Quando un educatore tocca il cuore dei suoi figli

L’arte di essere come don Bosco: «Ricordatevi che l’educazione è cosa di cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne dà in mano le chiavi». (MB XVI, 447)

Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano e amici del carisma di Don Bosco. Vi scrivo questo saluto, direi quasi in diretta, prima che questo numero vada in stampa.
Dico questo perché la scena che sto per raccontarvi è accaduta solo quattro ore fa.
Sono arrivato da poco a Lubumbashi. Da dieci giorni sto visitando presenze salesiane molto significative, come gli sfollati e i rifugiati di Palabek – oggi in condizioni molto più umane di quando sono arrivati da noi, grazie a Dio – e dall’Uganda sono passato nella Repubblica Democratica del Congo, nella torturata e crocifissa regione di Goma.
Le presenze salesiane lì sono piene di vita. Più volte ho detto che il mio cuore era “toccato” (touché), cioè commosso nel vedere il bene che si fa, nel vedere che c’è una presenza di Dio anche nella più grande povertà. Ma il mio cuore è stato toccato dal dolore e dalla tristezza quando ho incontrato alcune delle 32.000 persone (per lo più anziani, donne e bambini) che sono ospitate nei terreni della presenza salesiana di Don Bosco-Gangi.
Ma di questo vi parlerò la prossima volta, perché ho bisogno di lasciarlo riposare nel mio cuore.

Il “papà” degli scugnizzi di Goma
Ora voglio solo accennare a una bellissima scena a cui ho assistito sul volo che ci ha portato a Lubumbashi.
Era un volo extra commerciale con un aereo di medie dimensioni. Ma il comandante era una persona familiare, non a me, ma ai salesiani locali. Quando ho salutato il comandante sull’aereo, mi ha detto che aveva studiato formazione professionale nella nostra scuola qui a Goma. Mi ha detto che quelli erano stati anni che avevano cambiato la sua vita, ma ha aggiunto un’altra cosa, dicendomi e dicendoci: ed ecco colui che è stato un “papà” per noi.
Nella cultura africana, quando si dice che qualcuno è un papà, si dice una cosa estrema. E non di rado il papà non è la persona che ha generato quel figlio o quella figlia, ma colui che lo ha realmente accudito, sostenuto e accompagnato.
A chi si riferiva il comandante, un uomo di circa 45 anni, con il figlio pilota ormai giovane che lo accompagnava in volo? Si riferiva al nostro fratello salesiano coadiutore (cioè non sacerdote ma laico consacrato, un capolavoro del carisma salesiano).
Questo salesiano, Fratel Onorato, missionario spagnolo, è missionario nella regione di Goma da più di 40 anni. Ha fatto di tutto per rendere possibile questa scuola professionale e molte altre cose, certamente insieme ad altri salesiani. Ha conosciuto il comandante e alcuni suoi amici quando erano solo ragazzi sperduti del quartiere (cioè tra centinaia e centinaia di ragazzi). Anzi, il comandante mi ha raccontato che quattro dei suoi compagni, che in quegli anni erano praticamente per strada, sono riusciti a studiare meccanica nella casa di Don Bosco e oggi sono ingegneri e si occupano della manutenzione meccanica e tecnica dei piccoli aerei della loro compagnia.

Il «sacramento» salesiano
Ebbene, quando ho sentito il comandante, ex allievo salesiano, dire che Onorato era stato suo padre, il padre di tutti loro, mi sono commosso profondamente e ho subito pensato a don Bosco, che i suoi ragazzi sentivano e consideravano come loro padre.
Nelle lettere di don Rua e Monsignor Cagliero, don Bosco è sempre chiamato “papà”. La sera del 7 dicembre 1887, quando la salute di don Bosco peggiorò, don Rua telegrafò semplicemente a Monsignor Cagliero: «Papà è in stato allarmante». Un antico canto terminava: «Viva don Bosco nostro papà!»
E ho pensato quanto sia vero che l’educazione è una questione di cuore. E ho confermato tra le mie convinzioni che la presenza tra i ragazzi, le ragazze e i giovani è per noi quasi un “sacramento” attraverso il quale anche noi arriviamo a Dio. È per questo che negli anni ho parlato con tanta passione e convinzione ai miei fratelli e sorelle salesiani e alla famiglia salesiana del “sacramento” salesiano della presenza.
E so che nel mondo salesiano, nella nostra famiglia in tutto il mondo, tra i nostri fratelli e sorelle ci sono tanti “papà” e tante “mamme” che, con la loro presenza e il loro affetto, con la loro conoscenza dell’educazione, raggiungono il cuore dei giovani, che oggi hanno tanto bisogno, direi sempre di più, di queste presenze che possono cambiare in meglio una vita.

Un saluto dall’Africa e tutte le benedizioni del Signore agli amici del carisma salesiano.
Dio vi benedica tutti.




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

Medicina
            Accanto alle facoltà di diritto e di teologia, a Padova gli studi di medicina e di botanica godevano di un prestigio straordinario, soprattutto dopo che il medico fiammingo Andrea Vesalio, padre dell’anatomia moderna, aveva inferto un colpo mortale alle vecchie teorie d’Ippocrate e di Galieno, grazie alla pratica della dissezione del corpo umano, che scandalizzava le autorità stabilite. Vesalio aveva pubblicato nel 1543 il suo De humani corporis fabrica, che rivoluzionò le conoscenze dell’anatomia umana. Per procurarsi cadaveri, si chiedevano i corpi dei giustiziati o si dissotterravano i morti, il che non avveniva senza provocare delle contese talvolta cruente dei becchini.
            Ciò nonostante è possibile avanzare parecchie costatazioni. Innanzi tutto, si sa che durante la grave malattia che lo prostrerà a Padova sul finire del 1590, aveva deciso di donare il suo corpo alla scienza, qualora fosse morto, e ciò allo scopo di evitare litigi tra gli studenti di medicina, intenti a cercare cadaveri. Approvava pertanto il nuovo metodo della dissezione del corpo umano? Sembrava in ogni caso incoraggiarla con questo gesto di scottante attualità. Inoltre, è rilevabile in lui un costante interesse per i problemi della salute, per i medici e per i chirurgi. Esiste una grande differenza, scriverà per esempio, tra il brigante e il chirurgo: «Il brigante e il chirurgo incidono le membra e fanno sgorgare il sangue, l’uno per uccidere, l’altro per guarire».
            Sempre a Padova all’inizio del secolo XVII, un medico inglese, William Harvey, scoprirà le regole della circolazione del sangue. Il cuore diveniva veramente l’autore della vita, il centro di tutto, il sole, come il principe nel suo Stato. Anche se il medico inglese pubblicherà le sue scoperte solo nel 1628, è possibile supporre che al tempo in cui Francesco era studente, tali ricerche fossero già avviate. Egli stesso scriverà per esempio che «cor habet motum in se proprium et alia movere facit», cioè che «il cuore ha in sé un movimento che gli è proprio e che fa muovere tutto il resto». Citando Aristotele, affermerà che «il cuore è il primo membro che vive in noi e l’ultimo che muore».

Botanica
            Probabilmente durante il suo soggiorno a Padova, Francesco si interessò anche delle scienze naturali. Non poteva ignorare che in città c’era il primo giardino botanico, creato per coltivare, osservare e sperimentare piante indigene ed esotiche. Le piante erano ingredienti che entravano nella maggioranza dei medicinali e il loro uso a scopo terapeutico si basava principalmente su testi di autori antichi, non sempre affidabili. Possediamo di Francesco otto raccolte di Similitudini, redatte probabilmente tra il 1594 e il 1614, ma la cui origine può risalire a Padova. Il titolo di queste piccole raccolte di immagini e di paragoni tratti dalla natura manifesta certamente il loro carattere utilitario; il loro contenuto, invece, testimonia in ogni caso un interesse quasi enciclopedico, non soltanto per il mondo vegetale, ma anche per quello minerale e animale.
            Francesco di Sales ha consultato gli autori antichi, che al suo tempo godevano di un’indiscussa autorità in materia: Plinio il Vecchio, autore di una vasta Storia naturale, vera enciclopedia di quell’epoca, ma anche Aristotele (quello della Storia degli animali e de La generazione degli animali), Plutarco, Teofrasto (autore di una Storia delle piante), e perfino sant’Agostino e sant’Alberto Magno. Conosceva pure gli autori contemporanei, in particolare i Commentari a Dioscoride del naturalista italiano Pietro Andrea Mattioli.
            Ciò che affascinava Francesco di Sales era il rapporto misterioso tra la storia naturale e la vita spirituale dell’uomo. Per lui, scrive A. Ravier, «ogni scoperta è portatrice di un segreto della creazione». Meravigliose sono le virtù particolari di alcune piante: «Plinio e Mattioli descrivono un’erba salutare contro la peste, la colica, i calcoli renali, invitandoci a coltivarla proprio nei nostri giardini». Lungo i numerosi sentieri che ha percorso durante la sua vita, lo scorgiamo attento alla natura, al mondo che lo circonda, al succedersi delle stagioni e al loro significato misterioso. Il libro della natura gli appariva come un’immensa Bibbia che occorreva imparare a interpretare, ragion per cui chiamava i Padri della Chiesa «erboristi spirituali». Quando eserciterà la direzione spirituale di persone assai differenti, rammenterà che «nel giardino, ogni erba e ogni fiore richiede una cura particolare».

Programma di vita personale
            Durante il suo soggiorno a Padova, città dove, tra monasteri e conventi, se ne contavano oltre quaranta, Francesco si rivolse di nuovo ai gesuiti per la sua direzione spirituale. Sottolineato come conviene il ruolo di primo piano dei gesuiti nella formazione del giovane Francesco di Sales, va detto però che essi non furono i soli. Una grande ammirazione e amicizia lo legava al padre Filippo Gesualdi, predicatore francescano del celebre convento di sant’Antonio di Padova. Frequentava il convento dei Teatini, dove il padre Lorenzo Scupoli veniva di tanto in tanto a predicare. Là appunto ne scoprì il libro intitolato Combattimento spirituale, che gli insegnerà a dominare le inclinazioni della parte inferiore dell’anima. Francesco di Sales «ha scritto non poche cose – asseriva il Camus –, di cui scopro subito il seme e il germe in qualche passo di detto Combattimento». Sempre nel suo soggiorno padovano, pare inoltre che si sia dedicato a un’attività educativa in un orfanotrofio.
            Si deve senza dubbio al benefico influsso di questi maestri, in particolare del padre Possevino, il fatto che Francesco scrisse vari regolamenti di vita, dei quali sono rimasti dei frammenti significativi. Il primo, intitolato Esercizio della preparazione, era un esercizio mentale da compiere al mattino: «Mi sforzerò, per mezzo suo – scriveva –, a dispormi per trattare e compiere, nella forma più lodevole, il mio dovere». Consisteva nell’immaginare tutto quello che gli poteva capitare durante la giornata: «Penserò dunque seriamente agli imprevisti che mi potranno capitare, alle compagnie dove forse sarò costretto d’intervenire, ai fatti che mi si potranno presentare, ai luoghi dove si cercherà di convincermi d’andare». Ed ecco lo scopo dell’esercizio:

            Studierò con diligenza e cercherò le vie migliori per evitare dei passi falsi. Disporrò così e stabilirò dentro di me quello che mi converrà fare, l’ordine e il comportamento che dovrò tenere in questa o in quella circostanza, ciò che sarà opportuno dire in compagnia, il contegno che dovrò osservare e ciò che bisognerà fuggire e desiderare.

            Nella Condotta particolare per passare bene la giornata, lo studente individuava le principali pratiche di pietà che intendeva compiere: preghiere del mattino, messa quotidiana, tempo di «riposo spirituale», preghiere e invocazioni durante la notte. Nell’Esercizio del sonno o del riposo spirituale, precisava i soggetti su cui doveva concentrare le sue meditazioni. Accanto ai temi classici, quali la vanità di questo mondo, il detestare il peccato, la giustizia divina, vi aveva ritagliato uno spazio per considerazioni, dal sapore umanista, sulla «eccellenza della virtù», che «rende l’uomo bello interiormente e anche esteriormente», sulla bellezza della ragione umana, questa «divina fiaccola» che diffonde un «meraviglioso splendore», come pure sulla «sapienza infinita, l’onnipotenza e l’incomprensibile bontà» di Dio. Un’altra pratica di pietà era consacrata alla Comunione frequente, alla preparazione e al relativo ringraziamento. Vi si nota un progresso nella frequenza della comunione rispetto al periodo parigino.
            Quanto alle Regole per le conversazioni e gli incontri, esse hanno un interesse particolare dal punto di vista dell’educazione sociale. Contengono sei punti che lo studente si proponeva di osservare. Prima di tutto occorreva distinguere bene tra il semplice incontro, dove «la compagnia è momentanea», e la «conversazione», dove entra in gioco l’affettività. Per quanto concerne gli incontri, vi si legge questa regola generale:

            Non disprezzerò mai, né darò l’impressione di fuggire completamente l’incontro di qualsiasi persona; questo potrebbe dar motivo d’apparire superbo, altero, severo, arrogante, censore, ambizioso e controllore. […] Non mi prenderò la libertà di dire o di fare qualcosa che non entri nella misura, per non apparire un insolente, lasciandomi trasportare da una familiarità troppo facile. Soprattutto starò attento a non mordere, o pungere o motteggiare qualcuno […]. Rispetterò ognuno in particolare, osserverò la modestia, parlerò poco e bene, in modo che i compagni desiderino tornare ad un nuovo incontro con piacere e non con noia.

            A proposito delle conversazioni, termine che all’epoca aveva un significato ampio di abituale frequentazione o di compagnia, Francesco si imponeva una maggiore prudenza. Voleva essere «amico di tutti e familiare di pochi», e sempre fedele all’unica regola che non consentiva eccezione: «Niente contro Dio».
            Per il resto, scriveva, «sarò modesto senza insolenza, libero senza austerità, dolce senza affettazione, arrendevole senza contraddizione, a meno che la ragione non suggerisca diversamente, cordiale senza dissimulazione». Si comporterà in maniera differente verso i superiori, gli uguali e gli inferiori. Era sua regola generale quella di «adattarsi alla varietà delle compagnie, senza pregiudicare però in nessun modo la virtù». Lo studente aveva diviso le persone in tre categorie: le persone sfacciate, quelle libere e le chiuse. Resterà imperturbabile davanti agli insolenti, sarà aperto con le persone libere (cioè semplici, accoglienti) e si mostrerà assai prudente con soggetti melanconici, sovente pieni di curiosità e di sospetti. Con i grandi, infine, si imporrà di stare in guardia, di trattare con loro «come con il fuoco» e di non avvicinarsi troppo. Certo, si potrebbe testimoniare loro dell’amore, perché l’amore «genera la libertà», ma ciò che dovrà dominare è il rispetto che «genera la modestia».
            È facile costatare a quale grado di maturità umana e spirituale lo studente di diritto era allora giunto. Prudenza, saggezza, modestia, discernimento e carità sono le qualità che balzano agli occhi nel suo programma di vita, ma vi si trova anche un’«onesta libertà», un atteggiamento benevolo verso tutti, un fervore spirituale fuori del comune. Ciò non impedì che a Padova conoscesse momenti difficili, dei quali si trovano forse delle reminiscenze in un passo della Filotea dove afferma che «un giovanotto o una signorina che non assecondino nel linguaggio, nel gioco, nel ballo, nel bere o nel vestire la sregolatezza di una compagnia debosciata verranno beffeggiati e scherniti dagli altri, e la loro modestia chiamata bigotteria o affettazione».

Ritorno in Savoia
            Il 5 settembre 1591 Francesco di Sales coronò l’insieme dei suoi studi con un brillante dottorato in utroque jure. Prendendo congedo dall’università di Padova, si allontanava, diceva, da «quella collina sulla cui cima abitano, senza dubbio, le Muse come in un altro Parnaso».
            Prima di lasciare l’Italia, era opportuno visitare questo paese così ricco di storia, di cultura e di religione. Con Déage, Gallois e qualche amico savoiardo, partì sul finire di ottobre alla volta di Venezia, poi di là fino ad Ancona e al santuario di Loreto. Loro meta finale era quella di giungere a Roma. Purtroppo la presenza di briganti, inorgogliti dalla morte del papa Gregorio XIV, ed anche la mancanza di denaro non glielo consentirono.
            Di ritorno a Padova, riprese per qualche tempo lo studio del Codice, inserendovi il racconto del viaggio. Ma alla fine dell’anno 1591, si arrese per la fatica. Era tempo di pensare a tornare in patria. Effettivamente, il ritorno in Savoia avvenne verso la fine di febbraio del 1592.




San Francesco de Sales studente universitario a Padova (1/2)

            Francesco si recò a Padova, città appartenente alla repubblica di Venezia, nell’ottobre del 1588, accompagnato dal fratello cadetto Gallois, un ragazzo di dodici anni che studierà dai gesuiti, e dal loro fedele precettore, don Déage. Alla fine del secolo XVI, la facoltà di diritto dell’università di Padova godeva di una fama straordinaria, che superava perfino quella del celebre Studium di Bologna. Quando pronuncerà il suo Discorso di ringraziamento in seguito alla promozione a dottore, Francesco di Sales ne tesserà gli elogi in forma ditirambica:

            Fino allora, io non avevo consacrato nessun lavoro alla santa e sacra scienza del Diritto: ma allorché, in seguito, decisi di impegnarmi in tale studio, non ebbi assolutamente bisogno di cercare dove rivolgermi o dove recarmi; questo collegio di Padova mi attirò subito per la sua celebrità e, sotto i più favorevoli auspici, infatti, in quel tempo, aveva dottori e lettori quali non ebbe mai e non avrà giammai di più grandi.

            Checché egli ne dica, è certo che la decisione di studiare il diritto non partiva da lui, ma gli venne imposta dal padre. Altre ragioni hanno potuto giocare a favore di Padova, e, precisamente, il bisogno che il Senato di uno Stato bilingue aveva di poter disporre di magistrati provvisti di una duplice cultura, francese e italiana.

Nella patria dell’umanesimo
            Valicando per la prima volta le Alpi, Francesco di Sales metteva piede nella patria dell’umanesimo. A Padova poté non solamente ammirare i palazzi e le chiese, specialmente la basilica di Sant’Antonio, ma anche gli affreschi di Giotto, i bronzi di Donatello, le pitture del Mantegna, o ancora gli affreschi del Tiziano. Il suo soggiorno nella penisola italiana gli consentirà inoltre di conoscere parecchie città d’arte, in particolare, Venezia, Milano e Torino.
            Sul piano letterario, non poteva mancare d’essere in contatto con alcune produzioni tra le più celebri. Ha avuto forse tra mano la Divina Commedia di Dante Alighieri, i poemi del Petrarca, precursore dell’umanesimo e primo poeta del suo tempo, le novelle del Boccaccio, fondatore della prosa italiana, l’Orlando furioso dell’Ariosto, o la Gerusalemme liberata del Tasso? Le sue preferenze andavano alla letteratura spirituale, in particolare alla lettura meditata del Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli. Riconoscerà modestamente: «Non penso di parlare un italiano perfetto».
            A Padova, Francesco ebbe la fortuna di incontrare un insigne gesuita nella persona del padre Antonio Possevino. Questo «umanista errante dalla vita epica», che era stato incaricato dal papa di missioni diplomatiche in Svezia, Danimarca, Russia, Polonia e Francia, aveva preso dimora fissa a Padova poco prima dell’arrivo di Francesco. Divenne suo direttore spirituale e sua guida negli studi e nella conoscenza del mondo.

L’università di Padova
            Fondata nel 1222, quella di Padova era la più antica università d’Italia dopo quella di Bologna, di cui era una derivazione. Vi si insegnava con successo non soltanto il diritto, considerato come la scientia scientiarum, ma anche la teologia, la filosofia e la medicina. I circa millecinquecento studenti provenivano dall’intera Europa e non erano tutti cattolici, il che ingenerava a volte preoccupazioni e disordini.
            Le risse erano frequenti, talvolta sanguinose. Uno dei giochi pericolosi preferiti era la «caccia ai Padovani». Francesco di Sales racconterà un giorno a un amico, Jean-Pierre Camus, «che uno studente, dopo aver sferrato un colpo di spada contro uno sconosciuto, si rifugiò presso una donna che scoprì essere la madre del giovane appena assassinato». Lui stesso, che non circolava senza la spada, un giorno venne coinvolto in una lotta da compagni, che giudicavano la sua dolcezza come una forma di vigliaccheria.
            Professori e studenti sapevano apprezzare la proverbiale patavinam libertatem, che oltre ad essere coltivata nella ricerca intellettuale, incitava anche un buon numero di studenti a «svolazzare» dandosi alla bella vita. Anche i discepoli più vicini a Francesco non erano modelli di virtù. La vedova di uno di loro racconterà più tardi, col suo linguaggio pittoresco, come il suo futuro marito aveva messo in scena una farsa di cattivo gusto con alcuni complici, destinata a gettare Francesco tra le braccia di una «miserabile puttana».

Gli studi di diritto
            Per obbedire al padre, Francesco si dedicò con coraggio allo studio del diritto civile, cui volle aggiungere quello del diritto ecclesiastico, che farà di lui un futuro dottore in utroque jure. Lo studio della legge comportava anche quello della giurisprudenza, che è «la scienza per mezzo della quale si amministra il diritto».
            Lo studio era concentrato sulle fonti del diritto, cioè, l’antico diritto romano, raccolto e interpretato nel secolo VI dai giuristi dell’imperatore Giustiniano. In tutta la sua vita si ricorderà della definizione della giustizia, letta all’inizio del Digesto: «una perpetua, forte e costante volontà di rendere a ciascuno ciò che gli appartiene».
            Esaminando i quaderni di appunti di Francesco, possiamo individuare alcune sue reazioni di fronte a certe leggi. Si manifesta pienamente d’accordo con il titolo del Codice che apre la serie delle leggi: Della Sovrana Trinità e della Fede cattolica, e con la difesa che segue immediatamente: Che nessuno si deve permettere di discuterne in pubblico. «Questo titolo – così annotava – è prezioso, direi sublime, e degno di essere letto sovente contro i riformatori, i saccenti e i politici».
            La formazione giuridica di Francesco di Sales poggiava su basi che all’epoca parevano indiscutibili. Per i cattolici del suo tempo, «tollerare» il protestantesimo non poteva assumere altro significato se non quello di essere complici dell’errore; di qui la necessità di combatterlo e con tutti i mezzi, ivi compresi quelli forniti dal diritto in vigore. In nessun caso ci si voleva rassegnare alla presenza dell’eresia, la quale appariva non soltanto come un errore sul piano della fede, ma anche come una fonte di divisione e di disturbo della cristianità. Nella foga dei suoi vent’anni, Francesco di Sales condivideva questo modo di vedere.
            Ma tale foga aveva libero corso anche nei confronti di quanti favorivano l’ingiustizia e le persecuzioni, dato che, a proposito del titolo XXVI del libro III, scriveva: «È preziosa come l’oro e degna di essere scritta con lettere maiuscole la IX legge, che recita: Siano puniti col fuoco i familiari del principe se perseguitano gli abitanti delle province».
            Più tardi, Francesco farà appello a colui che designava come «nostro Giustiniano» per denunciare la lentezza della giustizia da parte del giudice, il quale «si scusa invocando mille ragioni di costume, di stile, di teoria, di pratica e di cautela». Nelle lezioni di diritto ecclesiastico studierà la raccolta delle leggi che utilizzerà più tardi, in particolare quelle del canonista medievale Graziano, tra l’altro per dimostrare che il vescovo di Roma è «vero successore di san Pietro e capo della Chiesa militante», e che i religiosi e le religiose devono essere posti «sotto l’obbedienza dei vescovi».
            Consultando gli appunti manoscritti presi da Francesco durante il suo soggiorno a Padova, si resta colpiti dalla scrittura estremamente curata. È passato dalla scrittura gotica, ancora utilizzata a Parigi, alla scrittura moderna degli umanisti.
            Ma alla fin fine, gli studi di diritto devono averlo piuttosto annoiato. In un torrido giorno d’estate, di fronte alla freddezza delle leggi e alla loro lontananza nel tempo, scriverà, disilluso, questo commento: «Dato che queste questioni sono vecchie, non pareva proficuo dedicarsi ad esaminarle in questo tempo canicolare, troppo caldo per affrontare con comodo discussioni fredde e agghiaccianti».

Studi teologici e crisi intellettuale
            Mentre era dedito agli studi del diritto, Francesco continuò a interessarsi da vicino della teologia. Secondo suo nipote, giunto di fresco a Padova, «si mise tosto al lavoro con tutta la diligenza possibile, e pose sul leggio della sua stanza la Somma del dottore angelico, san Tommaso, per averla ogni giorno davanti agli occhi e poterla consultare facilmente per comprendere altri libri. Godeva molto nel leggere i libri di san Bonaventura. Acquisterà una buona conoscenza dei Padri latini, in modo particolare dei «due brillanti luminari della Chiesa», «il grande sant’Agostino» e san Girolamo, che furono anche «due grandi capitani dell’antica Chiesa», senza dimenticare il «glorioso sant’Ambrogio» e san Gregorio Magno. Tra i Padri greci ammirava san Giovanni Crisostomo «che, per la sua eccelsa eloquenza, venne lodato e denominato Bocca d’oro». Inoltre, citerà di frequente san Gregorio Nazianzeno, san Basilio, san Gregorio di Nissa, sant’Atanasio, Origene e altri ancora.
            Consultando i frammenti di appunti pervenutici, si viene a sapere che leggeva anche gli autori più importanti del suo tempo, in particolare, il grande esegeta e teologo spagnolo Juan Maldonado, un gesuita che aveva impostato con successo nuovi metodi nello studio dei testi della Scrittura e dei Padri della Chiesa. Oltre allo studio personale, Francesco ha potuto seguire corsi di teologia all’università, dove don Déage preparava il dottorato, e approfittare dell’aiuto e del consiglio del padre Possevino. Si sa anche che si recava spesso dai francescani, presso la basilica di Sant’Antonio.
            La sua riflessione si concentrava di nuovo sul problema della predestinazione e della grazia, al punto da fargli riempire cinque quaderni di appunti. In realtà, Francesco si trovò posto davanti a un dilemma: restare fedele a convinzioni che furono sempre sue, oppure attenersi alle classiche posizioni di sant’Agostino e di san Tommaso, «dottore massimo e senza pari». Ora gli tornava difficile «simpatizzare» per una dottrina tanto scoraggiante di questi due maestri, o perlomeno per l’interpretazione corrente, secondo cui gli uomini non hanno alcun diritto alla salvezza, perché essa dipende totalmente da una libera decisione da parte di Dio.
            A partire dalla sua adolescenza, Francesco si era fatto un’idea più ottimista del disegno di Dio. Le sue convinzioni personali vennero rinforzate dopo la comparsa nel 1588 del libro del gesuita spagnolo Luis Molina, il cui titolo latino Concordia riassumeva bene la tesi: Concordia del libero arbitrio con il dono della grazia. In quest’opera, la predestinazione in senso stretto era sostituita con una predestinazione che teneva conto dei meriti dell’uomo, cioè delle sue buone o cattive azioni. In altri termini, Molina affermava sia l’agire sovrano di Dio sia il ruolo determinante della libertà da lui donata all’uomo.
            Nel 1606, il vescovo di Ginevra avrà l’onore di essere consultato dal papa a proposito della disputa teologica che opponeva, sempre sullo stesso problema, i partigiani del gesuita Molina e quelli del domenicano Domingo Báñez, per il quale la dottrina del Molina concedeva troppa autonomia alla libertà umana, col rischio di mettere a repentaglio la sovranità di Dio.
            Il Teotimo, che apparirà nel 1616, contiene al capitolo 5 del libro III il pensiero di Francesco di Sales, riassunto in «quattordici righe», le quali, secondo Jean-Pierre Camus, gli erano costate «la lettura di mille duecento pagine di un grosso volume». Con un lodevole sforzo per essere conciso ed esatto, Francesco affermava sia la liberalità e generosità divina, sia la libertà e responsabilità umana all’atto di redigere questa soppesata frase: «Dipende da noi essere suoi: infatti, benché sia un dono di Dio appartenere a Dio, tuttavia è un dono che Dio non rifiuta mai ad alcuno, anzi l’offre a tutti, per concederlo a coloro che di buon cuore acconsentiranno a riceverlo».
            Facendo sue le idee dei gesuiti, che agli occhi di molti apparivano come dei «novatori», e che ben presto i giansenisti con Blaise Pascal tacceranno di cattivi teologi, di lassisti, Francesco di Sales innestava la sua teologia nella corrente dell’umanesimo cristiano e optava per il «Dio del cuore umano». La «teologia salesiana», che poggia sulla bontà di Dio, il quale vuole la salvezza di tutti, si presenterà ugualmente con un pressante invito alla persona umana a rispondere con tutto il «cuore» agli appelli della grazia.

(continua)




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (6/13)

(continuazione dall’articolo precedente)


Capo IX. Battaglia di Lepanto

            Esposti così di volo alcuni dei molti fatti che confermano in generale quanto Maria protegga le armi dei cristiani quando combattono per la fede, passiamo ad altri più particolari che hanno dato motivo alla Chiesa di appellare Maria col glorioso titolo di Auxilium Christianorum. Principale tra essi è la battaglia di Lepanto.
            Alla metà del secolo XVI la nostra Penisola godette alquanto di pace quando una nuova insurrezione dalla parte di Oriente venne a mettere lo scompiglio fra i cristiani.
            I Turchi che da oltre cento anni si erano stabiliti a Costantinopoli vedevano con rincrescimento che i popoli d’Italia, e segnatamente i Veneziani, possedessero isole e città in mezzo al vasto loro impero. Cominciarono pertanto chiedere ai Veneziani l’isola di Cipro. La qual cosa essendo loro rifiutala, diedero mano alle armi e con un esercito di ottanta mila fanti, con tre mila cavalli e con formidabile artiglieria, guidati dallo stesso loro imperatore Selimo II, assediarono Nicosia e Famagosta che erano le città più forti dell’Isola. Queste città dopo eroica difesa caddero ambedue in potere dei nemici.
            I Veneziani allora ricorsero al Papa affinché volesse venire in loro soccorso per combattere ed abbassare l’orgoglio dei nemici del cristianesimo. Il Romano Pontefice, che allora era s. Pio V, nel timore che i Turchi se fossero riusciti vittoriosi avrebbero portato fra i cristiani desolazione e rovina, pensò di impegnare la potente intercessione di colei che santa Chiesa proclama terribile come un esercito ordinato a battaglia: Terribilis ut castrorum aeies ordinata. Ordinò pertanto pubbliche preghiere per tutta la cristianità: ricorse al re di Spagna Filippo II e al duca Emanuele Filiberto.
            Il re di Spagna messo in piedi un poderoso esercito lo affidò ad un fratello minore detto D. Gioanni d’Austria. Il duca di Savoia mandò di buon grado un numero scelto di prodi, i quali unitisi al rimanente delle forze italiane andarono a congiungersi cogli spagnoli presso a Messina.
            Lo scontro dell’esercito nemico ebbe luogo vicino a Lepanto città della Grecia. I cristiani assalgono ferocemente i Turchi; questi fanno gagliardissima resistenza. Ogni vascello volgendosi d’improvviso tra vortici di fiamme e di fumo pareva che vomitasse il fulmine da cento cannoni di cui era armato. La morte pigliava tutte le forme, gli alberi ed i cordami delle navi spezzati dalle palle cadevano sopra i combattenti e li stritolavano. Le grida strazianti dei feriti si frammischiavano al rumoreggiar dei flutti e dei cannoni. In mezzo al comune sconvolgimento Vernieri, condottiero dell’armata cristiana, si accorge che la confusione comincia entrare nelle navi turche. Subito egli fa mettere in ordine alcune galere basse e piene di artiglieri destrissimi, circonda i bastimenti nemici, e a colpi di cannone li squarcia e li fulmina. In quel momento crescendo la confusione fra i nemici si eccita grande entusiasmo fra i cristiani e da tutte le parti si leva un grido di vittoria! vittoria! e la vittoria è con loro. Le navi turche fuggono verso terra, i Veneziani le inseguono e le fracassano; non è più battaglia, è un macello. Il mare è sparso di vesti, di tele, di frantumi di navi, di sangue e di corpi sbranati; trenta mila turchi sono morti; duecento delle loro galere vengono in potere dei cristiani.
            La notizia della vittoria recò nei paesi cristiani una gioia universale. Il senato di Genova e di Venezia decretarono che il dì 7 ottobre fosse giorno solenne e festivo in perpetuo perché in cotal giorno nell’anno 1571 era succeduta quella grande battaglia. Fra le preghiere che il santo Pontefice aveva ordinato pel giorno di quella grande battaglia fu il Rosario, e nell’ora stessa che si compieva quell’avvenimento, lo recitava egli stesso con una schiera di fedeli con lui raccolti. In quel momento gli apparve la santa Vergine rivelandogli il trionfo delle navi cristiane, il quale trionfo s. Pio V annunziò tosto per Roma prima che alcuno avesse in altra guisa potuto portare quella notizia. Allora il santo Pontefice in riconoscenza a Maria, al cui patrocinio attribuiva la gloria di quella giornata, ordinò che nelle Litanie Lauretane si aggiungesse la giaculatoria: Maria Auxilium Christianorum, ora pro nobis. Maria aiuto dei cristiani, pregate per noi. Il medesimo Pontefice, affinché fosse perpetua la memoria di quel prodigioso avvenimento, istituì la solennità del SS. Rosario da celebrarsi ogni anno la prima domenica di ottobre.

Capo X. La liberazione di Vienna

            L’anno 1683 i Turchi per vendicare la sconfitta di Lepanto formarono il disegno di portare le loro armi al di là del Danubio e del Reno, minacciando così tutta la cristianità. Con un esercito di ducento mila uomini, avanzandosi a marcie forzale, vennero a porre l’assedio davanti alle mura di Vienna. Il Sommo Pontefice, che allora era Innocenzo XI, pensò di fare ricorso ai principi cristiani eccitandoli a venire in soccorso della cristianità minacciata. Pochi peraltro risposero all’invito del Pontefice: per la qual cosa egli ad esempio del suo antecessore Pio V deliberò di porsi sotto alla protezione di colei che la Chiesa proclama terribilis ut castrorum acies ordinata. Pregava egli, ed aveva invitati i fedeli di tutto il mondo a pregare con lui.
            Intanto a Vienna la costernazione era generale, il popolo temendo di cadere nelle mani degli infedeli usciva dalla città, ed ogni cosa abbandonava. L’imperatore non avendo forze da opporre abbandonò la sua capitale. Il principe Carlo di Lorena, che a stento aveva potuto raccogliere trenta mila tedeschi, era riuscito di entrare in città per tentarne in qualche modo la difesa. I borghi vicini furono incendiati. Il 14 di agosto i Turchi aprirono le loro trincee dalla porta principale, ed ivi si accamparono malgrado il fuoco degli assediati. Stringendo poi di assedio tutte le mura della città, appiccarono il fuoco e misero in fiamme parecchi pubblici e privati edifizi. Un caso doloroso aumentò il coraggio dei nemici e diminuì quello degli assediati.
            Appiccossi il fuoco alla chiesa degli Scozzesi, consumò quel superbo edifizio, e giungendo all’arsenale, dove erano le polveri e le munizioni, stava per aprire la città ai nemici se per una protezione specialissima di Maria Santissima, nel giorno della sua gloriosa Assunzione, il fuoco non si fosse spento, dando così tempo a mettere in salvo le munizioni militari. Quella sensibile protezione della Madre di Dio riaccese il coraggio dei soldati e degli abitanti. Al ventidue dello stesso mese i Turchi tentarono di abbattere altri edifici lanciando gran quantità di palle e di bombe, con cui fecero grandissimo guasto, ma non poterono impedire gli abitanti di implorare giorno e notte i soccorsi del cielo nelle chiese, né i predicatori di esortarli a riporre, dopo Dio, tutta la loro fiducia in quella che loro aveva tante volte dato potente aiuto. Il 31 gli assedianti spinsero i lavori a segno, che i soldati delle due parti si battevano corpo a corpo.
            La città era un mucchio di rovine, quando il giorno della natività di Maria V. i cristiani raddoppiando le loro preghiere ricevettero come per miracolo avviso di vicino soccorso. Infatti l’indomani, secondo giorno dell’ottava della Natività, videro la montagna, che sta dirimpetto alla città, tutta coperta di truppe. Era Gioanni Sobieschi re di Polonia, che quasi solo fra i principi cristiani, cedendo all’invito del Pontefice, veniva coi suoi prodi in soccorso. Persuaso che col piccolo numero dei suoi soldati gli sarebbe stata impossibile la vittoria, ricorse egli pure a colei che è formidabile in mezzo ai più ordinati ed agguerriti eserciti. Il 12 di settembre si portò in chiesa col principe Carlo, ed ivi udirono la santa messa, che egli stesso volle servire tenendo le braccia distese in forma di croce. Dopo essersi comunicato, ed aver ricevuto la santa benedizione per sé e per tutto il suo esercito, quel principe si levò, e disse ad alta voce: Soldati, per la gloria della Polonia, per la liberazione di Vienna, per la salute di tutta la cristianità, sotto alla protezione di Maria noi possiamo con sicurezza marciare contro ai nemici e nostra sarà la vittoria.
            L’esercito cristiano discendendo allora dalle montagne avanzossi verso il campo dei Turchi, i quali dopo aver combattuto per qualche tempo si ritirarono dall’altra parte del Danubio con tanta precipitazione e confusione, che lasciarono nel campo lo stendardo ottomano, circa cento mila uomini, la maggior parte dei loro equipaggi, tutte le loro munizioni da guerra, con cento ottanta pezzi di artiglieria. Non fuvvi mai vittoria più gloriosa e che abbia costato tanto poco sangue ai vincitori. Si vedevano i soldati carichi di bottino entrare nella città, cacciandosi davanti molte greggi di buoi, che i nemici avevano abbandonato.
            L’imperatore Leopoldo, udita la disfatta dei Turchi, tornò a Vienna in quello stesso giorno, fece cantare un Te Deum colla più grande solennità, e riconoscendo poi che una vittoria così inaspettata era totalmente dovuta alla protezione di Maria, fece portare nella chiesa maggiore lo stendardo che si era trovato nella tenda del Gran Visir. Quello di Maometto, più ricco ancora, e che si inalberava in mezzo del campo, fu mandato a Roma e presentato al Papa. Quel santo Pontefice egli pure intimamente persuaso che la gloria di quel trionfo fosse tutta dovuta alla grande Madre di Dio, e desideroso di perpetuare la memoria di quel benefizio, ordinò che la festa del SS. Nome di Maria, già da qualche tempo praticata in alcuni paesi, fosse per l’avvenire celebrata in tutta la Chiesa nella domenica che si trova fra l’ottava della sua Natività.

Capo XI. Associazione di Maria Ausiliatrice in Monaco

            La vittoria di Vienna accrebbe maravigliosamente nei fedeli la divozione verso Maria e diede occasione ad una pia società di devoti sotto il titolo di Confraternita di Maria Ausiliatrice. Un padre Cappuccino che con gran zelo predicava nella chiesa parochiale di s. Pietro a Monaco di Baviera, con fervorose e commoventi espressioni esortava i fedeli a mettersi essi pure sotto la protezione di Maria Ausiliatrice, e ad implorare il patrocinio di lei contro ai Turchi che da Vienna minacciavano di invadere la Baviera. La divozione alla SS. Vergine Ausiliatrice si accrebbe talmente che i fedeli vollero continuarla anche dopo la vittoria di Vienna sebbene i nemici fossero già stati costretti ad allontanarsi dalla loro città. Fu allora che per eternare la memoria del gran benefizio ottenuto dalla Santa Vergine venne istituita una Confraternita sotto il titolo di Maria Ausiliatrice.
            Il duca di Baviera, che aveva avuto il comando d’una parte dell’esercito cristiano, mentre il re di Polonia ed il duca di Lorena comandavano il rimanente della milizia, per secondare quanto si era fatto nella sua capitale, chiese al sommo Pontefice Innocenzo XI l’erezione della suddetta Confraternita. Di buon grado il Papa accondiscese e accordò l’implorata istituzione con una Bolla in data del 18 agosto 1684, arricchendola d’indulgenze. Così addì 8 settembre dell’anno successivo, mentre quel principe stringeva d’assedio la città di Buda, s’instituì per suo ordine con gran solennità nella chiesa di s. Pietro a Monaco l’anzidetta Confraternita. D’allora in poi i confratelli di quella Associazione, uniti di cuore nell’amore di Gesù e di Maria, si radunano a Monaco ed offrono a vicenda preghiere e sacrifizi a Dio per implorare la infinita sua misericordia. Mercè la protezione della Vergine SS. questa Confraternita si è diffusa rapidamente, sicchè i più grandi personaggi furono solleciti di farvisi inscrivere per assicurarsi l’assistenza di questa grande Regina de’cieli nei pericoli della vita e specialmente in punto di morte. Imperatori, re, regine, prelati, sacerdoti, ed un’infinità di popolo di tutte parti di Europa reputano tuttora a grande ventura l’esservi inscritti. I Papi concedettero molte indulgenze a chi è in quella Confraternita. I sacerdoti che sono aggregati possono aggregare gli altri. Migliaia di Messe e di Rosari si recitano durante la vita e dopo la morte per quelli che ne sono membri.

Capo XII. Convenienza della festa di Maria Ausiliatrice

            I fatti che abbiamo finora esposti in onore di Maria aiuto dei cristiani fanno chiaramente conoscere quanto Maria gradisca di essere invocata sotto a questo titolo. La Chiesa cattolica ogni cosa osservava, esaminava, approvava guidando ella stessa le pratiche dei fedeli, affinché nè il tempo nè la malizia degli uomini travisassero il vero spirito di divozione.
            Richiamiamo qui quanto abbiamo sparsamente detto intorno alle glorie di Maria aiuto dei cristiani. Nei libri santi è simboleggiata nell’arca di Noè, che salva dall’universale diluvio i seguaci del vero Dio nella scala di Giacobbe che si solleva fino al cielo; nel roveto ardente di Mosè; nell’arca dell’alleanza; nella torre di Davide, che difende da ogni assalto; nella rosa di Gerico; nella fontana sigillata; nell’orto ben coltivato e custodito di Salomone; è figurata in un acquedotto di benedizioni; nel vello di Gedeone. Altrove è chiamata stella di Giacobbe, bella come la luna, eletta come il sole, iride di pace; pupilla dell’occhio di Dio; aurora portatrice di consolazioni, Vergine e Madre e Genitrice del suo Signore. Questi simboli ed espressioni che la Chiesa applica a Maria, fanno manifesti i disegni provvidenzali di Dio che voleva farcela conoscere prima della sua nascita come la primogenita fra tutte le creature, la più eccellente protettrice, aiuto e sostegno del genere umano.
            Nel nuovo Testamento poi cessano le figure e le espressioni simboliche; tutto è realtà ed avveramento del passato. Maria è salutata dall’arcangelo Gabriele che la chiama piena di grazia; rimira Iddio la grande umiltà di Maria e la solleva alla dignità di Madre del Verbo Eterno. Gesù Dio immenso diventa figliuolo di Maria; da lei nasce, da lei è educato, assistito. E il Verbo Eterno fatto carne sottomettesi in tutto all’ubbidienza dell’augusta sua Genitrice. A richiesta di lei Gesù opera il primo de’suoi miracoli in Cana di Galilea; sul Calvario è costituita di fatto Madre comune dei cristiani. Gli Apostoli se la fanno guida e maestra di virtù. Con lei si raccolgono a pregare nel cenacolo; con lei attendono all’orazione, e in fine ricevono lo Spirito Santo. Agli Apostoli dirige le sue ultime parole e se ne vola gloriosa al Cielo.
            Dall’altissimo suo seggio di gloria va dicendo: Ego in altissimis habito ut ditem diligentes me et thesauros corum repleam. Io abito il più alto trono di gloria per arricchire di benedizioni quelli che mi amano e per riempiere i loro tesori di celesti favori. Onde dalla sua Assunzione al cielo cominciò il costante e non mai interrotto concorso de’cristiani a Maria, nè mai si udì, dice s. Bernardo, che alcuno abbia con fiducia fatto ricorso a lei che non sia stato esaudito. Di qui si ha la ragione per cui ogni secolo, ogni anno, ogni giorno e possiamo dire ogni momento è segnalato nella storia da qualche gran favore concesso a chi con fede l’ha invocata. Di qui pure si ha la ragione per cui ogni regno, ogni città, ogni paese, ogni famiglia ha una chiesa, una cappella, un altare, una immagine, un dipinto o qualche segno che ricorda una grazia concessa a chi fece a lei ricorso nelle necessità della vita. I fatti gloriosi contro i Nestoriani e contro agli Albigei; le parole da Maria dette a s. Domenico allora che gli raccomandava la predicazione del Rosario, che la stessa Beata Vergine nominò magnum in Ecclesia praesidium; la vittoria di Lepanto, di Vienna, di Buda, la Confraternita di Monaco, quella di Roma, di Torino e molte altre erette in vari paesi della cristianità, fanno abbastanza conoscere quanto sia antica e diffusa la divozione a Maria Ausiliatrice, quanto questo titolo torni a lei gradito e quanto vantaggio arrechi ai popoli cristiani. Sicchè poteva ben con ragione Maria profferire le parole che le mette in bocca lo Spirito Santo: In omni gente primatum habui. Sono riconosciuta padrona presso a tutte le nazioni.
            Questi fatti cotanto gloriosi alla Santa Vergine facevano desiderare l’intervento espresso della Chiesa a dare il limite e il modo con cui Maria potesse invocarsi col titolo di aiuto dei cristiani, e la Chiesa era già in certo modo intervenuta coll’approvazione delle confraternite, delle preghiere e di molte pratiche di pietà cui sono annesse le sante indulgenze, e che per tutto il mondo proclamano Maria Auxilium Christianorum.
            Una cosa mancava ancora ed era un giorno dell’anno stabilito per onorare il titolo di Maria Ausiliatrice, che è quanto dire, una festa con rito, Messa, Officio dalla Chiesa approvato, e si fissasse il giorno di tale solennità. Affinché i Pontefici si determinassero a questa importante istituzione ci voleva qualche fatto straordinario che non tardò molto a farsi manifesto agli uomini.

(continua)




Nino, un giovane come tanti… incontra nel suo Signore lo scopo della vita

            Nino Baglieri nasce a Modica Alta il 1° maggio 1951 da mamma Giuseppa e papà Pietro. Dopo appena quattro giorni è battezzato nella Parrocchia di Sant’Antonio da Padova. Cresce come tanti ragazzi, con il gruppo di amici, qualche fatica negli anni della scuola e il sogno di un futuro fatto di lavoro e della possibilità di formarsi una famiglia.
            Pochi giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno, festeggiato al mare con gli amici, il 6 maggio 1968, memoria liturgica di san Domenico Savio, Nino durante una giornata di ordinario lavoro come muratore cade da 17 metri di altezza quando cede l’impalcatura del palazzo – non lontano da casa – al quale stava lavorando: 17 metri, precisa Nino, nel suo Quaderno-Diario, «1 metro per ogni anno di vita». «Le mie condizioni», racconta, «erano così gravi che i medici si aspettavano il mio decesso da un momento all’altro (ricevetti addirittura l’estrema unzione). [Un medico] fece un’insolita proposta ai miei genitori: “se vostro figlio riuscisse a superare questi momenti, il che sarebbe solo frutto di un miracolo, sarebbe destinato a passare la sua vita su un letto; se voi credete, con una puntura letale, sia a voi che a lui risparmierete tante sofferenze”. “Se Dio lo vuole con sé – rispose la mamma – lo prenda, ma se lo lascia vivere sarò felice di accudirlo per tutta la vita”. Così la mia mamma, che è sempre stata una donna di grande fede e coraggio, aprì le braccia e il cuore ed abbracciò per prima la croce».
Nino affronterà anni difficili anche per il peregrinare in diversi Ospedali, dove dolorose terapie e operazioni lo proveranno duramente, non sortendo la guarigione desiderata. Resterà tetraplegico per tutta la vita.
            Ritornato a casa, seguito dall’affetto della famiglia e dal sacrificio eroico della mamma che gli è sempre accanto, Nino Baglieri ritrova gli sguardi di amici e conoscenti, ma vede in essi troppo spesso un compatire che lo disturba: “mischinu poviru Ninuzzu…” (“poveretto povero Nino…”). Finisce così per chiudersi in sé stesso, in dieci dolorosi anni di solitudine e rabbia. Sono anni di disperazione e bestemmie per la non accettazione del suo stato e di domande come: “Perché proprio a me è capitato tutto questo?”.
            La svolta arriva il 24 marzo 1978, vigilia dell’Annunciazione e – quell’anno – Venerdì Santo: un sacerdote del Rinnovamento nello Spirito Santo va a trovarlo con alcune persone ed essi pregano su di lui. La mattina Nino, sempre allettato, aveva chiesto alla mamma di vestirlo: «Se il Signore mi guarisce non sarò nudo davanti alle persone». Leggiamo dal suo Quaderno-Diario: “Padre Aldo cominciò subito la Preghiera, io ero ansioso ed emozionato, mi pose le mani sulla testa, io non capivo questo gesto; cominciò ad invocare lo Spirito Santo affinché scendesse su di me. Dopo qualche minuto, sotto l’imposizione delle mani, sentii un grande calore in tutto il corpo, un grande formicolio, come una forza nuova entrare in me, una forza rigeneratrice, una forza Viva e qualcosa di vecchio uscire. Lo Spirito Santo era sceso su di me, con potere è entrato nel mio cuore, è stata un’Effusione d’Amore e di Vita, in quell’istante ho accettato la Croce, ho detto il mio Sì a Gesù e sono rinato a Vita Nuova, sono diventato un uomo nuovo, con un cuore nuovo; tutta la disperazione di 10 anni cancellata in pochi secondi, il mio cuore è stato riempito di una gioia nuova e vera che io non avevo mai conosciuto. Il Signore mi ha guarito, io volevo la guarigione fisica ed invece il Signore ha operato qualcosa di più grande, la Guarigione dello Spirito, così ho trovato la Pace, la Gioia, la Serenità, e tanta forza e tanta voglia di vivere. Finì la preghiera, il mio cuore traboccava di gioia, i miei occhi brillavano e il mio viso era raggiante; pur restando nelle stesse condizioni di sofferente ero felice».
            Per Nino Baglieri e la sua famiglia comincia allora un nuovo periodo, un periodo di rinascita segnato in Nino dalla riscoperta della fede e dall’amore per la Parola di Dio, che egli legge per un anno di seguito. Si apre a quei rapporti umani dai quali si era sottratto senza che gli altri invece avessero mai smesso di volergli bene.
            Un giorno Nino, sollecitato da alcuni bambini che erano vicino a lui e gli chiedono aiuto per fare un disegno, si accorge di avere il dono di scrivere con la bocca: in breve tempo sarà in grado di scrivere molto bene – meglio di come quando scrivesse a mano – e questo gli permette di oggettivare il proprio vissuto, sia nella forma personalissima di numerosi Quaderni-Diario, sia attraverso poesie / brevi componimenti che inizierà a leggere alla Radio. Arriveranno poi, con il dilatarsi della rete relazionale, migliaia di lettere, amicizie, incontri…, attraverso i quali Nino espliciterà una particolare forma di apostolato, sino al termine della vita.
Approfondisce intanto il cammino spirituale attraverso tre direttrici, che ritmano la sua esperienza ecclesiale, dentro l’obbedienza agli incontri che Dio mette sul suo cammino: la vicinanza al Rinnovamento nello Spirito Santo; il legame con la realtà dei Camilliani (Ministri degli Infermi); il cammino con i Salesiani, diventando dapprima Salesiano Cooperatore e poi consacrato laico nell’Istituto Secolare dei Volontari con Don Bosco (interpellato dai delegati del Rettor Maggiore, dà anche un contributo nella stesura del Progetto di vita dei CDB). Saranno i Camilliani per primi a proporgli una forma di consacrazione: essa, umanamente parlando, sembrava intercettare lo specifico della sua esistenza, segnata dalla sofferenza. Il posto di Nino però è a casa di Don Bosco ed egli lo scopre nel tempo, non senza momenti di fatica, sempre però affidandosi a chi lo guida e imparando a confrontare i propri desideri con le modalità attraverso cui la Chiesa chiama. E mentre Nino percorre le tappe di formazione e consacrazione (fino alla professione perpetua, il 31 agosto 2004), sono tante le vocazioni – anche al sacerdozio e alla vita consacrata femminile – che da lui traggono ispirazione, forza, luce.
            Il responsabile Mondiale dei “CDB” così si esprime sul senso della consacrazione laicale oggi, vissuta anche da Nino: «Nino Baglieri è stato per noi Volontari Con Don Bosco un dono speciale del cielo: è il primo di noi fratelli che ci mostra un cammino di santità attraverso una testimonianza umile, discreta, gioiosa. Nino ha realizzato in pienezza la vocazione alla secolarità consacrata salesiana e ci insegna che la santità è possibile in ogni condizione di vita, anche quelle segnate dall’incontro con la croce e la sofferenza. Nino ci ricorda che tutti possiamo vincere in Colui che ci dà forza: la Croce che lui ha tanto amato, come uno sposo fedele, è stata il ponte attraverso cui ha unito la sua storia personale di uomo con la storia della salvezza; è stata l’altare su cui ha celebrato il suo sacrificio di lode al Signore della vita; è stata la scala per il paradiso. Animati dal suo esempio anche noi, come Nino, possiamo diventare capaci di trasformare come lievito buono tutte le realtà quotidiane, certi di trovare in lui un modello e un potente intercessore presso Dio».
            Nino, che non può muoversi, è Nino che nel tempo apprende a non scappare, a non sottrarsi alle richieste e diventa sempre più accessibile e semplice come il suo Signore. Il suo letto, la sua stanzetta o la sedia a rotelle si trasfigurano così in quell’“altare” dove tanti portano gioie e dolori: egli le accoglie, si offre e offre le proprie sofferenze per essi. Nino “che sta” è l’amico sul quale si possono “scaricare” tante preoccupazioni e “deporre” i pesi: lui accoglie col sorriso, anche se alla sua vita – custoditi nel riserbo – non mancheranno momenti di grande prova morale e spirituale.
            Nelle lettere, negli incontri, nelle amicizie attesta grande realismo e sa essere sempre vero, riconoscendo la propria piccolezza ma anche la grandezza del dono di Dio in lui e attraverso di lui.
            Durante un incontro con i giovani a Loreto, alla presenza del Card. Angelo Comastri, dirà: «Se qualcuno di voi è in peccato mortale, sta molto peggio di me!»: è la consapevolezza, tutta salesiana, che è meglio “la morte, ma non i peccati”, e che veri amici devono essere Gesù e Maria, da cui non separarsi mai.
            Il Vescovo della diocesi di Noto, Mons. Salvatore Rumeo, sottolinea che «la divina avventura di Nino Baglieri ricorda a tutti noi che la santità è possibile e non appartiene ai secoli passati: la santità è la via per raggiungere il Cuore di Dio. Nella vita cristiana non ci sono altre soluzioni. Abbracciare la Croce vuol dire stare con Gesù nella stagione della sofferenza per partecipare alla Sua Luce. E Nino è nella luce di Dio».
            Nino è nato al Cielo il 2 marzo 2007, dopo aver ininterrottamente festeggiato dal 1982 il 6 maggio (giorno della caduta) quale “anniversario della Croce”.
            Dopo la morte, viene vestito con la tuta e le scarpe da ginnastica, affinché, come aveva detto, «nel mio ultimo viaggio verso Dio, potrò corrergli incontro».
            Don Giovanni d’Andrea, ispettore dei Salesiani di Sicilia ci invita così a «… conoscere sempre meglio e sempre più la persona di Nino ed il suo messaggio di speranza. Anche noi come Nino vogliamo indossare “tuta e scarpette” e “correre” sulla strada della santità che vuol dire realizzare il Sogno di Dio per ciascuno di noi, un Sogno che ognuno di noi è: l’essere “felici nel tempo e nell’eternità”, come don Bosco scrisse nella sua Lettera da Roma, il 10 maggio 1884».
            Nel suo testamento spirituale Nino ci esorta a «non lasciarlo senza far nulla»: la sua Causa di Beatificazione e Canonizzazione è, ora, lo strumento, messo a disposizione dalla Chiesa per imparare a conoscerlo e ad amarlo sempre più, a incontrarlo come amico ed esempio nella sequela di Gesù, a rivolgersi a lui nella preghiera, chiedendogli quelle grazie che sono arrivate già numerosissime.
            «La testimonianza di Nino – auspica il Postulatore Generale don Pierluigi Cameroni sdb – sia segno di speranza per quanti sono nella prova e nel dolore, e per le nuove generazioni, perché possano imparare ad affrontare la vita con fede e coraggio, senza scoraggiarsi e abbattersi. Nino ci sorride e ci sostiene perché, come lui, possiamo fare la nostra “corsa” verso la gioia del cielo».
            Infine il vescovo Rumeo, al termine della Sessione di chiusura dell’Inchiesta diocesana, ha detto: «È una gioia grande aver raggiunto questo traguardo per Nino e soprattutto per la Chiesa di Noto, dobbiamo pregare Nino, bisogna intensificare la preghiera, dobbiamo chiedere qualche grazia a Nino perché possa intercedere dal cielo. È un invito a noi a camminare sulla via della santità. Quella della santità è un’arte difficile perché il cuore della santità è il Vangelo. Essere santi significa accogliere la parola del Signore: a chi ti percuote la guancia, porgi anche l’altra, a chi ti chiede il mantello offri anche la tunica. Questa è la santità! […] In un mondo dove prevale l’individualismo dobbiamo scegliere come intendere la vita: o scegliamo la ricompensa degli uomini, o riceviamo la ricompensa di Dio. Lo ha detto Gesù, lui è venuto e rimane segno di contraddizione perché è lo spartiacque, l’anno zero. La venuta di Cristo diventa l’ago della bilancia: o con lui, o contro di lui. Amare e amarci e il claim che deve guidare la nostra esistenza».

Roberto Chiaramonte




Incontro con Vera Grita di Gesù, Serva di Dio

Vera Grita, insieme ad Alexandrina Maria da Costa (di Balazar), entrambe cooperatrici salesiane, sono due testimoni privilegiate di Gesù presente nell’Eucaristia. Sono un dono della Provvidenza alla Congregazione Salesiana e alla Chiesa, che ci ricorda le ultime parole del Vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

L’invito a un incontro
            Tra le figure di santità della Famiglia Salesiana, è stata inserita negli ultimi anni Vera Grita (1923-1969), laica, consacrata con voti privati, salesiana cooperatrice, mistica. Vera è oggi Serva di Dio (si è conclusa la Fase diocesana ed è attualmente in corso la Fase romana della Causa) e la sua rilevanza per noi deriva essenzialmente da due ragioni: come cooperatrice, essa appartiene carismaticamente alla grande Famiglia di don Bosco e la possiamo sentire “sorella”; come mistica, il Signore Gesù le ha “dettato” l’Opera dei Tabernacoli Viventi (un’Opera eucaristica di respiro ecclesiale ampio) che, per volontà del Cielo, è affidata anzitutto ai salesiani. Gesù chiama con forza i salesiani perché conoscano, vivano, approfondiscano e testimonino questa Sua Opera d’Amore nella Chiesa, per ogni uomo. Conoscere Vera Grita significa quindi, oggi, prendere consapevolezza di un dono grande fatto alla Chiesa per il tramite dei figli di don Bosco e sintonizzarsi con la richiesta di Gesù che siano proprio i salesiani a custodire tale tesoro prezioso e donarlo agli altri, rimettendosi profondamente in gioco.
            Che poi quest’Opera sia anzitutto eucaristica (… “Tabernacoli viventi”) e mariana (Maria Immacolata, Addolorata e Ausiliatrice Madre dell’Opera) non può che riportare al “sogno delle due colonne” di don Bosco, in cui la nave della Chiesa trova sicurezza dall’attacco dei nemici ancorandosi alle due colonne della Vergine Maria e della Santissima Eucaristia.
            C’è quindi una grande, costitutiva salesianità che attraversa la vita di Vera: questo ci aiuta a sentirla vicina, una nuova amica e sorella nello spirito. Lei ci prende per mano e conduce – con la dolcezza e forza sue tipiche – a un incontro rinnovato e di grande bellezza con Gesù Eucaristia, perché sia ricevuto e portato agli altri. È – anche questo – un gesto di preparazione al Natale, perché Maria («tabernacolo d’oro») porta e dona Gesù a noi: il Verbo della vita (cf. 1Gv. 1,1), fatto carne (cf. Gv. 1,14).

Profilo biografico-spirituale di Vera Grita
            Vera Grita nasce a Roma il 28 gennaio 1923, secondogenita delle quattro figlie di Amleto Grita e Maria Anna Zacco della Pirrera. I genitori sono originari della Sicilia: Amleto appartiene a una famiglia di fotografi; donna Maria Anna è figlia di un barone modicano e, sposandosi contro la volontà del padre, aveva perso ogni privilegio e la possibilità stessa di coltivare qualsivoglia legame con la famiglia d’origine, per sempre. Vera nasce da uno strappo affettivo, ma anche da un grande amore cui i genitori sapranno rimanere fedeli attraverso molte prove.
            L’antifascismo di papà Amleto, un furto di strumentazione fotografica e soprattutto la Crisi del 1929-30 hanno gravi ripercussioni sui Grita: in poco tempo, si ritrovano poveri e impossibilitati a provvedere alla crescita delle figlie. Così, mentre Amleto, Maria Anna e la figlia minore Rosa restano uniti e ricominciano da Savona in Liguria, Vera cresce con le sorelle Giuseppina e Liliana a Modica presso zie paterne: donne di fede e di talento, pienamente nel mondo ma “non del mondo” (cf. Gv. 17). A Modica – la città siciliana patrimonio dell’UNESCO per gli splendori del suo Barocco – Vera frequenta le Figlie di Maria Ausiliatrice e riceve Prima Comunione e Cresima. È attratta dalla vita di preghiera e attenta alle necessità del prossimo, tacendo le proprie sofferenze per fare da “mamma” alla sorellina Liliana. Il giorno della prima Comunione non vorrebbe più togliersi l’abito bianco, perché è consapevole del valore di quanto vissuto e di tutto ciò che lo significa.
            Rientrata in famiglia nel 1940, Vera consegue il diploma magistrale. La morte precoce di papà Amleto nel 1943 la obbliga ad aiutare la famiglia col lavoro, rinunciando però al desiderato insegnamento.
            Il 3 luglio 1944 – a 21 anni e mentre cerca riparo da un bombardamento aereo – Vera viene travolta e calpestata dalla folla in fuga: rimane a terra per ore, lacera, contusa, con gravi lesioni, creduta morta. Il suo fisico resta segnato per sempre e, nel tempo, si assommeranno patologie come il Morbo di Addison (che priva dell’ormone deputato alla gestione dello stress) e continui interventi chirurgici, tra cui la rimozione dell’utero in giovane età. I fatti del 3 luglio e il quadro clinico compromesso le impediscono di formarsi una famiglia, come avrebbe desiderato. «Da allora fu tutto un susseguirsi di ricoveri ospedalieri, operazioni, analisi, dolori lancinanti alla testa e a tutto il corpo. Furono diagnosticate malattie terribili, si tentarono svariate cure. Gli organi colpiti non rispondevano alle cure e, in quell’inspiegabile disordine, uno dei suoi medici curanti, meravigliato [,] dichiarò: “Non si capisce come sia possibile che la paziente possa aver trovato un suo equilibrio”».
            Per 25 anni, sino al termine della vita terrena, Vera Grita porta con coraggio una sofferenza che si approfondirà in morale e spirituale ed ella velerà di discrezione e sorriso, senza smettere di dedicarsi agli altri. Il suo diventa un corpo “greve” (anche se grazioso: Vera ebbe sempre tanta femminilità ed era bella), un corpo che ad ogni passo impone vincoli, lentezze, fatiche.
            Trentacinquenne, realizza con gran forza di volontà il sogno di insegnare e dal 1958 al 1969 è maestra in scuole quasi tutte dell’entroterra ligure: difficili da raggiungere, con classi piccole e studenti talvolta disagiati o ipodotati ai quali dona fiducia, comprensione e gioia, arrivando a rinunciare alle medicine per acquistare i ricostituenti necessari alla loro crescita. Anche in famiglia, è con le nipoti più “mamma” della loro mamma, attestando una finissima sensibilità educativa e una capacità generativa unica, umanamente indeducibile dalle sue condizioni così provate (cf. Is. 54). Quando il rapporto con gli altri, le situazioni, i problemi sembrano prendere il sopravvento e Vera sperimenta un umano scoraggiamento o avrebbe la tentazione di ribellarsi, per un percepito senso di ingiustizia, sa poi rileggere la vicenda alla luce del vangelo e ricordarsi del suo “posto” di “piccola vittima”: «Oggi […] – scriverà un giorno al padre spirituale – vedo le cose nel loro valore». «Restiamo calmi nell’obbedienza», le raccomanda questo sacerdote.
            Il 19 settembre 1967, mentre pregava dinanzi al Santissimo Sacramento esposto nella chiesetta di Maria Ausiliatrice in Savona, aveva avvertito interiormente il primo di una lunga serie di Messaggi che il Cielo le comunica nel breve spazio d’un biennio e costituiscono l’«Opera dei Tabernacoli Viventi»: Opera d’Amore con cui Gesù Eucaristia vuol essere conosciuto, amato e portato alle anime, in un mondo che Lo crede e Lo cerca sempre meno. È per lei l’inizio di un rapporto di crescente pienezza con il Signore, che entra nel suo quotidiano con la Sua Presenza, dentro un dialogo concreto come quello di due innamorati, partecipe dell’esistere di Vera in tutto (Gesù detta pensieri propri anche mentre Vera scrive una lettera, così la lettera è scritta a “quattro mani”, con la più grande familiarità). Dal «portare a Gesù» al «portare Gesù»: Lui!
            Vera sottopone ogni cosa al padre spirituale e all’obbedienza alla Chiesa, con un alto concetto della dipendenza da essi, tanta obbedienza, una immensa umiltà: Gesù aveva preso una “maestra” e l’aveva messa alla scuola del Suo Amore, insegnandole tramite i Messaggi e soprattutto richiamandola alla coerenza di fede e vita. È uno Sposo dolcissimo eppure assai esigente nell’allenarla al cammino virtuoso: ricorre alle immagini dello scavare, del lavoro, dello scalpello, del martello con i suoi “colpi” per insegnare a Vera quanto debba togliere da lei, quanto lavoro vada fatto in un’anima perché sia vero Tempio della Presenza di Dio: «Io sto lavorando in te a colpi di scalpello […]. Le aridità, le croci piccole e grandi, sono il mio martello. Quindi, a intervalli arriverà il colpo, il mio colpo. Devo portar via da te molte, molte cose: la resistenza al mio amore, la sfiducia, i timori, l’egoismo, ansie inutili, pensieri non cristiani, abitudini mondane». La docilità di Vera è ascesi di ogni giorno, umiltà di chi tocca il limite ma lo rende disponibile all’onnipotenza e alla misericordia di Dio. Gesù, attraverso di lei, insegna un cammino di santità che – se evidentemente è orientato a poter accogliere la pienezza della Sua Vita – si esprime attraverso un “meno” di ciò che siamo e Gli oppone resistenza: santità… per “sottrazione”, per diventare trasparenza di Lui. La prima caratteristica del Tabernacolo è, infatti, l’essere vuoto e disposto ad accogliere una Presenza. Come ha scritto la Maestra delle novizie di un Monastero di Benedettine del Santissimo Sacramento: «I pensieri che scrive sono di Gesù. Quanta pulizia anche nei testi! A volte, anche nei diari spirituali di anime sante e belle, quanta soggettività emerge […] ed è giusto sia così. […] Vera [invece] scompare, non c’è lei [,] non si racconta» (cf.).
            Vera un giorno scriverà: «I miei alunni sono parte di me, del mio amore per Gesù». È il frutto maturo di una vita eucaristica che fa di lei “pane spezzato” con l’Unica Vittima. Senza Gesù, non poteva più vivere: «Voglio Gesù in qualsiasi modo. Non posso più vivere senza Lui, non posso». Un’affermazione “ontologica” che dice il legame indissolubile tra lei e il suo Sposo eucaristico.
            Vera Grita aveva ricevuto un primo Messaggio, seguito da ben 8 anni di silenzio, ad Alpicella (Savona) il 6 ottobre 1959. Aveva emesso il 2 febbraio 1965 i voti di castità perpetua e “piccola vittima” per i sacerdoti, da lei serviti con particolare delicatezza e dedizione. Diventa Cooperatrice salesiana il 24 ottobre 1967. Ama intensamente Maria, cui si era consacrata, e vive il rapporto filiale a Lei anche nello spirito della “schiavitù d’amore” del Montfort. Più tardi si offrirà per intenzioni diverse, di respiro ecclesiale: in particolare per i sacerdoti che con il “Sessantotto” abbandonavano la vocazione, eppure restavano figli amati, mai lontani dal Cuore di Cristo come Egli stesso assicura.
            Ritenuta degna di fede, molto amata e stimata, con fama di santità, Vera muore all’Ospedale “Santa Corona” di Pietra Ligure (Savona) il 22 dicembre 1969 per shock ipovolemico da emorragia massiva e conseguente insufficienza multiorgano: “sposa di sangue”, come era stata chiamata da Gesù nei Messaggi, ben prima di comprendere cosa ciò significasse.
            Pochi istanti dopo il cappellano – con gesto altrettanto spontaneo quanto inusuale – ne alza le spoglie al Cielo, pregando e tutto offrendo, presentando Vera quale offerta gradita: consummatum est! Era l’ultimo di una serie di gesti che scandiscono la vita della Serva di Dio e che, in altro modo, lei stessa aveva compiuto: il segno di croce grande; la genuflessione ben fatta, lentamente; la Scala Santa in ginocchio con i Libretti in cui trascriveva i Messaggi dell’Opera; l’offerta di sé portata anche in San Pietro. Quando non comprendeva, nella stanchezza e talvolta nel dubbio, Vera Grita faceva: sapeva che più importante non era il suo sentire, ma l’oggettività dell’Opera di Dio in lei e attraverso di lei. Di sé aveva scritto: «io sono “terra” e a nulla servo se non a scrivere sotto dettatura»; «A volta capisco e non capisco»; «Gesù non mi lasci ma si serva di questo straccetto per i Suoi Piani divini». Il direttore spirituale, stupefatto, un giorno commentava – in riferimento alle parole dei Messaggi –: «le trovo splendide, addirittura beatificanti. E lei come fa a rimanere arida?». Vera non aveva mai guardato a sé e, come per ogni mistico, una più forte luce era divenuta per lei notte oscura, tenebra luminosa, prova della fede.
            8 anni dopo, il 22 settembre 1977, Papa Paolo VI (già destinatario di alcuni Messaggi dell’Opera, e che nel 1972 aveva istituito i ministri straordinari dell’Eucaristia), riceve in udienza il padre spirituale di Vera Grita, don Gabriello Zucconi sdb, e benedice l’Opera dei Tabernacoli Viventi.
            Il 18 maggio 2023 il Vescovo di Savona-Noli, Mons. Calogero Marino, ha «approvato gli Statuti dell’Associazione “Opera dei Tabernacoli Viventi” e in data 19 maggio l’ha eretta come Associazione privata di fedeli, riconoscendone anche la personalità giuridica». Il Rettor Maggiore dei Salesiani, Card. Artime, già nel 2017 autorizzava e incaricava la Postulazione SDB ad «accompagnare tutti i passi necessari perché l’Opera […] continui ad essere studiata, promossa nella nostra Congregazione e riconosciuta dalla Chiesa, in spirito di obbedienza e di carità».

Essere e diventare “Tabernacoli Viventi”
            Al centro dei Messaggi a Vera c’è Gesù Eucaristia: tutti abbiamo esperienza dell’Eucaristia, tuttavia occorre notare (cf. il teologo p. François-Marie Léthel, ocd) come la Chiesa abbia approfondito nel tempo la pregnanza del Sacramento dell’Altare, di scoperta in scoperta: per esempio dalla celebrazione alla Riserva eucaristica e dalla Riserva all’Esposizione durante l’Adorazione del Santissimo Sacramento… Gesù chiede, tramite Vera, un passaggio ulteriore: dall’Adorazione in chiesa, dove occorre recarsi per incontrarLo, a quel “Portami con te!” (cf. infra) tramite il quale Egli stesso, avendo fatto dimora nel suo Tabernacolo Vivente (noi), vuole uscire dalle chiese per raggiungere chi – nella chiese – spontaneamente non entrerebbe; chi non Lo crede; non Lo cerca; non Lo ama o addirittura Lo esclude lucidamente dal proprio esistere. La grazia carismatica legata all’Opera è infatti quella della permanenza eucaristica di Gesù nell’anima, di modo che chiunque riceve Gesù-Eucaristia nella Santa Messa e vive sensibile ai Suoi richiami e alla Sua Presenza, Lo irradi nel mondo, ad ogni fratello e specialmente ai più bisognosi. Vera Grita diventa, così, l’esempio e il modello (nel senso letterale del termine: chi ha già vissuto quello che a ciascuno è richiesto) di una vita trascorsa in un profondo corpo-a-Corpo col Signore Eucaristico, finché sarà Egli stesso a guardare, parlare, agire, per mezzo dell’“anima” che Lo porta e dona. Dice Gesù: «Io mi servirò del vostro modo di parlare, di esprimervi, per parlare, per arrivare alle altre anime. Datemi le vostre facoltà, perché io possa incontrarmi con tutti e in ogni luogo. Sull’inizio sarà per l’anima un lavoro di attenzione, di vigilanza, per scartare da sé tutto ciò che pone ostacolo alla mia Permanenza in lei. Le mie grazie nelle anime chiamate a quest’Opera, saranno graduali. Oggi tu porti di Me in famiglia, il mio bacio; un’altra volta, qualcosa di più e sempre più ancora, finché quasi all’insaputa dell’anima stessa, io farò, agirò, parlerò, amerò, attraverso lei quanti si avvicineranno a quest’anima, e cioè a Me. C’è chi agisce, parla, guarda, opera sentendosi guidato solo dal mio Spirito ma io sono già Tabernacolo Vivente in quest’anima, ed essa non lo sa. Deve però saperlo, perché io voglio la sua adesione alla mia PERMANENZA EUCARISTICA nella sua anima; voglio che quest’anima mi dia anche la sua voce per parlare agli altri uomini, i suoi occhi perché i miei incontrino lo sguardo dei fratelli, le sue braccia perché io possa abbracciare altri, le sue mani, per carezzare i piccoli, i bambini, i sofferenti. Quest’Opera ha però per base l’amore e l’umiltà. L’anima deve avere sempre innanzi a sé le proprie miserie, le proprie nullità, e mai dimenticare di quale pasta è stata impastata» (Savona, 26 dicembre 1967).
            Si comprende allora anche un ulteriore aspetto della pertinenza “salesiana” del carisma: l’essere per gli altri; inviati in particolare ai piccoli, ai poveri, agli ultimi, ai lontani; il vivere un’«interiorità apostolica» che significa essere tutti in Dio e tutti per il fratello; la grande dolcezza di chi non porta se stesso, ma irradia la mitezza, la mansuetudine e la gioia del Signore crocifisso e risorto; l’attenzione privilegiata ai giovani, chiamati anch’essi a partecipare di questa vocazione.
            Vera – che in vita ebbe per confessore un salesiano (don Giovanni Bocchi) e salesiani anche il padre spirituale (don Gabriello Zucconi) e un “referente” dell’esperienza mistica (don Giuseppe Borra) – torna oggi a bussare alla porta dei figli di don Bosco. L’Opera stessa nasce a Torino, nella culla del carisma salesiano.

Riferimenti bibliografici:
Centro Studi “Opera dei Tabernacoli Viventi” (a cura di), Portami con Te! L’Opera dei Tabernacoli Viventi nei manoscritti originali di Vera Grita, ElleDiCi, Torino 2017.
Centro Studi “Opera dei Tabernacoli Viventi” (a cura di), Vera Grita una mistica dell’Eucaristia. Epistolario di Vera Grita e dei Sacerdoti Salesiani don G. Bocchi, don G. Borra e don G. Zucconi, ElleDiCi, Torino 2018.
Entrambi i testi includono Studi di contestualizzazione storico-biografica, teologico-spirituale, salesiana ed ecclesiale dell’Opera.

Madre di Gesù, Madre del bell’Amore, dà amore al mio povero cuore, dà purezza e santità alla mia anima, dà volontà al mio carattere, dà lumi santi alla mia mente, dammi Gesù, dammi il tuo Gesù per sempre”. (Preghiera a Maria che Gesù insegna a Vera Grita)




Il seme crescente del carisma salesiano nella missione del Bangladesh

Abbiamo incontrato don Joseph Cosma Dang, salesiano vietnamita che presta servizio in Bangladesh, che ci ha raccontato la storia e le sfide di questa particolare missione.

Il Bangladesh odierno è un paese formato dopo la divisione dell’India del 1947. La regione di Bengala si divise secondo criteri religiosi: la parte occidentale, induista, rimasta sotto l’India e la parte orientale, musulmana, congiunta al Pakistan come provincia chiamata Bengala orientale e poi rinominata Pakistan orientale. Nel momento della divisione ci furono milioni di indù che emigrarono dal Bangladesh all’India e alcune migliaia di musulmani che si spostarono all’India al Bangladesh. Si capisce che il carattere religioso di questa divisione e migrazione a una grande importanza nella vita di questo popolo numeroso, di circa 170 milioni di persone, dai quali più di 89% sono musulmani, 9% induisti, 1% buddisti e 1% cristiani.
Il paese divenne indipendente dal Pakistan nel 1971 e attualmente è un paese in via di sviluppo che sta affrontando molte sfide, nonostante la sua ricchezza culturale. Molti bambini non frequentano le scuole e passano il loro tempo ad aiutare le famiglie a trovare un modo per sopravvivere, pescando, cercando legna da ardere o in altri modi. I servizi sanitari sono insufficienti per la popolazione, e tanti abitanti non possono permettersi le spese mediche.

In questa complessa situazione, i salesiani hanno sentito la chiamata di Dio a servire in questo paese, in particolare per la mancanza di pastori cattolici e per l’enorme numero di giovani emarginati e poveri. Nel 2009 don Francis Alencherry, che era Consigliere Generale per le Missioni, ha gettato le prime fondamenta della missione salesiana nella diocesi di Mymensingh come risposta all’invito del Vescovo locale. La missione, sotto l’Ispettoria di Kolkata (INC), si è sviluppata rapidamente con l’aiuto di altri missionari, tra cui don Joseph Cosma Dang, proveniente dal Vietnam, che è arrivato il 29 ottobre 2012, in occasione della festa del Beato Michele Rua, dopo un interminabile periodo di diciotto mesi di attesa per il visto. Gradualmente, il numero delle case salesiane, degli ostelli, delle scuole, dei centri giovanili, delle chiese parrocchiali e delle cappelle dei villaggi cresce al servizio dei giovani poveri e delle esigenze pastorali della chiesa locale. Attualmente, i salesiani sono presenti in due comunità canoniche composte da 5 presenze stabili: Utrail-Telunjia a Mymensingh, Lukhikul-Khonjonpur a Rajshahi, Moushair a Dhaka. Vedendo ciò che i salesiani stanno facendo, le autorità ecclesiastiche locali hanno espresso il loro riconoscimento e apprezzamento, e alcuni vescovi sono ancora in attesa di una presenza salesiana nelle loro diocesi.

Quest’opera è un seme della Chiesa che sta lentamente crescendo grazie all’aiuto di molti benefattori e collaboratori. La Provvidenza sta benedicendo il Bangladesh con vocazioni salesiane locali: 14 giovani salesiani professi provengono dalla terra del Bangladesh; tra questi, cinque giovani hanno emesso la professione perpetua e poco più tardi, entro il 19 maggio 2024, altri 4 giovani salesiani emetteranno i voti definitivi e si impegneranno in modo permanente per il “Da mihi animas, cetera tolle”. Recentemente è stato ordinato il primo sacerdote salesiano del Bangladesh, don Victor Mankhin. I salesiani si occupano di animazione vocazionale organizzando regolarmente ogni anno il campo vocazionale “Vieni e vedi” per invitare i giovani che hanno il desiderio di diventare salesiani. Il carisma salesiano si è radicato e sembra che, in cielo, don Bosco sorrida e si prenda cura del Bangladesh.

Don Joseph Cosma Dang racconta la sua vita missionaria come esperienza di fede del mistero dell’incarnazione, che cos’è la seconda nascita. “Ho dovuto imparare a mangiare, a parlare nuove lingue e a vivere con la gente del posto. Ho imparato a fare molti lavori a cui non avevo mai pensato prima di venire in Bangladesh. Con la mentalità dell’apprendimento, mi sono aperto alle nuove situazioni e alle nuove sfide con un occhio sorprendente”.
La crescita della fede è il dono più prezioso concesso da Dio. Senza dubbio, Dio è il fornitore, l’autore e noi siamo semplici collaboratori.

Marco Fulgaro




Il sogno dei dieci diamanti

Uno dei sogni più famosi di don Bosco fu quello chiamato “Sogno dei dieci diamanti” fatto nel settembre 1881. È un sogno ammonimento che non perderà mai nulla del suo valore, sicché sarà sempre vera la dichiarazione fatta da don Bosco ai superiori: «I mali minacciati saranno prevenuti, se noi predicheremo sopra le virtù e i vizi ivi notati.». Don Lemoyne c’è lo racconta nelle Memorie Biografiche (XV, 182-184).

Quasi per rialzare l’animo a Don Bosco, sicché il peso di tante contrarietà piccole e grandi non glielo accasciasse, il cielo, diremmo così, si abbassava di tratto in tratto fino a lui sotto forma d’illustrazioni superne, che lo confermavano nella incoraggiante certezza della missione affidatagli dall’alto. Nel mese di settembre egli ebbe uno de’ suoi sogni più importanti, che, prospettandogli le sorti della Congregazione in un prossimo avvenire, gliene svelava i grandiosi incrementi, ma insieme gli scopriva i pericoli che minacciavano di annientarla, se non si correva in tempo ai ripari. Le cose vedute e udite lo impressionarono talmente, che non si contentò di esporle a voce, ma le mise anche per iscritto. L’originale oggi è smarrito; ce ne sono per altro pervenute numerose copie, che tutte concordano a meraviglia.

Spiritus Sancti gratia, illuminet sensus et corda nostra. Amen.

Ad ammaestramento della Pia Società Salesiana.
Il dieci settembre anno corrente (1881), giorno che S. Chiesa consacra al glorioso Nome di Maria, i Salesiani, raccolti in S. Benigno Canavese, facevano gli Esercizi Spirituali.
Nella notte del 10 all’11, mentre dormiva, la mente si trovò in una gran sala splendidamente ornata. Mi sembrava di passeggiare coi Direttori delle nostre Case, quando apparve tra noi un uomo di aspetto così maestoso, che non potevamo reggerne la vista. Datoci uno sguardo senza parlare, si pose a camminare a distanza di qualche passo da noi. Egli era così vestito: Un ricco manto a guisa di mantello gli copriva la persona. La parte più vicina al collo era come una fascia che si rannodava davanti, ed una fettuccia gli pendeva sul petto. Sulla fascia stava scritto a caratteri luminosi: Pia Salesianorum Societas anno 1881 (Società Salesiana nell’anno 1881), e sulla striscia d’essa fascia portava scritte queste parole: Qualis esse debet (Come dovrebbe essere). Dieci diamanti di grossezza e splendore straordinario erano quelli che c’impedivano di fermare lo sguardo, se non con gran pena, sopra quell’Augusto Personaggio. Tre di quei diamanti erano sul petto, ed era scritto sopra di uno Fides (Fede), sull’altro Spes (Speranza), e Charitas (Carità) su quello che stava sul cuore. Il quarto diamante era sulla spalla destra, ed aveva scritto Labor (Lavoro); sopra il quinto nella spalla sinistra si leggeva Temperantia (Temperanza). Gli altri cinque diamanti ornavano la parte posteriore del manto, ed erano così disposti: uno più grosso e più folgoreggiante stava in mezzo come il centro di un quadrilatero, e portava scritto Obedientia (Obbedienza). Sul primo a destra si leggeva Votum Paupertatis (Voto di povertà). Sul secondo più abbasso Praemium (Premio). Nella sinistra sul più elevato era scritto Votum Castitatis (Voto di castità). Lo splendore di questo mandava una luce tutta speciale, e mirandolo traeva e attraeva lo sguardo come la calamita tira il ferro. Sul secondo a sinistra più abbasso stava scritto Ieiunium (Digiuno). Tutti questi quattro ripiegavano i luminosi loro raggi verso il diamante del centro.
Questi brillanti tramandavano dei raggi che a guisa di fiammelle si alzavano e portavano scritto qua e colà varie sentenze.

Sulla Fede si elevavano le parole: Sumite scutum Fidei, ut adversus insidias diaboli certare possitis (Prendete lo scudo della fede, per combattere le insidie ​​del demonio). Altro raggio aveva: Fides sine operibus mortua est. Non auditores, sed factores legis regnum Dei possidebunt (La fede senza le opere è morta. Non chi ascolta, ma chi pratica la legge possederà il regno di Dio).

Sui raggi della Speranza: Sperate in Domino, non in hominibus. Semper vestra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia (Sperate nel Signore, non negli uomini. I vostri cuori siano sempre fissi dove le sono vere gioie).

Sui raggi della Carità: Alter alterius onera portate, si vultis adimplere legem meam. Diligite et diligemini. Sed diligite animas vestras et vestrorum. Devote divinum officium persolvatur; missa attente celebretur; Sanctum Sanctorum peramanter visitetur (Portate gli uni i pesi degli altri, se volete compiere la mia legge. Amate e sarete amati. Ma amate le anime vostre e le altrui. Recitate devotamente l’ufficio divino, celebrate la santa Messa con attenzione, visitate con amore il Santo dei Santi).

Sulla parola Lavoro: Remedium concupiscentiae, arma potens contra omnes insidias diaboli (Rimedio contro la concupiscenza, un’arma potente contro tutte le tentazioni del demonio).

Sulla Temperanza: Si lignum tollis, ignis extinguitur. Pactum constitue cum oculis tuis, cum gula, cum somno, ne huiusmodi inimici depraedentur animas vestras. Intemperantia et castitas non possunt simul cohabitare (Se rimuovi la legna il fuoco si spegne. Fa’ un patto con i tuoi occhi, con la gola e col sonno, affinché tali nemici non depredino le vostre anime. Intemperanza e castità non possono coesistere insieme).

Sui raggi dell’Obbedienza: Totius aedificii fundamentum, et sanctitatis compendium (È la base e il coronamento dell’edificio della santità).

Sui raggi della Povertà: Ipsorum est Regnum coelorum. Divitiae spinae. Paupertas non verbis, sed corde et opere conficitur. Ipsa coeli ianuam aperiet et introibit (È dei poveri il regno dei Cieli. Le ricchezze sono spine. La povertà non si vive a parole, ma con l’amore e con i fatti. Essa ci apre le porte del Cielo).

Sui raggi della Castità: Omnes virtutes veniunt pariter cum illa. Qui mundo sunt corde, Dei arcana vident, et Deum ipsum videbunt. (Tutte le virtù si accompagnano ad essa. Coloro che sono puri nel cuore vedono i misteri di Dio e vedranno Dio stesso).

Sui raggi del Premio: Si delectat magnitudo praemiorum, non deterreat multitudo laborum. Qui mecum patitur, mecum gaudebit. Momentaneum est quod patimur in terra, aeternum est quod delectabit in coelo amicos meos (Se vi attrae la grandezza dei Premi, non vi spaventi la quantità delle fatiche. Chi soffre con Me, con Me godrà. È momentaneo ciò che soffiamo sulla terra, eterno è ciò che farà gioire i miei amici nel Cielo).

Sui raggi del Digiuno: Arma potentissima adversus insidias inimici. Omnium Virtutum Custos. Omne genus daemoniorum per ipsum eiicitur (È l’arma più potente contro le insidie del demonio. Il custode di tutte le virtù. Col digiuno si scaccia ogni sorta di demoni).

Un largo nastro a color di rosa serviva d’orlo nella parte inferiore del manto, e sopra questo nastro era scritto: Argumentum praedicationis. Mane, meridie et vespere. Colligite fragmenta virtutum et magnum sanctitatis aedificium vobis constituetis. Vae vobis qui modica spernitis, paulatim decidetis. (Argomento di predicazione. Al mattino, a mezzogiorno e a sera.
Fate tesoro delle piccole azioni virtuose e vi costruirete un grande edificio di santità.
Guai a voi che disprezzate le piccole cose. A poco a poco andrete in rovina).

Fino allora i Direttori erano chi in piedi, chi in ginocchio, ma tutti attoniti e niuno parlava. A questo punto Don Rua come fuor di sé disse: Bisogna prendere nota per non dimenticare. Cerca una penna e non la trova; cava fuori il portafoglio, fruga e non ha la matita. Io mi ricorderò, disse Don Durando. Io voglio notare, aggiunse Don Fagnano, e si pose a scrivere col gambo di una rosa. Tutti miravano e comprendevano la scrittura. Quando Don Fagnano cessò di scrivere, Don Costamagna continuò a dettare così: La Carità capisce tutto, sopporta tutto, vince tutto; predichiamola colle parole e coi fatti.

Mentre Don Fagnano scriveva, scomparve la luce, e tutti ci trovammo in folte tenebre. Silenzio, disse Don Ghivarello, inginocchiamoci, preghiamo, e la luce verrà. Don Lasagna cominciò il Veni Creator, poi il De Profundis, Maria Auxilium Christianorum, a cui tutti rispondemmo. Quando fu detto: Ora pro nobis, riapparve una luce, che circondava un cartello in cui si leggeva: Pia Salesianorum Societas qualis esse periclitatur anno salutis 1900. (La Pia Società Salesiana quale pericolo corre di diventare nell’anno 1900). Un istante dopo la luce divenne più viva a segno che potevamo vederci e conoscerci a vicenda.
In mezzo a quel, bagliore apparve di nuovo il Personaggio di prima, ma con aspetto malinconico simile a colui che comincia a piangere. Il suo manto era divenuto scolorato, tarlato e sdrucito. Nel sito dove stavano fissi i diamanti eravi invece in profondo guasto cagionato dal tarlo e da altri piccoli insetti.
Respicite (guardate) Egli ci disse, et intelligite (comprendete). Ho veduto che i dieci diamanti erano divenuti altrettanti tarli che rabbiosi rodevano il manto.
Pertanto al diamante della Fides erano sottentrati: Somnus et accidia (Il sonno e l’accidia).
A Spes: Risus et scurrilitas (Risate e banalità sconce).
A Charitas: Negligentia in divinis perficiendis. Amant et quaerunt quae sua sunt, non quae Iesu Christi. (Negligenza nel darsi alle cose di Dio. Amano e cercano ciò che è loro gusto, non le cose di Gesù Cristo).
A Temperantia: Gula, et quorum Deus venter est (Gola: loro dio è il ventre).
A Labor: Somnus, furtum, et otiositas (Sonno, furto e ozio).
Al posto dell’Obedientia eravi nient’altro che un guasto largo e profondo senza scritto.
A Castitas: Concupiscentia oculorum et superbia vitae (La concupiscenza degli occhi e superbia della vita).
A Povertà era succeduto: Lectus, habitus, potus et pecunia (Letto, vestito, bevande e denaro).
A Praemium: Pars nostra erunt quae sunt super terram (Nostra eredità saranno i beni della terra).
A Ieiunium eravi un guasto, ma niente di scritto.
A quella vista fummo tutti spaventati. Don Lasagna cadde svenuto, Don Caglierò divenne pallido come una camicia, e appoggiandosi sopra una sedia gridò: Possibile che le cose siano già a questo punto? Don Lazzero e Don Guidazio stavano come fuori di sé, e si porsero la mano per non cadere. Don Francesia, il conte Cays, Don Barberis e Don Leveratto erano inginocchiati pregando con in mano la corona del SS. Rosario.
In quel tempo si fa intendere una cupa voce: Quomodo mutatus est color optimus! (Come è svanito quello splendido colore!)

Ma nell’oscurità succedette un fenomeno singolare. In un istante ci trovammo avvolti in folte tenebre, nel cui mezzo apparve tosto una luce vivissima, che aveva forma di corpo umano. Non potevamo tenerci sopra lo sguardo, ma potevamo scorgere che era un avvenente giovanetto vestito di abito bianco lavorato con fili d’oro e d’argento. Tutto attorno all’abito vi era un orlo di luminosissimi diamanti. Con aspetto maestoso, ma dolce ed amabile si avanzò alquanto verso di noi, e ci indirizzò queste parole testuali:
Servi et instrumenta Dei Omnipotentis, attendite et intelligite. Confortamini et estote robusti. Quod vidistis et audistis, est coelestis admonitio, quae nunc vobis et fratribus vestris facta est; animadvertite et intelligite sermonem. Iaculo, praevisa minus feriunt, et praeveniri possunt. Quot sunt verbo signata, tot sint argumenta praedicationis. Indesinenter praedicate opportune et importune. Sed quae praedicatis, constanter facite, adeo ut opera vestra sint velut lux, quae sicuti tuta traditio ad fratres et filios vestros pertranseat de generatione in generationem. Attendite et intelligite. Estate oculati in tironibus acceptandis, fortes in colendis, prudentes in admittendis. Omnes probate, sed tantum quod bonum est tenete. Leves et mobiles dimittite. Attendite et intelligite. Meditatio matutina et vespertina sit indesinenter de observantia constitutionum. Si id feceritis, numquam vobis deficiet Omnipotentis auxilium. Spectaculum facti eritis mundo et Angelis, et tunc gloria vestra erit gloria Dei. Qui videbunt saeculum hoc exiens et alterum incipiens, ipsi dicent de vobis: A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. Tunc omnes fratres vestri et filii vestri una voce cantabunt: Non nobis, Domine, non nobis; sed Nomini tuo da gloriam.

(Servi e strumenti di Dio Onnipotente, ascoltate e intendete. Siate forti e animosi. Quanto avete veduto e udito è un avviso del Cielo, inviato ora a voi e ai vostri fratelli; fate attenzione e intendete bene quello che vi si dice. I colpi previsti fanno minor ferita e si possono prevenire. De parole indicate, siano tanti argomenti di predicazione. Predicate incessantemente, a tempo e fuori tempo. Ma le cose che predicate fatele sempre, sicché le vostre opere siano come una luce, che sotto forma di sicura tradizione s’irradii sui vostri fratelli e figli di generazione in generazione. Ascoltate bene e intendete. Siate oculati nell’accettare i novizi, forti nel coltivarli, prudenti nell’ammetterli [alla professione]. Provateli tutti, ma tenete soltanto il buono. Mandate via i leggieri e volubili. Ascoltate bene e intendete. Da meditazione del mattino e della sera sia costantemente nell’osservanza regolare. Se ciò farete, non vi verrà meno giammai l’aiuto dell’Onnipotente. Diverrete spettacolo al mondo e agli Angeli e allora la vostra gloria sarà gloria di Dio. Chi vedrà la fine di questo secolo e il principio dell’altro dirà di voi: Dal Signore è stato ciò fatto, ed è ammirabile agli occhi nostri. Allora tutti i fratelli e figli vostri canteranno: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà gloria.)

Queste ultime parole furono cantate, ed alla voce di chi parlava si unì una moltitudine di altre voci così armoniose, sonore, che noi rimanemmo privi di sensi e per non cadere svenuti ci siamo uniti agli altri a cantare. Al momento che finì il canto si oscurò la luce. Allora mi svegliai, e mi accorsi che si faceva giorno.

Pro memoria. Questo sogno durò quasi l’intera notte, e sul mattino mi trovai stremato di forze. Tuttavia pel timore di dimenticarmene mi sono levato in fretta e presi alcuni appunti, che mi servirono come di richiamo a ricordare quanto qui ho esposto nel giorno della Presentazione di Maria SS. al Tempio.
Non mi fu possibile ricordar tutto. Tra le molte cose ho pur potuto con sicurezza rilevare che il Signore ci usa grande misericordia.

La nostra Società è benedetta dal Cielo, ma Egli vuole che noi prestiamo l’opera nostra. I mali minacciati saranno prevenuti, se noi predicheremo sopra le virtù e sopra i vizi ivi notati; se ciò che predichiamo, lo pratichiamo, lo tramanderemo ai nostri fratelli con mia tradizione pratica di quanto si è fatto e faremo.
Ho potuto eziandio rilevare che ci sono imminenti molte spine, molte fatiche, cui terranno dietro grandi consolazioni. Circa il 1890 gran timore, circa il 1895 gran trionfo.
Maria Auxilium Christianorum ora pro nobis (Maria Aiuto dei Cristiani, prega per noi).

Don Rua mise subito in pratica l’ammonimento del Personaggio, che delle cose rivelate si facesse materia di predicazione; poiché tenne ai Confratelli dell’Oratorio una serie di conferenze, nelle quali commentò loro minutamente le due parti del sogno. Il tempo a cui Don Bosco riferiva la doppia eventualità dei trionfi o delle sconfitte, corrispondeva nella Congregazione a quello che nella vita umana è il principio dell’adolescenza, momento delicato e pericoloso, da cui dipende per lo più tutto l’avvenire. Nell’ultimo decennio del secolo scorso il moltiplicarsi delle case e dei soci e l’estendersi dell’opera salesiana in tante nazioni differenti potevano senza dubbio dar luogo a taluno di quei deviamenti dalla linea retta che, se non si arrestano con prontezza, conducono sempre più lontano dalla strada maestra. Ma allo scomparire di Don Bosco la Provvidenza ci aveva fatto trovare nel suo successore la mente illuminata e la volontà energica che per quella fase critica si richiedevano. Don Rua, che si poteva dire benissimo la personificazione vivente di tutto il bello e buono rappresentato nella prima parte del sogno, fu davvero scolta vigile e duce indefesso e autorevole a disciplinare e guidare le novelle schiere per legittimo cammino.
La portata del sogno non ha limite di tempo. Don Bosco diede l’allarme per un momento speciale che doveva seguire alla sua morte; ma il qualis esse debet (Come dovrebbe essere) e il
qualis esse periclitatur (quale pericolo corre) contengono un ammonimento che non perderà mai nulla del suo valore, sicché sarà sempre vera la dichiarazione fatta da Don Bosco ai Superiori: «I mali minacciati saranno prevenuti, se noi predicheremo sopra le virtù e i vizi ivi notati.»




Madre Rosetta Marchese, educatrice salesiana radicata in Cristo

Madre Rosetta Marchese, Serva di Dio, Figlia di Maria Ausiliatrice, fu Superiora Generale dal 1981 al 1984. La fedeltà alle grazie ricevute nel cammino di servizio alla Congregazione lo hanno portata a fare offerta di sé stessa per la salvezza delle anime, offerta che Dio ha gradito.

            La Serva di Dio madre Rosetta Marchese nasce ad Aosta il 20 ottobre 1922 da Giovanni e Giovanna Stuardi. È la primogenita di tre figlie: lei, Anna e Maria Luisa. Nasce in una bella casa di periferia. Rosetta frequenta la scuola materna e le prime tre classi elementari dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. Dal 1928 al 1938 (da 6 anni a 16 anni) è assidua e attiva oratoriana e membro dell’Azione Cattolica. L’ambiente salesiano è vivace, sereno ed è lì che sboccia la sua vocazione.
            All’età di quasi 16 anni, il 15 ottobre 1938, Rosetta entra come aspirante nella Casa “Madre Mazzarello” di Torino. Il 31 gennaio 1939 è ammessa al Postulato. È una giovane semplice, gioiosa, di preghiera e di sacrificio. Il 6 agosto entra in Noviziato. Sul suo tavolino nello studio si legge: “Chi si risparmia non ama, si ama”. Il 5 agosto 1941 emette la prima professione. Presenta alle superiore la domanda per partire come missionaria, ma per l’infuriare della guerra non riceve risposta positiva. Subito dopo la professione, suor Rosetta è inviata a Torino e a Vercelli per prepararsi alla maturità magistrale e per assistere le educande.
            A 21 anni, dal 1943 al 1947, è studente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nella sede di Castel Fogliani (Piacenza). Dal 1947 – anno della sua professione perpetua – al 1957 è destinata alla Casa Missionaria “Madre Mazzarello” di Torino come insegnante, assistente delle educande, responsabile dell’oratorio e delle ex allieve.
            Nel 1957 (a 37 anni) lascia Torino per andare a Caltagirone in Sicilia come direttrice e vi resta fino al 1961. Fondamentale è l’incontro con il vescovo Mons. Francesco Fasola, Servo di Dio, che contribuisce a far emergere dal suo animo intuizioni e grazie latenti. Nel giorno della sua presa di possesso della diocesi di Caltagirone (22 gennaio 1961) intuisce la santità del Vescovo che la guiderà spiritualmente per 23 anni, fino alla morte. Il rapporto con mons. Fasola le spalanca una luce ulteriore sul mistero del sacerdozio tanto che il 2 agosto 1961 suor Rosetta si offre per la santità del vescovo e successivamente per la Chiesa, per la santità dei sacerdoti e per le anime religiose. Nel frattempo, lei stessa affianca come maestra di vita interiore tramite l’accompagnamento spirituale e la relazione epistolare molte religiose. Dal 1961 al 1965 suor Rosetta è direttrice all’Istituto “Gesù Nazareno” di via Dalmazia a Roma. Il suo servizio di animazione coincide con la celebrazione del Concilio Vaticano II.
            Dal 1965 fino al 1971 madre Angela Vespa, superiora generale della FMA, affida a suor Rosetta la grande Ispettoria Romana “S. Cecilia”. Dal 1971 al 1973 è direttrice a Lecco Olate. Poi le viene affidato il governo di un’altra grande Ispettoria, la Lombarda “Maria Immacolata”. Nel Capitolo Generale XVI, il 17 ottobre 1975, viene eletta Consigliera visitatrice.
            Dal 1975 al 1981 visita le Ispettorie del Belgio, Sicilia, Zaire (ora Rep. Dem. del Congo), Francia, Germania, Piemonte. Nel 1981, nel centenario della morte di madre Mazzarello che offrì la vita per l’Istituto, dal 7 al 10 ottobre madre Rosetta vive un’esperienza misteriosa nella casa di fondazione dell’Istituto a Mornese. Una voce nella parrocchia del paese e nella cameretta della Cofondatrice le dice: “Accetta, accetta!”. Il 24 ottobre 1981, nel Capitolo generale XVII, all’unanimità viene eletta Madre generale.
            A Torino, il 24 maggio 1982 una febbre alta è il primo sintomo della malattia che la consumerà: una grave leucemia. Nei suoi taccuini e nel suo epistolario annota che offre la sua vita per la santità dell’Istituto, dei sacerdoti e dei giovani. Tutti si mobilitano con la preghiera incessante ed anche la disponibilità a dare il sangue per le trasfusioni. Suor Ancilla Modesto racconta che le suore del Portogallo chiedono a Suor Lucia di Fatima se può impetrare dalla Madonna la guarigione. Suor Lucia di Fatima ha un nipote salesiano, padre Valihno, il quale il 14 gennaio 1983 va a trovare la Madre al Gemelli portando la statua della Madonna di Fatima e un messaggio di suor Lucia: “L’offerta è stata gradita a Dio”. Negli ultimi giorni confida alla sua vicaria, Madre Leton Maria Pilar, che in quella cameretta a Mornese aveva intuito la sua elezione a Madre generale e la sua morte per la santità delle sorelle e dei sacerdoti. Difatti madre Rosetta nasce al Cielo l’8 marzo 1984 all’età di 61 anni.
            La figura che emerge intrecciando i suoi taccuini personali (1962-1982), il suo epistolario (1961-1983) con Mons. Francesco Fasola (anch’egli Servo di Dio), insieme ad alcune altre lettere, è quella di una donna profondamente mistica, autenticamente salesiana-educatrice, pienamente inserita nel contesto socio-ecclesiale dell’Italia del Concilio e del post-Concilio.
            Consapevole della realtà complessa del suo tempo e aperta al dono della grazia, con la sua esperienza di Dio, dà, in un certo modo, “conferma” delle grandi verità della fede cattolica sull’Eucaristia, la Madonna e la Chiesa, che vennero messe in discussione nella diffusa scristianizzazione tipica del ventennio italiano 1958-1978 e in particolare nella crisi sessantottina con i suoi prolungati riverberi. La sua vita diventa un richiamo all’essenziale e all’immutabile nelle esperienze fluttuanti e complesse del suo tempo, in modo speciale per la Chiesa, per i sacerdoti, per il suo Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, per i laici e laiche della Famiglia Salesiana.
            Madre Rosetta ha una missione specifica: tracciare una linea “riparatoria e affermativa” rispetto alle verità di fede depauperate dalla cultura scristianizzata e ripresentarle con forza e bellezza.

            Dinanzi al materialismo e alla scristianizzazione della cultura, Madre Rosetta vive una forte e viva esperienza della Trinità. Percepisce i primi richiami trinitari fin dai primi anni della sua vita religiosa (1944 a Castelfogliani; 1951 a Torino a Casa Madre Mazzarello; 1959 a Caltagirone), come lei stessa con dovizia racconta:

            «Ho davanti le tappe di questo cammino tracciato da Lui: gli Esercizi dei voti triennali, quando leggendo e meditando il Vangelo di S. Giovanni, fui tutta presa dai sentimenti di Gesù verso il Padre Celeste e fu l’inizio del mio lento lavoro di togliermi da me stessa per gettarmi nella penetrazione del Cuore di Gesù, visto così. Poi verso i dieci anni di professione, le parole di Gesù a Filippo: “chi vede me, vede il Padre”, mi spalancarono verso il Mistero della Trinità e Gesù mi condusse nella gioia della Loro presenza in me, ma molto imperfettamente vissuta e capita da parte mia. Poi sei anni fa, la Madonna mi ha spalancato allo Spirito Santo e allora il Mistero della Trinità mi è diventato sempre più familiare. Il 24 Luglio del ’65, recitando il Gloria durante la S. Messa all’espressione “Figlio del Padre”, ho sentito come tutta la tenerezza del Padre riversarsi sull’anima e da quel momento Gesù mi ha dato una partecipazione più intima ai suoi sentimenti per il Padre Celeste. Da allora ogni giorno la mia invocazione allo Spirito Santo è sempre stata questa e mi pare di poter dire di aver sempre vissuto con questa unica passione di identificarmi a Gesù nel suo amore per il Padre Celeste!» (Marchese Rosetta, Testo dattiloscritto).

            Davanti alla crisi dei sacerdoti e dei fedeli sulla fede nell’Eucaristia, Madre Rosetta vive una intensa vita eucaristica da cui trae la forza e la luce per il vivere quotidiano anche complesso.

            «Ora diciamo tante cose, ma io sono convinta che una sola capovolgerebbe la Congregazione: riuscire a inchiodare ogni giorno le suore dieci minuti davanti al Tabernacolo in una preghiera muta di contemplazione e unione alla Sua Volontà. Tutti i problemi si risolverebbero lì. Cominciamo noi ad essere fedeli perché tutte ci possano arrivare» (Madre Rosetta Marchese, Lettera a suor Elvira Casapollo, Mornese 19 agosto 1978.).

            Dal 1979 fino alla morte vive il fenomeno mistico dell’inabitazione eucaristica, ovvero la Presenza Reale di Gesù, come Presenza permanente e continua in sé stessa dopo la Comunione. Madre Rosetta porta in sé una fornace ardente eucaristica in cui immerge le suore, i giovani e i laici:

            «Mi pare adesso che il mio compito sia quello di prendere in continuazione tutte le anime e immergerle nel fuoco di amore che è il Cuore di Gesù, che mi porto dentro. Vorrei riuscire a ripeterglielo mille volte al giorno, sempre… e poi mi lascio prendere dal lavoro e dalle difficoltà che esso comporta; ma questa continua sperimentazione della mia debolezza, mi fa del bene e mi aumenta la fiducia; più io sono piccola e misera, più è facile perdermi nel cuore di Gesù» (Madre Rosetta Marchese, Lettera a Mons. Fasola Francesco, Festa degli Arcangeli 1980).

            Di fronte alla crisi di una mariologia minacciata dal secolarismo e poco attraente per il popolo di Dio, Gesù dona a Madre Rosetta un vivo rapporto filiale con la Vergine Maria, donna del Fiat e del Magnificat e le fa vivere un’esperienza viva dello sguardo della Madonna. Con questa intensità propone ai giovani e ai laici della Famiglia Salesiana il suo amore a Maria Ausiliatrice. Scrive infatti:

            «Agli inizi degli esercizi spirituali, quasi improvvisamente, mi sentii come penetrata da uno sguardo interiore della Madonna e come soggiogata e presa da questo sguardo […] ho intravisto come la mia presenza in Maria, il restare in Lei, abbandonata a Lei, come Gesù dopo l’Incarnazione, sarebbe stato il modo più sicuro per lasciare libera azione allo Spirito in Gesù (non so se mi esprimo bene)» (Madre Rosetta Marchese, Lettera a don Giuseppe Groppo, Roma 4 maggio 1963).

            Mentre si aggrava la crisi delle istituzioni (chiesa e società) Madre Rosetta vive una viva sintonia cum Ecclesiae tutta l’esperienza del Concilio e del post-Concilio ed invoca su di essa la presenza costante dello Spirito. Il giorno dell’apertura del Concilio, seguendo alla televisione l’evento, scrive a mons. Fasola definendolo una nuova pentecoste:

            «Ho sentito così viva e palpitante la grandezza e la santità della Chiesa di Dio; mi sembrava di sperimentare quasi sensibilmente la presenza di Maria e dello Spirito Santo in quell’immenso santo cenacolo» (Madre Rosetta, Lettera a Mons. Francesco Fasola, Roma, 13 ottobre 1962).

            Di fronte ad un attivismo che rende sterile l’apostolato tra la gioventù, indica il segreto della grazia di unità: vivere il dovere del momento presente in unione con Dio, radicata in un rapporto sponsale con Cristo.

            «Ecco, carissima, in questo modo tu inizi contemplazione e azione: quando la tua azione è fatta solo per Lui, ricercando la Sua gloria, facendo il meglio possibile con i bambini per trovare il momento buono per parlare di Lui; quando avvicini i genitori con il solo pensiero di dire una parola che li aiuti ad educare  meglio i loro bambini; quando facendo il doposcuola assisti questi bimbi con l’intenzione di far sentire loro la bontà, l’affetto, la premura del Signore che manda te a sostituire i loro genitori che non li possono seguire; quando cerchi di essere buona e paziente con le tue sorelle nonostante il lavoro e la stanchezza; tutto questo è ricerca di Dio e unione con Lui! Tu puoi dire allora che veramente il Signore regna nella tua vita, e lì si fa unità tra azione e contemplazione.» (Lettera di suor Marchese Rosetta a suor Boni Maria Rosa, Roma, 21 gennaio 1980).
            «La S.S. Trinità in me, io nel cuore della Trinità Beata, per tutto l’amore dello Spirito Santo; posseduta da Gesù a titolo di sposa; perduta in Lui a Lode del Padre.» (Madre Rosetta Marchese, Taccuino, 10 Novembre 1967).

            Dinanzi a uno stile governo spesso formale e distaccato, tipico del periodo preconciliare, sceglie la “mistica del governare”:

            «Per servire le anime, devo muovermi nella Pace di Dio; in Gesù per intuirle, amarle, scoprire la volontà del Padre su di loro, nello Spirito Santo. Rimanere immersa in Gesù, per respirare di Spirito Santo e sostare con pace e amore accanto ad ogni anima: tutto il resto è immensamente secondario.» (Madre Rosetta Marchese, Taccuino, 1°dicembre 1971).

            La sua testimonianza e la spiritualità salesiana così affascinante e profetica illumina di una nuova bellezza e profondità la nostra vita di fede, il nostro rapporto con il Signore Gesù e rinvigorisce il nostro apostolato tra la gioventù. Incoraggia le suore:

«Fate tutto per salvare le anime e nessuna fatica vi sembri troppo grande quando pensate che serve a salvare le anime, soprattutto le anime giovanili.» (Relazione della visita straordinaria di Madre Rosetta Marchese, München, 20-24 novembre 1978, 3/3).

            Veramente Madre Rosetta Marchese è una salesiana completa in cui il “Da mihi animas cetera tolle” di Don Bosco e di Madre Mazzarello tra la gioventù, specialmente le ragazze, affonda le sue radici in un profondo fuoco interiore, in una profonda unione con Dio.

Sr. Francesca Caggiano
Vice postulatrice




Il Venerabile Simone Srugi, salesiano coadiutore

Simone Srugi nacque a Nazareth (Palestina) il 15 aprile 1877 in una famiglia greco-melchita. Avendo persi da ragazzo entrambi i genitori, fu accolto nell’orfanotrofio di Betlemme, dove apprese i mestieri di sarto e panettiere. Dopo 4 anni di aspirantato e noviziato, professò come Coadiutore Salesiano e trascorse tutta la sua vita religiosa a Betgamāl-Caphargamala nella regione di Shephèla (1894–1943). Questa scuola agricola e orfanotrofio per ragazzi arabi e armeni, era aperta al servizio della popolazione locale con una scuoletta elementare, un mulino, un frantoio e un ambulatorio/dispensario.

1) Nella vita della comunità educativa, Srugi fu catechista dei piccoli, presidente delle confraternite del Santissimo Sacramento e di San Giuseppe, formatore dei chierichetti e cerimoniere liturgico, responsabile dell’infermeria. Fu esemplare per castità, povertà, obbedienza, gentilezza verso i confratelli e i collaboratori laici. Dominando il suo temperamento vivace, non si lasciava sopraffare dalla fretta o dall’agitazione, per cui grandi e piccini cercavano la sua amabile compagnia. Ammiravano la sua umiltà e la capacità di perdonare tutti e sempre, dando per scontato che «le persone veramente umili non credono mai di aver subito un torto». Nel santuario di Betgamāl, Simone vedeva ogni giorno le raffigurazioni di Gesù crocifisso che prega “Pater dimitte illis”, e di Santo Stefano che perdona chi lo lapidava. Incoraggiato dal loro esempio, raggiunse uno stato eroico di virtù, perdonando coloro che lo accusavano di aver causato la morte di una donna affetta da cancrena, curando il gruppo di giovinastri che lo avevano aggredito, e curando nell’ambulatorio perfino uno dei presunti assassini del suo direttore, don Mario Rosin.

2) Srugi svolse la sua opera soprattutto in quest’ultimo ambiente, coadiuvato da suor Tersilla Ferrero FMA. Ogni giorno curavano decine di poveri, malnutriti, affetti da varie malattie (malaria, dissenteria, infezioni ai polmoni, agli occhi, ai denti…). I registri delle medicazioni del periodo 1932-1942 contengono decine di migliaia di dati di pazienti provenienti da 70 villaggi vicini e lontani. Simone era animato da una grande carità, e si prendeva cura di questi fratelli e sorelle rozzi e sporchi con delicata compassione, vedendo nelle loro piaghe quelle di Gesù. La gente preferiva rivolgersi a lui piuttosto che ai medici, perché erano convinti che guarisse con la potenza di Dio.

3) Sorgente di questa vita eroicaera la sua abituale unione con Dio, che non si limitava alla celebrazione della Messa o alle lunghe ore di adorazione davanti al Santissimo Sacramento, ma traboccava in tutta la sua vita quotidiana, in una costante atteggiamento liturgico: «Dio abita nella mia anima non meno sfolgorante di luce e di gloria che nella gloria del cielo. Sono sempre alla presenza di Dio. Faccio parte della sua guardia d’onore. Cercherò di essere puro di mente e di cuore… Quanta attenzione dovrò avere a non macchiare mai la mia anima e il mio corpo, augusto tempio della Santissima Trinità!» – Testimoni affermano che Simone camminava sulla terra ma il suo cuore era in cielo. Lavorò e faticò, ma sempre sostenuto dalla speranza della ricompensa e del riposo eterno. “Viveva di fede, fondata su un grande amore di Dio, sull’abbandono totale alla Provvidenza. Il suo aspetto esteriore, sempre calmo, sorridente e sereno, emanava un’aria di paradiso che incantava. L’opinione comune era che vivesse più per il cielo che per la terra. In mezzo a tanta attività e diversi tipi di lavoro, Srugi dimorava abitualmente in un mondo superiore; nei suoi intimi colloqui con Dio, con la Madonna e con i santi, già pregustava qualcosa della patria celeste, alla quale dovette anelare con tutta l’urgenza dell’anima” (Don De Rossi). – “La virtù della speranza è quella che più ho ammirato in Simone. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse una tale familiarità con il Cielo quanto lui. È stato il pensiero del Paradiso ad accompagnarlo e guidarlo in tutte le circostanze della vita, siano esse prospere o avverse. E questo pensiero, che per lui era quasi una cosa naturale, lo coltivava con delicatezza in tutti coloro che si avvicinavano a lui, fossero essi confratelli, giovani, malati, operai, e anche musulmani. Quante volte l’ho sentito dire e cantare: “Paradiso, paradiso!” [la nota lode sacra di Pellico-Bosco] A volte sembrava fuori di sé dalla gioia. Poiché eravamo abituati a vederlo raccolto e umile, era strano quando affrontava questi argomenti, così facilmente e in modo informale, allegramente, saltando di gioia. Srugi ha visto il paradiso e ne ha gustato in anticipo le delizie”. (Don Dal Maso)

4) Nei propositi personali, insiste sulla radicalità della sua consacrazione religiosa: «Mi sono donato, mi sono consacrato, mi sono venduto interamente al mio Dio. Quindi non devo essere né di me stesso, né del mondo, né dei giovani; i miei pensieri, i miei affetti, i miei desideri devono essere per Lui… Facendomi religioso mi sono donato tutto al mio Dio, corpo e anima, e Lui mi ha accettato volentieri come suo. … Mi sono consacrato al servizio di Dio con amore, e voglio mantenere i miei santi voti per lui e per piacergli… Essere religiosi non è altro che legarsi a Dio mediante una continua mortificazione di noi stessi, e vivere solo per Dio”. Un verso in rima riassume bellamente: “Pregare, soffrire, vivere secondo l’amor divino: questo, o religioso, è tutto il tuo destino”.
Insisteva che tutto dovesse essere sostenuto dalla “retta intenzione”, cioè dall’intenzione di servire e piacere solo a Dio, di fare tutto per la sua gloria, per suo amore. «Dio, nella sua immensa bontà, merita che tutto sia fatto in suo onore, anche se non ci fossero né paradiso né inferno… In ogni luogo e in ogni mia azione guarderò sempre il mio Dio, come Lui guarda me e farò di tutto per compiacerlo”. In questo Simone ha voluto imitare Gesù (“Io faccio sempre ciò che piace al Padre”: Gv 8,29), e seguire l’insegnamento di Francesco di Sales sul “beneplacito” di Dio.
Oltre all’Imitazione di Cristo, il libro di sant’Alfonso dei Liguori La pratica di amare Gesù Cristo è stato uno dei libri più letti da Simone. Amore significa imitazione che porta all’identificazione: Gesù crocifisso è il modello più perfetto che il religioso è chiamato a copiare, per diventare uno con Lui, «fino a poter dire con l’Apostolo: «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Questo è il significato più profondo del saluto abituale di Srugi: “Viva Gesù!” rivolto sia a cristiani che a musulmani, che per lui abbracciava tutto: “Che Gesù viva nei nostri cuori, nella nostra mente, nelle nostre opere, nella nostra vita e nella nostra morte”.
Questo atteggiamento abituale dava origine alla pace e alla tranquillità inalterabili che Simone irradiava: «L’assoluto abbandono alla volontà divina è il segreto della gioia dei santi… Dove c’è perfetta uniformità alla volontà di Dio, né la tristezza né la malinconia potranno mai regnare. […] La felicità di compiacere Dio facendo bene ogni cosa è un anticipo di paradiso.».

5) Simone è un testimone della primitiva tradizione salesiana e un modello attuale. La sua teologia della perfezione religiosa è quella contenuta negli scritti di Don Bosco, attualizzati dai suoi successori (D. Rua, D. Albera, D. Ricaldone – che egli conobbe personalmente durante le loro visite in Terra Santa – e D. Rinaldi); le loro lettere e “strenne” venivano regolarmente lette e commentate nella comunità di Betgamāl. Il suo “lessico” apparteneva quindi al “modo comune di sentire e di agire” in voga tra i salesiani di quell’epoca, espresso in termini familiari.
Srugi ha beneficiato soprattutto del ministero di don Eugenio Bianchi (1853-1931) che fu a Betgamāl dal 1913-1931, continuando a trasmettere l’originario carisma salesiano che aveva appreso dallo stesso Don Bosco e poi, dal 1886 al 1911, aveva “innestato” nella vita di più di mille novizi, tra cui molti futuri santi, già canonizzati o in cammino: Andrea Beltrami, Luigi Versiglia, Luigi Variara, Vincenzo Cimatti, Augusto Hlond… Simone Srugi non si è limitato a copiare un modello o a seguire genericamente le orme degli altri: ha elaborato, invece, un programma personalizzato di santificazione, al quale è rimasto fedele non solo a intermittenza ma costantemente, non solo in alcuni ambiti ma in tutti, pensando non solo a se stesso ma anche ai confratelli e ai ragazzi con cui ha vissuto, non nel chiuso di un ambiente esclusivamente cristiano ma in un contesto musulmano, non in tempi di pace ma in un periodo segnato da guerre ed eventi tragici. Per questi motivi incarnò un tipo di santità salesiana che all’epoca non aveva precedenti, fondendo armonicamente spiritualità bizantina e “latina”, contemplazione e azione.

6) Il 27 novembre 1943, logorato dalla fatica e dalle malattie, Simone terminava la sua vita terrena, che aveva speso nel servizio gioioso e sacrificato a Dio e agli altri. La sua fama di santità crebbe con il passare degli anni; giunsero notizie di grazie ottenute per sua intercessione. Nel clima del Concilio Vaticano II, presero risalto le dimensioni ecumenica e laicale della sua testimonianza, con risonanze in Oriente e Occidente. Dal 1964-66, e dal 1981-83, si celebrarono a Gerusalemme il processo diocesano e apostolico. In seguito, avendo la Congregazione per le Cause dei Santi espresso parere positivo, il 2 aprile 1993 Papa Giovanni Paolo II autorizzò il decreto sull’eroicità delle virtù, conferendo così a Simone il titolo di Venerabile, e proponendolo alla Chiesa universale come modello imitabile e come efficace intercessore.

don Giovanni Caputa, Vice-Postulatore