San Giuseppe – Cuore di padre (video)

San Giuseppe, padre putativo di Gesù, è un santo non tanto conosciuto, del quale si è scritto poco perché non ci sono troppe testimonianze su di lui. Però il suo culto ha visto negli ultimi tempi un incremento costante, segno della potente intercessione che questo lavoratore e silenzioso santo ha presso Dio.

            Già dai tempi antichi da parte di parecchi Padri della Chiesa si trova una tenera devozione a san Giuseppe, padre putativo di Gesù. Il termine latino “puto” significa “credo”, ossia era colui “che era creduto” suo padre (cfr. Lc 3,23). E anche presso altri santi della Chiesa si trova il suo culto. L’espressione più famosa la troviamo in santa Teresa di Gesù (di Ávila) quando afferma: “Finora non mi ricordo di averlo mai pregato di un favore che egli non mi abbia concesso. È cosa che riempie di stupore pensare alle straordinarie grazie elargitemi da Dio e ai pericoli da cui mi ha liberato, sia materiali sia spirituali, per l’intercessione di questo santo benedetto. Mentre ad altri santi sembra che il Signore abbia concesso di soccorrerci in una singola necessità, ho sperimentato che il glorioso san Giuseppe ci soccorre in tutte. Pertanto, il Signore vuol farci capire che allo stesso modo in cui fu a lui soggetto in terra – dove san Giuseppe, che gli faceva le veci di padre, avendone la custodia, poteva dargli ordini – anche in cielo fa quanto gli chiede. Lo hanno constatato alla prova dei fatti anche altre persone, alle quali io dicevo di raccomandarsi a lui, e ce ne sono ora molte ad essergli diventate devote, per aver sperimentato questa verità.” (Libro della vita).

            La diffusione del suo culto ebbe una costante progressione. Nel 1726 il suo nome fu inserito nelle Litanie dei Santi. Nel 1833 fu approvato il piccolo ufficio di san Giuseppe da pregare il mercoledì. Nel 1844 il nome del Santo fu annoverato fra le invocazioni nelle preghiere da recitare dopo la Messa. Nel 1847 papa Pio IX estende a tutta la Chiesa la festa del Patrocinio di san Giuseppe, celebrazione che sarà sostituita nel 1956 con quella di san Giuseppe Lavoratore, assegnata al 1º di maggio. Però quella che darà maggior rilievo sarà la dichiarazione di san Giuseppe quale Patrono della Chiesa Universale, avvenuta l’8 dicembre del 1870 da parte del beato papa Pio IX, con il decreto Quemadmodum Deus. Così cominciava questo decreto:
             “Nello stesso modo in cui Dio aveva costituito quel Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, soprintendente di tutta la terra d’Egitto, per assicurare il frumento al popolo, così, quando furono compiuti i tempi in cui l’Eterno stava per inviare sulla terra il suo Figlio Unigenito Salvatore del mondo, scelse un altro Giuseppe, di cui quello era figura, e lo fece signore e principe della sua casa e dei suoi beni e lo elesse custode dei suoi maggiori tesori.
            Di fatto, egli ebbe in sposa l’Immacolata Vergine Maria, dalla quale nacque per virtù dello Spirito Santo Nostro Signore Gesù Cristo, che volle agli occhi di tutti essere reputato figlio di Giuseppe, ed essergli soggetto. Colui che tanti re e profeti avevano bramato di vedere, Giuseppe non solo Lo vide, ma con Lui ha dimorato e con paterno affetto L’ha abbracciato e baciato; e ha nutrito con zelo e sollecitudine senza eguali Colui che i fedeli avrebbero ricevuto come Pane disceso dal cielo, per la vita eterna. Per questa sublime dignità, che Dio conferì a questo suo fedelissimo Servo, la Chiesa ebbe sempre in sommo onore e lode il Beatissimo Giuseppe, dopo la Vergine Madre di Dio, sua sposa, e implorò il suo intervento nei momenti difficili.”

            Il 15 agosto del 1889, il papa Leone XIII inviava la Lettera Enciclica Quamquam Pluries, nella quale raccomandava la devozione a san Giuseppe. Con questa Enciclica viene diffusa anche la preghiera, ormai classica, “A te, o beato Giuseppe”.

            Nel 1909 la Santa Sede aveva approvato una litania in onore di san Giuseppe proposta all’intera Chiesa, sancita dal papa san Pio X e pubblicata nell’Acta Apostolicae Sedis.

            Il 9 aprile del 1919, papa Benedetto XV inserisce nel Messale una Prefazio propria di san Giuseppe. Più tardi, papa Giovanni XXIII volle inserire il nome di san Giuseppe nel Canone Romano. E il 1° maggio del 2013, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti stabiliva l’inserimento del nome di san Giuseppe in tutte le Preghiere eucaristiche (II, III, IV) del Messale Romano, tramite un decreto, approvato da papa Francesco.

            Il 25 luglio del 1920, con l’occasione del cinquantenario della proclamazione di san Giuseppe a Patrono della Chiesa universale, papa Benedetto XV emette un motu proprio, Bonum sane, nel quale conferma la devozione a san Giuseppe.

            I papi Pio IX e Pio XI consacrarono il mese di marzo a san Giuseppe.

            Il 7 marzo del 1958, il pontefice Pio XII faceva pubblicare nell’Acta Apostolicae Sedis una preghiera a san Giuseppe e lo arricchiva con indulgenza parziale. La presentiamo in seguito.

O glorioso Patriarca S. Giuseppe, umile e giusto artigiano di Nazareth, che hai dato a tutti i cristiani, ma specialmente a noi, l’esempio di una vita perfetta nell’assiduo lavoro e nell’ammirabile unione con Maria e Gesù, assistici nella nostra fatica quotidiana, affinché anche noi, artigiani cattolici, possiamo trovare in essa il mezzo efficace di glorificare il Signore, di santificarci e di essere utili alla società in cui viviamo, ideali supremi di tutte le nostre azioni.
Ottienici dal Signore, o Protettore nostro amatissimo, umiltà e semplicità di cuore, affezione al lavoro e benevolenza per quelli che ci sono in esso compagni, conformità ai divini voleri nei travagli inevitabili di questa vita e letizia nel sopportarli, consapevolezza della nostra specifica missione sociale e senso della nostra responsabilità, spirito di disciplina e di orazione, docilità e rispetto verso i superiori, fraternità verso gli uguali, carità e indulgenza coi dipendenti. Accompagnaci nei momenti prosperi, quando tutto c’invita a gustare onestamente i frutti delle nostre fatiche; ma sostienici nelle ore tristi, allorché il cielo sembra chiudersi per noi e perfino gli strumenti del lavoro paiono ribellarsi nelle nostre mani.
Fa che, a tua imitazione, teniamo fissi gli occhi sulla Madre nostra Maria, tua sposa dolcissima, che in un angolo della tua modesta bottega silenziosa filava, lasciando scorrere sulle sue labbra il più soave sorriso; è non allontaniamo lo sguardo da Gesù, che si affannava teco al tuo banco di falegname; affinché in tal guisa possiamo condurre sulla terra una vita pacifica e santa, preludio di quella eternamente felice che ci attende nel cielo, per tutti i secoli dei secoli. Così sia!


            Il 19 marzo del 1961, il Summo Pontefice Giovanni XXIII chiedeva nella Carta Apostolica “Le Voci”, la protezione di san Giuseppe per il Concilio Vaticano II.

            Il 15 agosto del 1989, san Giovanni Paolo II pubblica l’Esortazione Apostolica Redemptoris Custos, con l’occasione del centenario della proclamazione di san Giuseppe come Patrono della Chiesa Universale.

            Nella Solennità dell’Immacolata del 8 dicembre 2021, il Santo Padre Francesco, inviava una Lettera apostolica, Patris corde, in occasione del 150° anniversario della proclamazione di san Giuseppe come Patrono della Chiesa Universale e ha dedicato l’anno 2022 come “Anno di san Giuseppe”.

            Il 1° maggio 2021, in una lettera indirizzata ai Presidenti delle Conferenze dei Vescovi, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha chiesto l’inserimento di nuove invocazioni nelle Litanie in onore di san Giuseppe.

            Tutti questi interventi ufficiali della Chiesa si sommano a tante altre devozioni che hanno preso radici nel popolo cristiano, come la pratica dei Sette dolori e allegrezze di san Giuseppe, le Litanie di san Giuseppe, il Cingolo o Cordone di san Giuseppe, la Coroncina di san Giuseppe, lo Scapolare di san Giuseppe, il Sacro Manto in onore di san Giuseppe, i nove mercoledì, la Novena perpetua, la Corona Perpetua, la Corte Perpetua.

            Però di san Giuseppe non si conserva neanche una parola nei Vangeli. Si ricorda invece il suo agire, la sua fedeltà a Dio, da dove deriva anche la pratica dei Sette dolori e allegrezze: l’accettazione di Maria come Madre del Messia (Mt. 1,18-25), la nascita di Gesù (Lc. 2,4-7), la circoncisione (Lc. 2,21), la presentazione nel Tempio (Lc. 2,22-33), la fuga in Egitto (Mt. 2,13-15), il ritorno in Galilea (Mt. 2,19-23) e il ritrovamento di Gesù nel Tempio (Lc. 2,39-51).
Questo silenzio e questo agire di san Giuseppe ci ricordano che la testimonianza si fa innanzitutto con le opere della fede, prima che con le parole. E ci ricorda che la Tradizione della Chiesa non è formata solo dalle parole consegnate per iscritto, ma è prima di tutto una comunicazione viva che viene dallo Spirito Santo, che può servirsi o no dei testi scritti.

            L’intercessione di san Giuseppe continua anche oggi, le più delle volte nel silenzio, come è stata anche la sua vita. Un film documentario, chiamato “Cuore di Padre”, lanciato proprio nell’anno 2022 dedicato a lui, viene a mettere in luce questa sua mediazione presso Dio. Il regista Andrés Garrigó, che ha cercato in vari paesi le tracce della devozione di questo santo, ha scoperto che “… Giuseppe di Nazareth, il gigante del silenzio, sia più attivo che mai, attirando migliaia di persone ogni giorno e agendo nelle loro vite in modo straordinario”.
È un film che presenta aspetti storici e teologici, ma soprattutto l’intercessione di san Giuseppe nella vita delle persone, anche in quelle inizialmente diffidenti: conversioni, matrimoni falliti, assistenza ai moribondi ecc. Si scopre che san Giuseppe non è solo un uomo vissuto più di 2000 anni fa o una figura del presepe, ma un santo che agisce nella vita delle persone che lo invocano, un santo che ha un culto diffuso in tutto il mondo.

Il film si rivolge soprattutto a un pubblico credente, ma è adatto a ogni categoria di età, senza restrizioni.

Ecco anche la scheda del film.

Titolo: Cuore di padre
Titolo originale: Corazón de padre
Anno di distribuzione: 2022
Uscita cinema: 18.03.2022
Durata: 91 min.
Genere: Documentario
Pubblico adatto: Tutti
Paese: Spagna
Regia: Andrés Garrigó
Attori principali: Paco Pérez-Reus, María Gil
Sceneggiatura: Josepmaria Anglés, Andrés Garrigó
Fotografia: Ismael Durán
Casa di produzione: Andrés Garrigó
Distribuito al cinema: Goya Producciones
Sito ufficiale: https://www.cuoredipadre.it/
Valutazione: 7/10 (decine21)

Trailer:






Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (5/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo VII. Maria favorisce chi lavora per la fede; mentre Dio punisce chi oltraggia la Santa Vergine.
            Vi fu un tempo in cui, gl’imperatori di Costantinopoli mossero una violenta persecuzione contro ai cattolici perché veneravano le sacre immagini. Tra questi fu Leone Isaurico. Costui per abolirne affatto il culto uccideva ed imprigionava chiunque fosse denunziato di aver dato segno di venerazione alle immagini od alle reliquie dei Santi e specialmente della Beata Vergine. Per ingannar poi il semplice popolo fece chiamare alcuni vescovi ed abati e a forza di danaro e di promesse li indusse a stabilire che non si dovessero venerare le immagini di Gesù crocifisso, nè della Vergine né dei Santi.
            Ma in quei tempi viveva il dotto e celebre s. Giovanni Damasceno. Per combattere gli eretici ed anche per dare un antiveleno in mano ai cattolici, Giovanni scrisse tre libri nei quali difendeva il culto delle sante immagini. Gl’Iconoclasti (così si chiamavano quegli eretici perché sprezzavano le sacre immagini) furono grandemente offesi da tali scritti, perciò l’accusarono di tradimento presso il principe. Essi dicevano che aveva mandate lettere sottoscritte di sua mano per far rompere l’alleanza che esso aveva con principi stranieri, e che coi suoi scritti perturbava la pubblica tranquillità. Il credulo imperatore incominciò a sospettare del santo, e quantunque fosse innocente, lo condannò al taglio della mano destra.
            Ma questa perfidia ebbe un esito molto più felice di quello che egli non si aspettava, poiché la Madonna SS. volle rimunerare il suo servo dello zelo avuto verso di Lei.
            Come si fece sera s. Giovanni si prostra avanti l’immagine della Madre di Dio, e sospirando pregò gran parte della notte e diceva: O Vergine SS. pel zelo verso Voi e le sante immagini mi fu tagliata la destra, accorrete dunque in mio soccorso e fate che possa continuare a scrivere le vostre lodi e quelle del vostro figliuolo Gesù. Così dicendo si addormentò.
            In sogno vide l’immagine della madre di Dio che lo guardava lietamente e gli diceva: Ecco, la tua mano è guarita. Su adunque levati e scrivi le mie glorie. Svegliatosi trovò effettivamente la mano guarita attaccata al braccio.
            Sparsa la notizia di sì grande miracolo ognuno lodava e glorificava la B. Vergine che rimunera tanto largamente i suoi devoti che patiscono per la fede. Ma alcuni nemici di Cristo vollero sostenere che la mano non si era tagliala a lui, ma ad un suo servo, e dicevano: non vedete che Giovanni sta in casa sua cantando e sollazzandosi come se si celebrasse un festino da nozze? Fu adunque nuovamente arrestato Giovanni e condotto al principe. Ma qui un nuovo prodigio. Mostrando la destra si vedeva in essa come una linea rilucente che dimostrò verissima l’amputazione.
            Stupito il principe a questo prodigio, gli domandò qual medico gli avesse resa la sanità, e qual medicina avesse adoperata. Egli allora ad alta voce narrò il miracolo. È il mio Dio, dice, medico onnipotente che mi restituì la sanità. Il principe allora si mostrò pentito del male operato, e lo voleva innalzare a grandi dignità. Senonché il Damasceno avverso alle umane grandezze amò meglio la vita privata, e finché visse impiegò il suo ingegno a scrivere e a pubblicare la potenza dell’augusta Madre del Salvatore (V. Gio. Patriarca di Ger. Baronio all’anno 727).
            Se Dio spesse volte concede grazie straordinarie a chi promuove le glorie dell’augusta sua Genitrice, non di rado però punisce terribilmente anche nella vita presente coloro che sprezzano Lei o le sue immagini.
            Costantino Copronimo, figliuolo di Leone Isaurico salì al trono paterno al tempo del sommo Pontefice s. Zaccaria (741-75). Costui seguendo le empietà di suo padre proibì di invocare i santi, di onorare le reliquie, e di implorarne l’intercessione. Profanava le chiese, distruggeva i monasteri, perseguitava ed imprigionava i monaci, invocava con notturni sacrifizi l’aiuto degli stessi demonii. Ma il suo odio era specialmente rivolto contro la Santa Vergine. Per confermare quanto diceva era solito di prendere in mano una borsa piena di monete d’oro, e la mostrava ai circostanti dicendo: Quanto vale questa borsa? Molto, dicevan quelli. Gettatone poi l’oro, nuovamente domandava di qual prezzo fosse la borsa. Rispondendo essi che niente valeva, così tosto ripigliava quell’empio, cosi è della Madre di Dio; per quel tempo, che aveva Cristo in sè, era grandemente da onorarsi, ma dal punto che lo diede in luce niente più differisce dalle altre donne.
            Queste enormi bestemmie meritavano certamente un esemplare castigo che Dio non tardò a mandare all’empio bestemmiatore.
            Costantino Copronimo venne punito con vergognose infermità, con ulceri che si cangiarono in pustole infuocate, che gli facevano mandare alte grida, mentre un’ardentissima febbre lo divorava. Così smaniando e gridando come se fosse arso vivo, mandò l’ultimo respiro.
            Il figlio seguì le pedate del padre. Egli si compiaceva molto delle gemme e dei diamanti e vedendone le molte e belle corone che l’imperatore Maurizio aveva dedicate alla Madre di Dio ad ornamento della chiesa di santa Sofia in Costantinopoli, le fece prendere e se le pose sul capo e lo porto nel proprio palazzo. Ma sull’istante la sua fronte fu coperta da pestiferi carbonchi che di quel medesimo giorno trassero a morte colui che osò sporgere la sacrilega mano contro l’ornamento del vergineo capo di Maria (V. Teofane e Niceforo contemporanei. Baronio an. 767).

Capo VIII. Maria protettrice degli eserciti che combattono per la fede.
            Ora diamo un rapido cenno sopra alcuni fatti che riguardano alla speciale protezione che la santa Vergine ha costantemente prestato agli eserciti che combattono per la fede.
            Giustiniano imperatore ricuperò l’Italia oppressa da sessant’anni dai Goti. Narsete suo generale era avvisato da Maria quando doveva scendere in campo e non prendeva mai le armi senza i cenni di lei. (Procopio, Evagrio, Niceforo, e Paolo Diacono. Baronio all’anno 553).
            Eraclio imperatore riportò una gloriosa vittoria contro i Persiani e s’impadronì delle ricche loro spoglie, riferendo il prospero esito delle sue armi alla Madre di Dio cui si era raccomandato. (Ist. Greca art. 626).
            Lo stesso Imperatore l’anno dopo trionfò ancora dei Persiani. Una grandine spaventosa lanciata nel campo dei nemici li scompigliò e li mise in fuga. (Ist. Greca).
            La città di Costantinopoli venne un’altra volta liberata dai Persiani in una maniera affatto prodigiosa. Mentre durava l’assedio videro i Barbari sul far del mattino una nobile matrona scortata da un corteggio di Eunuchi uscire dalla porta della città. Credendo essi che fosse la moglie dell’Imperatore e si recasse dal marito per implorar la pace le lasciarono libero il passo. Come poi la videro recarsi dall’Imperatore le tennero dietro fino ad un luogo detto del vecchio sasso, dove scomparve dai loro occhi. Allora si suscito fra loro un tumulto, si batterono a vicenda e fu così terribile la strage che il loro generale fu costretto a levar l’assedio. Si crede che quella matrona fosse la Beatissima Vergine. (Baronio).
            L’immagine di Maria portata processionalmente intorno le mura di Costantinopoli liberò questa città dai Mori che la tenevano da tre anni assediata. Già il condottiero nemico disperando di vincere domandò per favore di poter entrare a veder la città promettendo di non osarvi alcuna violenza. Mentre i suoi soldati entravano senza difficoltà, giunto il suo cavallo alla porta detta del Bosforo, non fu verso di farlo andare avanti. Allora il barbaro guardando in su vide sulla porta l’immagine della Vergine che egli aveva poco prima bestemmiato. Rimosse allora il passo e prese il cammino verso il mare Egeo dove fece naufragio. (Baronio anno 718).
            Lo stesso anno i Saraceni portarono le armi contro Pelagio Principe degli Asturi. Questo pio generale ricorse a Maria ed i dardi e le saette lanciate contro di lui si ritorcevano contro i nemici della fede. Ventimila Saraceni rimasero estinti, e sessanta mila perirono sommersi nelle acque. Pelagio insieme coi pochi suoi si era rifugiato in una spelonca. Riconoscente poscia a Maria della vittoria riportata fece edificare in quella spelonca un tempio alla beatissima Vergine. (Baronio).
            Andrea generale di Basilio Imperatore di Costantinopoli sconfisse i Saraceni l’anno 867. Il nemico aveva in questo conflitto insultato a Maria scrivendo ad Andrea: Vedrò ora se il figliuol di Maria e sua Madre ti potranno salvare dalle mie armi. Il pio generale prese l’insolente scritto, lo appese all’immagine di Maria dicendo: Vedi, o Madre di Dio: vedi, o Gesù, quali insolenze pronunci contro il tuo popolo questo barbaro arrogante. Ciò fatto sale in arcione ed intimata la zuffa mena di tutti i suoi nemici sanguinosissima strage. (Curopalate ann. 867).
            L’anno 1185 il sommo Pontefice Urbano II mise le armi dei Crociati sotto gli auspici di Maria, e Goffredo Buglione alla testa dell’esercito cattolico liberava i luoghi santi dal dominio degli infedeli.
            Alfonso VIII re di Castiglia ottenne sopra i Mori una gloriosa vittoria portando nel campo di battaglia l’immagine di Maria sui vessilli. Duecento mila Mori rimasero in campo. A perpetuare la memoria di questo fatto la Spagna celebrò ogni anno al giorno 16 luglio la festa della santa Croce. Lo stendardo poi su cui era impressa l’immagine di Maria, che aveva trionfato dei nemici, si conserva tuttora nella chiesa di Toledo. (Ant. de Balimghera).
            Alfonso IX re di Spagna sconfisse pure col soccorso di Maria duecento mila Saraceni. (Idem die XXI junii).
            Giacomo I re di Aragona strappò dai Mori tre nobilissimi regni e sconfisse dieci mila dei loro. Riconoscente di questa vittoria innalzò vari templi a Maria. (Idem die XXI julii).
            I Carnotesi assediati nella loro città da una banda di corsari esposero sopra di un’asta a modo di vessillo una parte della veste di Maria che Carlo Calvo aveva portato da Costantinopoli. I barbari avendo lanciato contro questa reliquia i loro dardi rimasero ciechi d’improvviso, nè poterono più fuggire. Di che avvedutisi i devoti Carnotesi presero le armi e ne fecero strage.
            Carlo VII re di Francia ridotto alle strette dagli Inglesi ebbe ricorso a Maria, e non solo poté in più battaglie sconfiggerli, ma liberò ancora una città dall’assedio e ne ridusse molte altre sotto il proprio dominio. (Lo stesso al giorno 22 luglio).
            Filippo il Bello Re di Francia sorpreso dai nemici e abbandonato dai suoi ricorre a Maria e si trova incontanente circondato da una prodigiosa schiera di guerrieri pronti a combattere in sua difesa. In breve trentasei mila nemici sono atterrati, gli altri si arrendono prigionieri o si danno alla fuga. Riconoscente di tanto trionfo a Maria, le innalzò un tempio e quivi appese tutte le armi di cui si era servito in quel conflitto. (Idem XVII aug.).
            Filippo Valesio re di Francia sconfisse con un pugno d’uomini venti mila nemici. Reduce trionfante in quello stesso giorno in Parigi si recò tosto alla cattedrale dedicala alla Vergine. Quivi offerse alla sua generosa Ausiliatrice il suo cavallo e le regie sue armi. (Idem XXIII aug.).
            Giovanni Zemisca imperatore dei Greci sbaragliò i Bulgari, Russi, Sciti ed altri barbari, i quali insieme collegati in numero di trecento trenta mila minacciavano l’impero di Costantinopoli. La Beatissima Vergine vi mandò il martire s. Teodoro, il quale comparso sopra un bianco cavallo ruppe le file nemiche; onde Zemisca edificò un tempio in onore di s. Teodoro e fece portare in trionfo l’immagine di Maria. (Curopalate).
            Giovanni Comneno aiutato dalla protezione di Maria vinse un’orda di Sciti ed in memoria del fatto ordinò una pubblica festa in cui l’immagine della Madre di Dio venne portata trionfalmente sopra d’un carro trapuntato di argento e di preziosissime gemme. Quattro cavalli bianchissimi guidati dai Principi e famigliari dell’Imperatore traevano il carro; l’Imperatore camminava a piedi portando la croce. (Niceta nei suoi Annali).
            I cittadini di Ipri assediati dagli Inglesi e ridotti agli estremi ricorsero colle lacrime all’aiuto della Madre di Dio, e Maria apparsa visibilmente li consolò e pose in fuga i nemici. Il fatto avvenne nel 1383 e gli Ipresi celebrano ogni anno la memoria della loro liberazione con una festa religiosa la prima domenica di agosto. (Maffeo lib. 18, Cronaca Univers.).
            Simone conte di Monforte con ottocento cavalieri e mille pedoni sconfisse presso Tolosa cento mila Albigesi. (Bzovio Annali anno 1213).
            Vladislao re di Polonia poste le sue armi sotto la protezione della Vergine sconfisse cinquanta mila Teutoni e prese le loro spoglie le portò in trofeo al sepolcro del martire s. Stanislao. Martino Cromero nella sua storia di Polonia racconta che questo santo martire fu veduto, finché durò la battaglia, vestito di abiti pontificali in atto di animare i Polacchi e di minacciare i nemici. Credesi che questo santo vescovo fosse stato mandato dalla Vergine in aiuto ai Polacchi, i quali prima della pugna si erano raccomandati a Maria.
            Nell’anno 1546 i Portoghesi assediati da Mamudio re delle Indie invocarono il soccorso di Maria. Contava il nemico oltre sessanta mila uomini peritissimi nella guerra. Durava da sette mesi l’assedio e già si trattava della resa, quando un’improvvisa costernazione invase i nemici. Una nobile matrona circondata di celeste splendore erasi mostrata sopra una chiesuola della città, e faceva sfolgorare tanta luce sugl’Indiani, che non potendosi più distinguere fra loro si diedero a precipitosa fuga. (Maffeo lib. 3 Stor. delle Indie).
            L’anno 1480 pugnando i Turchi contro la città di Rodi erano già riusciti a piantare i loro vessilli sulle mura, quando apparve la beata Vergine armata di scudo e di lancia col precursore s. Gio. Battista e con una schiera di guerrieri celesti armati. Allora si scompigliarono i nemici e si trucidarono a vicenda. (Giacomo Bosso St. dei cav. di Rodi).
            Massimiliano duca di Baviera ridusse al dovere un’orda di ribelli eretici Austriaci e Boemi. Sul vessillo del suo esercito aveva fatto imprimere l’effigie della Vergine colle parole: Da mihi virtutem contro hostes tuos. Dammi forza contro ai tuoi nemici. (Jeremias Danelius. Trimegisti cristiani lib. 2 cap. 4, § 4).
            Arturo re d’Inghilterra portando l’immagine di Maria sul suo scudo si rese invulnerabile nelle battaglie; ed il Principe Eugenio col nostro Duca Vittorio Amedeo, i quali la portavano sullo scudo e sul petto, vinsero con un pugno di prodi l’esercito francese forte di 80 mila uomini sotto Torino. La maestosa Basilica di Superga fu innalzata dal suddetto Duca poi Re Vittorio Amedeo in segno di gratitudine per questa vittoria.

(continua)




Lettera del Rettor Maggiore cardinal Ángel Fernández Artime

Alla cortese attenzione dei Confratelli salesiani e dei Membri dei gruppi della Famiglia Salesiana

Carissimi Confratelli,
Cari fratelli e sorelle dei diversi gruppi della Famiglia Salesiana di tutto il mondo, giunga a tutti voi il mio saluto pieno di affetto e vicinanza.

Alla vigilia della mia Ordinazione Episcopale, essendo stato nominato dal Santo Padre Papa Francesco, vi scrivo per comunicare ufficialmente e definitivamente la mia situazione personale in rapporto alla nostra Congregazione e alla Famiglia Salesiana.
Qualche tempo fa Papa Francesco ha espresso il desiderio che la mia Ordinazione episcopale potesse avvenire durante il tempo pasquale, insieme a quella del nostro confratello monsignor Giordano Piccinotti, e che io potessi continuare il mio servizio fino al momento opportuno.
Ebbene, confidando sempre nel Signore, che è l’unico garante della nostra vita, vi comunico quanto segue:

1. Il Santo Padre mi ha inviato il documento di “deroga” (espressione che significa “eccezione a ciò che è legiferato”) con il quale mi autorizza a continuare per un ulteriore periodo come Rettore Maggiore, pur avendo ricevuto la consacrazione episcopale. Questo documento con l’autorizzazione del Santo Padre ci è già pervenuto ed è conservato nell’archivio della Congregazione.

2. D’accordo con Papa Francesco terminerò il mio servizio come Rettor Maggiore la sera del 16 agosto 2024, dopo la celebrazione del 209° anniversario della nascita del nostro Padre Don Bosco. Lo stesso giorno concluderemo il “Sinodo dei Giovani” a cui parteciperanno 370 giovani di tutto il mondo in occasione del bicentenario del sogno dei nove anni, che per Don Bosco è stato un sogno-visione e un programma di vita che è arrivato fino a noi.
Quella sera, con un semplice atto, firmerò le mie dimissioni secondo l’art. 128 delle nostre Costituzioni e consegnerò questo documento al Vicario del Rettor Maggiore, don Stefano Martoglio che, secondo l’art. 143, assumerà ad interim il governo della nostra Congregazione, fino all’elezione del nuovo Rettor Maggiore in occasione del CG29 che si terrà a Valdocco (Torino) a partire dal 16 febbraio 2025.

3. Certamente d’ora in poi e soprattutto dopo il 16 agosto 2024, assumerò il servizio che il Santo Padre mi indicherà e mi affiderà per il bene della Chiesa.
Desidero ringraziare il Signore, insieme a tutti voi, cari fratelli e sorelle, per il modo con cui siamo stati benedetti in questi dieci anni, sia come Congregazione sia come Famiglia Salesiana di Don Bosco. Il Signore ci ha assistito con il suo Spirito e Madre Ausiliatrice, a noi tanto cara, ci ha sempre tenuti per mano. Siamo certi che sarà così anche in futuro, perché «Lei ha fatto tutto».

In questo momento il mio ultimo pensiero va a Don Bosco che, senza dubbio, continuerà a prendersi cura della sua Congregazione e della sua preziosa Famiglia.

Con vero affetto e unito nel Signore vi saluta,

Cardinale Ángel FERNÀNDEZ ARTIME, sdb
Rettor Maggiore
Società di S. Francesco di Sales
Roma, 19 aprile 2024
Prot. 24/0160




Don Bosco, la politica e la questione sociale

Don Bosco ha fatto la politica? Sì, ma non come si può pensare nel senso immediato della parola. Lui stesso diceva che la sua politica era del Padre Nostro: le anime da salvare, i giovani
poveri da nutrire e educare.

Don Bosco e la politica
Don Bosco ha vissuto intensamente e con cosciente consapevolezza i problemi, anche per lui inediti, dei grossi cambiamenti culturali e sociali del suo secolo, particolarmente nei loro risvolti politici, e ha fatto una scelta meditata, che ha voluto facesse parte del suo spirito e caratterizzasse la sua missione.
Egli ha voluto coscientemente «non fare politica» di partito, e ha lasciato come patrimonio spirituale alla sua Congregazione di non farla, non perché egli fosse «apolitico», e cioè alienato dai grandi problemi umani della sua epoca e della società in cui viveva, ma perché volle dedicarsi alla riforma della società senza entrare nei movimenti politici. Non fu quindi un «disimpegnato»; anzi ha voluto che i suoi salesiani fossero veramente degli «impegnati». Ma occorre chiarire il senso di questo impegno politico.
Il termine «politica» può venir usato in due sensi: nel primo senso indica il campo dei valori e dei fini, che definiscono il «bene comune» in una visione globale della società; nel secondo senso indica il campo dei mezzi e dei metodi da seguire per raggiungere il «bene comune».
Il primo significato considera la politica nel senso più ampio della parola. A questo livello tutti hanno una responsabilità politica. Il secondo significato considera la politica come una serie di iniziative che, attraverso i partiti ecc., intendono orientare l’esercizio del potere a favore del popolo. A questo secondo livello la politica è connessa con un intervento nel governo del paese, che esula dall’impegno voluto da Don Bosco.
Egli riconosce in sé e nei suoi una responsabilità politica che riguarda il primo significato, in quanto vuol essere un impegno religioso educativo atto a creare una cultura che informi cristianamente la politica. In questo secondo senso Don Bosco ha fatto politica, anche se la presentava sotto altri termini, come «morale e civile educazione della gioventù».

Don Bosco e la questione sociale
Don Bosco presentì l’evoluzione sociale del suo tempo. «Fu tra quei pochi che aveva capito fin da principio, e lo disse mille volte, che il movimento rivoluzionario non era un turbine passeggero, perché non tutte le promesse fatte al popolo erano disoneste, e molte rispondevano alle aspirazioni universali, vive dei proletari. Per altra parte egli vedeva come le ricchezze incominciassero a divenire monopolio di capitalisti senza viscere di pietà, e i padroni, all’operaio isolato e senza difesa, imponessero dei patti ingiusti sia riguardo al salario, sia rispetto alla durata del lavoro; vedeva che la santificazione delle feste fosse sovente brutalmente impedita, e come queste cause dovessero produrre tristi effetti: la perdita della fede negli operai, la miseria delle loro famiglie e l’adesione alle massime sovversive. Perciò come guida e freno alle classi operaie, egli reputava partito necessario che il clero si avvicinasse ad esse» (MB IV, 80).
Il volgersi alla gioventù povera con l’intento di operare la salvezza morale e così cooperare alla costruzione cristiana della nuova società fu in lui appunto l’effetto e la conseguenza naturale e prima dell’intuizione che egli ebbe di questa società e del suo divenire.
Non si deve però ricercare nelle parole di Don Bosco la formula tecnica. Don Bosco parlò solo di abuso delle ricchezze. Ne parlò con tale insistenza, con tale forza di espressione e straordinaria originalità di concetto, da rivelare non soltanto l’acutezza della sua diagnosi dei mali del secolo, ma anche l’intrepidezza del medico che vuole sanarli. Il rimedio egli lo indicò nell’uso cristiano della ricchezza, nella coscienza della sua funzione sociale. Molto si abusa della ricchezza, ripeteva senza posa, bisogna ricordare ai ricchi il loro dovere prima che venga la catastrofe.

Giustizia e carità
Accennando all’opera compiuta in Torino dal Can. Cottolengo e da Don Bosco, un professore nell’Istituto di scienze politiche dell’Università di Torino ammette il bene compiuto da questi due santi, però poi esprime l’opinione che «questo aspetto del movimento caritativo piemontese, pur nei ragguardevoli risultati raggiunti, sia stato storicamente negativo» perché più di ogni altro avrebbe contribuito a frenare il progresso implicito nell’azione delle masse popolari che rivendicavano i propri diritti.
È sua opinione che «le attività di questi due santi piemontesi erano viziate dalla concezione di fondo che muoveva entrambi, per cui tutto veniva abbandonato nelle mani pietose di una provvidenza divina» (ivi). Essi sarebbero rimasti estranei ai movimenti reali delle masse ed ai loro diritti, legati com’erano all’immagine di una società fatta, per forza di cose, di nobiltà e popolo, di ricchi e di proletari, dove il benestante doveva essere misericordioso ed il povero umile e paziente. Insomma San G. B. Cottolengo e S. G. Bosco non si sarebbero resi conto del problema delle classi in trasformazione.
Non posso qui fermarmi a considerare il caso del Cottolengo. Faccio solo notare che il suo intervento rispondeva ad un’esperienza bruciante che lo portò subito a far qualcosa, come aveva fatto il Buon Samaritano del Vangelo (Lc 10, 29-37). Guai se il Buon Samaritano avesse aspettato il cambio della società per intervenire. L’uomo sulla strada di Gerico sarebbe morto! «La carità di Cristo ci sospinge» (2 Cor 5,14) sarà il programma d’azione di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Ognuno ha una sua missione nella vita. Un intervento sugli effetti del male non nega il riconoscimento del bisogno di andare alle cause. Ma è pur la cosa più urgente da compiere. E poi il Cottolengo non pensava solo a questo, ma a ben altro.
L’intervento, poi, di Don Bosco nella questione sociale è stato orientato da un’opzione fondamentale: per i poveri, per i fatti, e per il dialogo con chi, anche se d’altra sponda, poteva essere indotto a far qualcosa.

Il contributo di Don Bosco
Come sacerdote educatore, Don Bosco fece una scelta di campo, per la gioventù povera ed abbandonata, e superò l’idea puramente caritativa, preparando quella gioventù a rendersi capace di far valere onestamente i propri diritti.
La sua prima attività si volse prevalentemente a vantaggio dei poveri garzoni di bottega e manovali d’officina. I suoi interventi, che oggi potremmo definire di carattere sindacale, lo portarono a relazioni dirette con i padroni di questi giovani per stipulare con essi «contratti di locazione d’opera».
Poi, accortosi che questo aiuto non risolveva i problemi se non in casi limitati, cominciò ad impiantare laboratori d’arti e mestieri, piccole aziende dove i prodotti finiti sotto la guida di un capo d’arte andassero a vantaggio degli stessi allievi. Si trattava di organizzare in casa propria l’apprendistato, in modo che i giovani apprendisti potessero guadagnarsi il pane senza venire sfruttati dai padroni. Finalmente passò all’idea di un capo d’arte che fosse lui stesso non il padrone del laboratorio o un salariato della scuola, ma un religioso laico, maestro d’arte, che potesse dare al giovane apprendista, disinteressatamente, a pieno tempo e per vocazione, una formazione professionale e cristiana completa.
Le scuole professionali da lui sognate, e poi attuate dai suoi Successori, furono un importante contributo alla soluzione della questione operaia. Egli non fu il primo né il solo in quell’impresa; ci mise, tuttavia, del suo, specialmente con l’armonizzare la sua istituzione con l’indole dei tempi e con l’imprimerle il proprio metodo educativo.
Non c’è quindi da stupirsi dell’attenzione che grandi sociologi cattolici del secolo scorso manifestarono per Don Bosco.
Mons. Charles Emil Freppel (1827-1891), vescovo di Angers, uomo di grande cultura e Deputato alla Camera francese, il 2 febbraio 1884, pronunziando un discorso in Parlamento sulla questione operaia, ebbe a dire:
«Il solo Vincenzo de’ Paoli ha fatto di più per la soluzione delle questioni operaie dei suoi tempi che tutti gli scrittori del secolo di Luigi XIV. Ed in questo momento in Italia un religioso, Don Bosco, che voi avete visto a Parigi, riesce meglio nel preparare la soluzione della questione operaia di tutti gli oratori al Parlamento italiano. Questa è la verità, incontestabile» (cf. Journal officiel de la République française… Chambre. Débats parlementaires, 3 février 1884, p. 280).

Una testimonianza che non ha bisogno di commentari…




Patagonia, nelle lettere dei primi missionari

Arrivo a Patagones e avvio dell’opera
            I primi salesiani impiantarono in modo definitivo la loro missione in Patagonia il 20 gennaio 1880. Accompagnati da monsignor Antonio Espinosa, vicario dell’arcivescovo Federico Aneyros, giunsero a Carmen de Patagones don Giuseppe Fagnano, don Emilio Rizzo, don Luigi Chiaria, il catechista coadiutore Luciani e un altro «giovane loro allievo», rimasto ignoto; con loro erano presenti anche quattro suore figlie di Maria Ausiliatrice: Giovanna Borgo, Angela Vallese, Angiolina Cassolo e Laura Rodriguez.
            I missionari si impegnarono per la catechesi e la formazione degli abitanti di Patagones e Viedma aprendo un collegio intitolato a san Giuseppe, mentre le figlie di Maria Ausiliatrice fondarono un istituto dedicato a Santa Maria de Las Indias. Vennero quindi avviate spedizioni presso le colonie che sorgevano lungo il corso del Rio Negro, con l’obiettivo di garantire sostegno spirituale e catechistico agli emigrati che abitavano quelle regioni e, allo stesso tempo, iniziare in modo sistematico la catechesi per la conversione delle comunità autoctone della Patagonia.
            La presenza dei salesiani in Argentina fu favorita e seguita con interesse dal governo argentino, che non fu ovviamente spinto in questa scelta da un fervido desiderio di vedere le comunità indigene convertite al cristianesimo, ma dalla necessità di calmare l’opinione pubblica indignata per le uccisioni indiscriminate e la vendita dei prigionieri: le campagne militari del 1879 per espandere i confini si erano scontrate con la resistenza delle comunità che abitavano i territori della Pampas e Patagonia.

Usi e costumi delle comunità autoctone della Patagonia
            Conoscere gli usi, i costumi, la cultura, le credenze delle comunità che si intendevano convertire fu un impegno importante per i primi missionari: già don Giacomo Costamagna, nel corso della sua missione esplorativa verso Patagones del 1879 annotò che, una volta superato il Rio Colorado, si era imbattuto in un albero «carico di drappi, o meglio dire, cenci, cui gli Indii avevano appesi come altrettanti voti». Il missionario spiegò che l’albero non era considerato una divinità, ma semplicemente la dimora «degli dei o spiriti buoni» e che i cenci dovevano essere una sorta di offerta per placarli e renderli benevoli. Costamagna scoprì successivamente che le comunità veneravano un «Dio supremo» chiamato Gùnechen.
            Le conoscenze aumentarono negli anni. Con il tempo i missionari compresero che le comunità della Patagonia credevano in un «Essere Supremo» che amministrava e reggeva l’universo e che il loro concetto di divinità benevola però – se paragonato a quello cristiano –appariva confuso, poiché spesso non era possibile «distinguere il principio del bene, che è Dio, dal genio del male che è il demonio». I membri della comunità temevano solo «le influenze del genio cattivo», per cui alla fine gli indios imploravano solo la divinità malvagia, affinché si astenesse da ogni male.
            I missionari annotarono tristemente che le comunità indigene «nulla sanno domandare al Signore di cose spirituali» e descrissero anche come veniva affrontata la malattia e la morte di un membro della comunità. Secondo la credenza comune il demonio, chiamato Gualicho, si impossessava degli infermi e, nel caso di morte del malato, il demone “aveva vinto”: «ed allora piangono, pregano e cantano lamentazioni accompagnate da mille esorcismi, coi quali pretendono di ottenere che il genio del male lasci in pace il defunto».
            Una volta sepolto il cadavere, iniziava il periodo del lutto, che in genere durava sei giorni in cui gli Indi «gettati colla faccia al suolo», cantavano «una specie di lamentazione»; abitare dove il defunto aveva risieduto ed entrare in contatto con qualche suo effetto personale era fortemente sconsigliato, perché in quel luogo aveva abitato Gualicho.
            Non esistevano cimiteri condivisi e sopra le tombe era possibile osservare «dove due e dove tre scheletri di cavalli», che venivano sacrificati al defunto perché fossero per lui di aiuto e sostegno nell’aldilà. I cavalli venivano così uccisi sopra la tomba lasciando lì i cadaveri in modo che il morto potesse usufruire della loro carne, mentre la sella, i rifornimenti vari e i gioielli venivano seppelliti con il cadavere.
            Nella vita ordinaria, solo i più ricchi avevano abitazioni in mattoni crudi, di forma quadrata, con null’altro «che l’uscio per entrarvi, ed una apertura nel mezzo del tetto per la luce e per l’uscita del fumo», mentre le comunità lungo il corso del Rio Negro erano stabilite presso fiumi o lagune e le abitazioni erano per lo più delle semplici tende: «cuoio di cavallo o di guanaco sospeso in alto con alcuni bastoncelli fissi nel suolo». A coloro che si erano arresi, il governo argentino aveva ordinato di costruirsi un rancio, cioè, «una cameretta più o meno grande formata ordinariamente di ghioggiuoli, piante di cui abbonda il campo nei luoghi umidi». I più fortunati avevano costruito case con pali di salice e malta.
            Nel 1883 i missionari annotarono: «Oggidì e specialmente nella cattiva stagione raro succede di vedere un Indio non vestito da capo a piedi, anche tra coloro che non si sono ancora arresi. Gli uomini vestono pressoché come i nostri, meno la pulitezza che non l’hanno, ed i pantaloni che li portano d’ordinario come i Garci, a modo, come dicono essi, di Ciripà. I più poveri, se non hanno altro, s’involgono dentro di una specie di manto di stoffa la più ordinaria. Le donne portano la manta, ed è una sopravveste, che copre tutto il corpo». Le donne rimasero più a lungo fedeli ai costumi tradizionali: «le donne hanno l’ambizione di portare grossi orecchini di argento, più anelli nelle dita, ed una specie di braccialetto sui polsi, fatto a filigrana d’argento con più giri attorno al braccio. Alcune di loro e le più agiate portano pure varii giri di filigrana sopra il petto. Esse sono di natura timidissime, e quando si avvicina alla loro abitazione alcun forastiero sconosciuto si nascondono frettolosamente».
            I matrimoni seguivano la tradizione: lo sposo consegnava ai genitori della futura moglie «varii oggetti preziosi in oro e argento, come sono anelli, braccialetti, staffe, freni e simili», oppure poteva più semplicemente versare «in danaro una somma convenuta fra loro»: i padri concedevano in sposa la propria figlia solo per denaro, e per di più, lo sposo era obbligato a restare presso la dimora della sposa e a provvedere al mantenimento dell’intera famiglia.
            Tra i capi o cacicchi era diffusa la poligamia e di conseguenza, come affermava don Costamagna in una lettera pubblicata nel gennaio 1880, era difficile convincerli a rinunciarvi per poter divenire cristiani.

Evangelizzazione delle comunità autoctone: “non con le percosse, ma con la mansuetudine e con la carità dovrai guadagnare questi tuoi amici”
            Un ruolo fondamentale nell’opera di catechesi ed evangelizzazione della Patagonia fu rivestito da don Domenico Milanesio, anche per la sua opera di mediatore tra le comunità e il governo argentino.
            Il missionario raggiunse i confratelli l’8 novembre 1880 dopo essere stato nominato vicario della parrocchia di N.S. Signora della Mercede di Viedma e in una lettera a don Michele Rua del 28 marzo 1881 raccontò la sua prima missione tra «gli indii del campo», sottolineando le notevoli difficoltà riscontrate nel tentativo di istruire e catechizzare: le comunità autoctone vivevano infatti distanti le une dalle altre e don Domenico doveva recarsi di persona presso i loro toldos, ossia le abitazioni. Talvolta riusciva a radunare più famiglie insieme e allora la catechesi veniva svolta all’esterno dove, seduti sui prati, i patagoni ascoltavano la lezione di catechismo.
            Don Domenico raccontò che anche una semplice preghiera come «Gesù mio, misericordia», da lui considerata semplice e di facile memorizzazione, richiese in realtà molto tempo per essere compresa: sebbene venisse fatta ripetere tra le cinquanta e cento volte, accadeva spesso che nel giro di un paio di giorni venisse dimenticata. Il desiderio però di vedere le comunità autoctone convertite e sinceramente cristiane fu una motivazione più che sufficiente per continuare nella missione: «Ma la nostra Religione ci comanda di amarli come nostri fratelli, come figli del Padre Celeste, come anime redente dal Sangue di Gesù Cristo; e perciò colla carità paziente, benigna, e che tutto spera, si dice, si ripete un giorno, due, dieci, venti finché basta, e finalmente si riesce a far loro imparare le cose necessarie. Se vedesse poi come sono contenti dopo; è una vera consolazione per essi e per noi, che ci ricompensa di tutto».
            Non fu semplice far accettare a queste comunità le verità della fede cattolica: don Domenico, in una relazione pubblicata sul Bollettino nel novembre 1883, raccontò che nel corso di una missione presso la comunità del cacicco (capo) Willamay, presso Norquin, rischiò seriamente la vita quando l’assemblea a cui stava predicando cominciò a discutere gli insegnamenti ricevuti fino a quel momento. Lo stesso Willamay, definendo Milanesio «un raccontator di sogni alla guisa delle vecchie», si ritirò nel suo toldo, mentre c’era chi parteggiava per il missionario e chi invece era dello stesso avviso del cacicco; di fronte a questa situazione Milanesio preferì rimanere in disparte e come annotò lui stesso: «Io poi me ne stava silenzioso aspettando l’esito di quell’agitamento di animi, il quale mi si faceva foriere di sinistra avventura. Ad un certo punto credetti veramente che fosse per me giunta l’ora di buscarmi almeno qualche bastonata da quei barbari, e forse anche di lasciare in mezzo di loro la mia pelle». Fortunatamente prevalse alla fine il partito che sosteneva il missionario, così il salesiano poté concludere la sua catechesi tra i ringraziamenti della comunità.
            Catechizzare queste popolazioni non fu quindi un’impresa facile e i salesiani furono ostacolati dai militari argentini che, con i loro atteggiamenti e con le loro abitudini, offrirono esempi negativi del vivere cristianamente.
            Don Fagnano registrò: «La conversione degli Indiani non è tanto facile ad ottenersi, quando sono obbligati a vivere presso a certi soldati, i quali non danno loro buon esempio di moralità; e nei loro toldos per ora non si può penetrare senza pericolo della vita, perché questi selvaggi si servono di tutti i mezzi per vendicarsi contro i Cristiani, che, secondo loro, vanno ad impadronirsi dei loro campi e dei loro bestiami». Lo stesso salesiano scrisse anche di due comunità che, stabilitesi a poca distanza da un accampamento argentino dove erano state aperte «botteghe da liquori», si abbandonarono «al vizio della ubriachezza». Don Fagnano rimproverò i militari che «per vile guadagno», posero le basi per rendere gli Indi ancora più propensi ad abbandonarsi a «bestiali disordini».
            Don Fagnano e don Milanesio continuarono però ad avvicinare, catechizzare e formare queste comunità, a «istruirli nelle verità del Vangelo, educarli colla parola, ma più con il buono esempio», nonostante il pericolo, perché, come da desiderio di don Bosco, potessero divenire «buoni cristiani e onesti cittadini”.

Giacomo Bosco




Quali sono le disposizioni per entrare nella Societa Salesiana

In varie parti del mondo si avvicinano i tempi quando alcuni giovani, attirati dalla grazia di Dio, si preparano di dire il loro “Fiat” alla sequela di Cristo, secondo il carisma che Dio ha istituito tramite san Giovanni Bosco. Quali sarebbero le disposizioni con le quali dovrebbero avvicinarsi a entrare a far parte della Società Salesiana di San Giovanni Bosco? Lo dice lo stesso santo in una sua lettera indirizzata ai suoi figli (MB VIII, 828-830).

            Il giorno di Pentecoste don Bosco indirizzava una lettera a tutti i salesiani, trattando del fine col quale si doveva entrare nella Pia Società di. San Francesco di Sales, ed annunziava che forse fra non molto questa sarebbe definitivamente approvata. Fra i documenti che possediamo non si ha traccia di tale assicurazione. Avendo però il suo autografo la data 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice 1867, sembra che la festa del giorno gli avesse dato l’ispirazione di scrivere e gli abbia mostrato più viva la visione dell’avvenire. Comunque sia, egli ne fece trarre varie copie, mutando poi la data egli stesso, e scrivendovi di proprio pugno l’indirizzo a don Bonetti ed ai miei figli di San Francesco di Sales abitanti in Mirabello; a don Lemoyne ed ai miei figli di San Francesco di Sales abitanti in Lanzo. Era pur sua la firma e il proscritto: Il Direttore legga e spieghi ove d’uopo.
            Ecco la copia destinata per i Salesiani dell’Oratorio.

            «A don Rua ed agli altri miei amati figli di San Francesco abitanti in Torino.

            La nostra Società sarà forse tra non molto definitivamente approvata e perciò io avrei bisogno di parlare ai miei amati figli con frequenza. La qual cosa non potendo fare sempre di persona procurerò almeno di farlo per lettera.

            Comincerò adunque dal dire qualche cosa intorno allo scopo generale della Società e poi passeremo a parlare altra volta delle osservanze particolari della medesima.

            Primo oggetto della nostra Società è la santificazione dei suoi membri. Perciò ognuno nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine. Chi ci entrasse per godere una vita tranquilla, aver comodità a proseguir gli studi, liberarsi dai comandi dei genitori, od esimersi dall’obbedienza di qualche superiore, egli avrebbe un fine storto e non sarebbe più quel sequere me (seguimi) del Salvatore, giacché seguirebbe la propria utilità temporale, non il bene dell’anima. Gli Apostoli furono lodati dal Salvatore e venne loro promesso un regno eterno, non perché abbandonarono il mondo, ma perché abbandonandolo si professavano pronti a seguirlo nelle tribolazioni; come avvenne di fatto, consumando la loro vita nelle fatiche, nella penitenza e nei patimenti, sostenendo in fine il martirio per la fede.

            Nemmeno con buon fine entra o rimane nella Società chi è persuaso di essere necessario alla medesima. Ognuno se lo imprima bene in mente e nel cuore: cominciando dal Superiore Generale fino all’ultimo dei soci, niuno è necessario nella Società. Dio solo ne deve essere il capo, il padrone assolutamente necessario. Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro capo, al loro vero padrone, al rimuneratore, a Dio, e per amor di lui ognuno deve farsi inscrivere nella Società, per amor di Lui lavorare, ubbidire, abbandonare quanto si possedeva al mondo per poter dire in fine della vita al Salvatore, che abbiamo scelto per modello: Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te; quid ergo erit nobis? (Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo? Mt 19,27)

            Mentre poi diciamo che ognuno deve entrare in Società guidato dal solo desiderio di servire a Dio con maggior perfezione e di fare del bene a sé stesso, s’intende fare a sé stesso il vero bene, bene spirituale ed eterno. Chi si cerca una vita comoda, una vita agiata, non entra con buon fine nella nostra Società. Noi mettiamo per base la parola del Salvatore che dice: “Chi vuole essere mio discepolo, vada a vendere quanto possiede nel mondo, lo dia ai poveri e mi segua.” Ma dove andare, dove seguirlo, se non aveva un palmo di terra ove riporre lo stanco suo capo? “Chi vuol farsi mio discepolo, dice il Salvatore, mi segua colla preghiera, colla penitenza e specialmente rinneghi sé stesso, tolga la croce delle quotidiane tribolazioni e mi segua. Abneget semetipsum tollat crucem suam quotidie, et sequatur me.” (Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Lc. 9,23). Ma fino a quando seguirlo? Fino alla morte e, se fosse mestieri, anche ad una morte di croce.

            Ciò è quanto nella nostra Società fa colui che logora le sue forze nel sacro ministero, nell’insegnamento od altro esercizio sacerdotale, fino ad una morte eziandio violenta di carcere, di esilio, di ferro, di acqua, di fuoco, fino a tanto che dopo aver patito, ed esser morto con Gesù Cristo sopra la terra, possa andare a godere con Lui in Cielo.

            Questo sembrami il senso di quelle parole di S. Paolo che dice a tutti i cristiani: Qui vult gaudere cum Christo, oportet pati cum Christo. (Chi vuole rallegrarsi con Cristo deve patire con Cristo)

            Entrato un socio con queste buone disposizioni deve mostrarsi senza pretese ed accogliere con piacere qualsiasi ufficio gli possa essere affidato. Insegnamento, studio, lavoro, predicazione, confessione in chiesa, fuori di chiesa, le più basse occupazioni devono assumersi con ilarità e prontezza d’animo, perché Dio non guarda la qualità dell’impiego, ma guarda il fine di chi lo copre. Quindi tutti gli uffizi sono egualmente nobili, perché egualmente meritori agli occhi di Dio.

            Miei cari figliuoli, abbiate fiducia nei vostri superiori: essi devono rendere stretto conto a Dio delle vostre opere; perciò essi studiano la vostra capacità, le vostre propensioni e ne dispongono in modo compatibile colle vostre forze, ma sempre come loro sembra tornare di maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime.

            Oh! se i nostri fratelli entreranno in Società con queste disposizioni, le nostre Case diventeranno certamente un paradiso terrestre. Regnerà la pace e la concordia tra gli individui di ogni famiglia, e la carità sarà la veste quotidiana di chi comanda, l’ubbidienza ed il rispetto precederanno i passi, le opere e perfino i pensieri dei Superiori. Si avrà insomma una famiglia di fratelli intorno al loro padre, per promuovere la gloria di Dio sopra la terra, per andare poi un giorno ad amarlo e lodarlo nell’immensa gloria dei beati in Cielo. Dio ricolmi voi e le vostre fatiche di benedizioni e la Grazia del Signore santifichi le vostre azioni e vi aiuti a perseverare nel bene.

Torino, 9 giugno 1867, giorno di Pentecoste.
Aff.mo in G. C., Sac. Bosco GIOVANNI
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Servo di Dio Akash Bashir

            Il 25 febbraio scorso, abbiamo celebrato la festa dei nostri protomartiri salesiani, Mons. Luigi Versiglia e il Sacerdote Calisto Caravario. Il martirio, fin dai tempi della prima comunità cristiana, è stato sempre un segno evidente della nostra fede, simile al sacrificio di Gesù sulla croce per la nostra salvezza. Attualmente, nella nostra Congregazione Salesiana, stiamo affrontando la causa di martirio di Akash Bashir, un giovane salesiano ex-allievo del Pakistan, che a soli 20 anni ha dato la sua vita per la salvezza della sua comunità parrocchiale. La fase di inchiesta diocesana per il processo di Beatificazione è conclusa il 15 marzo, anniversario del suo martirio.
            Il Pakistan è uno dei Paesi musulmani più estremisti al mondo. La Repubblica Islamica del Pakistan è emersa dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’indipendenza dall’India nel 1947. Tuttavia, i cristiani erano già presenti in questa regione grazie ai missionari domenicani e francescani. Attualmente, i cristiani in Pakistan costituiscono circa l’1,6% della popolazione totale (cattolici e anglicani), pari a circa 4 milioni di persone. Le minoranze religiose affrontano discriminazioni quotidiane, emarginazione, mancanza di pari opportunità nel lavoro e nell’educazione, e persistono discriminazioni e talvolta persecuzioni religiose, rendendo la libertà religiosa una questione critica.
            Nonostante le sfide, le comunità cristiane in Pakistan dimostrano resilienza e speranza. Chiese e organizzazioni cristiane svolgono un ruolo fondamentale nel fornire sostegno e promuovere l’unità interreligiosa, e i Salesiani hanno contribuito in modo significativo con la loro presenza.
            La vita di Akash Bashir inizia in un paesino vicino all’Afghanistan, in una famiglia composta da cinque figli, essendo lui il terzo. Akash, nato durante l’estate il 22 giugno nel 1994, ha affrontato un clima estremo, sopravvivendo con fatica. Nonostante le difficoltà legate al clima avverso, alla povertà familiare e all’alimentazione scarsa, queste sfide hanno contribuito a forgiare il suo carattere.
            Il sogno di Akash di servire nell’esercito è stato ostacolato dalla precarietà scolastica e finanziaria. La famiglia Bashir decide di emigrare verso est, nel Punjab, alla città di Lahore, vicina alla frontiera con l’India, specificamente nel quartiere cristiano di Youhanabad, dove i Salesiani gestiscono un collegio, una scuola elementare e una scuola tecnica. Nel settembre 2010, Akash Bashir entra all’Istituto Salesiano Don Bosco Technical and Youth Center.
            In un contesto politico-religioso difficile, Akash si offre volontario come guardia di sicurezza nella Parrocchia di Youhanabad nel dicembre 2014. Il suo ruolo come guardia di sicurezza alla Parrocchia di San Giovanni consisteva nel sorvegliare l’ingresso nel cortile e controllare i fedeli al cancello d’ingresso, dato che le chiese sono protette da un muro con un’unica porta d’accesso. Il 15 marzo 2015, durante la celebrazione della Messa, Akash si trova a prestare servizio.
            Quel giorno era la IV domenica di Quaresima (la domenica «Laetare») celebrata con la partecipazione di 1200-1500 fedeli alla Messa, presieduta da padre Francis Gulzar, il Parroco. Alle 11.09, un primo attacco terroristico colpisce la comunità anglicana a meno di 500 metri dalla chiesa cattolica. Un minuto dopo, alle 11.10, una seconda detonazione avviene proprio all’ingresso del cortile della Parrocchia Cristiana, dove Akash Bashir, come guardia di sicurezza volontaria, presta servizio.
            Sua Eminenza, Cardinale Ángel Fernández, il Rettor Maggiore dei Salesiani, nella introduzione alla sua biografia descrive il martirio di Akash con queste parole:
«Il 15 marzo 2015, mentre si stava celebrando la Santa Messa nella parrocchia di San Giovanni, il gruppo di guardie di sicurezza composto da giovani volontari, di cui Akash Bashir faceva parte, sorvegliava fedelmente l’ingresso. Quel giorno accadde qualcosa di insolito. Akash notò che una persona con dell’esplosivo sotto i vestiti stava cercando di entrare in chiesa. La trattenne, le parlò e le impedì di continuare, ma rendendosi conto che non poteva fermarla la abbracciò strettamente dicendo: «Morirò, ma non ti farò entrare in chiesa». Così il giovane e il kamikaze morirono insieme. Il nostro giovane offrì la sua vita salvando quella di centinaia di persone, ragazzi, ragazze, mamme, adolescenti e uomini adulti che stanno pregando in quel momento dentro la chiesa. Akash aveva 20 anni».
            Dopo l’esplosione, quattro persone agonizzanti giacciono a terra: l’uomo con l’esplosivo, un mercante di legumi, una bambina di sei anni e il nostro Akash Bashir. Il suo sacrificio ha impedito che il numero delle vittime fosse molto più elevato. Il Vangelo proclamato quel giorno ricordava le parole di Gesù a Nicodemo: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,20-21). Akash ha sigillato queste parole con il suo sangue di giovane cristiano.
            Il 18 marzo, l’Arcivescovo di Lahore presiede una celebrazione ecumenica delle esequie di Akash e dei cristiani anglicani, con la partecipazione di 7.000-10.000 fedeli. Successivamente, il corpo viene trasferito al cimitero di Youhanabad, dove è sepolto in una tomba costruita dal padre di Akash.
            La vita di Akash Bashir è una testimonianza potente che richiama le prime comunità cristiane circondate da filosofie, culture avverse e persecuzioni. Le comunità degli Atti degli Apostoli erano pure minoritarie, ma con una fede forte e coraggio illimitato, simili ai cristiani in Pakistan.
            L’esempio luminoso di Akash Bashir, ex-allievo Salesiano, continua a ispirare il mondo. Lui ha vissuto le parole di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13).
            Il 15 marzo 2022, è iniziata ufficialmente l’inchiesta diocesana, segnando un passo significativo verso la possibile beatificazione del primo cittadino pakistano. La conclusione dell’inchiesta diocesana il 15 marzo 2024 segna un traguardo fondamentale per il percorso di beatificazione e canonizzazione.
            Finisco ricordando ancora le parole di sua Eminenza, Car. Ángel Fernández su Akash Bashir:

«Essere santo oggi è possibile! Ed è senza dubbio il segno carismatico più evidente del sistema educativo salesiano. In modo particolare, Akash è la bandiera, il segno, la voce di tanti cristiani che vengono attaccati, perseguitati, umiliati e martirizzati nei paesi non cattolici. Akash è la voce di tanti giovani coraggiosi che riescono a dare la loro vita per la fede nonostante le difficoltà della vita, la povertà, l’estremismo religioso, l’indifferenza, la disuguaglianza sociale, la discriminazione. La vita e il martirio di questo giovane pakistano, di soli 20 anni, ci fa riconoscere la potenza dello Spirito Santo di Dio, vivo, presente nei luoghi meno attesi, negli umili, nei perseguitati, nei giovani, nei piccoli di Dio. La sua Causa di Beatificazione è per noi segno di speranza ed esempio di santità giovanile fino al martirio».

don Gabriel de Jesús CRUZ TREJO, sdb
vicepostulatore della causa di Akash Bashir




Preghiere e invocazioni indulgenziate

A volte si sente questa domanda: Qual è la preghiera più potente?
La formulazione è certamente sbagliata, perché porta il pensiero a una formula magica, che ha potere su Dio, che lo obbliga a rispondere positivamente alla nostra richiesta.
La domanda più corretta sarebbe: Qual è la preghiera più gradita a Dio?
Sicuramente è quella fatta con tutto il cuore, non solo con le labbra.
Però poiché tante volte non sappiamo pregare, così come Gesù ha insegnato agli apostoli il “Padre Nostro”, anche la Chiesa propone delle preghiere. E non sono scelte a caso, ma hanno origine nella storia della salvezza, biblica o nella vita dei santi. E per il loro alto valore dottrinale, alcune sono state arricchite con indulgenze.

Ma che cos’è l’indulgenza?
Leggiamo nell’Enchiridion indulgentiarum (Manuale delle indulgenze) questa spiegazione:
“L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi.”
Più esplicitamente: non basta aver ottenuto il perdono della colpa nel Sacramento della Riconciliazione, bisogna fare una riparazione per il danno arrecato (perché c’è un danno, anche se non subito visibile), riparazione che non sempre si fa mediante la penitenza imposta dal confessore.
Anche nelle relazioni umane si verifica questo. Per esempio, se un giornalista ha scritto cose errate su una persona, non basta riconoscere lo sbaglio, deve riparare, ossia ritrattare il suo errore. O se una persona ha prodotto distruzioni materiali, non basta riconoscere la colpa, ma bisogna riparare i danni. O se un ladro ha riconosciuto il suo delitto e ha ricevuto la sua condanna, non basta questo, gli si chiede di riparare il danno, ossia di far ritornare il bene rubato. È un atto di giustizia, che si capisce molto bene quando siamo noi le vittime.

Le preghiere indulgenziate, se sono fatte con fede, ci fanno ottenere la remissione dovuta ai peccati parzialmente o addirittura plenariamente (liberano in parte o in tutto dalla pena temporale). San Giovanni Bosco le stimava tanto, e non perdeva occasione di proporre non solo preghiere ma anche opere indulgenziate.

Proponiamo di seguito una lista di preghiere indulgenziate, nelle quali si presentano l’uso, l’origine, dove si trovano nell’Enchiridion indulgentiarum (Manuale delle indulgenze) e la fonte del testo. Il Signore voglia che queste preghiere ci aiutino a progredire nella vita spirituale.

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L’infanzia di un futuro santo: san Francesco di Sales

            Francesco nacque il 21 agosto 1567 al castello di Sales, a Thorens, vicino ad Annecy, nella Savoia, in un paesaggio di monti e di valli campestri.
            Il padre di Francesco era un uomo leale, cavalleresco, generoso e allo stesso tempo emotivo e impulsivo. In virtù della sua saggezza e del suo senso d’equità, era sovente scelto come arbitro nelle dispute e nei processi. Inoltre si dimostrava assai accogliente verso i poveri del vicinato, al punto che avrebbe dato la sua minestra a un povero piuttosto che rinviarlo a chiedere l’elemosina. Di sua madre Francesca, santa Giovanna di Chantal ha tracciato questo mirabile ritratto:

            Era una signora tra le più ragguardevoli del suo tempo. Era dotata di un animo nobile e generoso, ma puro, innocente e semplice, da vera madre e nutrice dei poveri. Era modesta, umile e bonaria con tutti, molto tranquilla nella sua casa; governava con saggezza la propria famiglia, preoccupata di farla vivere nel timore di Dio.

            Alla nascita di Francesco, suo primogenito, aveva solo quindici anni, mentre suo marito ne aveva più di quaranta. Questa differenza di età non era rara all’epoca, soprattutto tra i nobili, dato che il matrimonio era considerato prima di tutto come l’alleanza tra due famiglie per avere figli e ingrandire le proprie terre e i propri titoli. Il sentimento contava poco allora, il che non impedì che tale unione, all’apparenza mal combinata, si rivelasse solida e felice.
            La maternità si annunciava particolarmente difficile. La futura mamma pregò davanti alla Santa Sindone, allora conservata a Chambéry, capitale della Savoia. Francesco venne al mondo due mesi prima del termine naturale e, nel timore della sua sopravvivenza, venne tosto battezzato.
            Su Francesco, figlio primogenito, erano riposte tutte le speranze del padre, il quale prevedeva per lui una prestigiosa carriera al servizio del suo paese. Tale progetto sarà una fonte di difficoltà durante tutto il periodo della sua giovinezza, segnata da una tensione tra l’obbedienza al padre e la propria particolare vocazione.

I primi sei anni (1567-1573)
            Alla nascita del piccolo Francesco, sua giovane madre non essendo in grado di allattarlo, si fece ricorso a une contadina del paese. Tre mesi più tardi, se ne prese cura per qualche tempo la sua madrina, cioè la sua nonna materna.
            «Mia madre ed io» – scriverà un giorno – «siamo un tutt’uno». In effetti, il bimbo «non è ancora in grado di usare la sua volontà, né può amare altro che il seno e il volto della sua cara madre». È un modello di abbandono alla volontà di Dio:

            Non pensa affatto a voler esser da un lato o dall’altro e non desidera altro che essere tra le braccia di sua madre, con la quale pensa di formare una cosa sola; né si preoccupa punto di conformare il proprio volere a quello della madre, perché non lo percepisce, né si cura di averlo, e lascia che sua madre si muova, faccia e decida ciò che ritiene bene per lui.

            Francesco di Sales affermava inoltre che i bambini non ridono prima del quarantesimo giorno. Solo dopo quaranta giorni essi ridono, cioè sono consolati, perché, come dice Virgilio, «solo allora incominciano a conoscere la propria madre».
            Il piccolo Francesco venne svezzato solamente nel novembre del 1569, quando aveva ormai due anni e tre mesi. A tale età aveva già incominciato a camminare e a parlare. Imparare a camminare avviene in maniera progressiva e capita sovente che i bambini cadano in terra, il che non è affatto grave, perché «mentre sentono che la loro madre li tiene per le maniche, camminano svelti e si aggirano qua e là, senza meravigliarsi dei capitomboli che le loro gambe insicure fanno far loro». Talvolta è il padre che osserva il suo bimbo, tuttora debole e incerto nel muovere i primi passi, e gli dice: “adagio adagio, bambino mio”; se poi cade, lo incoraggia dicendo: “ha fatto un salto, è saggio, non piangere”; poi gli si avvicina e gli dà la mano».
            D’altra parte, imparare a camminare come a parlare avviene per imitazione. È «a forza di udire la madre e di balbettare con lei», che il bambino impara a parlarne la stessa lingua.

Avventure e giochi infantili
            L’infanzia è il tempo della scoperta e dell’esplorazione. Il piccolo Savoiardo ha osservato la natura che lo circondava e ne rimase estasiato. A Sales, sul versante delle montagne a est, tutto è grandioso, imponente, austero; ma lungo la valle, al contrario, tutto è verdeggiante, ubertoso e ameno. Al castello di Brens, nel Chiablese, dove probabilmente fece vari soggiorni tra i tre e i cinque anni, il piccolo Francesco poteva ammirare lo splendore del lago di Lemano. Ad Annecy, il lago circondato da colline e monti non lo lasciò mai indifferente, come lo dimostrano le numerose immagini letterarie riguardanti la navigazione. È facile costatare che Francesco di Sales non fu un uomo nato in città.
            Il mondo degli animali, all’epoca ancora così presente nei castelli, nei paesi e anche in città, è un incanto e una fonte di istruzione per il bambino. Pochi autori ne hanno parlato in maniera tanto abbondante quanto lui. Molte delle sue informazioni (sovente leggendarie) le ha attinte alle sue letture; tuttavia l’osservazione personale dovette contare non poco, ad esempio quando scrive che «l’alba fa cantare il gallo; la stella del mattino allieta i malati, invita al canto gli uccelli».
            Il piccolo Francesco ha considerato a lungo e ammirato, il lavoro delle api, ha osservato e ascoltato attentamente le rondini, i colombi, la chioccia e le rane. Quante volte ha dovuto assistere al pasto dei piccioni nel cortile del castello!
            Il bambino ha soprattutto bisogno di manifestare il suo desiderio di diventare grande e di crescere tramite il gioco, che è anche la scuola del vivere insieme e una maniera di prendere possesso dell’ambiente circostante. Francesco ha giocato a dondolo su cavalli di legno? In ogni caso, egli racconta in una sua predica che «i bambini dondolano su cavalli di legno, li chiamano cavalli, nitriscono per loro, corrono, saltano, si trastullano con questo puerile divertimento». Ed ecco un ricordo personale della sua infanzia: «Quando eravamo bambini, con quale cura assemblavamo pezzi di tegole, di legni, di fango per costruire casette e minuscoli fabbricati! E se qualcuno li distruggeva ci sentivamo smarriti e piangevamo».
            Ma la scoperta del mondo circostante non avviene sempre senza rischi e l’apprendimento del camminare riserva delle sorprese. La paura a volte è un’ottima consigliera, specialmente nel caso in cui c’è un rischio reale. Se i bambini vedono un cane che abbaia, “subito si mettono a gridare e non smettono fino a quando non sono vicini alla loro mamma. Tra le sue braccia si sentono sicuri e fin tanto che ne stringono la mano pensano che nessuno gli possa far del male”. A volte però il pericolo è immaginario. Il piccolo Francesco aveva paura del buio, ed ecco come ne fu guarito dalla paura del buio: “Mi sforzai poco alla volta di andare da solo, con il cuore armato unicamente della fiducia in Dio, nei luoghi dove la mia immaginazione mi incuteva paura; alla fine mi sono rinfrancato a tal punto da considerare deliziose le tenebre e la solitudine della notte, a motivo di questa presenza di Dio, che in tale solitudine diventa ancor più desiderabile”.

L’educazione familiare
            La prima educazione spettava alla madre. Tra la giovane mamma e il suo primogenito si stabilì un’intimità eccezionale. Si disse che ella fosse incline a coccolare il suo figlio, il quale peraltro le assomigliava parecchio. Preferiva vederlo vestito da paggetto piuttosto che in costume da gioco. La madre si prese cura della sua educazione religiosa, e, preoccupata di insegnargli il suo «piccolo credo», lo conduceva con sé alla chiesa parrocchiale di Thorens.
            Da parte sua, il bambino sperimentava tutto l’affetto di cui era fatto oggetto e la prima parola del bimbo sarebbe stata questa: «Mio Dio e madre mia, mi amano tanto». «L’amore delle madri verso i figli è sempre più tenero di quello dei padri» – scriverà Francesco di Sales –, perché a suo modo di vedere, «a loro costa di più». Secondo un testimone, è lui che consolava talvolta sua madre nei suoi momenti di melanconia dicendole: “Ricorriamo al buon Dio, mia buona madre, ed egli ci aiuterà”.
            Da suo padre incominciò ad apprendere uno «spirito giusto e ragionevole». Egli gli faceva comprendere il motivo di ciò che gli era chiesto, insegnandogli a essere responsabile dei propri atti, a non mentire mai, a evitare i giochi d’azzardo, ma non quelli di destrezza e di intelligenza. Fu sicuramente assai soddisfatto della risposta che suo figlio gli diede allorché all’improvviso gli chiese a che cosa pensava: «Padre mio, penso a Dio e a essere un uomo da bene».
            Per rinforzarne il carattere, suo padre gli impose uno stile di vita virile, la fuga di comodità corporali, ma anche giochi all’aria aperta con i cugini Amé, Louis e Gaspard. Soprattutto con costoro Francesco passerà la sua infanzia e giovinezza, durante il gioco e in collegio. Imparò a montare a cavallo e a maneggiare le armi da caccia. Gli vennero dati come compagni anche ragazzi del paese, ma scelti con cura.
            Fanciullo di solito saggio e tranquillo, Francesco manifestava però in alcune circostanze impeti d’ira sorprendenti. In occasione della visita di un protestante al castello della famiglia, diede sfogo alla sua animosità contro le galline, che si mise a bastonare, gridando a squarcia gola: «Su! su! addosso agli eretici!». Ci vorranno tempo e sforzi per convertirsi alla “dolcezza salesiana”.

L’entrata a scuola
            A sei o sette anni il bambino raggiunge l’uso della ragione. Per la Chiesa, ha ormai la capacità di discernere il bene e il male, e, per gli umanisti, può incominciare a frequentare la scuola primaria. È l’età in cui di solito nelle famiglie nobili i fanciulli passano dalle mani delle donne a quelle degli uomini, dalla madre al padre, dalla governante al tutore o precettore. L’età della ragione segnava anche, per un’esigua minoranza di fanciulli, l’entrata in una scuola o in un collegio. Ora Francesco dimostrava notevoli disposizioni allo studio, anzi una tale impazienza da fargli supplicare di mandarlo a scuola senza indugi.
            Nell’ottobre del 1573, Francesco venne inviato al collegio di La Roche, in compagnia dei suoi cugini Amé, Louis et Gaspard. Alla tenera età di sei anni, Francesco si allontanò quindi dalla famiglia. Vi resterà due anni per fare la sua «piccola grammatica». I fanciulli alloggiati nella città, posti sotto la sorveglianza di un pedagogo particolare, si mescolavano durante la giornata nella massa dei trecento allievi che frequentavano il collegio. Un servo della famiglia si occupava in modo speciale di Francesco che era il più piccolo.
            Stando a ciò che conosciamo delle scuole dell’epoca, i fanciulli cominciavano a leggere e a scrivere, servendosi di sillabari e di primi elementi di grammatica, a recitare a memoria le preghiere e alcuni testi scelti, a imparare i rudimenti della grammatica latina, le declinazioni e le coniugazioni dei verbi. L’impegno della memoria, ancora molto dipendente dal metodo didattico in uso, era concentrato soprattutto sui testi di religione, ma si insisteva già sulla qualità della dizione, tratto caratteristico dell’educazione umanista. In fatto di educazione morale, che occupava allora un posto importante nella formazione umanista degli allievi, essa mutuava i suoi modelli più dall’antichità pagana che dagli autori cristiani.
            Fin dall’inizio dei suoi studi al collegio di La Roche, Francesco si comportò da eccellente allievo. Ma questo primo contatto con il mondo scolastico può aver lasciato in lui qualche ricordo meno gradevole, come racconterà lui stesso a un amico. Non gli era mai capitato di mancare senza volerlo alla scuola e di essere «nella situazione in cui si trovano talvolta dei buoni scolari che, giunti in ritardo, hanno marinato certe lezioni»?

            Essi vorrebbero certo rientrare nell’orario d’obbligo e riconquistarsi la benevolenza dei loro professori; ma oscillando tra la paura e la speranza, non sanno decidersi in quale ora comparire davanti al professore irritato; bisogna evitare la sua attuale collera sacrificando il perdono sperato, oppure ottenerne il perdono esponendosi al rischio di essere puniti? In tale esitazione lo spirito del fanciullo deve penare non poco nel discernere ciò che gli è più vantaggioso.

            Due anni più tardi, sempre con i suoi cugini, eccolo al collegio d’Annecy, dove Francesco studierà per tre anni. Con i suoi cugini alloggiava in città presso una signora, che chiamava sua zia. Dopo i due anni di grammatica a La Roche, entrò nel terzo anno di studi classici e fece dei rapidi progressi. Tra le esercitazioni in uso al collegio vi erano le declamazioni. Il ragazzo vi eccelleva, «perché aveva un portamento nobile, un bel fisico, un viso attraente e un’ottima voce».
            Sembra che la disciplina fosse quella tradizionale e severa, e sappiamo che un reggente si comportava come un vero castigamatti. Ma la condotta di Francesco non lasciava punto a desiderare; un giorno avrebbe lui stesso chiesto di essere castigato al posto del cugino Gaspard che piangeva impaurito.
            L’evento religioso più importante per un fanciullo era la prima comunione, sacramento con il quale “siamo uniti e congiunti alla divina bontà e riceviamo la vera vita delle nostre anime”. Come dirà più tardi a proposito della comunione, egli avrà preparato “il suo piccolo cuore per essere la dimora di Colui” che vuole “possederlo” tutto intero. Lo stesso giorno ricevette a poche ore di distanza il sacramento della cresima, sacramento con il quale ci uniamo cin Dio “come il soldato con il suo capitano”. In tale occasione i suoi genitori gli diedero come precettore don Jean Déage, un uomo burbero, perfino collerico, ma totalmente dedito al suo allievo che accompagnerà durante tutto il tempo della sua formazione.

Alla soglia dell’adolescenza
            Gli anni dell’infanzia e della fanciullezza di Francesco nella Savoia lasceranno in lui in modo incontestabile un’impronta indelebile, ma susciteranno anche nel suo animo i primi germi di una vocazione particolare. Impegnato a dare agli altri il buon esempio con discrezione, interveniva presso i suoi compagni con opportune iniziative. Ancora molto giovane, gli piaceva riunirli per insegnare loro la lezione di catechismo, che stava imparando. Dopo i giochi, li conduceva a volte alla chiesa di Thorens, dove erano diventati figli di Dio. Nei giorni di vacanza, li portava con sé a passeggio nei boschi e ai bordi del fiume a cantare e pregare.
            Ma la sua formazione intellettuale era solo agli inizi. Al termine di tre anni al collegio d’Annecy, conosceva tutto ciò che la Savoia era in grado di insegnargli. Suo padre decise di inviarlo a Parigi, la capitale del sapere, per fare di lui un «dotto». Ma in quale collegio inviare un figlio tanto dotato? La sua scelta era indirizzata dapprima al collegio di Navarre frequentato dai nobili. Ma Francesco intervenne abilmente aiutato dalla madre. Dietro le insistenze del figlio, alla fine il padre accettò di mandarlo al collegio di Clermont dei padri gesuiti.
            Fatto significativo: prima di partire, Francesco chiese di ricevere la tonsura, una pratica ancora ammessa all’epoca per i fanciulli destinati alla carriera ecclesiastica, che però non dovette essere gradita a suo padre, che non si augurava una vocazione ecclesiastica per il figlio primogenito.
            Giunto alla soglia dell’adolescenza, il ragazzo inizia una nuova tappa della sua vita. «L’infanzia è bella – scriverà un giorno – ma volere essere sempre bambini è compiere una scelta sbagliata, perché un bambino di cento anni è disprezzato. Incominciare ad apprendere è molto lodevole, ma chi incomincia con l’intento di non perfezionarsi mai, agirebbe contro ragione». Dopo aver ricevuto in Savoia i germi di questi «molteplici doni di natura e di grazia», Francesco troverà a Parigi grandi possibilità di coltivarli e di svilupparli.




Ordinazione episcopale del cardinale Ángel Fernández Artime

La Santa Sede ha reso noto in un comunicato della Sala Stampa del 5 marzo 2024, che il papa Francesco ha deciso l’ordinazione episcopale del cardinale Ángel Fernández Artime, sdb, Rettore Maggiore della Società Salesiana di San Giovanni Bosco, assegnandoli la Sede titolare di Ursona, con dignità arcivescovile. È un’antica sede episcopale della Spagna (IV sec.), che era situata nella città di Ossuna, suffraganea dell’arcidiocesi di Siviglia, e dal 1969 è annoverata tra le sedi vescovili titolari della Chiesa Cattolica.
L’ordinazione episcopale avviene secondo quanto stabilito dal papa Giovanni XXIII, nella Lettera Apostolica «Motu Proprio», Cum gravissima, sulla dignità episcopale da conferirsi a tutti i cardinali (15 aprile 1962), ed è programmata per il prossimo 20 aprile.

È il primo Rettor Maggiore ad essere nominato cardinale e anche il primo Rettor Maggiore ad essere nominato arcivescovo della Chiesa Cattolica.

A seguito di questa elevazione al cardinalato, si sono succeduti vari eventi ed altri succederanno:
– 9 luglio 2023, al termine dell’Angelus, papa Francesco ha annunciato la sua creazione a cardinale;
– 30 settembre 2023, è stato creato cardinale, ricevendo la berretta e l’anello cardinalizi nel Concistoro Ordinario pubblico;
– 4 ottobre 2023, ha ricevuto l’incarico nella Curia Romana, essendo nominato membro del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (DIVCSVA);
– 17 dicembre 2023, ha preso possesso della diaconia di Santa Maria Ausiliatrice in via Tuscolana;
– 20 aprile 2024, è programmata l’ordinazione episcopale; sarà fatta per imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione di S. Em.R. il Sig. Card. Emil Paul TSCHERRIG, nunzio apostolico emerito in Italia e nella Repubblica di San Marino al quale si aggiungeranno S. Em.R. il Sig. Card. Cristóbal LÓPEZ ROMERO, sdb, Arcivescovo di Rabat (Marocco) e S.E.R. Mons. Lucas VAN LOOY, sdb, vescovo emerito di Gent (Belgio). La celebrazione si svolgerà nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore in Roma e ha inizio alle ore 15.30;
– 16 agosto 2024, fine del mandato come Rettor Maggiore e inizio del servizio presso la Santa Sede, secondo la missione che gli verrà affidata.

Il suo successore alla guida della Congregazione Salesiana sarà eletto nel 29° Capitolo Generale della Congregazione (che avrà luogo dal 16 febbraio al 12 aprile 2025), che è stato già convocato, secondo le Costituzioni Salesiane.

Auguriamo un buon proseguimento al nostro Rettor Maggiore, cardinal Ángel, nel servizio alla Chiesa Universale.