostre preghiere e delle nostre azioni. Quindi le chiese sono tutte consacrate primieramente a DioOttimo Massimo, poi alla B. Vergine; quindi a qualche santo a beneplacito dei fedeli. Così leggiamo che s. Marco Evangelista in Alessandria d’Egitto consacrò una chiesa a Dio ed al suo maestro s. Pietro apostolo[4].
            Conviene eziandio osservare intorno a queste funzioni, che talvolta il vescovo benedice la pietra angolare e qualche distinto personaggio la depone al suo posto, e mette sopra la prima calce. Così abbiamo dalla storia che il Sommo Pontefice Innocenzo X nell’anno 1652 benedisse la pietra fondamentale della chiesa di s. Agnese in Piazza Navona, mentre il principe Pamfili Duca di Carpinete la depose giù nelle fondamenta.
            Così nel nostro caso Mons. Odone di felice memoria vescovo di Susa era incaricato di fare la funzione religiosa mentre il Principe Amedeo di Savoia collocava a suo posto la pietra angolare, e vi metteva sopra la prima calce.
            Pertanto il giorno 27 aprile 1865, alle due di sera si cominciò la religiosa funzione. Il tempo era sereno, una moltitudine di gente, la prima nobiltà torinese ed anche non torinese era intervenuta. I giovanetti appartenenti alla casa di Mirabello in quella occasione erano venuti a formare coi loro compagni torinesi una specie di esercito.
            Il venerando Prelato dopo le preci e i salmi prescritti asperse con acqua lustrale le fondamenta del disegnato edifizio, di poi si portò presso al pilastro della cupola nel lato del Vangelo, il quale sorgeva già al livello dell’attuale pavimento. Qui fu redatto un verbale di quanto si faceva, e si lesse ad alta voce nel tenore seguente:
            “L’anno del Signore mille ottocento sessantacinque, il ventisette aprile, ore due di sera; l’anno decimonono del Pontificato di Pio IX, dei Conti Mastai Ferretti felicemente regnante; l’anno decimosettimo di Vittorio Emanuele II; essendo vacante la sede arcivescovile di Torino per la morte di Monsignor Luigi dei Marchesi Franzoni, Vicario Capitolare il Teologo Collegiato Giuseppe Zappata; curato della Parrocchia di Borgo Dora il Teologo Cattino Cav. Agostino; direttore dell’Oratorio di san Francesco il sacerdote Bosco Giovanni; alla presenza di S. A. R. il Principe Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta; del conte Costantino Radicati Prefetto di Torino; della Giunta Municipale rappresentata dal Sindaco di questa città Lucerna di Rorà marchese Emanuele, e dalla Commissione promotrice di questa chiesa[5] da dedicarsi a Dio OttimoMassimo ed a Maria Ausiliatrice, Monsignor Odone G. Antonio vescovo di Susa, avuta l’opportuna facoltà dall’Ordinario di questa Archidiocesi, ha proceduto alla benedizione delle fondamenta di questa chiesa e collocazione della pietra angolare della medesima nel pilastro grande della cupola nel lato del Vangelo dell’altare maggiore. In questa pietra sono state chiuse alcune monete di metallo e di valore diverso, alcune medaglie portanti l’effigie del Sommo Pontefice Pio IX e del nostro Sovrano, una iscrizione in latino che ricorda l’oggetto di questa sacra funzione. Il benemerito ingegnere architetto cav. Spezia Antonio, il quale ne concepì il disegno e con spirito cristiano prestò e presta tuttora l’opera sua nella direzione dei lavori.
            La forma della chiesa è di croce latina, della superficie di mille duecento metri; motivo di questa costruzione è la mancanza di chiese fra i fedeli di Valdocco, e per dare un pubblico attestato di gratitudine alla gran Madre di Dio pei grandi benefizi ricevuti, per quelli che in maggior copia si attendono da questa celeste Benefattrice. L’opera fu cominciata, e si spera che sarà condotta a felice termine colla carità dei devoti.
            Gli abitanti di questo Borgo di Valdocco, i Torinesi ed altri fedeli da Maria beneficati, riuniti ora in questo benedetto recinto, mandano unanimi al Signore Iddio, alla Vergine Maria, aiuto dei cristiani, una fervida preghiera per ottenere dal cielo copiose benedizioni sopra i Torinesi sopra i cristiani di tutto il mondo, e in modo particolare sopra il Capo supremo della Chiesa cattolica, promotore ed insigne benefattore di questo sacro edifizio, sopra tutte le autorità ecclesiastiche, sopra l’augusto nostro Sovrano, e sopra tutta la reale Famiglia, e specialmente sopra S. A. R. il Principe Amedeo, che accettando l’umile invito diede un segno di venerazione alla gran Madre di Dio. L’augusta Regina del Cielo assicuri un posto nella eterna beatitudine a tutti quelli che hanno dato o daranno opera a condurre a termine questo sacro edifizio, o in qualche altro modo contribuiranno ad accrescere il culto e la gloria di Lei sopra la terra.”
            Letto ed approvato questo verbale, fu sottoscritto da tutti quelli che furono sopra nominati e dai più illustri personaggi che si trovano presenti. Di poi fu piegato e fasciato col disegno della chiesa e con qualche altro scritto, e riposto in un vaso di vetro appositamente preparato. Chiuso questo ermeticamente venne collocato nel cavo fatto in mezzo alla pietra fondamentale. Benedetta ogni cosa dal vescovo, fu sopra posta altra pietra, e il Principe Amedeo vi pose la prima calce. Dopo i muratori continuarono il loro lavoro fino all’altezza di oltre un metro di costruzione.
            Compiuti ancora gli altri riti religiosi, i prelodati personaggi visitarono lo stabilimento, di poi assistettero ad una rappresentazione dei giovani stessi. Loro si lessero varie poesie di opportunità, si eseguirono diversi pezzi di musica vocale e strumentale con un dialogo, in cui si dava un cenno storico sulla solennità del giorno[6].
            Terminato il piacevole trattenimento chiudeva la giornata una devota azione di grazie al Signore colla benedizione del SS. Sacramento. S. A. R. col suo corteggio lasciavano l’Oratorio alle ore 5 1/2 mostrandosi ognuno pienamente soddisfatto.
            L’Augusto Principe fra gli altri segni di gradimento offrì la graziosa somma di fr. 500 della sua cassetta particolare, e regalò gli attrezzi di sua ginnastica ai giovani di questo stabilimento. Poco dopo l’ingegnere era decorato della croce dei santi Maurizio e Lazzaro.

(continua)


[1] Alla morte di quel principe, il conte Tesauro fece la seguente epigrafe, che venne scolpita nel pavimento dell’altare.
D. O. M.
SERENISSIMIS PRINCEPS MAURITIUS SABAUDIAE
MELIOREM SUI PARTEM
COR
QUOD VIVENS
SUMMAE REGINAE COELORUM LITAVERAT
MORIENS CONSECRAVIT
HICQUE AD MINIMOS QUOS CORDE DILIGERAT
APPONI VOLUIT
CLAUSIT ULTIMUM DIEM
QUINTO NONAS OCTOBRIS MDCLVII.

[2] Questo quartiere si chiama Valdocco dalle iniziali Val. Oc. Vallis Occisorum ossia valle degli uccisi, perché essa fu innaffiata dal sangue dei santi Avventore ed Ottavio, i quali qui riportarono la palma del martirio.

Dalla chiesa parrocchiale di Borgo Dora tirando una linea fino alla chiesa della Consolata ed a quella di Borgo s. Donato; di poi volgendo alla regia fucina delle canne sino al fiume Dora, avvi uno spazio coperto di case, ove hanno stanza oltre a 35,000 abitanti, tra cui non esisteva alcuna pubblica chiesa.

[3] Concilio Aurelian. dist. l, De consacr.

[4] Vedi Moroni, articolo Chiese.

[5] Membri della commissione promotrice della lotteria per questa chiesa.

LUCERNA DI RORA’ March. Emanuele Sindaco della città di Torino Presidente onorario

SCARAMPI DI PRUNEY March. LODOVICO Presidente

FASSATI March. DOMENICO V. Presidente

MORIS Comm. GIUSEPPE Consigliere Municipale V. Presidente

GRIBAUDI sig. GIOVANNI Dott. in Medicina e Chirurgia. Segretario

OREGLIA DI S. STEFANO Cav. FEDERICO Segretario

COTTA Commendatore GIUSEPPE Senatore del Regno Cassiere

ANZINO Teol. Can. VALERIO Cappellano di Sua Maestà

BERTONE DI SAMBUY Conte ERNESTO Direttore dell’esposizione

BOGGIO Bar. GIUSEPPE Direttore dell’esposizione

BOSCO DI RUFFINO Cav. ALERAMO

BONA COMRNEN. Direttore generale delle ferrovie meridionali

BOSCO sac. GIOVANNI Direttore degli Oratorii

CAYS DI GILEITA Conte CARLO Direttore dell’esposizione

DUPRA’ Cav. GIO. Batt. Ragioniere alla Camera dei Conti

DUPRÈ Cav. GIUSEPPE Consigliere Municipale

FENOGLIO Commendatore PIETRO Economo generale

FERRARI DI CASTELNUOVO March. EVASIO

GIRIODI Cav. CARLO Direttore dell’esposizione

MINELLA sac. VINCENZO Direttore dell’esposizione

PERNATI DI MOMO Cav. Comm. Ministro di Stato, Senatore del Regno

PATERI Cav. ILARIO Prof. e Consigliere Municipale

PROVANA DI COLLEGNO Conte ed Avvocato ALESSANDRO

RADICATI Conte COSTANTINO Prefetto

REBAUDENGO Comm. Gio. Segretario Generale del Ministro della Casa Reale

SCARAMPI DI VILLANUOVA Cav. CLEMENTE Direttore dell’esposizione

SOLARO DELLA MARGHERITA Conte ALBERTO

SPERINO Comm. CASIMIRO Dottore in Medicina e Chirurgia

UCCELLETTI sig. CARLO Direttore dell’esposizione

VOGLIOTTI Cav. ALESSANDRO Can. Teol. Pro-Vicario Generale

VILLA DI MOMPASCALE Conte GIUSEPPE Direttore dell’esposizione

VIRETTI sig. Avvocato MAURIZIO Direttore dell’esposizione

[6] Una delle poesie col dialogo e colla iscrizione si possono leggere nell’Appendice posta in fine del libretto.




Correggere i “figli ribelli” con san Francesco di Sales

            Nel settembre 1594 Francesco di Sales, prevosto della cattedrale, giungeva, accompagnato dal cugino, a Thonon nel Chiablese, provincia situata a sud del lago Lemano e vicina a Ginevra, per esplorare il territorio allo scopo di riconquistare possibilmente al cattolicesimo quella provincia, divenuta protestante da sessant’anni. Iniziava così una fase acuta di confronto con i figli ribelli della santa Chiesa, che segnerà tutta la sua vita di uomo di Chiesa. Fino alla sua morte nel 1622, impiegherà tutte le risorse di un’arte che è anche caratteristica dell’educatore di fronte ai “figli ribelli”.

Riconquistare le anime
            All’epoca di Francesco di Sales, i partigiani di una «riduzione» degli eretici con la forza erano numerosi. Suo padre, il signor de Boisy, era del parere che occorreva parlare a quella gente «con la bocca dei cannoni». Mentre la forza politica e militare di cui disponeva il duca di Savoia nel Chiablese gli aveva consentito di conquistare “il corpo” degli abitanti, ciò che per Francesco di Sales era più importante, e costituiva il suo obiettivo principale, era conquistare le anime. Con un’altra parola dirà a Filotea che “chi conquista il cuore dell’uomo conquista tutto l’uomo”.
            La prima cosa da fare era conoscere con esattezza la posizione degli avversari. Come discutere con i protestanti se non si è letta l’Istituzione della religione cristiana di Calvino? Il giovane prevosto così scriveva già nel 1595 al suo ex-direttore spirituale, padre Possevino:

Io non oso più in nessun modo attaccare Calvino o Beza, […] senza che ognuno non voglia sapere con esattezza dove si trova quello che dico. Per questo, ho già subito due affronti, che non mi sarebbero toccati, se non mi fossi fidato delle citazioni di libri che m’hanno tratto in inganno. […] In una parola, in questi baliaggi, tutti hanno sempre in mano le “Istituzioni”; mi trovo in un paese in cui tutti sanno le loro “Istituzioni” a memoria.

            Possediamo una lista contenente più di sessanta libri proibiti, il cui uso era consentito a Francesco di Sales da parte della Congregazione dell’Inquisizione. Vi si trovano non solo opere di Calvino, di Beza e di diversi autori protestanti, ma anche traduzioni della Bibbia in francese, catechismi protestanti, libri di controversie calviniste, trattati di teologia protestante e di vita evangelica, pamphlets contro il papa o semplicemente libri di cattolici messi all’indice.
            Dopo la scienza, la missione richiedeva qualità morali e spirituali particolari, a cominciare da un disinteresse totale. Il suo amico e discepolo, il vescovo Jean-Pierre Camus, ha sottolineato questo atteggiamento di distacco che caratterizzerà l’intera vita di Francesco di Sales: «Benché quelli di Ginevra gli trattenessero tutte le entrate della mensa episcopale e il provento del suo capitolo, non l’ho mai udito lamentarsi per tali trattenute”. D’altronde, secondo Francesco di Sales, non bisognava inquietarsi troppo dei beni ecclesiastici, perché, diceva, «la sorte dei beni della Chiesa è come quello della barba: più la si rade e più robusta e folta cresce».
            Il suo obiettivo era solamente pastorale: «Non sospirava altro se non convertire le anime ribelli alla luce della verità, che brilla solo nella vera Chiesa». Quando parlava di Ginevra, «che chiamava la sua povera o la sua cara (termini di compassione e di amore), nonostante la di lei ribellione», diceva a volte sospirando: “Da mihi animas, caetera tolle tibi”. Intesa nel suo senso letterale, che è quello del libro della Genesi (cf Gen 14,21), tale richiesta rivolta ad Abramo dal re di Sodoma dopo la vittoria che gli aveva consentito di recuperare i prigionieri di guerra e i beni sottratti dal nemico, voleva dire semplicemente: «Dammi le persone e tieniti tutto il resto», cioè il bottino. Ma sulle labbra di Francesco di Sales, queste parole diventavano la preghiera che il missionario indirizzava a Dio per chiedergli «anime», rinunciando completamente a compensi materiali e a interessi personali.
            Egli stesso, sprovvisto di risorse (suo padre gli aveva tagliato i viveri durante la missione nel Chiablese per convincerlo a rinunciare), avrebbe voluto guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro. Diceva:

Quando predicavo la fede nel Chiablese, più volte desiderai ardentemente di saper fare qualche cosa, per imitare in ciò san Paolo, che si nutriva col lavoro delle [sue] mani; ma io sono un buono a far nulla, se non a rappezzare in qualche modo i miei vestiti; è però vero che Dio m’ha fatto la grazia di non essere di peso ad alcuno nel Chiablese; quando non avevo di che nutrirmi, la mia buona madre mi inviava in segreto, da Sales, biancheria e denaro.

            La ribellione dei protestanti era stata causata in buona parte dai peccati del clero, motivo per cui la loro conversione esigeva dai missionari soprattutto tre cose: la preghiera, la carità e lo spirito di sacrificio. Così scriveva all’amico Antoine Favre nel novembre del 1594: «La preghiera, l’elemosina e il digiuno sono le tre parti che compongono la fune che il nemico rompe con difficoltà; con la grazia divina, cercheremo di legare con essa quest’avversario».

Il metodo salesiano
            La prima cosa da fare era mettersi sullo stesso terreno intellettuale degli avversari. Il meno che si potesse dire di loro al riguardo è che erano assolutamente refrattari a argomenti filosofici e teologici ereditati dalla scolastica medievale. Punto importante, questo, che è stato così precisato da Pierre Magnin:

Evitava con tutte le sue forze di buttarsi nelle contese e negli alterchi della scolastica, dato che ciò avveniva senza alcun profitto e che, per la gente, colui che fa la voce più grossa appare sempre come se avesse più ragione. Si dedicava, invece, principalmente a proporre con chiarezza e in modo articolato i misteri della nostra santa fede e a difendere la Chiesa cattolica contro la vana credenza che ne hanno i suoi nemici. A tale scopo non si appesantiva con tanti libri, perché durante circa dieci anni si è servito unicamente della Bibbia, della “Summa” di san Tommaso e delle “Controversie” del cardinal Bellarmino.

            In effetti, se san Tommaso gli forniva il punto di riferimento cattolico e «l’esimio teologo» Bellarmino l’arsenale di prove contro i protestanti, l’unica base di possibile discussione era la Bibbia. E in questo era d’accordo con gli eretici:

La fede cristiana è fondata sulla parola di Dio; è essa che la colloca al grado supremo della sicurezza, perché ha come garante tale eterna e infallibile verità. La fede che si appoggia altrove non è cristiana. Dunque, la parola di Dio è la vera regola del ben credere, poiché essere fondamento e regola in questo campo è la stessa cosa.

            Francesco di Sales si dimostrava assai severo verso gli autori e i diffusori di errori, in particolare verso gli «eresiarchi» Calvino e i ministri protestanti, nei confronti dei quali, per lui, nessuna tolleranza era concepibile. La sua pazienza, al contrario, era senza limiti nei riguardi di tutti coloro che riteneva vittime delle loro teorie. Sempre Pierre Magnin assicura che Francesco
ascoltava con pazienza le loro difficoltà senza mai montare in collera e senza proferire parole ingiuriose contro di loro, nonostante il fatto che detti eretici si accaldassero nelle dispute e si servissero solitamente di ingiurie, di canzonature o calunnie; egli, invece, manifestava loro un amore molto cordiale, per convincerli che era animato da nessun altro interesse che non fosse la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
            In una sezione del suo libro intitolato Dell’accomodamento, J.-P. Camus ha rilevato un certo numero di tratti del modello salesiano, che lo differenziavano rispetto ad altri missionari del Chiablese (probabilmente si trattava dei cappuccini) dall’abito lungo e dall’aspetto austero e rude, i quali apostrofavano la gente con le espressioni: «Cuori incirconcisi, ribelli alla luce, testardi, razza di vipere, membri corrotti, tizzoni d’inferno, figli del diavolo e delle tenebre». Per non spaventare la popolazione, Francesco e i suoi collaboratori avevano deciso di «mettersi in viaggio vestiti con mantelli corti e con stivali, convinti di ottenere in questo modo più facile accesso alle case della gente e di non dar negli occhi alle compagnie portando lunghe vesti per loro nuove».
            Sempre secondo Camus, fu denunciato al vescovo perché chiamava gli eretici col nome di «fratelli», benché si trattasse sempre di fratelli «erranti», che invitava alla riconciliazione e alla riunificazione. Agli occhi di Francesco, la fraternità coi protestanti si giustificava in base a tre motivi:

Essi, infatti, sono nostri fratelli in virtù del battesimo, valido nella loro Chiesa; lo sono, inoltre, quanto al sangue e alla carne, perché noi e loro siamo stirpe di Adamo. Ancora, siamo concittadini e quindi soggetti di uno stesso principe; tutto ciò non è in grado di costituire una qualche fraternità? In aggiunta, io li consideravo come figli della Chiesa quanto alla loro disposizione, perché si lasciano istruire, e come miei fratelli quanto alla speranza di una stessa chiamata alla salvezza; ed è appunto [col nome di fratelli] che anticamente si chiamavano i catecumeni prima di venir battezzati.

            Fratelli smarriti, fratelli ribelli, ma pur sempre fratelli. I missionari “d’urto” lo criticavano, poi, perché «guastava tutto pensando di fare del bene, perché assecondava l’orgoglio così naturale per l’eresia, perché addormentava quella gente nel loro errore, accomodandole il cuscino sotto il gomito; quando invece era meglio correggerli usando misericordia e giustizia, senza ungerne la testa con l’olio della lusinga». Da parte sua, Francesco, trattava la gente con rispetto, anzi con compassione, e «se gli altri miravano a farsi temere, egli desiderava farsi amare ed entrare negli spiriti per la porta del compiacimento».
            Anche se Camus sembra forzare i tratti opponendo i due metodi, è certo che il metodo salesiano aveva caratteristiche proprie. La tattica impiegata con un calvinista come Jean-Gaspard Deprez, lo dimostra all’evidenza: in occasione del loro primo incontro – racconterà –, «costui, avvicinandomi, mi domandò come andava il piccolo mondo, ossia il cuore, e se credevo di potermi salvare nella mia religione e come servivo Dio in essa». Nel corso di colloqui segreti avuti a Ginevra con Teodoro di Beza, successore di Calvino, userà lo stesso metodo fondato sul rispetto dell’interlocutore e sul dialogo cortese. Chi si arrabbiò fu solo Beza, che pronunciò “parole indegne di un filosofo”.
            Stando a ciò che riferisce Georges Rolland, che vide sovente Francesco all’opera con i protestanti, «non li spingeva mai […] al punto da farli indignare e da sentirsi ricoperti di vergogna e confusione»; ma «con la sua ordinaria dolcezza rispondeva loro in modo giudizioso, piano, senza acredine e disprezzo, e con questo mezzo ne conquistava i cuori e la loro benevolenza». Aggiunge anche che era «criticato sovente dai cattolici che lo seguivano in dette conferenze, perché trattava con troppa dolcezza gli avversari. Gli si diceva che doveva farli vergognare delle loro risposte impertinenti; al che, egli rispondeva che usare parole ingiuriose e di disprezzo non farebbe altro che scoraggiare e impedire questi poveri sviati, mentre occorreva cercare di salvarli e non di confonderli. E in cattedra, parlando di loro, diceva: “I nostri signori avversari”, e evitava il più possibile di pronunciare il nome di eretici o di ugonotti.
            A lungo andare, questo metodo si dimostrò efficace. L’iniziale ostilità della popolazione del Chiablese, che conosceva bene i termini ingiuriosi di «papista», «mago», «stregone», «idolatra» e «guercio» affibbiatigli, lasciò il posto poco alla volta al rispetto, all’ammirazione e all’amicizia. Confrontando questo metodo con quello degli altri missionari, Camus ha scritto che Francesco “prendeva più mosche con un cucchiaio di miele tanto a lui familiare, che tutti costoro con i loro barili di aceto”. Secondo Claude Marin, i primi che osarono avvicinarlo furono in fanciulli; “dava loro una carezza accompagnata da una dolce parola”. Un neoconvertito tentato di tornare indietro gli dirà: “Voi avete riconquistato la mia anima”.

Alla ricerca di una nuova forma di comunicazione
            All’inizio della sua missione nel Chiablese, Francesco di Sales si era trovato ben presto davanti a un muro. I capi del partito protestante avevano deciso di interdire ai loro correligionari ogni forma di partecipazione alle prediche del prete papista. Cosa fare in tali condizioni? Siccome gli abitanti di Thonon non volevano andare da lui, andrà lui da loro. Come? La nuova forma di comunicazione consisterà nel redigere e distribuire periodicamente dei volantini, facili da leggere a piacimento nelle loro case.
            L’impresa iniziò nel gennaio 1595. Stese i primi articoli, copiati a mano in attesa di poter utilizzare i servizi di una tipografia, e li diffuse poco alla volta. Poi inviava ogni settimana a Chambéry per stamparlo un nuovo volantino, che poi faceva distribuire nelle case di Thonon e nelle campagne. Indirizzandosi ai «signori di Thonon», Francesco di Sales spiegava loro il perché e il come di tale iniziativa:

Avendo dedicato un po’ di tempo a predicare la parola di Dio nella vostra città, senza essere stato ascoltato da voi se non raramente, poco alla volta e di nascosto, per non lasciare niente di intentato da parte mia, ho incominciato a mettere per iscritto alcune ragioni principali, che ho scelto perlopiù nelle mie prediche e trattato precedentemente a viva voce in difesa della fede della Chiesa.

            Distribuiti periodicamente nelle case, i volantini apparivano una specie di settimanale. Quale vantaggio pensava di poter ricavare da questa nuova forma di comunicazione? Nell’indirizzarsi ai «signori di Thonon», Francesco di Sales ha messo in bella luce le quattro «comodità» della comunicazione scritta:

            l. Porta l’informazione a casa. 2. Facilita il confronto pubblico e il dibattito delle opinioni con l’avversario. 3. È vero che “le parole pronunciate con la bocca sono vive, mentre scritte sulla carta sono morte”; tuttavia lo scritto “si lascia maneggiare, offre più tempo alla riflessione rispetto alla voce, e consente di pensarci su più profondamente”. 4. La comunicazione scritta è un mezzo efficace per combattere contro la disinformazione, perché fa conoscere con esattezza il pensiero dell’autore e consente di verificare se il pensiero di un personaggio corrisponde o no alla dottrina che pretende di difendere. Ciò che gli faceva dire: “Io non dico niente a Thonon se non quello che voglio si sappia ad Annecy e a Roma, qualora ce ne sia bisogno”.
            Di fatto, riteneva che suo primo dovere era lottare contro le deformazioni della dottrina della Chiesa, operate dagli autori protestanti. Lo spiega con precisione J.-P. Camus:

Uno dei loro più grandi mali sta nel fatto che i loro ministri contraffanno le nostre credenze, sicché la loro presentazione risulta tutt’altra cosa da quella che è in realtà: ad esempio, che noi non diamo alcuna importanza alla sacra Scrittura; che adoriamo il Papa; che consideriamo i santi come dei; che diamo più importanza alla santa Vergine che a Gesù Cristo; che adoriamo le immagini con un’adorazione latreutica e attribuiamo loro un’aura divina; che le anime del purgatorio sono nello stesso stato e nella medesima disperazione di quelle dell’inferno; che adoriamo il pane dell’Eucaristia; che priviamo il popolo dal partecipare al sangue di Gesù Cristo; che ce ne infischiamo dei meriti di Gesù Cristo, attribuendo la salvezza unicamente ai meriti delle nostre buone azioni; che la confessione auricolare è un tormento dello spirito; e simili invettive, che rendono la nostra religione odiosa e screditata tra queste popolazioni, le quali vengono così informate male e con inganno.

            Due atteggiamenti caratterizzano il personale procedimento di Francesco di Sales «giornalista»: da un lato, il dovere di informare i lettori con esattezza, spiegando loro le ragioni della posizione cattolica, in breve, essere loro utile; dall’altro, un grande desiderio di manifestare loro il proprio affetto. Indirizzandosi ai propri lettori, dichiarava subito: «Non leggerete mai uno scritto diretto a voi da un uomo tanto affezionato al vostro bene spirituale come sono io».
            Accanto alla comunicazione scritta, utilizzerà incidentalmente altre forme di comunicazione, in particolare il teatro. In occasione della grande manifestazione cattolica ad Annemasse nel settembre 1597, che vide il concorso di una folla di parecchie migliaia di persone, venne recitato un dramma biblico intitolato Il sacrificio di Abramo, nel quale il prevosto impersonava Dio Padre. Il testo composto in versi non era opera sua; fu però lui a suggerire il tema al cugino, il canonico di Sales, e al fratello Louis, che era ritenuto “oltremodo versato nelle lettere umane”.

Verità e carità
            L’autore del libro Lo spirito del beato Francesco di Sales ha colto bene, così pare, il cuore del messaggio salesiano nella sua forma definitiva, quando ha intitolato l’inizio della sua opera: Della vera carità, citando questa “preziosa e notevole sentenza” del suo eroe: “La verità che non è caritatevole sgorga da una carità che non è vera”.
            Per Francesco di Sales, spiega il Camus, ogni correzione deve avere per scopo il bene di colui che si intende correggere (il che può provocare una momentanea sofferenza) e dovrà essere fatta con dolcezza e pazienza. Di più, colui che corregge deve essere pronto a soffrire ingiustizie e ingratitudini da parte di colui che riceve la correzione.
            Dell’esperienza vissuta da Francesco di Sales nel Chiablese si ricorderà che l’indispensabile alleanza della verità con la carità non è sempre facile da tradurre in pratica, che esistono parecchie maniere di metterla in opera, ma che è imprescindibile per chi è animato da una vera preoccupazione per la correzione e l’educazione dei “figli ribelli”.




Mostra per i 200 anni del sogno di don Bosco

Dialogo tra passato, presente e futuro: mostra temporanea per i 200 anni del sogno di don Bosco. Museo Casa Don Bosco

Parlare della biografia di don Bosco senza menzionare il mondo dei sogni significa sopprimere un aspetto importante della sua identità. La vita del santo fu segnata dal soprannaturale, dalle visioni e dai sogni che Dio gli inviò fin dall’infanzia, quando tra i nove e i dieci anni Giovannino Bosco ebbe il suo primo sogno, che lo segnò profondamente e lo accompagnò per tutta la vita.

Il sogno fu considerato profetico perché illuminava il suo progetto di vita, sia nella scelta dello stato ecclesiastico sia nella sua totale dedizione alla gioventù povera e abbandonata. Anzi, in un certo senso segnò il suo percorso, visto che iniziò nei prati dei Becchi, sua città natale, si concretizzò a Torino quando si stabilì nel quartiere Valdocco e fu ricordato nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù, al Castro Pretorio di Roma, un anno prima della sua morte. Allo stesso tempo, dal 1875, con le missioni salesiane, abbracciò diversi continenti del mondo, arrivando fino ai giorni nostri, dove la presenza salesiana lavora per mantenere vivo il sogno del fondatore.

A distanza di due secoli, consapevoli che il sogno di don Bosco è ancora attuale, il museo della casa madre di Valdocco-Torino, Museo Casa Don Bosco, ha inaugurato il 22 maggio una mostra temporanea che rimarrà aperta fino al 22 settembre 2024.

L’esposizione, frutto di una precedente ricerca, si articola in diverse sezioni che esplorano la narrazione, la storia, l’iconografia del sogno nelle arti e la risonanza del sogno oggi, a duecento anni di distanza.

La selezione di oggetti storico-artistici su diversi supporti aiuta a scoprire diversi momenti della storia salesiana che ricordano questo evento cruciale nella vita del santo. Insieme alle fotografie storiche, sono esposti oggetti del periodo compreso tra la beatificazione (1929) e la canonizzazione (1934), quando iniziò la rappresentazione del Sogno nelle arti: illustrazioni in libri, cartoline, monete commemorative, dipinti ad olio e su carta, ecc.

La mostra presenta un’importante selezione di stampe originali. Gli artisti Corrado Mezzana (1890-1952), Guido Grilli (1905-1967), Cosimo [Nino] Musio (1933-2017) e Alarico Gattia (1927-2022) sono alcuni degli autori. I fumetti di Grilli, Musio e Gattia sono stati commissionati dalla Libreria della Dottrina Cristiana (1941), fondata dal quarto successore di don Bosco, don Pietro Ricaldone (1870-1951). Queste opere, che sono state distribuite in varie pubblicazioni, supporti, formati e lingue in tutto il mondo, sono conservate dall’attuale casa editrice Elledici.

Completano l’esposizione le diciassette fotografie vincitrici del concorso fotografico internazionale svoltosi dal gennaio 2024 e promosso dalla casa museo con l’obiettivo di mettere in luce il talento artistico e creativo dell’intero mondo salesiano. Le foto sono descritte dagli stessi autori in lingua originale e provengono da Italia, Messico, Panama, Slovacchia, Spagna e Venezuela.

Queste immagini dialogano tra passato, presente e futuro e ci fanno riflettere su come, a distanza di due secoli, il Sogno di don Bosco sia diventato realtà nelle presenze salesiane di tutto il mondo.

Inoltre, il settore di Pastorale Giovanile della Congregazione Salesiana promuove la celebrazione del Sinodo dei giovani salesiani in tutto il mondo e, in occasione del bicentenario del sogno, ha raccolto nella pubblicazione “Diamanti nascosti” più di 200 sogni di giovani di tutto il mondo, alcuni dei quali sono esposti nella mostra.

Foto: Guido Grilli (1905-1967), Sogno di Giovannino, 16.6 x 23 cm., 1952, filmina D15, quadro n. 4. Archivio Storico Editrice Elledici.

dott.ssa Ana MARTÍN GARCÍA
Storica dell’arte, conservatore dei beni culturali e dottore di ricerca europeo (Doctor Europaus) in arti visive per l’Università di Bologna. Ex-allieva dei Salesiani di Estrecho (Madrid, Spagna). Dal 2023 lavora presso la direzione del Museo Casa Don Bosco di Valdocco-Torino come Coordinatrice Generale.




Don Bosco nelle Isole Salomone

Accompagnati da un salesiano locale, andiamo a conoscere una presenza educativa significativa in Oceania.

            La presenza di Don Bosco ha raggiunto ogni continente del mondo, possiamo dire che manca solo l’Antartide, e anche nelle isole dell’Oceania si sta diffondendo il carisma salesiano, che ben si adatta alle differenti culture e tradizioni.
            Da quasi 30 anni anche nelle Isole Salomone, Paese del Pacifico sudoccidentale che comprende oltre 900 isole, operano i salesiani. Arrivarono il 27 Ottobre 1995, su richiesta dell’arcivescovo emerito Adrian Smith, e iniziarono il lavoro con tre confratelli dal Giappone, i primi pionieri salesiani nel Paese. Inizialmente si trasferirono a Tetere, nella parrocchia di Cristo Re, nella periferia della capitale Honiara, sull’isola di Guadalcanal, e successivamente aprirono un’altra presenza a Honiara, nella zona di Henderson. I salesiani che lavorano nel Paese sono meno di dieci e provengono da diversi Paesi dell’Asia e dell’Oceania: Filippine, India, Korea, Vietnam, Papua Nuova Guinea e Isole Salomone.

            Le Isole Salomone sono un Paese molto povero della regione oceanica della Melanesia, che sin dall’indipendenza del 1978 ha conosciuto tanta instabilità politica e problemi sociali, attraversando conflitti e violenti scontri etnici al suo interno. Sebbene conosciute come le “Isole Felici”, il Paese si sta gradualmente allontanando da questa identità, poiché sta affrontando ogni tipo di sfida e problema che deriva dall’abuso di droghe e alcol, dalla corruzione, dalle gravidanze precoci, dalle famiglie distrutte, dalla mancanza di opportunità di lavoro e di istruzione e così via, ci racconta il salesiano Thomas Bwagaaro che ci accompagna in questo articolo.

            Le Isole Salomone hanno una popolazione stimata di circa 750.000 persone e la maggioranza è costituita da giovani. La popolazione è prevalentemente melanesiana, con alcuni popoli micronesiani, polinesiani e altri. La maggioranza della popolazione è cristiana, ma ci sono anche altre fedi come la Fede Bahai e l’Islam che si stanno gradualmente facendo strada nel Paese. I paesaggi marini paradisiaci e la ricchissima biodiversità rendono queste isole un luogo affascinante e fragile allo stesso tempo. Ci dice Thomas che i giovani sono generalmente docili e sognano un futuro migliore. Tuttavia, con l’aumento della popolazione e la mancanza di servizi e perfino di uno spazio per ricevere un’istruzione superiore, sembra che i giovani di oggi siano generalmente frustrati nei confronti del governo e che molti giovani ricorrano alla criminalità, come lo spaccio di droghe illegali, l’alcol, i borseggi, i furti e così via, soprattutto in città, solo per guadagnarsi un reddito. In questa situazione non semplice, i salesiani si rimboccano le maniche per offrire speranze di futuro.

            Nella comunità di Tetere il lavoro si concentra nella scuola, un centro di formazione professionale che offre corsi di agraria, e nella parrocchia di Cristo Re. Oltre ai corsi formali di istruzione, nella scuola ci sono spazi da gioco per gli studenti, i giovani che frequentano la parrocchia e le comunità che vivono nella stessa zona, e nel fine settimana è aperto l’oratorio. La sfida che la comunità si trova ad affrontare è la distanza da Honiara e la mancanza di risorse necessarie per aiutare la scuola a soddisfare il benessere degli studenti. Per quanto riguarda la parrocchia, la cattiva condizione delle strade che conducono ai villaggi è una delle principali preoccupazioni, che spesso contribuisce a problemi ai veicoli e, quindi, rende più difficile il trasporto.

            La comunità di Honiara-Henderson porta avanti una scuola tecnica professionale che si rivolge ai giovani e alle giovani che hanno abbandonato la scuola e non hanno la possibilità di proseguire gli studi. I corsi tecnici vanno dalla tecnologia elettrica, alla fabbricazione di metalli e alla saldatura, all’amministrazione di uffici commerciali, all’ospitalità e al turismo, alla tecnologia dell’informazione, alla tecnologia automobilistica, alla costruzione di edifici e al corso sull’energia solare.
            Oltre a questo, la comunità sostiene anche un centro di apprendimento che si rivolge principalmente ai bambini e ai ragazzi della discarica di Honiara e delle comunità circostanti la scuola che non hanno la possibilità di frequentare le scuole normali.

Tuttavia, a causa della mancanza di strutture, non tutti possono essere ospitati nel centro, nonostante gli sforzi di tutta la comunità. Seguendo il Sistema Preventivo di Don Bosco, i salesiani non si limitano ad offrire opportunità educative, ma si occupano anche dell’aspetto spirituale degli studenti attraverso vari programmi e attività religiose, per formarli ad essere “buoni cristiani ed onesti cittadini”. Attraverso i suoi programmi, la scuola salesiana trasmette ai ragazzi messaggi positivi e li educa alla disciplina e all’equilibrio, per evitare che cadano nei problemi di abuso di droghe e alcol, molto diffusi tra i giovani. Una sfida che la comunità salesiana si trova ad affrontare per offrire un’educazione di qualità è la formazione del personale, affinché sia sempre professionale e allo stesso tempo condivida i valori carismatici salesiani, con spirito di corresponsabilità educativa. La scuola ha bisogno di missionari laici e di volontari che si impegnino ad aiutare i giovani a realizzare i loro sogni e a diventare una versione migliore di sé stessi.
Anche se la situazione attuale del Paese sarà probabilmente più difficile negli anni a venire, ci racconta Thomas: “credo che i giovani delle Isole Salomone desiderino e sperino in un futuro migliore, desiderino persone che li ispirino a sognare, che li accompagnino, che li ascoltino e li guidino a sperare e a guardare oltre le sfide e i problemi che sperimentano continuamente ogni giorno, soprattutto quando migrano in città”.

            Ma come può nascere la vocazione alla vita consacrata salesiana nelle isole Salomone?
Thomas Bwagaaro è uno degli unici due salesiani provenienti dalle Isole Salomone. “È un privilegio per me lavorare per i giovani nel mio Paese. Come locale, avere a che fare con i giovani e ascoltare le lotte che a volte affrontano mi dà forza e coraggio per essere un buon salesiano.” Il lavoro educativo e la testimonianza personale di vita possono essere fonte di ispirazione per altri giovani che vogliano unirsi alla congregazione salesiana e continuare il sogno di Don Bosco di aiutare i giovani in questa regione, come è accaduto nella storia di Thomas. Il suo percorso per diventare salesiano è iniziato come studente del Don Bosco Tetere nel 2011. Ispirato dal modo in cui i salesiani interagivano con gli studenti, è rimasto affascinato e ricorda i due anni trascorsi lì come la migliore esperienza studentesca, che gli ha donato la speranza e la possibilità di sognare un futuro luminoso, nonostante la situazione difficile e la mancanza di opportunità. Il percorso vocazionale in comunità è iniziato con la partecipazione ai momenti di preghiera dei Salesiani, al mattino e alla sera, con un graduale e crescente senso di condivisione. Così, nel 2013, Thomas è entrato nell’aspirantato salesiano “Savio Haus” a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, frequentando per quattro anni il collegio insieme ad altri compagni. La formazione salesiana di chiaro stampo internazionale è proseguita nelle Filippine, a Cebu, con il prenoviziato e il successivo noviziato, al termine del quale Thomas ha emesso i suoi primi voti come salesiano presso il Santuario di Maria Ausiliatrice a Port Moresby proprio nella solennità di Maria Ausiliatrice, il 24 Maggio 2019. Poi è tornato nelle Filippine per lo studio della filosofia e finalmente è tornato nella visitatoria “PGS”, ovvero la provincia salesiana che comprende Papua Nuova Guinea e Isole Salomone. “Come salesiano locale, sono molto grato alla mia famiglia che mi ha sostenuto con tutto il cuore e ai confratelli che mi hanno dato il buon esempio e che mi hanno accompagnato nel mio cammino di giovane salesiano.” La vita religiosa, accanto ai giovani insieme a tanti laici esemplari, continua ad essere ancora oggi rilevante come lo è stata in passato. “Guardando al futuro, posso dire con sicurezza che le Isole Salomone continueranno ad avere molti giovani e la necessità di Salesiani, volontari salesiani e partner missionari laici per continuare questo meraviglioso apostolato di aiutare i giovani ad essere buoni cristiani e onesti cittadini sarà molto attuale.”

Marco Fulgaro




Intervista a Philippe BAUZIERE, ispettore Brasile Manaus

Abbiamo chiesto a don Philippe BAUZIERE, nuovo ispettore di Brasile Manaus (BMA) che ci risponda a qualche domanda per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

Don Philippe Bauzière è nato a Tournai, in Belgio, il 2 febbraio 1968. Ha svolto il noviziato salesiano presso la casa di Woluwe-Saint-Lambert (Bruxelles) e ha emesso la prima professione, sempre a Bruxelles, il 9 settembre 1989. Nel 1994 è arrivato per la prima volta in Brasile, a Manaus, dove ha emesso la professione perpetua il 5 agosto dell’anno successivo.
Ha ricevuto l’ordinazione diaconale ad Ananindeua il 15 novembre 1997 e, un anno più tardi, il 28 giugno 1998 è stato ordinato sacerdote presso la cattedrale della sua città natale, Tournai.
I primi anni da sacerdote li ha trascorsi presso la presenza salesiana di Manaus Alvorada (1998-2003). Dal 2004 al 2008 ha vissuto poi a Porto Velho, ricoprendo prima l’incarico di Parroco e poi di Direttore (2007-2008). Negli anni successivi ha vissuto a Belém, São Gabriel de Cachoeira e Ananindeua. Dal 2013-2018 è stato a Manicoré come Parroco e Direttore. Tornato a Manaus, ha vissuto nelle case di Alvorada, Domingos Savio e Aleixo fino al 2022. Quest’anno, 2023, è ad Ananindeua, dove accompagna la “Scuola Salesiana del Lavoro”. Dal 2019 fa parte del Consiglio Ispettoriale, dove ha ricoperto diversi incarichi di responsabilità: dal 2021 è Vicario Ispettoriale e anche Delegato Ispettoriale per la Famiglia Salesiana e per la Formazione.
Don Bauzière succede a don Jefferson Luís da Silva Santos che ha concluso il suo mandato di sei anni come Superiore dell’Ispettoria di Brasile-Manaus.

Può farci una autopresentazione?
            Sono Philippe Bauzière, salesiano di don Bosco, missionario da trent’anni in Brasile e sacerdote da ventisei. Ho capito la mia vocazione, la chiamata del Signore, soprattutto attraverso l’aspetto missionario. Una grande influenza l’ha avuta il parroco del mio villaggio in Belgio: era un Oblato di Maria Immacolata che aveva vissuto per molti anni in Sri Lanka e Haiti, che condivideva la sua esperienza missionaria… Così, all’età di diciott’anni, dopo un discernimento, ho capito che il Signore mi stava chiamando alla vita religiosa e al sacerdozio.
            Una curiosità: sono il maggiore dei miei due fratelli, e all’epoca loro frequentavano una scuola salesiana; io invece frequentavo una scuola diocesana… E sono stato io stesso a scoprire i salesiani! Ed è stato lo spirito salesiano a conquistarmi.
            Nel settembre 1989 ho fatto la mia prima professione religiosa chiedendo di andare nelle missioni. Il Consigliere per le Missioni di allora, don Luciano Odorico, mi inviò nell’Ispettoria Amazzonica (Manaus, Brasile), dove arrivai il 30 giugno 1994.
            Le prime sfide furono quelle dell’adattamento: una nuova lingua, il clima equatoriale, mentalità diverse… Pero tutto è stato controbilanciato di una bella sorpresa, quella dell’accoglienza che ho ricevuto dai miei confratelli e dalla gente.
            Dopo la mia ordinazione, sono stato mandato a lavorare nelle opere sociali e nelle parrocchie, dove ho avuto l’opportunità di incontrare tanti giovani e gente semplice. Come salesiano, sono molto felice di questo contatto, di poter servire il Signore insieme ai giovani e alle famiglie. Mi sento piccolo davanti all’azione del Signore in tanti giovani, e anche all’azione del Signore in me stesso.

Quali sono le difficoltà più grosse che hai incontrato?
            Oggi noi salesiani in Amazzonia sentiamo le potenti sfide che i giovani devono affrontare: la mancanza di opportunità, di formazione e di lavoro; il peso del traffico della droga, delle dipendenze e della violenza; molti giovani che non si sentono amati nelle loro case o famiglie (si sentono più a casa nelle nostre opere salesiane, che non nelle loro case…); i principali problemi di salute mentale (depressione, ansia, alcolismo, suicidio, ecc.); la mancanza di senso della vita tra i giovani; la mancanza di linee guida per un uso corretto delle nuove tecnologie.
Sentiamo anche la sfida di garantire che i gruppi etnici che si trovano in Brasile, non perdano la loro identità culturale, soprattutto i giovani. Di fronte a questo quadro, capiamo che la nostra vita deve essere donata al Signore, al servizio della difesa della VITA di tante persone, soprattutto dei giovani. Che il Signore ci illumini! Che Don Bosco interceda per noi!

Quali sono le necessità locali più urgenti?
            I tempi stanno cambiando rapidamente – come si può capire – e noi dobbiamo rispondere in modo adeguato a questi nuovi tempi. Le nostre opere hanno bisogno di molte risorse finanziarie (soprattutto perché la nostra posizione in Amazzonia comporta costi molto elevati, a causa delle grandi distanze), così come di una formazione adeguata e rinnovata per le nostre risorse umane (salesiani e laici). Le richieste sono tante: abbiamo bisogno di più salesiani! Sarebbe un gran bene se avessimo vocazioni, anche indigene.

Quale posto occupa nella vita Maria Ausiliatrice?
            Credo che, come nella vita di Don Bosco, la Madonna sia la nostra Ausiliatrice; Lei è presente e ci aiuta.




Intervista a don Francisco LEZAMA, ispettore dell’Uruguay

Abbiamo fatto a don Francisco LEZAMA, nuovo ispettore dell’Uruguay (URU), alcune domande per i lettori del Bollettino Salesiano OnLine.

Don Francisco Lezama è nato nella città di Montevideo l’11 settembre 1979. Ha conosciuto i Salesiani nell’opera salesiana di Las Piedras, dove ha partecipato ai gruppi giovanili e alle attività parrocchiali.
I suoi genitori, Luis Carlos Lezama e Graciela Pérez, vivono ancora attualmente nella città di Las Piedras.
Ha svolto tutta la sua formazione iniziale nella città di Montevideo. Ha compiuto il noviziato tra il 1999 e il 2000, ha emesso la professione perpetua il 31 gennaio 2006 a Montevideo, ed è stato ordinato sacerdote, nella sua città natale, l’11 ottobre 2008.
I primi anni di ministero sacerdotale li ha trascorsi nella presenza salesiana dell’Istituto “Juan XXIII” nella città di Montevideo. Poi, dal 2012 al 2015 ha studiato Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma.
Tra il 2018 e il 2020 è stato Direttore e parroco dell’Istituto “Pio IX” di Villa Colón, nonché membro dell’équipe ispettoriale per la Formazione e Delegato per la Pastorale Vocazionale. Nel 2021 ha assunto il servizio di Vicario ispettoriale e Delegato ispettoriale per la Pastorale Giovanile, incarichi mantenuti fino all’ottobre 2022, quando è stato designato come Economo ispettoriale. 
Don Lezama succede nell’incarico di Ispettore di URU a don Alfonso Bauer, che a gennaio 2024 ha concluso il suo sessennio di servizio.

Può farci una autopresentazione?
Sono Francisco Lezama, sacerdote salesiano, 44 anni… Mi appassiona l’educazione dei giovani, mi sento a mio aggio in mezzo a loro. Vengo da una famiglia che mi ha insegnato il valore della giustizia e dell’attenzione per gli altri. La vita mi ha regalato amici con cui posso condividere ciò che sono e che mi aiutano a crescere continuamente. Sogno un mondo in cui tutti e tutte abbiano una casa e un lavoro, e mi impegno – nella misura delle mie forze – per renderlo realtà.

Qual è la storia della tua vocazione?
Fin da bambino mi sono sentito chiamato a mettere la mia vita al servizio degli altri. Ho guardato in molte direzioni: mi sono impegnato nell’attivismo politico e sociale, ho pensato di dedicarmi professionalmente all’educazione come insegnante… Da adolescente mi sono avvicinato alla parrocchia per il mio desiderio di aiutare gli altri. Lì, partecipando all’oratorio, ho scoperto che quello era l’ambiente in cui potevo essere me stesso, in cui potevo dispiegare il mio io più profondo desiderio… e in questo contesto, un salesiano mi ha suggerito far un discernimento alla chiamata per la vita consacrata. Non l’avevo mai presa in considerazione nel modo cosciente, ma in quel momento sentivo una luce nel cuore che mi diceva che era in questa direzione.

Da allora, nella vocazione salesiana, ho sviluppato la mia vita e, anche con le spine in mezzo alle rose, ho scoperto passo a passo che le chiamate di Gesù hanno segnato il mio cammino: la mia professione come religioso, i miei studi universitari in educazione, la mia ordinazione sacerdotale, la mia specializzazione in Sacra Scrittura, e soprattutto ogni missione, ogni giovane con cui Dio mi ha fatto il dono di incontrare, mi permettono di continuare a essere grato e a svolgere la mia vocazione.

Perché salesiano?
Sono appassionato di educazione, mi sento chiamato a realizzare la mia vocazione in questo e credo anche che sia uno strumento per cambiare il mondo, per cambiare le vite. Ho anche scoperto che come salesiano posso dare tutta la mia vita, “fino all’ultimo respiro”, e questo mi rende molto felice.

Come ha reagito la tua famiglia?
Mi hanno sempre accompagnato, così come i miei fratelli, in modo che ognuno trovi la sua strada verso la felicità. Nella mia famiglia paterna ho uno zio e una zia che sono stati anch’essi chiamati alla vita consacrata, ma soprattutto ho nella mia famiglia molti esempi di amore fedele e generoso, a partire dai miei genitori, e ultimamente lo vedo nell’amore di mia sorella e di mio cognato per i loro figli, che mi hanno dato la vocazione di zio e mi aiutano a scoprire nuove sfaccettature dello stesso amore, che viene da Dio.

Chi ti ha raccontato per primo la storia di Gesù?
Ricordo mia nonna e il mio padrino che mi hanno incoraggiato molto a conoscere Gesù… poi nella catechesi parrocchiale ho iniziato a seguire il percorso che mi ha permesso di crescere nella sua amicizia… Infine, con i Salesiani, ho scoperto questo Gesù vicino a me, che si rende presente nella vita di tutti i giorni e mi incoraggia a crescere nella sua amicizia.

Hai studiato la Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma. I giovani di oggi sono interessati della Bibbia? Come avvicinarli?
Ho scoperto che i giovani sono molto interessati alla Bibbia – persino in un centro giovanile universitario di Montevideo, un gruppo mi ha chiesto lezioni di greco per poter approfondire il testo! La realtà è che il testo biblico ci mostra la Parola di Dio sempre in dialogo con le culture, con le sfide del tempo e i giovani sono molto sensibili a queste realtà.

Quali sono state le sfide più grandi che hai incontrato?
Non c’è dubbio che le ingiustizie e le disuguaglianze vissute dalle nostre società siano sfide molto grandi, perché per noi non sono cifre o statistiche, ma hanno un nome e un volto, in cui si riflette il volto sofferente di Cristo.

Quali sono le tue più belle soddisfazioni?
Per me è una gioia immensa vedere Dio all’opera: nei cuori dei giovani, nelle comunità che ascoltano la sua voce, nelle persone che si impegnano ad amare anche di fronte alle difficoltà.

D’altra parte, è una grande gioia condividere il carisma con i fratelli salesiani e con tanti laici che oggi rendono possibile lo sviluppo dell’opera salesiana in Uruguay. Abbiamo fatto passi molto significativi verso la sinodalità, condividendo vita e missione, in uno stile che ci arricchisce e ci permette di lavorare dal profondo della nostra identità.

Quali sono le opere più significative della tua zona?
Ci sono molte opere di grande importanza in Uruguay. Alcune hanno un forte impatto sulla società, come il Movimento Tacurú, nella periferia di Montevideo, che è senza dubbio il progetto sociale più importante dell’intera società uruguaiana. Ci sono altre opere di grande importanza nella loro zona, come l’Istituto Paiva, nel dipartimento di Durazno, che permette agli adolescenti delle zone rurali di accedere all’istruzione secondaria (che altrimenti non sarebbe possibile per loro) e di aprire nuovi orizzonti nella loro vita. Oppure l’Obra Don Bosco, nella città di Salto, che oltre a vari progetti che li accompagnano dalla nascita ai 17 anni, ha un progetto specifico per gli adolescenti in conflitto con la legge, accompagnandoli in vari aspetti della loro vita.

Hai qualche progetto che ti sta particolarmente a cuore?
L’ultimo progetto che abbiamo avviato è una casa di accoglienza per bambini che lo Stato ha preso in custodia, perché i loro diritti venivano violati, e li ha affidati a noi salesiani.  La abbiamo chiamato col nome significativo di “Casa Valdocco”, dove i bambini sono accompagnati e allo stesso tempo cerchiamo di farli rientrare in una realtà familiare che possa aiutarli nel loro sviluppo.

Quale posto occupa nella vita Maria Ausiliatrice?
In Uruguay abbiamo molte chiese e opere dedicate a Maria Ausiliatrice. Infatti, è proprio nella nostra ispettoria che è nata la tradizione della commemorazione mensile, ogni 24 del mese. Pero sono due luoghi che per me sono significativi: uno è il Santuario Nazionale, a Villa Colón, la casa madre dei Salesiani in Uruguay, da cui poi sono partiti i missionari per tutta l’America. L’altro luogo, nel nord del paese, è Corralito, a Salto. Lì la devozione a Maria Ausiliatrice è arrivata prima dei Salesiani, grazie agli ex-allievi che hanno diffuso la loro devozione. Credo che questo sia un segno della vitalità della nostra famiglia e anche di come Lei sia sempre presente, utilizzando mezzi e modi che sempre ci sorprendono e ci meravigliano.




La svolta nella vita di san Francesco di Sales (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Inizi di una nuova tappa
            A partire da questo momento tutto correrà veloce. Francesco diventava un nuovo uomo: «Lui, prima perplesso, inquieto, malinconico – così A. Ravier –, ora prende delle decisioni senza indugio, non tira più per le lunghe le sue imprese, vi si butta a capofitto».
            Subito, il 10 maggio, veste l’abito ecclesiastico. Il giorno dopo si presenta al vicario della diocesi. Il 12 maggio prende possesso del suo incarico nella cattedrale d’Annecy e fa visita al vescovo, mons. Claude de Granier. Il 13 maggio presiede per la prima volta la recita dell’ufficio divino in cattedrale. Poi sistema i propri affari temporali: abbandona il titolo di signore di Villaroget e i diritti di primogenito; rinuncia alla magistratura cui il padre l’aveva destinato. Dal 18 maggio al 7 giugno, si ritira col suo amico e confessore, Amé Bouvard, al castello di Sales per prepararsi agli ordini. Per un’ultima volta è assalito da dubbi e tentazioni; ne esce vittorioso, convinto che Dio gli si era manifestato «molto misericordioso» durante tali esercizi spirituali. Prepara quindi l’esame canonico in vista dell’ammissione agli ordini.
            Invitato per la prima volta dal vescovo a predicare il giorno di Pentecoste, che quell’anno cadeva il 6 giugno, preparò molto accuratamente la sua prima predica per una festa nella quale «non soltanto gli anziani ma anche i giovani dovrebbero predicare»; ma l’imprevisto arrivo di un altro predicatore gli impedì di pronunciarla. Il 9 giugno, mons. de Granier gli conferisce i quattro ordini minori e due giorni dopo lo promuove a suddiacono.
            Incomincia quindi per lui un’intensa attività pastorale. Il 24 giugno, festa di san Giovanni Battista, predicò per la prima volta in pubblico con grande coraggio, ma non senza aver provato prima una certa tremarella, che lo costrinse a stendersi per qualche istante sul suo letto, prima di salire sul pulpito. Da quel momento in poi, le prediche andranno moltiplicandosi.
            Un’iniziativa ardita per un suddiacono fu la fondazione ad Annecy di un’associazione destinata a riunire non solamente degli ecclesiastici, ma soprattutto dei laici, uomini e donne, sotto il titolo di «Confraternita dei penitenti della Santa Croce». Egli stesso ne redasse gli statuti, che il vescovo confermò e approvò. Costituita il 1° settembre 1593, iniziò le sue attività il giorno 14 dello stesso mese. Gli appartenenti furono, fin dall’inizio, numerosi e, tra i primi iscritti, Francesco ebbe la gioia di annoverare suo padre e qualche tempo dopo il fratello Louis. Gli statuti prevedevano non soltanto celebrazioni, preghiere e processioni, ma anche visite ai malati e ai prigionieri. All’inizio non mancò qualche malcontento specialmente tra i religiosi, ma ci si rese ben presto conto che la testimonianza degli associati era convincente.
Francesco venne ordinato diacono il 18 settembre e prete tre mesi più tardi, il 18 dicembre 1593. Al termine di tre giorni di preparazione spirituale, celebrò la sua prima messa il 21 dicembre e predicò a Natale. Qualche tempo dopo ebbe la gioia di battezzare la sorellina Jeanne, ultima nata della signora di Boisy. Il suo insediamento ufficiale nella cattedrale avvenne sul finire del mese di dicembre.
            Ebbe un grande risalto la sua «arringa» in latino, che impressionò il vescovo e gli altri membri del capitolo, tanto più profondamente in quanto il tema affrontato era scottante: ricuperare l’antica sede della diocesi, che era Ginevra. Tutti si trovarono d’accordo: occorreva riconquistare Ginevra, la città di Calvino che aveva messo fuori legge il cattolicesimo. Si! Ma come? Con quali armi? E prima di tutto qual era la causa di tale deplorevole situazione? La risposta del prevosto non dovette piacere a tutti: «Sono gli esempi dei preti perversi, le azioni, le parole, in sostanza, l’iniquità di tutti, ma in particolare degli ecclesiastici». Seguendo l’esempio dei profeti, Francesco di Sales non analizzava le cause politiche, sociali o ideologiche della riforma protestante; non predicava più la guerra contro gli eretici, ma la conversione di tutti. La fine dell’esilio non si otterrà se non con la penitenza e la preghiera, in una parola, con la carità:

È per mezzo della carità che dobbiamo smantellare le mura di Ginevra, per mezzo della carità invaderla, per mezzo della carità recuperarla. […] Non vi propongo né il ferro, né quella polvere, il cui odore e sapore ricordano la fornace infernale […]. È con la fame e con la sete patite da noi e non dai nostri avversari che dobbiamo sconfiggere il nemico.

            Charles-Auguste afferma che, al termine di questo discorso, Francesco «discese dal suo ambone tra gli applausi di tutta l’assemblea», ma si può supporre che certi canonici rimasero irritati dall’arringa di questo giovane prevosto.
            Questi avrebbe potuto contentarsi di «far regnare la disciplina dei canonici e l’esatta osservanza degli statuti», ed invece si lanciò in un lavoro pastorale sempre più intenso: confessioni, predicazioni ad Annecy e nei paesi, visite ai malati e ai prigionieri. In caso di bisogno, impiegava le sue conoscenze giuridiche a beneficio degli altri, appianava contese e discuteva con gli ugonotti. Dal gennaio 1594 fino all’inizio della sua missione nel Chiablese nel mese di settembre, la sua attività di predicatore dovette conoscere un inizio promettente. Come lo dimostrano le numerose citazioni, le sue fonti sono la Bibbia, i Padri e i teologi, ed anche autori pagani quali Aristotele, Plinio e Virgilio, di cui non temeva di citare il celebre Jovis omnia plena. Suo padre non era abituato a uno zelo cosi travolgente e a predicazioni tanto frequenti. Un giorno – racconterà Francesco all’amico Jean-Pierre Camus – mi prese in disparte e mi disse:

Prevosto, tu predichi troppo spesso. Odo persino nei giorni feriali suonare la campana per la predica e mi dicono: È il prevosto! il prevosto! Ai miei tempi non era così, le prediche erano assai più rare; però, che prediche! Dio la sa, erano dotte, ben studiate; erano ricche di racconti meravigliosi, una sola predica conteneva più citazioni in latino e in greco di dieci delle tue: tutti restavano contenti ed edificati, si correva in massa ad ascoltarle; avreste sentito dire che si andava a raccogliere la manna. Ora tu rendi questa pratica così comune, che non gli facciamo più caso e non si ha più tanta stima di te.

            Francesco non era di questo avviso: per lui, «biasimare un lavoratore o un vignaiolo perché coltiva troppo bene la sua terra, voleva dire fargli dei veri elogi».

Gli inizi dell’amicizia con Antoine Favre
            Gli umanisti avevano il gusto dell’amicizia, spazio propizio per lo scambio epistolare nel quale uno poteva manifestare il proprio affetto con espressioni appropriate, attinte all’antichità classica. Francesco di Sales aveva sicuramente letto il De amicitia di Cicerone. L’espressione con cui Orazio chiamava Virgilio «la metà della mia anima» (Et serves animae dimidium meae) gli ritornava alla memoria.
            Forse ricordava anche l’amicizia che univa Montaigne e Étienne de La Boétie: «Noi eravamo in tutto la metà l’uno dell’altro», scriveva l’autore dei Saggi, «essendo un’anima sola in due corpi, secondo la felice definizione di Aristotele»; «se mi si chiede di spiegare perché l’amavo, mi accorgo che ciò non lo si può esprimere se non rispondendo: Perché era lui e perché ero io». Un vero amico è un tesoro, afferma il proverbio, e Francesco di Sales ha potuto sperimentare che esso rispondeva a verità nel momento in cui la sua vita prendeva un orientamento definitivo, grazie all’amicizia con Antoine Favre.
            Possediamo la prima lettera che il senatore Favre gli indirizzò il 30 luglio 1593 da Chambéry. Con allusioni al «divino Platone» e in un latino elegante e ricercato, gli manifestava il suo desiderio: quello, scriveva, «non solamente di amarvi e di onorarvi, ma anche di contrarre un legame vincolante per sempre». Favre aveva allora trentacinque anni, era senatore da cinque anni, e Francesco aveva dieci anni di meno. Si conoscevano già per sentito dire, e Francesco aveva anche tentato di entrare in contatto con lui. Ricevuta detta lettera, il giovane prevosto di Sales esultò di gioia:

Ho ricevuto, uomo illustrissimo e Senatore integerrimo, la vostra lettera, pegno preziosissimo della vostra benevolenza verso di me, la quale, anche perché non era attesa, m’ha colmato di tanta gioia e ammirazione, che non riesco a esprimere i miei sentimenti.

            Al di là della palese retorica, favorita dall’uso del latino, ciò costituì l’inizio di un’amicizia che durò fino alla morte. Alla «provocazione» dell’«illustrissimo e integerrimo senatore» che assomigliava a una sfida a duello, Francesco rispose con espressioni adatte al caso: se l’amico è sceso per primo nella pacifica arena dell’amicizia, si vedrà chi vi resterà per ultimo, perché io – diceva Francesco – sono «un combattente che, per indole, è ardentissimo in questo genere di lotte». Questo primo scambio epistolare farà nascere tra i due il desiderio di incontrarsi: in effetti, scrive, «che l’ammirazione susciti il desiderio di conoscere, è una massima che s’apprende fin dalle prime pagine della filosofia». Le lettere si susseguiranno rapidamente.
            Alla fine di ottobre del 1593 Francesco gli risponde per ringraziarlo di avergli procurato un’altra amicizia, quella di François Girard. Ha letto e riletto le lettere di Favre «più di dieci volte». Il 30 novembre seguente, Favre insiste perché accetti la dignità di senatore, ma su questo terreno non sarà seguito. All’inizio di dicembre Francesco gli annuncia che la sua «carissima madre» ha dato alla luce la sua tredicesima creatura. Verso la fine di dicembre lo rende partecipe della sua prossima ordinazione sacerdotale, «insigne onore e bene eccellente», che farà di lui un altro uomo, nonostante i sentimenti di timore che prova dentro di sé. La vigilia di Natale del 1593 ebbe luogo un incontro ad Annecy, dove qualche giorno dopo Favre assistette probabilmente all’insediamento del giovane prevosto. All’inizio del 1594, la febbre ha costretto Francesco a mettersi a letto, e l’amico l’ha confortato a tal punto da fargli dire che la tua febbre è divenuta la «nostra» febbre. Nel marzo del 1594 inizia a chiamarlo «fratello», mentre la sposa di Favre sarà per Francesco la «mia dolcissima sorella».
            Tale amicizia si rivela feconda e fruttuosa, perché il 29 maggio 1594 Favre costituì, a sua volta, la confraternita della Santa Croce a Chambéry; e il martedì di Pentecoste i due amici organizzarono un grande pellegrinaggio comune a Aix. Nel mese di giugno Favre con la sua sposa, chiamata da Francesco «mia dolcissima sorella, vostra sposa illustrissima e amatissima», e con i loro «nobili figli» era atteso con impazienza ad Annecy. Antoine Favre aveva allora cinque figli e una figlia. In agosto scriverà una lettera ai figli di Favre per ringraziarli del loro scritto, per incoraggiarli a seguire gli esempi del loro padre e per pregarli di trasmettere alla loro madre i suoi sentimenti di «pietà filiale». Il 2 settembre 1594, in un biglietto scritto in fretta, Favre gli annunciava una prossima visita «il più presto possibile» e terminava con ripetuti saluti non soltanto all’«amato fratello», ma anche «a quelli di Sales e a tutti i salesiani».
            C’è stato chi non si è trattenuto dal criticare queste lettere piuttosto magniloquenti, piene di complimenti esagerati e di periodi latini troppo ricercati. Come il suo corrispondente, il prevosto di Sales, inanellando il suo latino con riferimenti alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, si impegnava soprattutto a citare autori dell’antichità classica. Il modello ciceroniano e l’arte epistolare non gli sfuggono mai, e, d’altronde l’amico Favre qualifica le lettere di Francesco non soltanto come «ciceroniane», bensì come «ateniesi». Non stupisce che in una delle proprie lettere a Antoine Favre si trovi la celebre citazione di Terenzio: «Nulla di ciò che è umano ci è estraneo», un adagio divenuto una professione di fede presso gli umanisti.
            In conclusione, Francesco ha considerato questa amicizia come un dono del cielo, descrivendola come un’«amicizia fraterna che la divina Bontà, forgiatrice della natura, ha intessuto in maniera così viva e perfetta tra lui e me, nonostante fossimo diversi per nascita e vocazione, e diseguali quanto a doni e a grazie che io possedevo solo in lui». Durante gli anni difficili che stavano per sopraggiungere, Antoine Favre sarà sempre il suo confidente e il suo migliore sostegno.

Una missione pericolosa
            Nel 1594, il duca di Savoia, Carlo Emanuele I (1580-1630), aveva appena recuperato il Chiablese, regione vicina a Ginevra, situata a sud del lago Lemano, da tempo contesa tra i vicini. La storia politico-religiosa del Chiablese era complicata, come dimostra una lettera scritta in un italiano approssimativo nel febbraio del 1596 e destinata al nunzio di Torino:

Fu occupata dai Bernesi una parte di questa diocesi di Geneva, fa sessant’anni, [e] rimase eretica; la quale essendo ridotta in pieno potere di Sua Altezza Serenissima questi anni passati, per la guerra, [e riunita al] suo antico patrimonio, molti degli [abitanti,] mossi piuttosto dal rimbombo degli archibugi che dalle prediche che ivi si facevano per ordine di Monsignor Vescovo, si ridussero alla fede nel seno della santa madre Chiesa. Ma poi, essendo infestate quelle contrade dalle incursioni dei ginevrini e francesi, ritornarono nel fango.

            Il duca, intenzionato a ricondurre al cattolicesimo quella popolazione di circa venticinquemila anime, si rivolse al vescovo perché facesse quanto era necessario fare. Già nel 1589 questi aveva inviato cinquanta parroci a riprendere possesso delle parrocchie, ma furono tosto cacciati indietro dai calvinisti. Questa volta occorreva procedere in maniera diversa e, precisamente, inviare colà due o tre missionari molto colti e in grado di far fronte alla tempesta che non sarebbe mancata dall’abbattersi sui «papisti». Nel corso di un’assemblea del clero, il vescovo espose il progetto e fece appello a dei volontari. Nessuno fiatava. Allorché egli volse gli occhi verso il prevosto di Sales, questi gli disse: «Monsignore, se crede che sia capace e se me lo comanda, sono pronto a obbedire e vi andrò volentieri».
            Sapeva bene ciò che l’attendeva e che sarebbe stato accolto con «ingiurie sulle labbra o pietre in mano». Per Francesco, l’opposizione di suo padre a tale missione (dannosa per la vita e ancor più per l’onore della famiglia) non appariva più un ostacolo, perché riconosceva nell’ordine del vescovo una volontà superiore. Alle obiezioni paterne riguardanti i pericoli assai reali della missione, rispose con fierezza:

Dio, mio Padre, provvederà: è lui che aiuta i forti; occorre solo avere coraggio. […] E che ne sarebbe se ci inviassero in India o in Inghilterra? Non ci si dovrebbe andare? […] È vero, è un’impresa laboriosa, e nessuno oserebbe negarlo; ma perché portiamo queste vesti se rifuggiamo dal portarne il peso?

            Si preparò alla missione al castello di Sales all’inizio del mese di settembre 1594, in un clima pesante: «Suo padre non volle vederlo, perché era totalmente contrario all’impegno apostolico del figlio e l’aveva ostacolato con tutti gli sforzi immaginabili, senza essere stato in grado di scalfirne la generosa decisione. L’ultima sera, disse addio in segreto alla sua virtuosa madre».
            Il 14 settembre 1594 giungeva nel Chiablese in compagnia del cugino Louis de Sales. Quattro giorni dopo suo padre gli inviò un servitore per comunicargli di ritornare, «ma il santo giovane [in risposta] rimandò indietro il suo valletto Georges Rolland e il proprio cavallo, e persuase anche il cugino a rientrare per tranquillizzare la famiglia. Il cugino gli obbedì, anche se successivamente ritornò a trovarlo. E il nostro santo ha raccontato […] che in tutta la sua vita non aveva mai provato una così grande consolazione interiore, né tanto coraggio nel servizio di Dio e delle anime come quel 18 settembre 1594, giorno in cui si trovò senza compagno, senza valletto, senza equipaggio e costretto a girare qua e là, da solo, povero e a piedi, impegnato a predicare il Regno di Dio».
            Per dissuaderlo dal compiere tale rischiosa missione, suo padre gli tagliò i viveri. Secondo Pierre Magnin, «il signor padre di Francesco, come ebbi modo di apprenderlo dalle labbra del santo uomo, non voleva assisterlo con quella abbondanza che sarebbe stata necessaria, desideroso di distoglierlo dal tale impresa iniziata dal figlio contro il suo parere, ben consapevole del palese pericolo cui esponeva la vita. E una volta lo lasciò partire da Sales per ritornare a Thonon con un solo scudo, sicché [Francesco] fu costretto […] a fare la strada a piedi, sovente mal calzato e mal vestito, esposto a un rigido freddo, al vento, alla pioggia e alla neve insopportabile in questo paese».
            Dopo un’aggressione di cui fu vittima con Georges Rolland, il signore di Boisy tentò di nuovo di distoglierlo dall’impresa, ma anche questa volta senza successo. Francesco tentò di far vibrare le corde dell’orgoglio paterno scrivendogli con encomiabile coraggio queste righe:

Se Rolland fosse vostro figlio, mentre non è che un vostro valletto, non avrebbe avuto così poco coraggio da indietreggiare per uno scontro modesto come quello che gli è toccato, e non ne parlerebbe come d’una grande battaglia. Nessuno può dubitare della cattiva volontà dei nostri avversari; ma voi ci fate un torto quando dubitate del nostro coraggio. […] Vi scongiuro quindi, Padre mio, di non attribuire la mia perseveranza alla disobbedienza e di considerarmi sempre come il vostro figlio rispettosissimo.

            Un illuminante rilievo tramandatoci da Albert de Genève aiuta a comprendere meglio ciò che alla fine convinse il padre a cessare di opporsi al figlio. Il nonno di questo testimone al processo di beatificazione, amico del signor di Boisy, aveva detto un giorno al padre di Francesco che doveva sentirsi «assai fortunato di avere un figlio così caro a Dio, e che lo riteneva troppo saggio e timorato di Dio per opporsi alla santa volontà [del figlio], tesa a realizzare un disegno in cui il santo nome di Dio sarebbe stato molto glorificato, la Chiesa esaltata e il casato di Sales ne avrebbe ricevuto una gloria maggiore di tutti gli altri titoli, per quanto illustri fossero».

Il tempo delle responsabilità
            Prevosto della cattedrale nel 1593 all’età di soli venticinque anni, capo della missione nel Chiablese l’anno successivo, Francesco di Sales poteva contare su una formazione eccezionalmente ricca e armoniosa: educazione familiare curata, formazione morale e religiosa di qualità, studi letterari, filosofici, teologici, scientifici e giuridici di alto livello. È vero, aveva beneficiato di possibilità interdette alla maggioranza dei suoi contemporanei, ma in lui erano fuori dall’ordinario lo sforzo personale, la generosa risposta agli appelli avuti e la tenacia di cui diede prova nel perseguire la sua vocazione, senza parlare della spiccata spiritualità che ispirava il suo comportamento.
            Ormai diventerà un uomo pubblico, con incarichi di responsabilità sempre più ampi, che gli consentiranno di mettere a profitto degli altri i propri doni di natura e di grazia. Preconizzato a divenire vescovo coadiutore di Ginevra già nel 1596, nominato vescovo nel 1599, diventerà vescovo di Ginevra alla morte del predecessore nel 1602. Uomo di Chiesa prima di tutto, ma assai immerso nella vita della società, lo vedremo preoccuparsi non solo dell’amministrazione della diocesi, ma anche della formazione del popolo affidato al suo ministero pastorale.