Tra ammirazione e dolore

Oggi vi saluto per l’ultima volta da questa pagina del Bollettino Salesiano. Il 16 agosto, nel giorno in cui si commemora la nascita di Don Bosco, termina il mio servizio come Rettor Maggiore dei Salesiani di Don Bosco.
È sempre un motivo per ringraziare, sempre Grazie! Innanzitutto a Dio, alla Congregazione e alla Famiglia Salesiana, a tante persone care e amiche, a tanti amici del carisma di Don Bosco, i molti benefattori.

            Anche in questa occasione il mio saluto trasmette qualcosa che ho vissuto recentemente. Di qui il titolo di questo saluto: Tra ammirazione e dolore. Vi racconto la gioia che ha riempito il mio cuore a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, ferita da una guerra interminabile, e alla gioia e alla testimonianza che ho ricevuto ieri.
            Tre settimane fa quando, dopo aver visitato l’Uganda (nel campo profughi di Palabek che, grazie all’aiuto e al lavoro salesiano di questi anni, non è più un campo per rifugiati sudanesi ma un luogo dove decine di migliaia di persone si sono insediate e hanno trovato una nuova vita), ho attraversato il Ruanda e sono arrivato al confine nella regione di Goma, una terra meravigliosa, bella e ricca di natura (e proprio per questo così desiderata e desiderabile). Ebbene, a causa dei conflitti armati, in quella regione ci sono più di un milione di sfollati che hanno dovuto lasciare le loro case e la loro terra. Anche noi abbiamo dovuto lasciare la presenza salesiana a Sha-Sha che è stata occupata militarmente.
            Questo milione di sfollati è arrivato nella città di Goma. A Gangi, uno dei quartieri, c’è l’opera salesiana “Don Bosco”. Sono stato immensamente felice di vedere il bene che là viene fatto. Centinaia di ragazzi e ragazze hanno una casa. Decine di adolescenti sono stati tolti dalla strada e vivono nella casa di Don Bosco. Proprio lì, a causa della guerra, hanno trovato casa 82 bambini neonati e ragazzini e ragazzine che hanno perso i genitori o sono stati lasciati indietro (“abbandonati”) perché i genitori non potevano occuparsene.
            E lì, in quella nuova Valdocco, una delle tante Valdocco del mondo, una comunità di tre suore di San Salvador, insieme a un gruppo di signore, tutte sostenute dalla casa salesiana con aiuti che arrivano grazie alla generosità dei benefattori e della Provvidenza, si prendono cura di questi bambini e bambine. Quando sono andato a trovarli, le suore avevano vestito tutti a festa, anche i bambini che dormivano nelle loro culle. Come non sentire il cuore pieno di gioia per questa realtà di bontà, nonostante il dolore causato dall’abbandono e dalla guerra!
            Ma il mio cuore è stato toccato quando ho incontrato alcune centinaia di persone che sono venute a salutarmi in occasione della mia visita. Sono tra i 32.000 sfollati che hanno lasciato le loro case e la loro terra a causa delle bombe e sono venuti a cercare rifugio. Lo hanno trovato nei campi da gioco e nei terreni della casa Don Bosco di Gangi. Non hanno nulla, vivono in baracche di pochi metri quadrati. Questa è la loro realtà. Insieme cerchiamo ogni giorno un modo per trovare da mangiare. Ma sapete cosa mi ha colpito di più? La cosa che mi ha colpito di più è che quando ero con queste centinaia di persone, per lo più anziani e madri con bambini, non avevano perso la loro dignità e non avevano perso la loro gioia o il loro sorriso. Sono rimasto stupito e il mio cuore si è rattristato per tanta sofferenza e povertà, anche se stiamo facendo la nostra parte nel nome del Signore.

Un concerto straordinario
            Un’altra grande gioia ho provato quando ho ricevuto una testimonianza di vita che mi ha fatto pensare agli adolescenti e ai giovani delle nostre presenze, e a tanti figli di genitori che forse mi leggono e che sentono che i loro figli sono demotivati, annoiati dalla vita, o che non hanno passione per quasi nulla. Tra gli ospiti della nostra casa, in questi giorni, c’era una straordinaria pianista che ha girato il mondo dando concerti e che ha fatto parte di grandi orchestre filarmoniche. È un’ex allieva dei Salesiani e ha avuto un salesiano, ora scomparso, come grande riferimento e modello. Ha voluto offrirci questo concerto nell’atrio del tempio del Sacro Cuore come omaggio a Maria Ausiliatrice, che tanto ama, e come ringraziamento per tutto ciò che è stata la sua vita finora.
            E dico quest’ultimo perché la nostra cara amica ci ha regalato un concerto meraviglioso, con una qualità eccezionale a 81 anni. Era accompagnata dalla figlia. E a quell’età, forse quando alcuni dei nostri anziani in famiglia hanno già detto da tempo che non hanno più voglia di fare nulla, né di fare nulla che richieda uno sforzo, la nostra cara amica, che si esercita ogni giorno al pianoforte, muoveva le mani con un’agilità meravigliosa ed era immersa nella bellezza della musica e della sua esecuzione. La buona musica, un sorriso generoso alla fine della sua esibizione e la consegna delle orchidee alla Vergine Ausiliatrice erano tutto ciò di cui avevamo bisogno in quella meravigliosa mattinata. E il mio cuore salesiano non ha potuto fare a meno di pensare a quei ragazzi, ragazze e giovani che forse non hanno avuto o non hanno più nulla che li motivi nella loro vita. Lei, la nostra amica concertista, a 81 anni vive con grande serenità e, come mi ha detto, continua a offrire il dono che Dio le ha fatto e ogni giorno trova sempre più motivi per farlo.
            Un’altra lezione di vita e un’altra testimonianza che non lascia il cuore indifferente.

            Grazie, amici miei, grazie dal profondo del cuore per tutto il bene che stiamo facendo insieme. Per quanto piccolo possa essere, contribuisce a rendere il nostro mondo un po’ più umano e più bello. Che il buon Dio vi benedica.




Il sogno dei 9 anni

La serie dei “sogni” di don Bosco, iniziano con quello fatto all’età di nove anni, verso il 1824. È uno dei più importanti se non il più importante, perché rileva una missione affidata dalla Provvidenza che si concretizza in un carisma particolare nella Chiesa. Seguiranno molti altri, la maggior parte raccolti nelle Memorie biografiche e ripresi in altre pubblicazioni dedicate a questo argomento. Ci proponiamo di presentare i più rilevanti in vari articoli successivi.

            A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni ridevano, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di que’ fanciulli aggiungendo queste parole:
            — Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.
            Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a que’ giovanetti. In quel momento que’ ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.
            Quasi senza sapere che mi dicessi,
            — Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile?
            — Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza.
            — Dove, con quali mezzi potrò acquistare la scienza?
            — Io ti darò la maestra sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza.
            — Ma chi siete voi, che parlate in questo modo?
            — Io sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestro di salutar tre volte al giorno.
            — Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso; perciò ditemi il vostro nome.
            — Il mio nome dimandalo a Mia Madre.
            In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accenno di avvicinarmi a Lei, che presomi con bontà per mano, e guarda, mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali.
            — Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei.
            Volsi allora lo sguardo ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora.
            A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere, e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare.
            Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi:
            — A suo tempo tutto comprenderai.
            Ciò detto un rumore mi sveglio.
            Io rimasi sbalordito. Sembravami di avere le mani che facessero male pei pugni che aveva dato, che la faccia mi duolesse per gli schiaffi ricevuti; di poi quel personaggio, quella donna, le cose dette e le cose udite mi occuparono talmente la mente, che per quella notte non mi fu possibile prendere sonno.
            Al mattino ho tosto con premura raccontato quel sogno prima a’ miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre ed alla nonna. Ognuno dava al medesimo la sua interpretazione. Il fratello Giuseppe diceva: Tu diventerai guardiano di capre, di pecore o di altri animali. Mia madre: Chi sa che non abbi a diventar prete. Antonio con secco accento: Forse sarai capo di briganti. Ma la nonna, che sapeva assai di teologia, era del tutto analfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: Non bisogna badare ai sogni.
            Io era del parere di mia nonna, tuttavia non mi fu mai possibile di togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato. Io ho sempre taciuto ogni cosa; i miei parenti non ne fecero caso. Ma quando, nel 1858, andai a Roma per trattar col Papa della congregazione salesiana, egli si fece minutamente raccontare tutte le cose che avessero anche solo apparenza di soprannaturali. Raccontai allora per la prima volta il sogno fatto in età di nove in dieci anni. Il Papa mi comandò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto e lasciarlo per incoraggiamento ai figli della congregazione, che formava lo scopo di quella gita a Roma.
(Memorie dell’Oratorio di S. Franceso di Sales. Giovanni Bosco; MB I, 123-125)




Santità salesiana

Lo Spirito Santo continua incessantemente il lavoro nascosto nelle anime, portandole alla santità. Non pochi membri della Famiglia salesiana hanno avuto una vita degna del titolo di cristiano: consacrati e consacrate, laici, giovani, hanno vissuto nella fede la loro vita, portando la grazia di Dio ai loro prossimi. Spetta alla Postulazione Generale dei Salesiani di don Bosco studiare la loro vita e i loro scritti e proporre alla Chiesa che gli riconosca la santità.
Alcuni giorni fa, è stata inaugurata la nuova sede della Postulazione. Auguriamo che la nuova struttura sia un’occasione di un rinnovato impegno per le cause di canonizzazione non solo da parte di coloro che lavorano direttamente alle cause, ma anche per tutti coloro che possono dare il loro contributo. Lasciamoci guidare in questo dal Postulatore Generale per le Cause dei Santi, don Pierluigi Cameroni.

Occorre esprimere profonda gratitudine e lode a Dio per la santità già riconosciuta nella Famiglia Salesiana di don Bosco e per quella in via di riconoscimento. L’esito di una Causa di Beatificazione e di Canonizzazione è un evento di straordinaria rilevanza e valenza ecclesiale. Si tratta infatti di operare un discernimento sulla fama di santità di un battezzato, che ha vissuto le beatitudini evangeliche in grado eroico o che ha dato la vita per Cristo.
Da don Bosco fino ai nostri giorni è attestata una tradizione di santità cui merita dare attenzione, perché incarnazione del carisma che da lui ha avuto origine e che si è espresso in una pluralità di stati di vita e di forme. Si tratta di uomini e donne, giovani e adulti, consacrati e laici, vescovi e missionari che in contesti storici, culturali, sociali diversi nel tempo e nello spazio hanno fatto brillare di singolare luce il carisma salesiano, rappresentando un patrimonio che svolge un ruolo efficace nella vita e nella comunità dei credenti e per gli uomini di buona volontà.

L’impegno a diffondere la conoscenza, l’imitazione e l’intercessione dei membri della nostra famiglia candidati alla santità

Suggerimenti per promuovere una Causa.

– Favorire la preghiera con l’intercessione del Beato, Venerabile Servo/a di Dio, attraverso immagini (anche reliquia ex-indumentis), dépliant, libri… da diffondere nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle case religiose, nei centri di spiritualità, negli ospedali per chiedere la grazia di miracoli e favori attraverso l’intercessione del Beato, Venerabile Servo/a di Dio.

– È particolarmente efficace la diffusione della novena Beato, Venerabile Servo/a di Dio, invocandone l’intercessione nei diversi casi di necessità materiale e spirituale.
Si sottolineano due elementi formativi: il valore della preghiera insistente e fiduciosa e quello della preghiera comunitaria. Ricordiamo l’episodio biblico di Naam il Siro (2Re 5:1-14), dove scorgiamo diversi elementi: la segnalazione dell’uomo di Dio da parte di una fanciulla, l’ingiunzione di bagnarsi sette volte nel Giordano, il rifiuto sdegnato e risentito, la saggezza e l’insistenza dei servi di Naam, l’obbedienza di Naam, l’ottenimento non solo della guarigione fisica ma della salvezza. Ricordiamo anche la descrizione della prima comunità di Gerusalemme, quando si afferma: «Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1,14).

– Si consiglia, ogni mese nel giorno in cui ricorre la data della morte del/della Beato/a, (Venerabile) Servo/a di Dio di curare un momento di preghiera e di commemorazione.

– Pubblicare con scadenza trimestrale o quadrimestrale un Foglio informativo che informi circa il cammino della Causa, particolari ricorrenze ed eventi, testimonianze, grazie… a sottolineare che la Causa è viva e accompagnata.

– Curare una volta all’anno una Giornata commemorativa, evidenziando particolari aspetti o ricorrenze della figura del/della Beato/a, (Venerabile) Servo/a di Dio, coinvolgendo i gruppi che sono particolarmente “interessati” alla sua testimonianza (ad esempio sacerdoti, religiosi, giovani, famiglie, medici, missionari…).

– Raccogliere e documentare le grazie e i favori che vengono attribuiti al/alla Beato/a, (Venerabile) Servo/a di Dio. È utile avere un quaderno in cui annotare e segnalare le grazie chieste e quelle ricevute, a testimonianza della fama sia di santità sia di segni. In particolare, se si tratta di guarigioni e/o di presunti miracoli, è importante raccogliere urgentemente tutta la documentazione medica che dimostra il caso e le prove che attestano l’intercessione.

– Costituire un Comitato che si impegni a promuovere tale Causa anche in vista della Beatificazione e Canonizzazione. Membri di tale Comitato dovrebbero essere persone particolarmente sensibili alla promozione della Causa: rappresentanti della diocesi e della parrocchia di origine, responsabili di gruppi e associazioni, medici (per lo studio dei presunti miracoli), storici, teologi ed esperti di spiritualità…

– Promuovere la conoscenza attraverso la redazione della biografia, l’edizione critica degli scritti e altre produzioni multimediali.

– Periodicamente presentare la figura del/della Beato/a, (Venerabile) Servo/a di Dio nel
Bollettino parrocchiale e nel giornale diocesano, nel Bollettino salesiano.

– Avere un sito web o un link dedicato al/alla Beato/a, (Venerabile) Servo/a di Dio con la sua vita, dati e notizie relativi alla Causa di Beatificazione e Canonizzazione, richiesta di preghiere, segnalazione di grazie…

– Rivedere e riordinare gli ambienti dove egli/ella ha vissuto. Organizzare uno spazio espositivo. Elaborare un itinerario spirituale sulle sue orme, valorizzando luoghi (Casa natale, chiesa, ambienti di vita…) e segni.

– Ordinare un archivio con tutta la documentazione catalogata e informatizzata relativa al/alla Beato/a, (Venerabile) Servo/a di Dio.

– Creare un fondo economico per sostenere sia le spese della Postulazione della Causa sia l’opera di promozione e animazione della Causa stessa.

– Promuovere opere di carità e di educazione nel nome del/della Beato/a, (Venerabile) Servo/a di Dio, attraverso progetti, gemellaggi…

Particolare attenzione ai presunti miracoli!

– Curare il nostro sguardo “teologico” per cogliere i miracoli che ogni giorno avvengono nella nostra vita e intorno a noi.
– Pregare e far pregare per i vari casi che si presentano e chiedere che per l’intercessione di un Servo/a di Dio o Venerabile o Beato, il Signore intervenga con la sua grazia ed operi non solo un miracolo oggettivamente riguardante la salute corporale, ma anche una vera e sincera conversione.
– Far capire meglio alla gente cos’è un miracolo “dimostrabile” e a cosa serve in una Causa di canonizzazione, facendo vedere non solo l’aspetto scientifico, medico ma anche quello teologico.
– Nominare una persona incaricata a cui comunicare e segnalare grazie e presunti miracoli. Seguire una Causa per certificare un miracolo è un impegno molto grande per un promotore che deve dimostrare un amore vero verso il Servo di Dio.
– Suscitare coscienza che dobbiamo avere più fede nell’intercessione dei nostri santi.
– Comunicare quando si chiede una grazia per unirci nella preghiera. Non stancarsi di pregare.
– Seguire meglio e personalmente le persone a cui si dà il materiale (novene, santini, ecc.) e scegliere con attenzione anche i luoghi dove farlo.
– È importante sensibilizzare i fedeli alla preghiera continua sorretta da una grande fede e disposti ad accettare sempre la volontà di Dio. Possiamo imparare guardando alla vita e alle sofferenze che hanno vissuto i nostri santi.
– Oltre alle preghiere è importante stare vicino con la presenza alle famiglie che hanno grandi problemi e dare loro qualche reliquia.
– In caso di presunto miracolo occorre procedere con rigorosità utilizzando una metodologia scientifica nel raccogliere le prove, le testimonianze, i pareri medici, ecc. e possibilmente ordinando tutte le informazioni in sequenza cronologica.

Un miracolo è composto da due elementi essenziali: quello scientifico e quello teologico. Il secondo però presuppone il primo.

Occorre preparare

1. Una breve e accurata relazione sulle circostanze particolari che hanno caratterizzato il caso; ciò consiste in una fattispecie cronologica di tutti gli elementi del fatto prodigioso, sia quelli riguardanti l’elemento scientifico che quello teologico. La fattispecie cronologica comporta: generalità del sanato; sintomi della malattia, cronologia degli avvenimenti medico-scientifici; indicazione delle ore decisive della guarigione, precisazione della diagnosi e della prognosi del caso, evidenziando tutte le ricerche eseguite. Delineare la terapia seguita, illustrare la modalità di guarigione, ossia quando è stata eseguita l’ultima costatazione prima della guarigione, la completezza della guarigione, presentata in modo assai dettagliato e la permanenza della guarigione.

2. Un elenco di testi che possono contribuire alla ricerca della verità del caso (sanato, parenti, medici, infermieri, persone che hanno pregato…).

3. Tutti i documenti relativi al caso. Sulle asserite guarigioni miracolose sono necessari i documenti medici, clinici e strumentali (ad es., cartelle cliniche, referti medici, esami di laboratorio e indagini strumentali).

Discernimento iniziale prima di avviare una causa

Innanzitutto, è necessario, da parte dell’Ispettore e del suo Consiglio o del Superiore o Responsabile di un gruppo, investigare e documentare con somma diligenza circa la fama sanctitatis et signorum del candidato e l’attualità della Causa, al fine di verificare la verità dei fatti e la conseguente formazione di una motivata certezza morale. Inoltre, è fondamentale che la Causa in questione interessi una rilevante e significativa porzione del popolo di Dio e non sia intenzione solo di qualche gruppo, se non addirittura di qualche persona. Tutto ciò comporta un più motivato e documentato discernimento iniziale, per evitare dispersione di energie, forze, tempi e risorse.
È fondamentale individuare poi la persona giusta (Vice Postulatore) che prenda a cuore la Causa e abbia il tempo e la possibilità di seguirla in tutte le sue tappe.
Occorre anche ricordare che iniziare e proseguire una Causa richiede un notevole investimento di risorse a livello di persone e di contributi economici.

Conclusione

La santità riconosciuta, o in via di riconoscimento, da un lato è già realizzazione della radicalità evangelica e della fedeltà al progetto apostolico di don Bosco, cui guardare come risorsa spirituale e pastorale; dall’altro è provocazione a vivere con fedeltà la propria vocazione per essere disponibili a testimoniare l’amore sino all’estremo. I nostri Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio sono l’autentica incarnazione del carisma salesiano e delle Costituzioni o Regolamenti dei nostri Istituti e Gruppi nel tempo e nelle situazioni più diverse, vincendo quella mondanità e superficialità spirituale che minano alla radice la nostra credibilità e fecondità. I santi sono veri mistici del primato di Dio nel dono generoso di sé, profeti di fraternità evangelica, servi dei fratelli con creatività.

Il cammino di santità è un percorso da fare insieme, nella compagnia dei santi. La santità si sperimenta insieme e si raggiunge insieme. I santi sono sempre in compagnia: dove ve n’è uno, ne troviamo sempre molti altri. La santità del quotidiano fa fiorire la comunione ed è un generatore “relazionale”. La santità si nutre di relazioni, di confidenza, di comunione. Veramente, come ci fa pregare la liturgia della Chiesa nel prefazio dei santi: «Nella loro vita ci offri un esempio, nell’intercessione un aiuto, nella comunione di grazia un vincolo di amore fraterno. Confortati dalla loro testimonianza, affrontiamo il buon combattimento della fede, per condividere al di là della morte la stessa corona di gloria».




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (7/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo XIII. Istituzione della festa di Maria aiuto dei cristiani
            Il modo meraviglioso con cui Pio VII fu liberato dalla sua prigionia è il grande avvenimento che ha dato occasione alla istituzione della festa di Maria aiuto dei cristiani.
            L’Imperatore Napoleone I aveva già in più guise oppresso il sommo Pontefice, spogliandolo dei suoi beni, disperdendo Cardinali, Vescovi, Preti e Frati, privandoli parimenti dei loro beni. Dopo ciò Napoleone chiedeva al Papa cose che egli non poteva concedere. Al rifiuto di Pio VII l’Imperatore rispose colla violenza e col sacrilegio. Il Papa venne arrestato nel proprio palazzo e col Cardinal Pacca suo segretario tradotto in viaggio forzato a Savona dove il perseguitato, ma sempre glorioso Pontefice, passò oltre a cinque anni in severa prigionia. Ma siccome dove c’è il Papa là vi è il Capo della religione e quindi il concorso di tutti i veri cattolici, così Savona divenne in certo modo un’altra Roma. Tante dimostrazioni di affetto mossero ad invidia l’Imperatore, che voleva umiliato il Vicario di Gesù Cristo; e perciò comandò che il Pontefice fosse traslocato a Fontainebleau, che è un castello non molto distante da Parigi.
            Mentre il Capo della Chiesa gemeva prigioniero separato dai suoi consiglieri ed amici, ai cristiani altro più non rimaneva che imitar i fedeli della Chiesa primitiva quando s. Pietro era in prigione, pregare. Pregava il venerando Pontefice e con lui pregavano tutti i Cattolici implorando l’aiuto di Colei che è detta: Magnum in Ecclesia praesidium: Grande presidio nella Chiesa. Si crede comunemente che il Pontefice abbia promesso alla Santa Vergine di instituire una festa per onorare l’Augusto titolo di Maria aiuto dei Cristiani, qualora egli avesse potuto ritornare a Roma sul trono Pontificio. Intanto tutto sorrideva al terribile conquistatore. Dopo aver fatto risuonare il temuto suo nome in tutta la terra camminando di vittoria in vittoria aveva portate le sue armi nelle regioni più fredde della Russia, credendo trovare colà nuovi trionfi; ma la divina Provvidenza invece gli aveva preparato disastri e sconfitte.
            Maria mossa a pietà dai gemiti del Vicario di Gesù Cristo e dalle preghiere dei suoi figliuoli cangiò in un momento le sorti d’Europa e di tutto il mondo.
            Il rigor dell’inverno nella Russia e l’infedeltà di molti generali francesi delusero tutte le speranze di Napoleone. La maggior parte di quel formidabile esercito perì assiderato dal gelo o sepolto nella neve. Le poche truppe risparmiate dai rigori del freddo abbandonarono l’Imperatore ed egli dovette fuggire, ritirarsi a Parigi e consegnarsi nelle mani degli Inglesi, che lo tradussero prigioniero nell’isola d’Elba. Allora la giustizia poté fare di nuovo il suo corso; il Pontefice venne tosto messo in libertà; Roma l’accolse col massimo entusiasmo, e il Capo della Cristianità fatto libero e indipendente poté ripigliare l’amministrazione della Chiesa universale. Fatto così libero Pio VII volle tosto dare un pubblico segno di gratitudine alla Beata Vergine dalla cui intercessione tutto il mondo riconosceva l’inaspettata sua libertà. Accompagnato da alcuni Cardinali andò a Savona dove incoronò la prodigiosa immagine detta della Misericordia che si venera in quella città; e con inaudito concorso di popolo in presenza del re Vittorio Emanuele I e di altri Principi fu fatta la maestosa funzione in cui il Papa pose una corona di gemme e di diamanti sul capo della veneranda effigie di Maria.
            Ritornato di poi a Roma volle compiere la seconda parte della sua promessa instituendo nella Chiesa una festa speciale, che attestasse alla posterità quel gran prodigio.
            Considerando egli adunque come in ogni tempo la santa Vergine fu sempre proclamata aiuto dei cristiani, appoggiato a quanto s. Pio V aveva fatto dopo la vittoria di Lepanto ordinando d’inserire nelle Litanie Lauretane le parole: Auxilium Christianorum ora pro nobis; spiegando e dilatando ognor più quanto aveva decretato il Pontefice Innocenzo XI quando instituì la festa del nome di Maria; Pio VII per rendere perpetuala memoria della prodigiosa liberazione sua, dei Cardinali, dei Vescovi e della libertà ridonata alla Chiesa, e perché ne esistesse perpetuo monumento fra tutti i popoli Cristiani instituì la festa di Maria Auxilium Christianorum da celebrarsi ogni anno al giorno 24 maggio. Fu scelto quel giorno perché appunto in esso l’anno 1814 Egli era stato fatto libero e poté ritornare a Roma fra i più vivi applausi dei Romani (chi volesse istruirsi di più intorno a quanto abbiamo qui brevemente esposto può consultare Artaud: Vita di Pio VII. Moroni articolo Pio VII. P. Carini: Il sabato santificato. Carlo Ferreri: Corona di fiori ecc. Discursus praedicabiles super litanias Lauretanas del P. Giuseppe Miecoviense). Il glorioso Pontefice Pio VII finché visse promosse il culto verso Maria; approvò associazioni e Confraternite a Lei dedicate, concedette molte Indulgenze alle pratiche di pietà che a onore di Lei si fossero fatte. Valga per tutti un solo fatto per dimostrare la grande venerazione di questo Pontefice verso Maria Ausiliatrice.
            L’anno 1817 era compiuto un dipinto che doveva essere collocato in Roma nella chiesa di s. Maria in Monticelli diretta dai Sacerdoti della dottrina cristiana. All’11 maggio quel dipinto fu portato al Pontefice in Vaticano affinché lo benedicesse, e gli imponesse un titolo. Appena egli vide la devota immagine, provò sì grande emozione di cuore, che senza prevenzione alcuna, proruppe all’istante nel magnifico preconio: Maria Auxilium Christianorum, ora pro nobis. A queste voci del Santo Padre fecero eco i Figli devoti di Maria e nel primo scoprimento di quello (15 dello stesso mese) vi fu un vero trasporto di popolo, di gioia e di divozione. Le offerte, i voti e le fervorose preghiere hanno continuato fino al giorno presente. Così che si può dire che quella immagine è continuamente circondata dai devoti che domandano ed ottengono grazie per intercessione di Maria aiuto dei cristiani.

Capo XIV. Ritrovamento dell’immagine di Maria Auxilium Christianorum di Spoleto
            Nel raccontar la storia del ritrovamento della prodigiosa immagine di Maria Auxilium Christianorum nelle vicinanze di Spoleto noi trascriviamo letteralmente la relazione che n’ha fatto Monsignor Arnaldi Arcivescovo di quella città.
            Nella Parrocchia di s. Luca tra Castelrinaldi e Montefalco Archidiocesi di Spoleto nell’aperta campagna lungi dall’abitato e fuori di strada esisteva sul culmine di una piccola collina un’antica immagine di Maria SS. dipinta a fresco in una nicchia nell’atteggiamento di abbracciare il Bambino Gesù. Di fianco a questa appaiono pure alterate dal tempo quattro immagini rappresentanti i ss. Bartolomeo, Sebastiano, Biagio e Rocco. Esposte da lunga pezza all’intemperie hanno perduto non solo la loro vivacità, ma sono quasi interamente scomparse. La sola veneranda immagine di Maria e del Bambino Gesù si è conservata benissimo. Sussiste tuttora un avanzo di muro che fa vedere esservi esistita una chiesa. Del resto da oltre a memoria d’uomo era questo luogo totalmente dimenticato, ed era ridotto a covile di rettili e particolarmente di serpi.
            Già da vari mesi questa veneranda immagine aveva eccitato in qualche modo il suo culto per mezzo di una voce più volte udita da un fanciullo non ancora di cinque anni, nominato Enrico, chiamandolo per nome e col darglisi a vedere in maniera non bene espressa dal fanciullo medesimo. Tuttavia non attirò l’attenzione del pubblico se non ai 19 marzo dell’anno 1862.
            Un giovane contadino di quei dintorni dell’età di anni trenta aggravato successivamente da molti mali, divenuti cronici, abbandonato dai medici, sentissi inspirato di recarsi a venerare la suddetta immagine. Egli dichiarò che, dopo essersi raccomandato alla SS. Vergine in detto luogo, si senti tutto rinfrancato nelle perdute forze, ed in pochi giorni senza uso di alcun naturale rimedio è ritornato in perfetta sanità. Altre persone ugualmente, senza sapere spiegare il come ed il perché, hanno sentito un naturale impulso di recarsi a venerare questa santa immagine e ne riportarono segnalate grazie. Questi avvenimenti richiamarono a memoria e a discussione fra quei terrazzani la sopita voce del sopraccennato fanciullo, al quale non si era dato naturalmente, come si doveva, alcun credito ed importanza. Fu allora che in ordine al fanciullo medesimo si poté risapere come la madre nella circostanza della supposta apparizione lo avesse smarrito, né lo potesse trovare, e finalmente lo rinvenne da presso alta diroccata chiesolina. Si riseppe pure come una donna di buona vita tribolata da Dio con gravi afflizioni, nella sua morte avvenuta da un anno indietro, annunziasse che la Vergine SS. in quel luogo voleva riscuotere culto e venerazione, che si sarebbe costrutto un tempio e vi sarebbero accorsi in gran copia i fedeli.
            È vero in fatti che affollatissimo popolo non solo della Diocesi, ma delle altre circonvicine, Todi, Perugia, Fuligno, Nocera, Narni, Norcia ecc. vi accorre e cresce di giorno in giorno specialmente nei di festivi a cinque in sei migliaia. Questo è il più gran portento veramente segnalato, poiché non si vede l’eguale in altri scoprimenti prodigiosi.
            Il gran concorso dei fedeli che accorrono da tutte le parti quasi condotti da un lume e da una forza celeste, concorso spontaneo, concorso inesplicabile ed inesprimibile è il miracolo dei miracoli. Gli stessi nemici della Chiesa, gli stessi claudicanti nella fede sono costretti di confessare non potersi spiegare questo sacro entusiasmo dei popoli…. Molti sono gli infermi che diconsi risanati, non poche le prodigiose e singolari grazie largite, e quantunque bisogni procedere colla massima cautela per discernere le voci e i fatti, pure sembra indubitato che una civile donna giacesse afflitta da malattia mortale e risanò coll’invocazione a quella sacra immagine. Un giovinetto della Villa di s. Giacomo affranto nei piedi dalle ruote di un carro è costretto a reggersi colle stampelle; visitata la ss. effigie sentì tale miglioramento, che gettate le stampelle poté ritornare a casa senza di esse, ed è libero perfettamente. Così pure avvennero altre guarigioni.
            Non si deve ommettere che taluni increduli essendosi recati a visitare la ss. immagine dileggiandola, giunti al luogo, contro ogni loro idea si sono sentiti il bisogno di inginocchiarsi e pregare, e sono ritornati con tutt’altri sentimenti, parlando pubblicamente dei prodigi di Maria. Il cambiamento prodotto in queste persone corrotte di mente e di cuore ha prodotto una santa impressione nei popoli. (Fin qui Mons. Arnaldi).
            Questo Arcivescovo volle recarsi egli stesso con numeroso Clero e col suo Vicario al luogo della immagine per accertarsi della verità dei fatti, e vi trovò migliaia di devoti. Prescrisse il restauro dell’effigie alquanto fessa in varie parti, ed essendosi già raccolta fino d’allora in pie oblazioni là somma di seicento scudi, commise a valenti artisti il disegno di un tempio, instando perché se ne gettassero le fondamenta colla massima sollecitudine.
            Per promuovere viemaggiormente la gloria di Maria e la divozione dei fedeli a tanta Madre, dispose che si coprisse in modo provvisorio ma decente la nicchia ove si venera la taumaturga immagine e vi si ergesse un altare per celebrare la santa Messa.
            Queste disposizioni sono state d’indicibile consolazione ai fedeli, e d’allora in poi ogni giorno andò sempre crescendo il concorso d’ogni ceto di persone.
            La devota immagine non aveva alcun titolo proprio, e il pio Arcivescovo giudicò che fosse venerata sotto il nome di Auxilium Christianorum come parve più adatto all’attitudine che presentava. Provvide parimenti che si trovasse sempre un sacerdote in custodia del Santuario od almeno un qualche laico di conosciuta probità.
            La relazione di questo prelato finisce col racconto di un nuovo tratto della bontà di Maria operato dietro l’invocazione ai ’piedi questa immagine.
            “Una giovane di Acquaviva si trovava probanda in questo Monastero di s. Maria della Stella, ove doveva vestire l’abito di conversa. Un’affezione reumatica generale la invase per maniera che, paralizzate tutte le membra, fu costretta ritornare alla propria famiglia.
            “Per quanti rimedi si adoperassero dai provvidi genitori non si poté mai raggiungere la guarigione; e volgevano quattro anni da che giaceva sempre in letto, vittima di un cronicismo. All’udire le grazie di questa taumaturga effigie mostrò desiderio di esservi condotta sopra d’un carro; ed appena si trovo innanzi alla veneranda immagine conobbe un notabile miglioramento; di lì a poco si senti a prosciogliere le membra in modo che se ne tornò a piedi alla paterna casa. Altre grazie singolari si raccontano ottenute da persone di Fuligno.
            “La divozione verso Maria va sempre crescendo in maniera al mio cuore consolantissima. Sia sempre benedetto Iddio che nella sua misericordia si è degnato ravvivare la fede in tutta l’Umbria con la prodigiosa manifestazione della sua gran Madre Maria. Sia benedetta la Vergine Santissima che con questa manifestazione si è degnata segnalare a preferenza l’Archidiocesi di Spoleto.
            Sia benedetto Gesù e Maria che con questa misericordiosa manifestazione aprono il cuore dei cattolici a più viva speranza.

            Spoleto, 17 maggio 1862.”

† GIOVANNI BATTISTA ARNALDI.

            Così la veneranda immagine di Maria Ausiliatrice presso Spoleto dipinta nell’anno 1570, rimasta quasi tre secoli senza onore, è salita ai nostri tempi ad altissima gloria per le grazie che la Regina del cielo comparte in quel luogo ai suoi devoti: e quell’umile luogo è divenuto un vero santuario, dove concorre gente da tutte parti. I devoti e beneficati figli di Maria diedero segni di gratitudine con vistose oblazioni, cui mercè si poterono gettare le fondamenta di un maestoso tempio che giungerà quanto prima al termine desiderato.

(continua)




Il cammino educativo di don Bosco (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Il mercato delle braccia giovani
            Il tempo storico, in cui don Bosco visse, non fu tra i più felici. Nei quartieri di Torino, il santo educatore scopre un vero “mercato delle braccia giovani”: la città si riempiva sempre di più di minori sfruttati in modo disumano.
            Don Bosco stesso ricorda che i primi ragazzi che poté avvicinare erano “scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori ed altri, che provenivano da paesi lontani”. Erano impiegati ovunque, indifesi, non protetti da alcuna legge. Erano “venditori ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri fanciulli che vivacchiavano alla giornata”. Li vedeva arrampicarsi sui palchi dei muratori, cercare un posto di garzone nelle botteghe, aggirarsi lanciando il richiamo dello spazzacamino. Li vedeva giocare ai soldi agli angoli delle strade: se tentava di avvicinarli, si allontanavano diffidenti e sprezzanti. Non erano i ragazzi dei Becchi, che cercavano racconti o giochi di prestigio. Erano i “lupi” dei suoi sogni; erano i primi effetti di una rivoluzione che avrebbe sconvolto il mondo, la rivoluzione industriale.
            Arrivano a centinaia dai piccoli centri nella città, alla ricerca di lavoro. Non trovano che luoghi squallidi, nei quali si ammassa tutta la famiglia, senz’aria, senza luce, fetidi per l’umidità e gli scoli di fogna. Nelle fabbriche e nelle botteghe nessuna misura igienica, nessun regolamento, tranne quello imposto dal padrone.
            La fuga dalla povertà della campagna verso la città comportava anche l’accettazione di misere paghe o l’adattamento a un rischioso tenore di vita, pur di avere qualcosa da guadagnare. Solo nel 1886 arrivò una prima legge, grazie anche allo zelo del prete degli artigiani, che in qualche modo regolava il lavoro minorile. Nei cantieri in costruzione, don Bosco vede “fanciulli dagli otto ai dodici anni, lontano dal proprio paese, servire i muratori, passare le loro giornate su e giù per i ponti malsicuri, al sole, al vento, salire le ripide scale a pioli carichi di calce, di mattoni, senza altro aiuto educativo che villani rabuffi o percosse”.
            Don Bosco tira rapidamente i conti. Quei ragazzi hanno bisogno di una scuola e di un lavoro che aprano loro un avvenire più sicuro: hanno bisogno di essere prima di tutto ragazzi, vivere l’esuberanza dell’età, senza intristire sui marciapiedi e affollare le prigioni. La realtà sociale dei nostri tempi sembra una risonanza di quella di ieri: altre immigrazioni, altri volti bussano come un fiume in piena alle porte delle nostre coscienze.
            Don Bosco è stato un educatore dotato di intuizione, di senso pratico, restio verso soluzioni a tavolino, metodologie astruse e progetti astratti. La pagina educativa è scritta dal santo con la sua vita, prima che con la sua penna. È il modo più convincente per rendere credibile un sistema educativo. Per far fronte alle ingiustizie, allo sfruttamento morale e materiale di minorenni crea scuole, organizza laboratori di artigianato di ogni tipo, inventa e promuove iniziative contrattuali a tutela del ragazzo, stimola le coscienze con proposte qualificate di formazione al lavoro. Alla vuota politica di palazzo e alle strumentali manifestazioni di piazza risponde con strutture efficienti di accoglienza, servizi sociali innovativi, oggetto di stima e ammirazione anche dei più accaniti anticlericali del tempo. E la storia di oggi non è poi tanto diversa da quella di ieri; oltretutto, la storia indossa l’abito che i suoi sarti confezionano con le proprie mani e le proprie idee.
            Don Bosco ha creduto nel ragazzo, ha scommesso sulle sue capacità, poche o molte, visibili o nascoste che fossero. Amico di tanti ragazzi di strada, ha saputo leggere nel loro cuore le potenzialità di bene nascoste. Egli riusciva a scavare dentro la vita di ognuno e tirare fuori risorse preziose per confezionare l’abito a misura della dignità dei suoi giovani amici. Una pedagogia che non tocchi l’essenza della persona e non sappia coniugare, al di fuori di ogni logica storica e culturale, i valori eterni di ogni creatura, rischia di intervenire su persone astratte o soltanto in superficie.
            L’impatto nel territorio del suo tempo fu determinante. Si è guardato attorno, ovunque: ha visto ed ha creato l’impossibile per realizzare le sue sante utopie. È venuto a contatto con le realtà estreme della devianza minorile. È entrato nelle carceri: ha saputo guardare dentro questa piaga con coraggio e con spirito sacerdotale. È stata l’esperienza, che lo ha segnato profondamente. Si è accostato ai mali della città con viva e commossa partecipazione: aveva coscienza dell’esistenza di tanti ragazzi che aspettavano qualcuno che si prendesse cura di loro. Ha visto con il cuore e la mente i loro traumi umani, ha anche pianto, ma non si è fermato alle sbarre; è riuscito ad urlare con la forza del suo cuore, a quanti incontrava, che quella del carcere non è la casa da ricevere in regalo dalla vita, ma che esiste un’altra possibilità di vivere la vita. Lo ha gridato con scelte concrete a quelle voci che provenivano dalle celle malsane, e con gesti di vicinanza alla moltitudine di ragazzi seminati per le strade, accecati dall’ignoranza e congelati dall’indifferenza della gente. È stato l’assillo di tutta la vita: impedire che tanti finissero dietro le sbarre o appesi alla forca. Non è neppure pensabile che il suo Sistema preventivo non avesse collegamenti con questa amara e sconvolgente esperienza giovanile. Anche volendo, non avrebbe mai potuto dimenticare quell’ultima notte passata accanto a un giovane condannato all’impiccagione, o l’accompagnamento di condannati a morte e lo svenimento in vista del patibolo. Com’è pensabile che il suo cuore non avesse una reazione, nel passare tra la gente forse compiaciuta, forse commiserante, e vedere una giovane vita spegnersi per una logica umana, che regola i conti con chi è finito in un burrone e non si china a tendere la mano per tirarlo fuori? Il contadino dei Becchi, dal cuore grande come la sabbia del mare, è stato una mano sempre tesa verso la gioventù povera e abbandonata.

Preziosa eredità
            Ogni uomo lascia sempre una traccia del suo passaggio sulla terra. Don Bosco ha lasciato alla storia l’incarnazione di un metodo educativo che è anche una spiritualità, frutto di una sapienza educativa sperimentata nella fatica quotidiana, accanto ai ragazzi. Di questa preziosa eredità si è scritto tanto!
            L’ambito educativo oggi è quanto mai complesso, perché si muove in un tessuto culturale disarticolato. Esiste un pluralismo metodologico di interventi operativi assai vasto, sia a livello sociale che a livello politico.
            L’educatore si trova di fronte a situazioni difficili da decifrare e spesso contraddittorie, con modelli ora permissivi, ora autoritari. Cosa fare? Guai all’educatore incerto, frenato dal dubbio! Chi educa non può vivere indeciso e perplesso, facendo il pendolare tra il “così o il cosà”. Educare in una società frammentaria non è semplice. Con una consistente classe di emarginati, divisa in tanti frammenti, non è facile far luce; prevale il soggettivo, l’interesse e l’attenzione al proprio “io”, al proprio interesse, la tendenza a rifugiarsi in ideali effimeri e transitori. Dagli anni in cui prevaleva la tendenza al protagonismo, si è passati al rifiuto o al disinteresse per la vita pubblica, per la politica: poca partecipazione, scarsa voglia di coinvolgimento.
            All’assenza di un centro propositore di punti di riferimento stabili, si aggiunge l’assenza di un fondamento di certezze, che dia ai giovani la voglia di vivere e l’amore al servizio per gli altri.
            Eppure, in tutto questo mondo dalle egemonie provvisorie, privo di una cultura unitaria, con elementi eterogenei ed isolati, emergono nuovi bisogni: una migliore qualità della vita, relazioni umane più costruttive, l’affermarsi di una solidarietà centrata sul volontariato. Affiorano esigenze di spazi aperti nuovi per il dialogo e l’incontro: sono i giovani a decidere come, dove e cosa dirsi.
            Nell’epoca della bioetica, del telecomando, della ricerca di cose belle e semplici della terra, si è alla ricerca di un volto nuovo della pedagogia. È la pedagogia che si veste di accoglienza, di disponibilità, di spirito di famiglia, che genera fiducia, gioia, ottimismo, simpatia, che apre orizzonti propositivi di speranza, che ricerca i mezzi e i modi per operare la novità della vita. È la pedagogia del cuore umano, l’eredità più preziosa che ha lasciato don Bosco alla società.
            Su questo tessuto, aperto e sensibile alla prevenzione, si deve costruire con coraggio e volontà un futuro migliore per i ragazzi disturbati di oggi. È possibile sempre e comunque rendere presente l’intervento pedagogico di don Bosco, perché fondato sull’essenza naturale di ogni essere umano. Sono i criteri della ragione, della religione e dell’amorevolezza: il trinomio sul quale tanti giovani sono stati formati “come onesti cittadini e buoni cristiani”.
            Non è un metodo di studio, lo ripetiamo, ma uno stile di vita, l’adesione a uno spirito, che racchiude valori nati e maturati con l’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore. La straordinaria predilezione per i giovani, il profondo rispetto per la loro persona e la loro libertà, la preoccupazione di mettere insieme le esigenze materiali con quelle dello spirito, la pazienza di vivere i ritmi della crescita o del cambiamento del ragazzo soggetto attivo, non passivo, di ogni processo educativo, sono la sintesi di questa “preziosa eredità”.
            E c’è un altro aspetto. C’è un conto aperto con la società: i giovani del futuro reclamano un don Bosco “universale”, oltre i margini della sua famiglia apostolica. Quanti dei nostri ragazzi non hanno mai sentito parlare di don Bosco!
            Urge rilanciare il suo messaggio, ancora vivo: a disattendere questo processo naturale di riattualizzazione, si rischia anche di far morire i segni positivi presenti nella cultura di oggi che, anche se con sensibilità diverse e con finalità e motivazioni contrapposte, ha a cuore la promozione umana del ragazzo.
            La pedagogia di don Bosco, prima di essere tradotta in documenti riflessi, in scritti sistematici ha preso il volto di quei moltissimi giovani da lui educati. Ogni pagina del suo sistema educativo ha un nome, un fatto, una conquista, forse anche fallimenti. Il segreto della sua santità? I giovani! “Io per voi studio, per voi lavoro, per voi sono disposto a dare la vita”.
            A giovani senza amore, don Bosco ha ridonato l’amore. A giovani senza famiglia, perché inesistente o da essi fisicamente e spiritualmente lontana, don Bosco ha cercato di costruire o ricostruire l’ambiente e il clima della famiglia. Uomo dotato di una profonda disponibilità al miglioramento mediante il continuo cambio, don Bosco si lasciava guidare dalla certezza che tutti i giovani, praticamente, potevano diventare migliori. Il germe della bontà, la possibilità di riuscita era in ogni giovane; bisognava solo trovare la strada: “Si è preso a cuore la sorte di migliaia di piccoli vagabondi, ladroncelli per abbandono o miseria, ragazzini e ragazzi affamati e senza casa”.
            Quelli che la società metteva ai margini, per don Bosco erano al primo posto; erano l’oggetto della sua fede. I giovani respinti dalla società rappresentavano addirittura la sua gloria; era la sfida in un momento storico in cui le attenzioni e le cure educative da parte della società e di organismi erano dirette ai fanciulli per bene, a modo, anzi il più a modo possibile.
            Don Bosco ha intuito la forza dell’amore dell’educatore. Egli non si è per nulla preoccupato di adeguarsi e conformarsi ai sistemi, metodi e concezioni pedagogiche in uso al suo tempo. Era apertamente nemico di una educazione che accentuava soprattutto l’autorità, che predicava un rapporto freddo e distaccato tra educatori ed educandi. La violenza puniva momentaneamente il vizio, ma non guariva il vizioso. E così non accettava e non ammetteva mai punizioni “esemplari”, che avrebbero dovuto avere un effetto di prevenzione, incutendo paura, ansia e angoscia.
            Aveva capito che nessuna educazione era possibile senza guadagnare il cuore del giovane; il suo era un metodo educativo che portava al consenso, alla partecipazione del ragazzo. Era convinto che nessun tentativo pedagogico portava frutto, finché non avesse trovato fondamento nell’intera disposizione dell’ascolto.
            C’è una caratteristica che riguarda la sfera, nella quale si compie l’educazione ed è tipica della pedagogia di Don Bosco: la creazione e la conservazione di una “allegria”, per cui ogni giorno diventa una festa. Fu un’allegria che sussiste solo, e non potrebbe essere diversamente, in virtù di un’attività creativa, che esclude ogni noia, ogni senso di stanchezza per non sapere come occupare il tempo. Don Bosco possedeva in questo campo un’inventiva e un’abilità che gli permettevano, con straordinaria abilità, non solo di intrattenere, ma di attirare a sé i giovani attraverso giochi, recite, canti, passeggiate: la sfera dell’allegria rappresentava per la sua pedagogia un passaggio obbligato.
            I giovani, naturalmente, devono scoprire dov’è il loro errore, per questo hanno bisogno dell’aiuto dell’educatore, anche attraverso la disapprovazione, ma non è affatto necessario che questa sia accompagnata dalla violenza. La disapprovazione è un appello alla coscienza. L’educatore deve essere la guida ai valori, non alla propria persona. Nell’intervento educativo, un legame troppo forte dell’educando nei confronti della persona dell’educatore può minacciare il favorevole effetto della sua attività educativa; può facilmente sorgere un mito, generato da emotività, al punto da farne un ideale assolutizzato e assolutizzante. I giovani non devono essere disposti a fare la nostra volontà: devono imparare a fare ciò che è giusto e significativo per la loro crescita umana ed esistenziale. L’educatore lavora per il futuro, ma non può lavorare sul futuro; deve accettare, dunque, di essere continuamente esposto alla revisione della sua opera, delle sue metodologie e soprattutto deve essere continuamente preoccupato di scoprire sempre più profondamente la realtà dell’educando, per intervenire al momento opportuno.
            Don Bosco diceva: “non basta che il primo cerchio, cioè la famiglia, sia sano, bisogna che sia sano anche quel secondo cerchio, inevitabile, che è formato dagli amici del fanciullo. Cominciate a dirgli che vi è una grande differenza tra compagni e amici. I compagni non se li può scegliere; li ritrova nel banco della scuola e nel luogo di lavoro o di adunanze. Gli amici, invece, li può e li deve scegliere… Non ostacolate la naturale vivacità del fanciullo e non chiamatelo cattivo perché non sta fermo”.
            Però questo non basta; il gioco e il moto potranno occupare una buona parte, ma non tutta la vita del ragazzo. Il cuore ha bisogno di nutrimento suo, ha bisogno di amare.
             “Un giorno, dopo una serie di considerazioni su don Bosco, invitai i ragazzi del nostro centro ad esprimere con un disegno, con una parola, con un gesto l’immagine che si erano fatta del Santo.
            Alcuni riprodussero la figura del prete circondato da ragazzi. Un altro disegnò una sbarra: all’interno era abbozzato il volto di un ragazzo, mentre dall’esterno una mano tentava di forzare un catenaccio. Un altro ancora, dopo un lungo silenzio, abbozzò due mani che si stringevano. Un terzo disegnò cuori a volontà, dalle forme più svariate e al centro un mezzo busto di don Bosco, con tante e tante mani che toccavano questi cuori. Un ultimo scrisse una sola parola: padre! La maggior parte di questi ragazzi non conosce Don Bosco”.
             “Da tempo sognavo di accompagnarli a Torino: non sempre le circostanze ci erano state favorevoli. E dopo vari tentativi a vuoto eravamo riusciti a formare un gruppo di otto ragazzi, tutti con provvedimenti penali a carico. Due ragazzi avevano avuto il permesso di uscire dal carcere per quattro giorni, tre erano agli arresti domiciliari, gli altri erano soggetti a prescrizioni varie.
            Vorrei avere una penna da artista per descrivere le emozioni che leggevo nei loro occhi nell’ascoltare il racconto dei loro coetanei aiutati da don Bosco. Si aggiravano per quei luoghi benedetti come se rivivessero le loro storie. Nelle camerette del Santo seguirono la s. Messa con un raccoglimento commovente. Li rivedo stanchi, appoggiare la testa all’urna di Don Bosco, fissare il suo corpo, bisbigliare preghiere. Cosa abbiano detto, cosa don Bosco abbia detto a quei ragazzi non lo saprò mai. Con loro ho goduto la gioia della mia stessa vocazione”.
            In Don Bosco riscontriamo una sapienza somma nel centrare la vita concreta di ogni ragazzo o giovane che incontrava: la loro vita diventava la sua vita, le loro sofferenze diventavano le sue sofferenze. Non si dava pace fino a quando non li avesse aiutati. I ragazzi che venivano a contatto con don Bosco, avvertivano di essere suoi amici, sentivano di averlo a fianco, ne percepivano la presenza, ne gustavano l’affetto. Questo li rendeva sicuri, meno soli: per chi vive emarginato è il sostegno maggiore che possa ricevere.
            In un sussidiario delle scuole elementari, ingiallito e consunto dagli anni, ho letto alcune frasi, scritte a inchiostro, a fondo del racconto del giocoliere dei Becchi. Chi le aveva scritto era la prima volta che sentiva parlare di Giovannino Bosco: “Solo Dio, la sua Parola, è regola immortale e guida dei nostri comportamenti e delle nostre azioni. Dio c’è nonostante le guerre. La terra nonostante gli odi continua a darci il pane per vivere”.

don Alfonso Alfano, sdb




Missionari nei Paesi Bassi

Nell’immaginario comune le “missioni” riguardano il sud del mondo, in realtà non è un criterio geografico alla base e anche l’Europa è meta di missionari salesiani: in questo articolo parliamo dei Paesi Bassi.

Quando don Bosco sognò, tra il 1871 e il 1872, dei “barbari” e dei “selvaggi”, secondo il linguaggio dell’epoca, alti di statura e con facce feroci, vestiti con pelli di animali che camminavano in una zona a lui completamente sconosciuta con dei missionari in lontananza, nei quali riconobbe i suoi salesiani, allora non poteva prevedere l’enorme sviluppo della Congregazione Salesiana nel mondo. Trentacinque anni dopo – 18 anni dopo la sua morte – i Salesiani avrebbero fondato la loro prima ispettoria in India e 153 anni dopo l’India è diventato il primo Paese al mondo per numero di salesiani. Ciò che Don Bosco non poteva assolutamente immaginare è che i salesiani indiani sarebbero venuti in Europa, in particolare nei Paesi Bassi, per lavorare come missionari e per vivere e sperimentare la propria vocazione.

Incontriamo don Biju Oledath sdb, nato nel 1975 a Kurianad, nel Kerala, nel sud dell’India. Salesiano dal 1993, è arrivato nei Paesi Bassi come missionario nel 1998, dopo gli studi di filosofia presso il collegio salesiano di Sonada. Dopo il tirocinio ha compiuto gli studi teologici presso l’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio. Nel 2004 è stato ordinato sacerdote in India e come giovane sacerdote ha svolto il suo servizio nella parrocchia di Alapuzha, nel Kerala, per poi tornare l’anno dopo nei Paesi Bassi come missionario. Attualmente vive e lavora nella comunità salesiana di Assel.

Nel cuore di don Biju, quando era giovane, c’era il seme della missione ad gentes e, in particolare, il desiderio di essere destinato all’Africa, ispirato dai confratelli indiani partiti per il Kenya, la Tanzania e l’Uganda. Questo sogno missionario si alimentava grazie ai loro racconti e a tutto il materiale da loro scritto, lettere e articoli sul lavoro salesiano in Africa. Tuttavia, i superiori pensavano che fosse ancora troppo giovane e non ancora pronto per questo passo e anche la famiglia riteneva che fosse troppo pericoloso per lui in quel momento partire. Ci dice don Biju: “Ripensandoci, sono d’accordo con loro: dovevo prima completare la mia formazione iniziale e volevo davvero studiare teologia in una buona università. Non sarebbe stato così facile in quei Paesi all’epoca”.

Ma se il desiderio missionario è sincero e proviene da Dio, arriva sempre il momento della chiamata: la vocazione missionaria salesiana, infatti, è una chiamata dentro la comune chiamata alla vita consacrata per i Salesiani di Don Bosco. Così nel 1997 a don Biju è stata prospettata la missione ad gentes in Europa, nei Paesi Bassi, sicuramente un progetto molto diverso dalla vita missionaria in Africa. Dopo il tirocinio, avrebbe studiato teologia presso l’Università Cattolica di Lovanio (Belgio). “Ho dovuto deglutire per un momento, ma ero comunque felice di poter partire per un nuovo Paese”, ammette don Biju, che era determinato a girare il mondo per il ben dei giovani.

Non è scontato conoscere il posto in cui si è inviati come missionari, magari si è sentito qualcosa del paese o qualche storia sul suo conto. “Avevo già sentito parlare dei Paesi Bassi, sapevo che si trovava sotto il livello del mare e avevo letto la storia di un bambino che aveva messo un dito in una diga per evitare un’inondazione, salvando così il paese. Ho iniziato subito a cercare un atlante mondiale e all’inizio ho avuto qualche difficoltà a trovarlo tra tutti gli altri grandi paesi europei.” Il padre di don Biju rimase contrario, preoccupato per la distanza e per il lungo viaggio, mentre sua madre lo invitò ad obbedire alla sua vocazione e seguire il suo sogno di felicità.

Prima di raggiungere l’Europa, passò una lunga attesa per ottenere il visto per i Paesi Bassi. Così, don Biju fu destinato al lavoro con i bambini di strada a Bangalore. A metà dicembre 1998, in una fredda giornata invernale, finalmente l’arrivo ad all’aeroporto di Amsterdam, dove l’ispettore e altri due salesiani attendevano il missionario indiano. L’accoglienza calorosa compensò lo shock culturale per l’approccio in un nuovo luogo, molto diverso dall’India, dove fa sempre caldo e tanta gente vive per strada. L’inculturazione richiede tempo per abituarsi, conoscere e comprendere dinamiche totalmente sconosciute a casa propria.
Il primo anno di don Biju è trascorso nella conoscenza delle diverse case e opere salesiane: “ho capito che ci sono persone davvero gentili e ho iniziato ad adattarmi a tutte queste nuove impressioni e abitudini”. I Paesi Bassi non sono solo freddi e piovosi, ma anche belli, soleggiati e caldi. I salesiani sono stati molto gentili ed ospitali con don Biju, preoccupati di farlo sentire a proprio agio e a casa. Sicuramente il modo di vivere la fede cristiana degli olandesi è molto differente dall’India e l’impatto può essere scioccante: grandi chiese con poche persone, per lo più anziani, canti e musiche diverse, uno stile più dimesso. Oltre a ciò, ci racconta don Biju, “mi è mancato molto il cibo, la famiglia, gli amici… soprattutto la vicinanza dei giovani salesiani della mia stessa età intorno a me.”  Ma con il tempo migliora la comprensione della situazione le differenze iniziano ad avere un senso e una logicità.

Per essere un missionario salesiano efficace in Europa, lavorare in una società secolarizzata richiede spesso adattabilità, sensibilità culturale e una comprensione graduale del contesto locale, che non può essere ottenuta da un giorno all’altro. Questo lavoro richiede pazienza, preghiera, studio e riflessione che aiutano a scoprire la fede alla luce di una nuova cultura. Questa apertura permette ai missionari di dialogare con sensibilità e rispetto con la nuova cultura, riconoscendo la diversità e la pluralità dei valori e delle prospettive religiose.
I missionari devono sviluppare nel posto in cui si trovano una fede e una spiritualità personale profondamente radicate, come uomini di preghiera, di fronte al calo dei tassi di affiliazione religiosa, al minore interesse o apertura alle questioni spirituali e all’assenza di nuove vocazioni alla vita religiosa/salesiana.
È forte il rischio di perdersi in una società secolarizzata dove il materialismo e l’individualismo sono prevalenti e ci può essere meno interesse o apertura verso le questioni spirituali. Se non si sta attenti, un giovane missionario può facilmente cadere nello scetticismo e nell’indifferenza religiosa e spirituale. In tutti questi momenti, è importante avere un direttore spirituale che possa guidare al giusto discernimento.

Come don Biju, ci sono circa 150 salesiani che sono stati inviati in tutta Europa dall’inizio del nuovo millennio, in questo continente da ricristianizzare, dove la fede cattolica ha bisogno di essere rinvigorita e sostenuta. I missionari sono un dono per la comunità locale, sia salesiana sia a livello di Chiesa e di società. La ricchezza della diversità culturale è un dono reciproco per chi accoglie e per chi è accolto ed aiuta ad aprire gli orizzonti mostrando un volto della Chiesa più “cattolico”, ovvero universale. I missionari salesiani, inoltre, portano una boccata di freschezza in alcune Ispettorie che hanno difficoltà a fare un ricambio generazionale, dove i giovani sono sempre meno interessati alle vocazioni alla vita consacrata.

Nonostante la tendenza alla secolarizzazione, ci sono segni di una rinascita dell’interesse spirituale nei Paesi Bassi, in particolare tra le generazioni più giovani. Negli ultimi anni si può notare un’apertura alla religiosità e un calo dei sentimenti antireligiosi. Questo si manifesta in varie forme, tra cui le forme alternative di essere chiesa, l’esplorazione di pratiche spirituali alternative, la mindfulness e la rivalutazione delle credenze religiose tradizionali. C’è sempre più bisogno di assistere i giovani, poiché un gruppo importante di giovani soffre di solitudine e depressione, nonostante il benessere generale della società. Come salesiani, dobbiamo leggere i segni dei tempi per stare vicino ai giovani e aiutarli.

Si vedono segni di speranza per la Chiesa, portati dai cristiani migranti che arrivano in Europa e dai cambiamenti demografici, culturali e di vita di molte comunità locali. Nella comunità salesiana di Hassel spesso si riuniscono giovani cristiani immigrati dal Medio Oriente che portano la loro fede vivace, le loro opportunità e contribuiscono positivamente alla nostra comunità salesiana.
“Tutto questo mi dà un’ottima sensazione e mi fa capire quanto sia bello poter lavorare qui, in quello che per me è inizialmente un Paese straniero.”

Preghiamo che l’ardore missionario possa rimanere sempre acceso e che non manchino missionari disposti ad ascoltare la chiamata di Dio per portare il suo Vangelo in tutti i continenti attraverso la semplice e sincera testimonianza di vita.

di Marco Fulgaro




Don Bosco e “la Consolata”

            Il più antico pilone nella zona dei Becchi pare risalire al 1700. Fu eretto al fondo della piana verso il «Mainito», ove confluivano le famiglie che abitavano nell’antica «Scaiota», divenuta poi cascina agricola salesiana, oggi ristrutturata e trasformata in Casa dei giovani che ospita gruppi giovanili pellegrini al Tempio e alla Casetta di Don Bosco.
            È il pilone della Consolata, con una statua della Vergine Consolatrice degli afflitti, sempre onorata con fiori campestri portati dai devoti. Giovannino Bosco sarà passato tante volte davanti a quel pilone, togliendosi il cappello e mormorando un’Ave come la mamma gli aveva insegnato.
            Nel 1958 i Salesiani restaurarono il vecchio pilone e, con una solenne funzione religiosa, lo inaugurarono ad un rinnovato culto della comunità e della popolazione, come risulta dalla Cronaca di quell’anno conservata nell’archivio dell’Istituto «Bernardi Semeria».
            Quella statua della Consolata potrebbe quindi essere la prima immagine di Maria Santissima che Don Bosco venerò nella fanciullezza presso casa sua.

Alla «Consolata» di Torino
            Già da studente e da seminarista a Chieri Don Bosco dev’essere andato a Torino a venerare la Vergine Consolatrice (MB I, 267-68). Ma risulta con certezza che, novello sacerdote, egli celebrò la sua seconda Santa Messa proprio nel Santuario della Consolata «per ringraziare – come egli scrisse – la Gran Vergine Maria degli innumerevoli favori che mi aveva ottenuto dal suo Divin Figliuolo Gesù» (MO 115).
            Ai tempi dell’Oratorio vagante senza fissa dimora, Don Bosco andava con i suoi ragazzi in qualche chiesa di Torino per la messa domenicale, e per lo più si recavano alla Consolata (MB II, 248; 346).
            Nel mese di maggio degli anni 1846-47, per ringraziare la Vergine Consolatrice di aver finalmente fatto trovar loro sede stabile, vi portò i suoi giovani a fare la Santa Comunione mentre i buoni Padri Oblati di Maria Vergine, che officiavano il Santuario, si prestarono ad ascoltarne le confessioni (MB II, 430).
            Quando, nell’estate del 1846, Don Bosco si ammalò gravemente, i suoi ragazzi non solo mostrarono in lacrime il loro dolore, ma temendo che i mezzi umani non sarebbero bastati alla sua guarigione, si alternarono dal mattino alla sera nel Santuario della Consolata a pregare Maria SS. di conservare loro l’amico e padre infermo.
            Ci fu chi fece anche dei voti infantili e chi digiunò a pane ed acqua perché la Madonna li esaudisse. Furono esauditi e Don Bosco promise a Dio che fin l’ultimo suo respiro sarebbe stato per loro.
            Le visite di Don Bosco e dei suoi ragazzi alla Consolata continuarono. Invitato una volta a cantare con i suoi giovani una Messa nel Santuario, arrivò all’ora convenuta con la «Schola cantorum» improvvisata portandosi lo spartito di una «messa» da lui stessa composta per l’occasione.
            Organista nel santuario era il celebre maestro Bodoira che Don Bosco invitò all’organo. Questi non degnò neanche di uno sguardo lo spartito di Don Bosco, ma quando poi si accinse a suonarne la musica, non ci capì proprio nulla e, abbandonato indispettito il posto di organista, se ne andò.
            Don Bosco allora si sedette all’organo ed accompagnò la Messa seguendo la sua composizione tempestata di segni che solo lui poteva capire. I giovani che prima si erano smarriti alle note del celebre organista, proseguirono sino alla fine senza una stecca e le loro voci argentine attirarono l’ammirazione e la simpatia di tutti i fedeli presenti alla funzione (MB II, 148).
            Dal 1848 sino al 1854 Don Bosco accompagnava in processione i suoi ragazzi per le vie di Torino sino alla Consolata. I suoi birichini cantavano lungo il percorso lodi alla Vergine per poi partecipare alla Santa Messa da lui celebrata.
            Alla morte di Mamma Margherita, avvenuta il 25 novembre 1856, Don Bosco il mattino stesso andò a celebrare la Santa Messa di suffragio nella cappella sotterranea del Santuario della Consolata, fermandosi poi a pregare lungamente dinanzi all’immagine di Maria Consolatrice, supplicandola di far Essa da madre a lui ed ai suoi figli. E Maria SS. esaudì le sue preghiere (MB V, 566).
            Don Bosco al Santuario della Consolata non solo ebbe più volte occasione di celebrare la Santa Messa, ma un giorno volle anche servirla. Entrato nel santuario per farvi una visita, sentì il segnale dell’inizio della Messa e si accorse che mancava il ministrante. Si alzò, andò in sacrestia, prese il messale e servì con devozione la Messa (MB VII, 86).
            E la frequenza di Don Bosco al Santuario non cessò mai più soprattutto in occasione della Novena e della festa della Consolata.

Statuetta della Consolata nella Cappella Pinardi
            Il 2 settembre 1847 Don Bosco acquistò al prezzo di 27 lire una statuetta di Maria Consolatrice collocandola nella Cappella Pinardi.
            Nel 1856, nei lavori di demolizione della Cappella, Don Francesco Giacomelli, compagno di seminario e grande amico di Don Bosco, volendo ritenere per sé ciò che egli chiamava il più insigne monumento della fondazione dell’Oratorio, trasportò la statuetta ad Avigliana nella sua casa paterna.
            Nel 1882 sua sorella fece costruire presso casa un pilone con nicchia e vi collocò la preziosa reliquia.
            Quando i Salesiani vennero a sapere, dopo l’estinzione della famiglia Giacomelli, del pilone di Avigliana, riuscirono a riavere l’antica statuetta, che il 12 aprile 1929 ritornava all’Oratorio di Torino dopo 73 anni dal giorno in cui Don Giacomelli l’aveva tolta dalla prima cappella (E. GIRAUDI, L’Oratorio di Don Bosco, Torino, SEI, 1935, p. 89-90).
            Oggi la storica piccola statua rimane l’unico ricordo del passato nella nuova Cappella Pinardi, formandone il tesoro più caro e prezioso.
            Don Bosco, che diffuse il culto a Maria Ausiliatrice in tutto il mondo, non dimenticò mai la prima sua devozione alla Vergine, venerata sin da fanciullo presso il pilone dei Becchi sotto l’effigie della «Consolata». Giunto a Torino, giovane sacerdote diocesano, nel periodo eroico del suo «Oratorio», attinse dalla Vergine Consolatrice nel suo Santuario luce e consiglio, coraggio e conforto per la missione che il Signore gli aveva affidato.
            Anche per questo è considerato a pieno titolo uno dei Santi Torinesi.




Edmond Obrecht. Ho pranzato con un santo

Nella biografia di un famoso abate, l’emozione dell’incontro con don Bosco.

Oggi è abbastanza facile conoscere un santo da altare, è successo più volte anche a me. Ne ho incontrati vari: il cardinale di Milano Ildefonso Schuster (che mi ha cresimato) ed i papi Giovanni XXIII e Paolo VI; con madre Teresa ho conversato, con papa Giovanni Paolo II ho pure pranzato. Ma un secolo fa non era così facile, per cui aver avvicinato personalmente un santo da altare era un’esperienza che rimaneva impressa nella mente e nel cuore del fortunato. Così è avvenuto per l’abate trappista francese dom Edmond Obrecht (1852­1935). Nel lontano 1934, allorché fu canonizzato don Bosco, tre giorni dopo la solenne cerimonia, confidò al direttore del settimanale cattolico statunitense Louisville Record la sua grande soddisfazione di aver conosciuto personalmente il nuovo santo, di avergli stretto la mano, anzi di aver pranzato con lui.
Che cosa era successo? L’episodio è raccontato nella sua biografia.

Quattro ore con don Bosco
Nato in Alsazia nel 1852, Edmond Obrecht a 23 anni si era fatto frate trappista. Appena fatto prete nel 1879, padre Edmond fu mandato a Roma come segretario del Procuratore generale delle tre Osservanze Trappiste che nel 1892 sarebbero state riunite in un solo Ordine con la casa generalizia la Trappa delle Tre Fontane nella capitale italiana.
Nel soggiorno romano aveva la giornata di domenica libera e ne approfittava per andare a celebrare dai confratelli cistercensi nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Titolare era il Vicario di Roma, cardinale Lucido Maria Parocchi, per cui padre Edmond ebbe modo di servirlo varie volte nei solenni pontificali e entrare in confidenza con lui.
Ora il 14 maggio 1887 era prevista la consacrazione della Chiesa del S. Cuore di Roma, accanto all’attuale stazione Termini: una magnifica chiesa che a don Bosco era costata un patrimonio e per la quale aveva dato “corpo e anima” pur di riuscire a portarla a termine. Vi riuscì e nonostante la salute ormai decisamente compromessa (sarebbe morto otto mesi dopo) volle presenziare alla solenne cerimonia di consacrazione.
Per tale lunghissima celebrazione (cinque ore a porte chiuse) il card. Parocchi si fece accompagnare da padre Edmond. Un’esperienza decisamente indimenticabile per lui. Scriverà 50 anni dopo: “Durante quella lunga cerimonia ebbi il piacere e l’onore di sedermi accanto a don Bosco nel presbiterio della chiesa e dopo la consacrazione fui ammesso allo stesso tavolo suo e del cardinale. È stata l’unica volta nella mia vita in cui sono venuto a stretto contatto con un santo canonizzato e la profonda impressione che mi fece ha indugiato ancora nella mia mente per tutti questi lunghi anni”. Padre Edmond aveva sentito parlare molto di don Bosco, che in tempi di rottura delle relazioni diplomatiche della Santa Sede con il nuovo Regno d’Italia, godeva di una forte stima ed entratura presso i politici del tempo: Zanardelli, Depretis, Nicotera. I giornali del resto avevano parlato dei suoi interventi per comporre alcune gravi questioni relative alla nomina di nuovi vescovi ed all’entrata in possesso dei beni delle singole diocesi.
Dom Edmond non si accontentò di quella indimenticabile esperienza. Successivamente in occasione di un viaggio passò da Torino e volle soffermarsi per visitare la grande opera salesiana di don Bosco. Ne restò ammirato e non poté che gioire anche il giorno della sua beatificazione (2 giugno 1929).

Post Scriptum
Il giorno prima della consacrazione della chiesa del S. Cuore, il 13 maggio 1887, papa Leone XIII aveva dato udienza per un’ora a don Bosco in Vaticano. Si era mostrato molto cordiale con lui e aveva pure scherzato sul fatto che don Bosco data l’età si dichiarava prossimo alla morte (ma era più giovane del papa!), don Bosco però aveva un pensiero che forse non osò esprimere al papa in persona. Lo fece pochi giorni dopo, il 17 maggio, sul piede di partenza da Roma: gli chiese se poteva saldare in tutto o in parte la spesa della facciata della chiesa: una bella cifra, 51 000 lire [230 mila euro]. Coraggio o impudenza? Estrema confidenza o semplice sfacciataggine? Resta il fatto che pochi mesi dopo, il 6 novembre, don Bosco tornava alla carica chiedendo un intervento di monsignor Francesco della Volpe, prelato domestico del papa, per ottenere – scriveva – “la somma di 51 mila franchi, che la carità del Santo Padre fece sperare di pagare Egli stesso… il nostro Economo va a Roma per regolare appunto le spese di questa costruzione; egli passerà presso la E. V. per quella migliore risposta che potrà avere”. Garantiva che “I nostri orfanelli oltre a trecento mila pregano ogni giorno per Sua Santità”. E concludeva: “Compatisca questa mia povera e brutta scrittura. Non posso più scrivere”.
Povero don Bosco: in maggio in quella chiesa, celebrando davanti all’altare di Maria Ausiliatrice, aveva pianto più volte perché vedeva avverato il sogno dei nove anni; ma sei mesi dopo il suo cuore era ancora in angoscia perché alla morte che sentiva vicina lasciava un forte debito per chiudere i conti di quella stessa chiesa.
Per essa si spese veramente per vari anni, “fino all’ultimo respiro”. Lo sanno ben pochi delle decine di migliaia di persone che ogni giorno vi passano davanti, uscendo dalla stazione Termini in via Marsala.




Il cammino educativo di don Bosco (1/2)

Sulle strade del cuore
            Don Bosco ha pianto alla vista dei ragazzi finiti in carcere. Ieri come oggi, il calendario del male è implacabile: per fortuna lo è anche quello del bene. E sempre di più. Sento che le radici di ieri sono le stesse di oggi. Come ieri, altri ragazzi, anche oggi, trovano casa sulla strada e nelle prigioni. Credo che la memoria del prete di tanti ragazzi che non avevano parrocchia è il termometro insostituibile per misurare la temperatura del nostro intervento educativo.
            Don Bosco vive in un momento di povertà sociale impressionante. Si era all’avvio del processo di aggregazioni giovanili nelle grandi metropoli industriali. La stessa autorità di polizia denunciava questa pericolosità: erano tanti “i figlioletti che allevati senza principi di Religione, d’Onore e d’Umanità, finivano per marcire totalmente nell’odio”, si legge nelle cronache del tempo. Era proprio la crescente povertà, che spingeva una grande moltitudine di adulti e giovani a vivere di espedienti, e in particolare di furto e di elemosine.
            Il degrado urbano fece esplodere le tensioni sociali, che viaggiavano di pari passo con quelle politiche; ragazzi discoli e gioventù traviata, verso la metà del secolo dicianovesimo, richiamano l’attenzione pubblica, scuotendo la sensibilità governativa.
            Al fenomeno sociale si aggiunge un evidente pauperismo educativo. Lo sfascio della famiglia destava preoccupazioni soprattutto nella Chiesa; il prevalere del sistema repressivo è alla base del crescente disagio giovanile; ne risente il rapporto genitori e figli, educandi ed educatori. Don Bosco dovrà confrontarsi con un sistema fatto di “cattivi tratti”, proponendo quello dell’amorevolezza.
            Una vita ai limiti del lecito e dell’illecito di tanti genitori, la necessità di procacciarsi il necessario per la sopravvivenza, porterà una moltitudine di ragazzi allo sradicamento dalla famiglia, al distacco dal proprio territorio. La città si affolla sempre di più di ragazzi e giovani alla caccia di un posto di lavoro; per molti che vengono da lontano manca anche un angolo per dormire.
            Non è raro incontrare una signora, come Maria G., mendicare servendosi di bambini sistemati ad arte nei punti strategici della città o davanti alle porte delle chiese; spesso, gli stessi genitori affidavano i propri figli a mendicanti, che se ne servivano per suscitare la pietà altrui e riceverne un maggiore guadagno. Sembra la fotocopia di un sistema collaudato in una grande città del Sud: il noleggio di bambini altrui, per impietosire il passante e rendere più redditizio l’accattonaggio.
            Il furto era comunque la vera fonte di guadagno: è un fenomeno che, nella Torino dell’ottocento, cresce e diventa inarrestabile. Il 2 febbraio del 1845 comparvero di fronte al commissario di polizia del Vicariato nove monelli di età compresa tra gli undici e i quattordici anni, accusati di aver derubato dalla bottega di un libraio numerosi volumi … e vari oggetti di cancelleria, facendo uso di grimaldello. La nuova leva di “borsajuoli” attirava continue lagnanze della gente. Erano quasi sempre fanciulli abbandonati, privi di genitori, di parenti e di mezzi di sussistenza, poverissimi, da tutti scacciati ed abbandonati che finivano a rubare.
            Il quadro della devianza minorile era impressionante: la delinquenza e lo stato di abbandono di tanti ragazzi si allargava a macchia d’olio. Il numero crescente di “discoli”, di “temerari borsajuoli” nelle strade e nelle piazze era comunque solo un aspetto di una diffusa congiuntura. La fragilità della famiglia, il forte disagio economico, la costante e forte immigrazione dalle campagne verso la città, alimenta una situazione precaria, che le forze politiche si sentono impotenti ad affrontare. Il disagio cresce, quando la criminalità si organizza e penetra nelle strutture pubbliche. Incominciano le prime manifestazioni di violenza di bande organizzate, che agiscono con azioni improvvise e ripetute, a scopo intimidatorio, destinate a creare un clima di tensione sociale, politico e religioso.
            Ne sono espressione le bande, dette le “cocche”, che si diffusero in vario numero, prendendo nomi diversi dai quartieri dove avevano il punto di riferimento. Avevano il solo scopo “di inquietare i passeggeri, di maltrattarli se si fossero lagnati, di commettere atti osceni verso le donne, e di attaccare qualche militare o preposto isolato”. In realtà non si trattava di associazioni a delinquere, ma più di aggregazioni, formate non solo da torinesi, ma anche da immigrati: giovani dai sedici ai trent’anni che erano soliti ritrovarsi in spontanee riunioni, specie nelle ore serali, dando sfogo alle proprie tensioni e alle frustrazioni della giornata. È in questa situazione della metà del secolo XIX che si inserisce l’attività di don Bosco. Non erano i ragazzi poveri, amici e compagni d’infanzia della sua terra dei Becchi in Castelnuovo, non erano i baldi giovani di Chieri, ma “i lupi, le zuffe, i discoli” dei suoi sogni.
            È in questo mondo di conflitti politici, in questa vigna, dove abbondante è la semina della zizzania, tra questo mercato delle braccia giovani, assoldati alla depravazione, tra questi ragazzi senza amore e malnutriti nel corpo e nell’anima, che è chiamato a lavorare don Bosco. Il giovane prete ascolta, andrà sulle strade: vede, si commuove, ma, concreto quale era, si rimbocca le maniche; quei ragazzi hanno bisogno di una scuola, di educazione, di catechismo, di formazione al lavoro. Non c’è tempo da perdere. Sono giovani: hanno bisogno di dare senso alla loro vita, hanno diritto ad avere tempo e mezzi per studiare, apprendere un mestiere, ma anche tempo e spazi per stare allegri, per giocare.

Andate, guardatevi intorno!
            Sedentari per professione o per scelta, computerizzati nel pensiero e nelle azioni, rischiamo di perdere l’originalità dello “stare”, della condivisione, della crescita “insieme”.
Don Bosco non è vissuto nell’epoca dei preparati in provetta: ha lasciato all’umanità la pedagogia della “compagnia”, il piacere spirituale e fisico di vivere accanto al ragazzo, piccolo tra piccoli, povero tra poveri, fragile tra fragili.
            Un prete suo amico e guida spirituale, Don Cafasso, conosce Don Bosco, conosce il suo zelo per le anime, intuisce la sua passione per quella moltitudine di ragazzi; lo esorta ad andare per le strade. “Andate, guardatevi intorno”. Fin dalle prime domeniche il prete, che veniva dalla terra, il prete che non aveva conosciuto suo padre, andò in giro per vedere la miseria delle periferie della cittadina. Ne rimane sconvolto. “Incontrò un gran numero di giovani di ogni età testimonia il suo successore, don Rua che andavano vagando per le vie e le piazze, specialmente nei dintorni della città, giocando, rissando, bestemmiando e facendo anche peggio”.
            Entra nei cantieri, parla con gli operai, contatta i datori di lavoro; prova emozioni che lo segneranno per tutta la vita nell’incontrare questi ragazzi. E talvolta ritrova questi poveri “muratorini” sdraiati per terra in un angolo di chiesa, stanchi, assenti, assonnati, incapaci di sintonizzarsi con sermoni senza senso per la loro vita vagabonda. Forse era quello l’unico posto dove potevano trovare un po’ di caldo, dopo una giornata di fatica, prima di avventurarsi alla ricerca di qualche posto, ove trascorrere la notte. Entra nelle botteghe, gira per i mercati, visita gli angoli delle strade, dove sono tanti i ragazzi dediti all’accattonaggio. Ovunque ragazzi malvestiti e denutriti; assiste a scene di malcostume e di trasgressioni: protagonisti, ancora ragazzi.
            Dopo alcuni anni, dalla strada passa alle carceri. “Per venti anni continuati ed assiduamente io frequentai le Regie prigioni di Torino ed in particolare le senatorie; dopo ci andava ancora, ma non più regolarmente…” (MB XV, 705)
            Quante incomprensioni all’inizio! Quanti insulti! Una “tonaca” stonava in quel posto, identificata magari con qualche malvisto superiore. Si avvicinò a quei “lupi”, rabbiosi e diffidenti; ascoltò le loro storie, ma soprattutto fece sue le loro sofferenze.
            Comprese il dramma di quei ragazzi: abili sfruttatori li avevano spinti dentro quelle celle. E divenne loro amico. Il suo modo di fare, semplice e umano, restituiva a ciascuno di loro dignità e rispetto.
            Bisognava fare qualcosa e presto; occorreva inventare un sistema diverso, per stare accanto a chi era finito fuori strada. “Allorché il tempo glielo permetteva, spendeva intere giornate nelle carceri. Ogni sabato si recava colle saccocce piene, ora di tabacco, ora di pagnotte, ma collo scopo di coltivare specialmente i giovinetti … assisterli, renderli amici, e così eccitarli a venire all’oratorio, quando loro toccasse la buona sorte di uscire dal luogo di perdizione”. (MB II, 173)
            Nella “Generala”, una Casa di Correzione inaugurata a Torino il 12 aprile del 1845, come si legge nei regolamenti della Casa di pena, venivano “raccolti e governati col metodo del lavoro in comune, del silenzio e della segregazione notturna in apposite celle i giovani condannati ad una pena correzionale per avere agito senza discernimento commettendo il reato ed i giovani sostenuti in carcere per amore paterno”. In questo contesto s’inquadrerebbe la straordinaria escursione a Stupinigi organizzata dal solo Don Bosco, col consenso del Ministro dell’Interno, Urbano Rattazzi, senza guardie, basata soltanto sulla reciproca fiducia, su di un impegno di coscienza e sul fascino dell’educatore. Volle sapere il “motivo per cui lo Stato non ha sopra quei giovani l’influenza” del sacerdote. “La forza che noi abbiamo è una forza morale: a differenza dello Stato, il quale non sa che comandare e punire, noi parliamo principalmente al cuore della gioventù, e la nostra parola è la parola di Dio”.
            Conoscendo il sistema di vita adottato all’interno della Generala, assume un valore incredibile la sfida lanciata dal giovane prete piemontese: chiedere una giornata di “Libera uscita” per tutti quei giovanissimi reclusi. Era una pazzia e tale fu considerata la richiesta di don Bosco. Ottenne l’autorizzazione nella primavera del 1855. Il tutto fu organizzato dal solo don Bosco, con l’aiuto dei ragazzi stessi. Il consenso avuto dal Ministro Rattazzi certamente è un segno di stima e di fiducia per il giovane prete. L’esperienza di condurre fuori di quella Casa di Correzione dei ragazzi in piena libertà e riuscire a riportarli tutti in carcere, nonostante quanto ordinariamente avvenisse all’interno della struttura carceraria, ha dello straordinario. È il trionfo dell’appello alla fiducia e alla coscienza, è il collaudo di un’idea, di un’esperienza, che lo guiderà in tutta la sua vita a scommettere sulle risorse nascoste nel cuore di tanti giovani votati a una emarginazione irreversibile.

Avanti e in maniche di camicia
            Ancora oggi, in un contesto culturale e sociale diverso, le intuizioni di Don Bosco non hanno per nulla la muffa di cose “sorpassate”, ma restano tuttora propositive. Sorprende soprattutto, nella dinamica di recupero di ragazzi e giovani entrati nel circuito penale, lo spirito di inventiva nel creare per loro occasioni concrete di lavoro.
            Oggi siamo tormentati dall’offrire possibilità di occupazioni per i nostri minori a rischio. Chi opera nel sociale sa quanto sia duro superare meccanismi e ingranaggi burocratici per la realizzazione, ad esempio, di semplici borse di lavoro per minorenni. Con formule e strutture agili si realizzò con Don Bosco un tipo di “affidamento” dei ragazzi a datori di lavoro, sotto la tutela educativa del garante.
            I primi anni di vita sacerdotale e apostolica di Don Bosco sono all’insegna della continua ricerca della via giusta per togliere ragazzi e giovani dal pericolo della strada. Erano chiari nella sua mente i progetti, come connaturato nella sua mente e nel suo animo era il metodo educativo. “Non con le percosse, ma con la mansuetudine”. Era anche convinto che non era impresa facile trasformare lupi in agnelli. Ma aveva dalla sua parte la Divina Provvidenza.
            E davanti ai problemi immediati non si tirò mai indietro. Non era il tipo per stare a “dissertare” sulla condizione sociologica del minore, non era neppure il sacerdote dei compromessi politici o comunque formali; era santamente cocciuto nei propositi di bene, ma era fortemente tenace e concreto nel realizzarli. Aveva un grande zelo per la salvezza della gioventù e non c’erano ostacoli che potessero condizionare questa santa passione, che segnava ogni passo e scandiva ogni ora della sua giornata.
             “L’incontrare nelle carceri turbe di giovinetti ed eziandio di fanciulli sull’età di dodici ai diciotto anni, tutti sani, robusti e d’ingenio svegliato; vederli là inoperosi e rosicchiati dagli insetti, stentando di pane spirituale e temporale, espiare in quei luoghi di pena coi rimorsi le colpe di una precoce depravazione, fa inorridire il giovane prete. Egli vede in quegli infelici personificato l’obbrobrio della patria, il disonore della famiglia, l’infamia di se stessi; vede soprattutto anime redente e francate dal sangue di un Dio gemere invece nel vizio, e nel più evidente pericolo di andare eternamente perdute. Chissà se avessero avuto un AMICO, che si fosse preso amorevolmente cura di loro, li avesse assistiti e istruiti nella religione nei giorni di festa, chi sa se non si sarebbero tenuti lontani dal male e dalla rovina, e se non avrebbero evitato di venire e di ritornare in questi luoghi di pena? Certo che almeno il numero di questi piccoli prigionieri sarebbe grandemente diminuito.” (MB II, 63)
            Si rimboccò le maniche e si diede anima e corpo alla prevenzione di questi mali; diede tutto il suo contributo, la sua esperienza, ma soprattutto le sue intuizioni nell’avvio di iniziative proprie o di altre associazioni. Era l’uscita dal carcere che preoccupava sia il governo che le “società” private. Proprio nel 1846 si costituisce una struttura associativa autorizzata dal governo, che sembra, almeno negli intenti e in alcune modalità, quanto oggi avviene nell’ordinamento penale minorile italiano. Si chiamerà “Società Reale per il patrocinio dei giovani liberati dalla Casa di Educazione Correzionale”. Aveva per scopo il sostegno ai giovani che uscivano dalla Generala.
            Una lettura attenta dello Statuto ci riporta nella sostanza ad alcuni provvedimenti penali, previsti oggi come misure alternative al carcere.
            I Soci della predetta Società erano divisi in “operanti”, che assumevano l’ufficio di tutori, “paganti”, e “paganti operanti”. Don Bosco fu “socio operante” Don Bosco ne accettò vari, ma con risultati sconfortanti. Forse furono questi insuccessi a fargli decidere di chiedere alle autorità di mandare i ragazzi preventivamente.
            Non importa qui affrontare il rapporto D. Bosco, case di correzione e servizi collaterali, quanto invece ricordare l’attenzione che il Santo offre a questa fascia di minori. Don Bosco conosceva il cuore dei giovani della Generala, ma soprattutto aveva in animo ben altro che restare indifferente davanti al degrado morale e umano di quei poveri e sfortunati reclusi. Continuò la sua missione: non li abbandonò: “Fin da quando il Governo aperse quel Penitenziario, e ne affidò la direzione alla Società di S. Pietro in Vincoli, Don Bosco ottenne di potersi recare di quando in quando in mezzo a quei poveri giovani […]. Egli col permesso del Direttore delle carceri li istruiva nel catechismo, faceva loro delle prediche, li confessava, e molte volte si intratteneva con essi amichevolmente in ricreazione, come praticava coi suoi figlioli dell’Oratorio” (BS 1882, n. 11 pag. 180).
            L’interesse di Don Bosco per i giovani in difficoltà si concentrò con il tempo nell’Oratorio, vera espressione di una pedagogia preventiva e di recupero, essendo un servizio sociale aperto e polifunzionale. Un contatto diretto con giovani rissosi, violenti, ai limiti della delinquenza Don Bosco lo ha intorno agli anni 1846-50. Sono gli scontri incontri con le cocche, bande o gruppi di quartiere in permanente conflitto. Si racconta di un quattordicenne, figlio di padre ubriacone e anticlericale che, capitato per caso nell’Oratorio nel 1846, si getta a capofitto nelle varie attività ricreative, ma si rifiuta di partecipare alle funzioni religiose, perché secondo gli insegnamenti paterni, non intende divenire “muffito e cretino”. Don Bosco lo affascina con la tolleranza e la pazienza, da fargli cambiare comportamento in breve tempo.
            Don Bosco fu anche interessato ad assumere la gestione di istituti di carattere rieducativo e correzionale. Proposte in questo senso erano venute da varie parti. Ci furono tentativi e contatti, ma bozze e proposte di convenzioni non approdarono a nulla. Tutto questo è sufficiente per far capire quanto Don Bosco avesse comunque a cuore il problema dei discoli. E se resistenze ci furono, venivano sempre dalla difficoltà a far uso del sistema preventivo. Laddove riscontrava un “misto” di sistema repressivo e preventivo, era categorico il rifiuto, come era chiaro anche nel rifiutare ogni denominazione o struttura che riportasse all’idea del “riformatorio”. A leggere attentamente questi tentativi, emerge il fatto che Don Bosco non rifiutava mai l’aiuto al ragazzo in difficoltà, ma era contrario alla gestione di istituti, case di correzione o a dirigere opere dal compromesso educativo evidente.
            È quanto mai interessante il colloquio avvenuto tra Don Bosco e Crispi a Roma nel febbraio del 1878. Crispi chiese a Don Bosco notizie sull’andamento della sua opera e in particolare parlò dei sistemi educativi. Lamentò i disordini che avvenivano nelle carceri dei corrigendi. Fu una conversazione in cui il Ministro restò affascinato dall’analisi di Don Bosco; gli chiese non solo consigli, ma anche un programma per queste case di correzione (MB XIII, 483).
            Le risposte e le proposte di Don Bosco trovarono simpatia, ma non disponibilità: era forte la frattura tra il mondo religioso e quello politico. Don Bosco espose il suo parere, indicando varie categorie di ragazzi: discoli, dissipati e buoni. Per il Santo educatore c’è speranza di ben riuscire per tutti, anche per i discoli, come si era solito allora indicare quelli che oggi diciamo ragazzi a rischio.
            “Che non diventino peggiori”. “…Col tempo lasciano che i buoni principi acquistati giungano più tardi a produrre il loro effetto … molti si riducono a far senno”. È una risposta esplicita e forse la più interessante.
            Dopo aver fatto cenno alla distinzione tra i due sistemi educativi, egli determina quali ragazzi debbono dirsi ne’ pericoli: quelli che vanno in altre città o paesi in cerca di lavoro quelli di cui i genitori non possono o non vogliono prendersi cura i vagabondi che cadono nelle mani della pubblica sicurezza”. Indica i provvedimenti necessari e possibili: “I giardini di ricreazione festiva l’assistenza lungo la settimana di quelli collocati al lavoro ospizi e case di preservazione con arti e mestieri e con colonie agricole”.
            Propone non una gestione governativa diretta delle istituzioni educative, ma un adeguato sostegno in edifici, attrezzature e sussidi finanziari e presenta una versione del Sistema Preventivo che ne conserva gli elementi essenziali, senza l’esplicito riferimento religioso. Oltre tutto una pedagogia del cuore non avrebbe potuto ignorare i problemi sociali, psicologici e religiosi.
            Don Bosco attribuisce il loro traviamento all’assenza di Dio, all’incertezza dei principi morali, alla corruzione del cuore, all’annebbiamento della mente, all’incapacità e incuria degli adulti, soprattutto dei genitori, all’influsso corrosivo della società e all’intenzionale azione negativa dei “compagni cattivi” o alla mancanza di responsabilità degli educatori.
            Don Bosco gioca molto sul positivo: la voglia di vivere, l’affezione al lavoro, la riscoperta della gioia, la solidarietà sociale, lo spirito di famiglia, il sano divertimento.

(continua)

            don Alfonso Alfano, sdb




Le mani di Dio

Un maestro viaggiava con un discepolo incaricato di occuparsi del cammello. Una sera, arrivati a una locanda, il discepolo era talmente stanco che non legò l’animale.
«Mio Dio» pregò coricandosi, «prenditi cura del cammello: te lo affido».
Il mattino dopo il cammello era sparito.
– Dov’è il cammello? chiese il maestro.
– Non lo so, rispose il discepolo. Devi chiederlo a Dio! Ieri sera ero così sfinito che gli ho affidato il nostro cammello. Non è certo colpa mia se è scappato o è stato rubato. Ho esplicitamente domandato a Dio di sorvegliarlo. È Lui il responsabile. Tu mi esorti sempre ad avere la massima fiducia in Dio, no?
– Abbi la più grande fiducia in Dio, ma prima lega il tuo cammello, rispose il maestro. Perché Dio non ha altre mani che le tue.

Dio solo può dare la fede;
tu, però, puoi dare la tua testimonianza.
Dio solo può dare la speranza;
tu, però, puoi infondere fiducia nei tuoi fratelli.
Dio solo può dare l’amore;
tu, però, puoi insegnare all’altro ad amare.
Dio solo può dare la pace;
tu, però, puoi seminare l’unione.
Dio solo può dare la forza;
tu, però, puoi dare sostegno a uno scoraggiato.
Dio solo è la via;
tu, però, puoi indicarla agli altri.
Dio solo è la luce;
tu, però, puoi farla brillare agli occhi di tutti.
Dio solo è la vita;
tu, però, puoi far rinascere negli altri il desiderio di vivere.
Dio solo può fare ciò che appare impossibile;
tu, però, potrai fare il possibile.
Dio solo basta a sé stesso;
egli, però, preferisce contare su di te.
(Canto brasiliano)