Santa Pasqua 2024!

Cristo è RISORTO!

Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti… (cf. 2Tm. 2,8)

Santa Pasqua a tutti i nostri lettori!




Sono un salesiano e sono un bororo

Diario di una giornata missionaria felice e benedetta

            Cari amici del Bollettino Salesiano, vi scrivo da Meruri, nello stato del Mato Grosso do Sul. Scrivo questo saluto quasi come se fosse una cronaca giornalistica, perché sono passate 24 ore da quando sono arrivato in mezzo a questa città.
            Ma i miei confratelli salesiani sono arrivati 122 anni fa e da allora siamo sempre stati in questa missione in mezzo alle foreste e ai campi, accompagnando la vita di questo popolo indigeno.
            Nel 1976 un salesiano e un indio sono stati derubati della loro vita con due colpi di pistola (da parte di “facendeiros” o grandi proprietari terrieri), perché ritenevano che i salesiani della missione fossero un problema per potersi appropriare di altre proprietà in queste terre che appartengono al popolo Boi-Bororo. Si tratta del Servo di Dio Rodolfo Lunkenbein, salesiano, e dell’indio Simao Bororo.
            E qui abbiamo potuto vivere ieri molti momenti semplici: siamo stati accolti dalla comunità indigena al nostro arrivo, li abbiamo salutati – senza fretta – perché qui tutto è tranquillo. Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale, abbiamo condiviso riso e feijoada (stufato di fagioli), e abbiamo goduto di una conversazione amabile e calorosa.
            Nel pomeriggio mi avevano preparato una riunione con i capi delle varie comunità; erano presenti alcune donne capo (in diversi villaggi è la donna ad avere l’autorità ultima). Abbiamo dialogato in modo sincero e profondo. Mi hanno esposto le loro riflessioni e mi hanno presentato alcune delle loro esigenze.
            In uno di questi momenti, un giovane salesiano Boi Bororo ha preso la parola. È il primo Bororo a diventare salesiano dopo 122 anni di presenza salesiana. Questo ci invita a riflettere sulla necessità di dare tempo a tutto; le cose non sono come pensiamo e vogliamo che siano nel modo efficiente e impaziente di oggi.
            E questo giovane salesiano ha parlato così davanti alla sua gente, alla sua gente e ai suoi capi o autorità: «Sono salesiano ma sono anche Bororo; sono Bororo ma sono anche salesiano, e la cosa più importante per me è che sono nato proprio in questo luogo, che ho incontrato i missionari, che ho sentito parlare dei due martiri, padre Rodolfo e Simao, e ho visto la mia gente e il mio popolo crescere, grazie al fatto che la mia gente ha camminato insieme alla missione salesiana e la missione ha camminato insieme alla mia gente. È ancora la cosa più importante per noi, camminare insieme».
            Ho pensato per un attimo a quanto sarebbe stato orgoglioso e felice don Bosco di sentire uno dei suoi figli salesiani appartenere a questo popolo (come altri salesiani che provengono dal popolo Xavante o dagli Yanomani).
            Allo stesso tempo, nel mio discorso ho assicurato loro che vogliamo continuare a camminare al loro fianco, che vogliamo che facciano tutto il possibile per continuare a curare e salvare la loro cultura – e la loro lingua – con tutto il nostro aiuto. Ho detto loro che sono convinto che la nostra presenza li abbia aiutati, ma sono anche convinto di quanto ci faccia bene stare con loro.

«Avanti!» disse la Pastorella
            Ho pensato all’ultimo sogno missionario di don Bosco: e quella Pastorella, che si fermò accanto a Don Bosco e gli disse: «Ti ricordi del sogno che hai fatto a 9 anni?… Guarda ora, che cosa vedi?» «Vedo montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari».
            «Bene — disse la Pastorella — Ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani». «Ma come fare tutto questo? — esclamò Don Bosco — Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi». «Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei loro figli». Lo stanno facendo.
            Fin dall’inizio del nostro cammino come congregazione, guidato (e amabilmente “spinto”) da Maria Ausiliatrice, Don Bosco ha inviato i primi missionari in Argentina. Siamo una congregazione riconosciuta con il carisma dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani, ma siamo anche una congregazione e una famiglia molto missionaria. Dall’inizio a oggi, ci sono stati più di undicimila missionari salesiani sdb e diverse migliaia di Figlie di Maria Ausiliatrice. E oggi, la nostra presenza tra questo popolo indigeno, che conta 1940 membri e che continua a crescere a poco a poco, ha perfettamente senso dopo 122 anni, perché sono alla periferia del mondo, ma un mondo che a volte non capisce che deve rispettare ciò che sono.
            Ho parlato anche con la matriarca, la più anziana di tutte, che è venuta a salutarmi e a raccontarmi del suo popolo. E dopo un bel temporale di pioggia torrenziale, nel luogo del martirio, con grande serenità, ci siamo seduti a recitare il rosario in una bella domenica sera (era già buio). Eravamo in tanti a rappresentare la realtà di questa missione: nonne, nonni, adulti, giovani madri, neonati, bambini piccoli, religiosi consacrati, laici… Una ricchezza nella semplicità di questa piccola parte di mondo che non ha potere ma che è anche scelta e prediletta dal Signore, come ci dice nel Vangelo.
            E so che così continueremo, a Dio piacendo, per molti anni a venire, perché si può essere un Bororo e un figlio di Don Bosco, ed essere un figlio di Don Bosco e un Bororo che ama e si prende cura del suo popolo e della sua gente.
            Nella semplicità di questo incontro, oggi è stato un grande giorno di vita condivisa con i popoli indigeni. Una grande giornata missionaria.




Don José Luis Carreño Etxeandía. Un salesiano con il Cuore di Gesù

            Don Jose Luis Carreño è stato descritto dallo storico Joseph Thekkedath come “il salesiano più amato dell’India meridionale” della prima parte del XX secolo. In ogni luogo in cui ha vissuto – che si tratti dell’India, delle Filippine o della Spagna – troviamo salesiani che custodiscono i loro ricordi di lui. Stranamente, però, non abbiamo ancora una buona biografia di questo grande salesiano. Speriamo di poter rimediare presto. Don Carreño è stato uno degli architetti della regione dell’Asia meridionale e non possiamo permetterci di dimenticarlo.
            Jose Luis Carreño Etxeandía nacque a Bilbao, in Spagna, il 23 ottobre 1905. Alla vigilia della sua ordinazione, nel 1932, si offrì volontario per le missioni estere e fu inviato in India, sbarcando a Mumbai nel 1933. Appena un anno dopo, quando fu istituita la provincia dell’India meridionale, fu nominato maestro dei novizi a Tirupattur: aveva appena 28 anni. Con le sue straordinarie qualità di mente e di cuore, divenne rapidamente l’anima della casa e lasciò una profonda impressione sui suoi novizi. “Eravamo conquistati dal suo cuore paterno”, scrive uno dei suoi novizi, l’arcivescovo Hubert D’Rosario. Padre Joseph Vaz, un altro novizio, raccontava spesso di come Carreño si fosse accorto che tremava durante una conferenza. “Aspetta un momento, hombre“, disse il maestro dei novizi e uscì. Poco dopo tornò con un maglione blu che consegnò a Joe. Joe notò che il maglione era stranamente caldo. Poi si ricordò che il maestro dei novizi aveva indossato qualcosa di blu sotto la tonaca, che ora non c’era più. Carreño gli aveva dato il suo maglione.
            Nel 1942, quando il governo britannico in India internò tutti gli stranieri che appartenevano a paesi in guerra con la Gran Bretagna, Carreño, appartenente a un paese neutrale, non fu disturbato. Nel 1943, ricevette dalla Radio Vaticana il messaggio che avrebbe preso il posto di Eligio Cinato, il provinciale della provincia meridionale, anch’egli internato. Allo stesso tempo, il vescovo Louis Mathias di Madras lo invitò a diventare suo vicario generale. Nel 1945 fu ufficialmente nominato provinciale, carica che esercitò dal 1945 al 1951. Uno dei suoi primi atti fu quello di consacrare l’Ispettoria al Sacro Cuore di Gesù. Molti salesiani erano convinti che la straordinaria crescita dell’Ispettoria meridionale fosse dovuta a questo atto. I centri salesiani raddoppiarono sotto la guida di don Carreño. Uno dei suoi atti di maggiore portata fu quello di avviare un college universitario nel remoto e povero villaggio di Tirupattur. Il Collegio del Sacro Cuore trasformò l’intero distretto.
            Carreño fu anche il principale responsabile dell'”indianizzazione” del volto dei Salesiani in India, ricercando immediatamente le vocazioni locali invece di affidarsi esclusivamente ai missionari. Fu una politica meravigliosamente provvidenziale: quando l’India indipendente decise di non concedere visti a nuovi missionari stranieri, i Salesiani non si fecero cogliere impreparati. “Se oggi i salesiani in India sono più di duemila, il merito di questa crescita va alle politiche avviate da don Carreño”, afferma don Thekkedath nella sua storia dei salesiani in India.
            Don Carreño, come abbiamo detto, non fu solo provinciale ma anche vicario di Mons. Mathias. Questi due grandi uomini che si ammiravano a vicenda erano anche molto diversi nel carattere. L’arcivescovo era a favore di misure disciplinari forti contro i confratelli che sbagliavano, mentre don Carreño sosteneva procedure più miti. Il visitatore straordinario, P. Fedrigotti, sembra essersi schierato dalla parte dell’arcivescovo, definendo P. Carreño “un eccellente religioso, un uomo con un grande cuore” ma “un po’ troppo poeta”. Alcuni altri hanno anche affermato che don Carreño era un cattivo amministratore, ma è interessante che un uomo come don Aurelio Maschio abbia negato con forza questa affermazione. Il fatto è che don Carreño era un innovatore e un visionario. Alcune delle sue idee – come quella di portare volontari non salesiani a prestare servizio per alcuni anni, ad esempio – erano disapprovate all’epoca, ma oggi vengono promosse attivamente.
            Nel 1952, dopo aver terminato il suo mandato come provinciale, don Carreño fu assegnato a Goa, dove rimase fino al 1960. “Goa fu amore a prima vista”, scrisse in Warp in the Loom. Goa, a sua volta, lo accolse nel suo cuore. A quei tempi i salesiani servivano come direttori spirituali e confessori del seminario diocesano e del clero, e don Carreño fu persino patrono dell’associazione locale di scrittori Konkani. I primi salesiani di Goa, come Thomas Fernandes, Elias Diaz e il defunto Romulo Noronha, raccontavano con le lacrime agli occhi come don Carreño e altri si recassero all’ospedale del Goa Medical College, situato nelle vicinanze, per donare il sangue e comprare cibo e altre cose per i ragazzi.
            Nel 1962, Padre Carreño fu trasferito ancora una volta, questa volta nelle Filippine, come Rettore e Direttore dei Novizi a Canlubang. Nel 1967 – a causa delle differenze tra i missionari provenienti dalla Cina e quelli provenienti dall’India – fu rimandato in Spagna. Ma nelle Filippine come in India, i suoi novizi non possono fare a meno di ricordare quest’uomo straordinario e l’impressione che ha lasciato in loro. In Spagna fondò una “Casa dei Missionari” e continuò il suo apostolato della penna. Ha lasciato più di 30 libri, oltre a inni come il bellissimo “Cor Iesu sacratissimum” e canzoni più popolari come “Kotagiri sulla montagna”.
            Padre Jose Luis Carreño morì nel 1986 a Pamplona, in Spagna, all’età di 81 anni. Nonostante gli alti e bassi della sua vita, questo grande amante del Sacro Cuore di Gesù poté dire, in occasione del giubileo d’oro della sua ordinazione sacerdotale: “Se cinquant’anni fa il mio motto di giovane sacerdote era ‘Cristo è tutto’, oggi, vecchio e sopraffatto dal suo amore, lo scriverei in oro massiccio, perché in realtà CRISTO È TUTTO”.

don Ivo Coelho, sdb
Consigliere per la Formazione




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (4/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo V. Divozione dei cristiani primitivi alla Santa Vergine Maria.
            Dagli stessi fedeli della Chiesa primitiva si faceva un costante ricorso a Maria come potente aiuto dei cristiani. Ciò è dimostrato in modo particolare dalla generale commozione cagionata dalla notizia di sua vicina partenza dal mondo.
            Non solo quei di Gerusalemme ma i fedeli ancora dei dintorni della città si affollarono intorno alla povera casa di Maria, bramosi di contemplare ancora una volta quel volto benedetto. Commossa Maria nel vedersi circondata da tanti figliuoli che le dimostravano colle lagrime l’amore che le portavano e il dolore che sentivano nel doversi separare da lei fece loro le più calde promesse; che li avrebbe assistiti dal cielo, che in cielo alla destra del suo divin Figliuolo avrebbe avuto maggior potere ed autorità e tutto avrebbe adoperato in benefizio degli uomini. Ecco come s. Giovanni Damasceno racconta questo meraviglioso avvenimento:
            Al tempo della gloriosa dormizione della Beata Vergine, tutti i santi Apostoli, i quali percorrevano l’orbe della terra per la salvezza delle nazioni furono in un momento trasportati in Gerusalemme. Quivi giunti apparve loro una visione d’angeli e si fece sentire una soave armonia di podestà celesti, e così Maria circondata di gloria divina rese l’anima santa nelle mani di Dio. Quindi il suo corpo trasportato col canto degli Angeli e degli Apostoli, fu posto in un feretro e portato a Getsemani, nel qual luogo il canto degli Angeli si fece sentire per tre giorni continui. Dopo tre giorni il canto angelico cessò. S. Tommaso, che non erasi trovato cogli altri Apostoli alla morte di Maria, giunse al terzo giorno e avendo manifestato vivissimo desiderio di venerare quel corpo che era stato l’abitazione di un Dio, gli Apostoli che là ancor si trovavano, apersero il sepolcro, ma in nessuna parte il sacro corpo di lei poterono rinvenire. Avendo però trovato i pannilini in cui era stato avvolto, i quali esalavano un odore soavissimo, chiusero il tumulo. Sommamente meravigliati di quel miracolo questo solo poterono conchiudere, che Colui, a cui era piaciuto di prender carne da Maria Vergine, farsi uomo e nascere quantunque fosse Dio, il Verbo ed il Signore della gloria e che dopo il parto serbò intatta la verginità di lei, abbia pure voluto che il corpo immacolato di essa dopo la morte, conservatolo incorrotto, fosse onorato colla traslazione al cielo prima della risurrezione comune ed universale (fin qui s. Giovanni Damasceno).
            Un’esperienza di diciotto secoli ci fa vedere in modo luminosissimo che Maria ha continuato dal cielo e col più gran successo la missione di madre della Chiesa ed ausiliatrice dei cristiani che aveva incominciato sulla terra. Le grazie innumerevoli ottenute dopo la sua morte fecero propagare colla massima celerità il suo culto di modo che anche in quei primi tempi di persecuzione, dovunque sorgeva il segno della Religione Cattolica, ivi pure si scorgeva l’immagine di Maria. Anzi fin dai giorni in cui viveva ancora Maria si trovarono già molti devoti di lei che si raccolsero sul monte Carmelo e colà convivendo in comunità si erano dedicati in tutto e per tutto a Maria.
            Non dispiaccia al devoto lettore che riferiamo questo fatto quale si trova narrato nell’uffizio di s. Chiesa sotto al giorno 16 luglio, festa della Beata Vergine del monte Carmelo.
            Nel sacro giorno della Pentecoste essendo stati riempiuti dello Spirito Santo gli Apostoli, molti fervorosi fedeli (viri plurimi) si erano dati a seguire gli esempi dei santi profeti Elia ed Eliseo, e alla predicazione di Giovanni Battista si erano preparati alla venuta del Messia. Dopo aver vedute verificate le predizioni che avevano dal gran Precursore udite eglino abbracciarono subito la fede evangelica. Presi poi da speciale affetto verso la Beatissima Vergine, mentre essa tuttora viveva, presero ad onorarla talmente che sul monte Carmelo, dove Elia aveva veduto ascendere quella nuvoletta, che fu un’insigne figura di Maria, costruissero alla medesima Vergine un piccolo santuario. Quivi radunandosi essi tutti i giorni con pii riti, preghiere e lodi la veneravano come singolare protettrice dell’Ordine. Per la qual cosa cominciarono qua e colà a chiamarsi i fratelli della beata Vergine del monte Carmelo. In progresso di tempo i sommi pontefici non solo confermarono questo titolo, ma concessero eziandio speciali indulgenze. Maria poi diede, ella stessa la denominazione, accordò la sua assistenza a questo istituto, stabili per loro divisa un sacro scapolare, che diede al beato Simone Stock inglese affinché con quest’abitino celeste si distinguesse quel sacro ordine e venisse protetto da ogni male chi lo portasse.
            Appena poi gli Apostoli vennero nelle nostre contrade a portar la luce del Vangelo, non tardò la divozione di Maria a germogliare in Occidente. Quelli che visitano le catacombe di Roma, e ne siamo testimoni oculari, trovano tuttora in quei sotterranei antiche immagini che rappresentano o lo sposalizio di Maria con s. Giuseppe, o l’assunzione di Maria al cielo, ed altre esprimono la Madre di Dio col bambino in braccio.
            Un rinomato scrittore dice, che “nei primi tempi della Chiesa si ebbe per man dei cristiani un tipo della Vergine nel modo più soddisfacente che comportar poteva la condizione dell’arte a quei tempi. Il sentimento della modestia che splendeva, al dir di s. Ambrogio[1], in queste immagini della Vergine, prova che in difetto d’una effigie reale della Madre di Dio l’arte cristiana saputo aveva riprodurre in essa le sembianze dell’anima sua, quella fisica bellezza simbolo della perfezione morale che far non si poteva di non attribuire alla Vergine divina. Questo carattere pure si trova per quanto l’inettitudine degli artefici e la mediocrità del lavoro il comportano in certe pitture delle catacombe, nelle quali la Vergine è dipinta a sedere con Gesù Bambino sulle ginocchia, ora in piedi ed ora in mezza figura sempre in guisa che sembra conforme ad un tipo ieratico[2].”
            “Nelle catacombe di sant’Agnese, scrive il Ventura, fuori la Porta Pia, in cui si vedono non solo sepolcri, ma oratorii ancora dei cristiani del secondo secolo ripieni di immense ricchezze d’archeologia cristiana e di memorie preziosissime del primitivo cristianesimo, si trovano in gran copia immagini di Maria col divino Infante nelle sue braccia che attestano la fede dell’antica Chiesa intorno alla necessità della mediazione di Maria per ottenere grazie da Gesù Cristo, ed intorno al culto delle sacre immagini che l’eresia ha tentato di distruggere, tacciandole di novità superstiziosa[3].”

Capo VI. La B. Vergine spiega a s. Gregorio i misteri della fede. – Castigo di Nestorio
            Sebbene la santa Vergine Maria si è in ogni tempo dimostrata aiuto dei cristiani in tutte le necessità della vita, tuttavia sembra che abbia voluto in modo particolare far palese la sua potenza quando la Chiesa era attaccata nelle verità di fede o dall’eresia o dalle armi nemiche. Noi raccogliamo qui alcuni dei più gloriosi avvenimenti che tutti concorrono a confermare quanto sta scritto nella Bibbia. Tu sei come la torre di Davide, la cui fabbrica è cinta di bastioni; mille scudi sono sospesi all’intorno ed ogni sorta d’armatura dei più valorosi.[4] Vediamo ora queste parole verificate nei fatti della storia ecclesiastica.
            Circa la metà del secolo terzo viveva s. Gregorio detto taumaturgo per la moltitudine dei miracoli che egli operava. Essendo morto il vescovo di Neocesarea sua patria, s. Fedimo Arcivescovo di Amasea, da cui quella era dipendente, pensava di elevare a quel vescovado s. Gregorio. Ma egli riputandosi indegno di quella sublime dignità erasi nascosto nel deserto; anzi per non essere trovato passava di una solitudine in un’altra; ma s. Fedimo illuminato dal Signore suo malgrado lo elesse vescovo di Neocesarea quantunque assente.
            Quella diocesi adorava ancora le false divinità, e quando fu eletto s. Gregorio non contava in tutto che 17 cristiani. Grande sbigottimento provò Gregorio quando si vide costretto ad accettare così elevata e pericolosa dignità, tanto più che in quella città vi erano di coloro che facevano un mostruoso miscuglio dei misteri della fede colle ridicole favole dei Gentili. Gregorio pertanto pregò Fedimo a dargli qualche tempo per meglio istruirsi nei sacri misteri, e passava intere le notti nello studio e nella meditazione, raccomandandosi alla SS. Vergine che è la madre della sapienza, e di cui era assai devoto. Or avvenne una notte che dopo lunga meditazione sui sacri misteri gli apparve un vecchio venerando di bellezza e maestà tutta celeste. Meravigliato a quella vista gli domandò chi fosse e che cosa volesse. Benignamente il vegliardo lo rassicurò e gli disse esser mandato da Dio per dilucidargli quei misteri che stava meditando. Ciò udito con grande gioia incominciò a guardarlo, e colla mano gli accennò di rimpetto un’altra apparizione in forma di donna che risplendeva qual folgore, e in bellezza superava ogni creatura umana. Viepiù spaventato si prostrò a terra in atto di venerazione. Intanto udiva la donna, che era la Santa Vergine, chiamar quel vecchio col nome di Giovanni Evangelista, ed invitarlo a spiegare a lui i misteri della vera religione. S. Giovanni rispondeva che era prontissimo a farlo, poiché così piaceva alla Madre del Signore. Ed in fatti si mise a spiegargli molti punti della dottrina cattolica, allora non ancora dilucidati dalla Chiesa perciò assai oscuri.
            Gli spiegò che vi era un Dio solo in tre persone, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo, che tutte tre sono perfette, invisibili, incorruttibili, immortali, eterne; che al Padre si attribuisce specialmente la potenza e la creazione di tutte le cose; che al Figliuolo si attribuisce specialmente la sapienza, e che si fece veramente uomo, ed è uguale al Padre quantunque generato da lui; che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figliuolo ed è la fonte di ogni santità; Trinità perfetta senza divisione o disuguaglianza, che è sempre stata e sarà sempre immutabile ed invariabile.
            Spiegate queste ed altre altissime dottrine, la visione svanì, e Gregorio scrisse subito le cose imparate e le insegnò costantemente nella sua Chiesa, né mai lasciava di ringraziare la Beata Vergine che in modo così portentoso lo aveva istruito[5].
            Se Maria si dimostro aiuto dei Cristiani a favore della fede cattolica in modo prodigioso, Dio fa vedere quanto siano terribili i castighi inflitti verso chi bestemmia contro la fede. Ciò noi vediamo verificato nella fine funesta che toccò a Nestorio vescovo di Costantinopoli. Costui negava che Maria Vergine fosse propriamente madre di Dio.
            I gravi scandali adunque cagionati dalla sua predicazione mossero il sommo Pontefice, che si chiamava Celestino I, ad esaminare la dottrina dell’eresiarca che trovò erronea e piena di empietà. Il paziente Pontefice però da prima lo ammonì, poscia minacciò di separarlo dalla Chiesa se rientrando in sé stesso non si ritrattasse dei suoi errori.
            L’ostinazione di Nestorio obbligò il papa a convocare un concilio di oltre a 200 vescovi nella città di Efeso presieduto da s. Cirillo in qualità di legato pontificio. Questo concilio che fu il terzo Ecumenico si radunò l’anno di Cristo 431.
            Gli errori di Nestorio furono anatemizzati, ma l’autore non si converti, anzi divenne più ostinato. Fu pertanto deposto dalla sua sede, esiliato nell’Egitto, dove dopo molte tabulazioni cadde prigione nelle mani di una banda di masnadieri. A motivo dell’esilio, della povertà, dell’abbandono, di una caduta da cavallo, della sua avanzata età ebbe a soffrire pene atrocissime. Finalmente il suor corpo vivo si risolse in marciume, e la sua lingua, organo di tante bestemmie, imputridì e fu rosa dai vermi.
            Così morì colui che osò profferire con ostinazione tante bestemmie contro all’Augusta Madre del Salvatore[6].

(continua)


[1] S. Ambros. de Virg., 1. II, c. 2. Ut ipsa corporis facies simulacrum fuerit mentis, figura probitatis.

[2] Raval-Rochette. Catacombe di Roma c. VI.

[3] Ventura. Bellezze della fede. Lettura § 10.

[4] Cant. IV, 4

[5] V. Bufino – s. Gregorio Niseno nella vita del Taumaturgo. Baronio nell’anno 233.

[6] V. Orsi, Evagrio, Socrate, Niceforo.




Missionario in Patagonia

Patagonia, la regione meridionale dell’America del Sud, divisa tra Argentina e Cile, è un territorio presente nei primi sogni missionari di don Bosco. Anche questo “sogno” si è concretizzato in una missione che porta frutti anche oggi.

            Il nome deriva dagli indigeni di quelle terre, patagoni, termine usato da Ferdinando Magellano, indigeni che oggi sono identificati come tribù dei tehuelche e degli aonikenk. Questi nativi sono stati sognati da don Bosco nel 1872, come racconta don Lemoyne nelle sue MemorieBiografiche (MB X,54-55).

            “Mi parve di trovarmi in una regione selvaggia ed affatto sconosciuta. Era un’immensa pianura, tutta incolta, nella quale non scorgevansi né colline né monti. Nelle estremità lontanissime però tutta la profilavano scabrose montagne. Vidi in essa turbe di uomini che la percorrevano. Erano quasi nudi, di un’altezza e statura straordinaria, di un aspetto feroce, coi capelli ispidi e lunghi, di colore abbronzato e nerognolo, e solo vestiti di larghi mantelli di pelli di animali, che loro scendevano dalle spalle. Avevano per armi una specie di lunga lancia e la fionda (il lazo).
Queste turbe di uomini, sparse qua e là, offrivano allo spettatore scene diverse: questi correvano dando la caccia alle fiere; quelli andavano, portavano conficcati sulle punte delle lance pezzi di carne sanguinolenta. Da una parte gli uni si combattevano fra di loro: altri venivano alle mani con soldati vestiti all’europea, ed il terreno era sparso di cadaveri. Io fremeva a questo spettacolo: ed ecco spuntare all’estremità della pianura molti personaggi, i quali, dal vestito e dal modo di agire, conobbi Missionari di varii Ordini. Costoro si avvicinavano per predicare a quei barbari la religione di Gesù Cristo. Io li fissai ben bene, ma non ne conobbi alcuno. Andarono in mezzo a quei selvaggi; ma i barbari, appena li vedevano, con un furore diabolico, con una gioia infernale, loro erano sopra e tutti li uccidevano, con feroce strazio li squartavano, li tagliavano a pezzi, e ficcavano i brani di quelle carni sulla punta delle loro lunghe picche. Quindi si rinnovavano di tanto in tanto le scene delle precedenti scaramucce fra di loro e con i popoli vicini.
Dopo di essere stato ad osservare quegli orribili in macelli, dissi tra me: – Come fare a convertire questa gente così brutale? – Intanto vedo in lontananza un drappello d’altri missionari che si avvicinavano ai selvaggi con volto ilare, preceduti da una schiera di giovinetti.
Io tremava pensando: – Vengono a farsi uccidere. – E mi avvicinai a loro: erano chierici e preti. Li fissai con attenzione e li riconobbi per nostri Salesiani. I primi mi erano noti e sebbene non abbia potuto conoscere personalmente molti altri che seguivano i primi, mi accorsi essere anch’essi Missionari Salesiani, proprio dei nostri. 
 – Come mai va questo? – esclamava. Non avrei voluto lasciarli andare avanti ed era lì per fermarli. Mi aspettava da un momento all’altro che incorressero la stessa sorte degli antichi Missionari. Voleva farli tornare indietro, quando vidi che il loro comparire, mise in allegrezza tutte quelle turbe di barbari, le quali abbassarono le armi, deposero la loro ferocia ed accolsero i nostri Missionari con ogni segno di cortesia. Maravigliato di ciò diceva fra me: – Vediamo un po’ come ciò andrà a finire! – E vidi che i nostri Missionari si avanzavano verso quelle orde di selvaggi; li istruivano ed essi ascoltavano volentieri la loro voce; insegnavano ed essi imparavano con premura; ammonivano, ed essi accettavano e mettevano in pratica le loro ammonizioni.
Stetti ad osservare, e mi accorsi che i Missionari recitavano il santo Rosario, mentre i selvaggi, correndo da tutte parti, facevano ala al loro passaggio e di buon accordo rispondevano a quella preghiera.
Dopo un poco i Salesiani andarono a porsi nel centro di quella folla che li circondò, e s’inginocchiarono. I selvaggi, deposte le armi per terra ai piedi dei Missionari, piegarono essi pure le ginocchia.
Ed ecco uno dei Salesiani intonare: Lodate Maria, o lingue fedeli, e quelle turbe, tutte ad una voce, continuare il canto di detta lode, così all’unisono e con tanta forza di voce, che io, quasi spaventato, mi svegliai.
Questo sogno l’ebbi quattro o cinque anni fa e fece molta impressione sul mio animo, ritenendo che fosse un avviso celeste. Tuttavia non ne capii bene il significato particolare. Intesi però che trattavasi di Missioni straniere, le quali prima d’ora avevano formato il mio più vivo desiderio.

Il sogno, adunque, avvenne verso il 1872. Dapprima don Bosco credette che fossero i popoli dell’Etiopia, poi pensò ai dintorni di Hong-Kong, quindi alle genti dell’Australia e delle Indie; e solo nel 1874, quando ricevette, come vedremo, i più pressanti inviti di mandare i Salesiani all’Argentina, conobbe chiaramente, che i selvaggi veduti in sogno erano gli indigeni di quell’immensa regione, allora quasi sconosciuta, che era la Patagonia.

            La missione, iniziata quasi 150 anni fa, continua anche oggi.
            Un salesiano, padre Ding, ha sentito la chiamata missionaria ai suoi 50 anni. È una chiamata dentro la chiamata: all’interno della vocazione a seguire Dio come consacrato nella Congregazione Salesiana, qualcuno sente la richiesta di un ulteriore passo, lasciare tutto e partire per portare il Vangelo in posti nuovi, la “missio ad gentes” per tutta la vita. Dopo aver finito l’incarico di delegato ispettoriale per le Missioni nei suoi ultimi anni nelle Filippine, si è reso disponibile per far parte della 152esima spedizione missionaria e, nel 2021, è stato assegnato alla Patagonia, nell’ispettoria Argentina-Sud (ARS).
            Dopo un corso per nuovi missionari salesiani, ridotto a causa del COVID, e la consegna della croce missionaria il 21 Novembre 2021, il primo impegno è stato quello dello studio della lingua spagnola, insieme al suo compagno padre Barnabé, dal Benin, a Salamanca, in Spagna. Ma una volta arrivati in Argentina, padre Ding si è reso conto di non riuscire a comprendere tanto per la velocità nel parlare e le differenze dell’accento. Continua ad inculturarsi a Buenos Aires, dopo di che raggiungerà la sua meta, la Patagonia, terra dei primi missionari salesiani. L’accoglienza e la gentilezza delle persone a Buenos Aires lo hanno fatto sentire a casa e lo hanno aiutato a superare gli “shock” culturali.

Ci racconta:
Come si arriva a confermarsi nella propria vocazione missionaria? Nel quotidiano, grazie alle attività di ogni giorno a scuola, in parrocchia e in oratorio. Lo spirito di don Bosco è vivo nel paese che accolse i primi missionari salesiani, proprio a La Boca dove iniziò il primo lavoro parrocchiale salesiano. Uno dei segreti che permette questa vitalità ancora oggi è l’impegno dei laici corresponsabili, che con fedeltà e creatività si mettono a disposizione, lavorando fianco a fianco con i salesiani. Un vero esempio di spirito di famiglia e dedizione alla missione, che realizza praticamente le riflessioni del Capitolo Generale 24 sulla collaborazione tra salesiani e laici.
            Un altro aspetto che colpisce in questa terra è l’instancabile lavoro a favore dei poveri e degli emarginati. Presso La Boca, la domenica viene preparato un pranzo per i poveri della città e si possono vedere collaboratori della scuola, parrocchiani e membri della Famiglia Salesiana, tutti insieme, a cucinare e aiutare i più bisognosi, tutti impegnati, iniziando dal direttore della comunità e preside della scuola. L’oratorio è molto attivo, con animatori ferventi e il gruppo degli “esploratori”, simili agli scout che seguono i valori del Vangelo e di don Bosco.

            Nonostante la sfida della barriera linguistica, padre Ding ci dice: Quello che ho imparato qui è che si comprende tutti e tutto, solo se ci si dona con l’intero cuore per la missione affidata, per le persone con cui e per cui si vive.
            Nei prossimi mesi, Villa Regina (Río Negro) sarà la sua nuova casa, in Patagonia. Gli auguriamo una santa missione.

Marco Fulgaro




Vita di san Giuseppe, sposo di Maria Santissima, padre putativo di Gesù Cristo (3/3)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo XX. Morte di s. Giuseppe. – Sua sepoltura.
Nunc dimittis servum tuum Domine, secundum verbum tuum in pace, quia viderunt oculi mei salutare tuum. (Adesso lascia, o Signore, che se ne vada in pace il tuo servo secondo la tua parola: perché gli occhi miei hanno veduto il Salvatore dato da te. – Lc. 2,29)

            L’ultimo momento era giunto, Giuseppe fece uno sforzo supremo per alzarsi e adorare colui che gli uomini consideravano quale suo figlio, ma che Giuseppe conosceva per suo Signore e Dio. Egli voleva gettarsi ai suoi piedi e domandargli la remissione dei suoi peccati. Ma Gesù non permise che egli s’inginocchiasse, e lo ricevette nelle sue braccia. Così poggiando il venerando capo sul Divin petto di Gesù colle labbra vicino a quel cuore adorabile spirava Giuseppe, dando agli uomini un ultimo esempio di fede e di umiltà. Era il diciannovesimo giorno di marzo, l’anno di Roma 777, il venticinquesimo dalla nascita del Salvatore.
            Gesù e Maria piansero sulla fredda spoglia di Giuseppe, e fecero presso di lui la mesta veglia dei morti. Gesù lavò egli stesso questo corpo verginale, gli chiuse gli occhi e gli incrociò le mani sul petto; poi lo benedisse per preservarlo dalla corruzione della tomba, e pose a sua custodia gli angeli del Paradiso.
            I funerali del povero operaio furono modesti come modesta era stata tutta la sua vita. Ma se parvero tali in faccia alla terra ebbero per altro così grande onore che non vantarono certamente i più gloriosi imperatori del mondo, giacché ebbero presso l’augusta salma il Re e la Regina del Cielo Gesù e Maria. Il corpo di Giuseppe fu deposto nel sepolcro dei suoi padri, nella valle di Giosafatte, tra la montagna di Sion e quella degli Oliveti.

Capo XXI. Potenza di s. Giuseppe nel cielo. Motivi della nostra confidenza.
Ite ad Joseph. (Andate a Giuseppe e fate tutto quello che egli vi dirà. – Gen. 41,55)

            Non sempre la gloria e la potenza dei giusti sopra la terra sono la misura certa del merito della loro santità; ma non è così di quella gloria e di quella potenza di cui essi sono rivestiti nel cielo, ove ognuno è ricompensato secondo le sue opere. Più essi sono stati santi agli occhi di Dio, più sono innalzati ad un grado sublime di potenza e di autorità.
Stabilito una volta questo principio, non dobbiamo noi credere, che fra i beati che sono l’oggetto del nostro culto religioso, s. Giuseppe sia, dopo Maria, il più potente di tutti presso Dio, e colui che merita a più giusto titolo la nostra confidenza ed i nostri omaggi? Di fatto quanti gloriosi privilegi lo distinguono dagli altri santi, e devono inspirarci per lui una profonda e tenera venerazione!
            Il figliuol di Dio che ha scelto Giuseppe per suo padre, per ricompensarne tutti i servigi e dargli in cambio le dimostrazioni del più tenero amore nel tempo della sua vita mortale, non l’ama meno in cielo di quello che lo amasse sopra la terra. Felice di aver l’intiera eternità per compensare il diletto suo padre di tutto quello che egli ha fatto per lui nella vita presente, con uno zelo così ardente, con una fedeltà così inviolabile ed un’umiltà tanto profonda. Ciò fa che il divin Salvatore è sempre disposto ad ascoltar favorevolmente tutte le sue preghiere, ed a soddisfare a tutti i suoi desideri.
            Troviamo nei privilegi e nei favori di cui fu ricolmato l’antico Giuseppe, il quale non era che l’ombra del nostro vero Giuseppe, una figura del credito onnipossente di cui gode nel cielo il santo sposo di Maria.
            Faraone per ricompensare i servigi, che da Giuseppe figliuolo di Giacobbe aveva ricevuto, lo stabilì intendente generale della sua casa, padrone di tutti i suoi beni volendo che ogni cosa si facesse secondo il suo cenno. Dopo averlo stabilito viceré dell’Egitto gli affidò il sigillo della sua autorità reale, e gli donò il pieno potere di concedere tutte le grazie che volesse. Ordinò che fosse chiamato il salvatore del mondo, affinché i suoi sudditi riconoscessero che a lui dovevano la loro salute; insomma mandava a Giuseppe tutti coloro che venivano per qualche favore, affinché li ottenessero dalla sua autorità, e gli dimostrassero la loro riconoscenza: Ite ad Ioseph, et quidquid dixerit vobis, facile – Gen. 41,55; Andate da Giuseppe, fate tutto quello che egli vi dirà, e ricevete da lui quanto egli vorrà donarvi.
            Ma quanto più ancora sono meravigliosi e capaci d’inspirarci un’illimitata confidenza i privilegi del casto sposo di Maria, del padre adottivo del Salvatore! Non è un re della terra come Faraone, ma è Dio onnipotente colui che ha voluto ricolmare dei suoi favori questo nuovo Giuseppe. Comincia per stabilirlo padrone e capo venerabile della Santa Famiglia; vuole che tutto gli obbedisca e gli sia sottomesso, perfino il proprio suo figlio a lui eguale in ogni cosa. Lo fa qual suo viceré, volendo che rappresenti la sua adorabile persona sino a dargli il privilegio di portare il suo nome e di essere chiamato il padre del suo Unigenito. Mette nelle sue mani questo figlio, per farci conoscere che gli dà illimitato potere di far ogni grazia. Osservate come fa pubblicare nel vangelo per tutta la terra ed in tutti i secoli, che s. Giuseppe è il padre del re dei re: Erant pater et mater eius mirantes – Lc. 2,33. Vuole che egli sia chiamato il Salvatore del mondo essendo che egli alimentò e conservò colui che è la salute di tutti gli uomini. Finalmente ci avverte che se desideriamo grazie e favori, a Giuseppe dobbiamo rivolgerci: Ite ad Ioseph, poiché egli è che ha ogni potere presso il re dei re per ottenere tutto ciò che domanda.
            La santa Chiesa riconosce questo potere sovrano di Giuseppe giacché ella domanda por sua intercessione ciò che non potrebbe ottenere da sé stessa: Ut quod possibilitas nostra non obtinet, eius nobis intercessione donetur.
            Certi santi, dice il dottore angelico, hanno ricevuto da Dio il potere di assisterci in certi bisogni particolari; ma il credito di s. Giuseppe non ha limite; si estende a tutte le necessità, e tutti coloro i quali a lui ricorrono con fiducia sono certi d’essere prontamente esauditi. Santa Teresa ci dichiara che ella non ha mai domandato niente a Dio per intercessione di s. Giuseppe che non l’abbia tosto ottenuto: e la testimonianza di questa santa ne vale mille altre, giacché era fondata sulla quotidiana esperienza dei suoi benefizi. Gli altri santi godono, è vero, un credito grande nel cielo; ma essi intercedono supplicando come servi e non comandano come padroni. Giuseppe, il quale ha veduto Gesù e Maria sottomessi a sé, può senza dubbio ottenere tutto quello che vuole dal re suo figlio e dalla regina sua sposa. Egli ha presso l’uno e presso l’altra un credito illimitato, e, come dice Gersone, egli più che supplicare, comanda: Non impetrat, sed imperat. Gesù, dice s. Bernardino da Siena, vuol continuare nel cielo a dare a s. Giuseppe prove del suo rispetto figliale obbedendo a tutti i suoi desideri: Dum pater orat natum, velut imperium reputatur.
            È di fatto che potrebbe negare Gesù Cristo a Giuseppe, il quale niente negò mai a lui nel tempo della sua vita? Mosè non era nella sua vocazione se non il capo ed il conduttore del popolo d’Israele, eppure si portava con Dio con tanta autorità, che quando lo prega in favore di quel popolo ribelle ed incorreggibile, la sua preghiera sembra farsi comando, il quale leghi in certo modo le mani alla divina maestà, e la riduca a non poter quasi castigare i colpevoli, finché egli ne abbia renduto la libertà: Dimitte me, ut irascatur furor meus contro eos et deleam eos. (Es. 32).
            Ma quanto maggior virtù e potenza non avrà la preghiera che Giuseppe volge per noi al sovrano giudice, di cui egli fu guida e padre adottivo? Poiché se egli è vero, come dice s. Bernardo, che Gesù Cristo, il quale è nostro avvocato presso il Padre, gli presenta le sacre sue piaghe ed il sangue adorabile che ha sparso per la nostra salute, se Maria, per parte sua presenta all’unico Figlio il seno che lo portò e nutrì, non possiamo noi aggiungere che s. Giuseppe mostra al Figlio ed alla Madre le mani le quali hanno tanto affaticato per loro ed i sudori che egli ha sparso per guadagnare il loro vitto sopra la terra? E se Dio Padre non può nulla negare al suo Figlio diletto quando lo prega per le sue sacre piaghe, né il Figlio nulla negare alla sua Santissima Madre quando lo scongiura per le viscere che lo hanno portato, non siam noi tenuti a credere che né il Figlio, né la Madre divenuta la dispensatrice delle grazie che Gesù Cristo ha meritato non possono nulla negare a s. Giuseppe quando egli li prega per tutto ciò che ha fatto per essi in trent’anni di sua vita?
            Immaginiamoci che il nostro santo protettore volga per noi a Gesù Cristo, di lui Figlio adottivo, questa commovente preghiera: « O mio divin Figlio, degnatevi di spargere le vostre più abbondanti grazie sopra i miei servi fedeli; io ve lo domando pel dolce nome di padre di cui mi avete tante volte onorato, per queste braccia che vi ricevettero e vi riscaldarono nella vostra nascita, che vi trasportarono in Egitto per salvarvi dal furore di Erode; ve lo chiedo per quegli occhi di cui asciugai le lacrime, per quel prezioso sangue che io raccolsi nella vostra circoncisione; per i travagli e le fatiche che io portai con tanta contentezza per nutrire la vostra infanzia, per allevarvi nella vostra giovinezza…» Gesù così pieno di carità potrebbe egli resistere a tale preghiera? E se è scritto, dice s. Bernardo, che egli fa la volontà di coloro che lo temono, come può negare egli di fare quella di colui che lo servì e nutrì con tanta fedeltà, con tanto amore? Si voluntatem timentium se faciet; quomodo voluntatem nutrientis se non faciet? (Un pio scrittore nei suoi commenti al salmo 144,19).
            Ma ciò che deve raddoppiar la nostra confidenza in s. Giuseppe si è la sua ineffabile carità per noi. Gesù facendosi suo figlio, gli mise nel cuore un amore più tenero di quello del migliore dei padri.
            Non siamo noi diventati suoi figli; mentre Gesù Cristo è nostro fratello e Maria, sua casta sposa, è nostra madre piena di misericordia?
            Rivolgiamoci dunque a s. Giuseppe con una viva e piena confidenza. La sua preghiera unita a quella di Maria e presentata a Dio in nome dell’infanzia adorabile di Gesù Cristo, non può trovar rifiuto, ma senza più deve ottenere tutto ciò che domanda.
            Il potere di s. Giuseppe è illimitato; si estende a tutti i bisogni della nostra anima e del nostro corpo.
            Dopo tre anni di malattia violenta e continua, che non le lasciava né riposo, né speranza di guarigione s. Teresa ebbe ricorso a s. Giuseppe; ed egli tosto l’ottenne sanità.
            Egli è principalmente alla nostra ultima ora, allorché la vita essendo sul punto di lasciarci come un falso amico, l’inferno raddoppierà i suoi sforzi per rapire la nostra anima nel passaggio all’eternità, egli è in quel momento decisivo per la nostra salute che s. Giuseppe ci assisterà in un modo tutto speciale, qualora siamo fedeli a onorarlo ed a pregarlo in vita. Il divin Salvatore per ricompensarlo di averlo sottratto alla morte liberandolo dal furore di Erode, gli diede il privilegio speciale di sottrarre dalle insidie del demonio e dalla morte eterna i moribondi che si sono messi sotto la sua protezione.
            Ecco il motivo per cui lo si invoca con Maria in tutto il mondo cattolico, come patrono della buona morte. Oh! quanto saremmo felici, se potessimo morire come tanti fedeli servi di Dio, pronunziando i nomi onnipossenti di Gesù, Maria, Giuseppe. Il figlio di Dio, dice il venerabile Bernardo da Bustis, avendo le chiavi del paradiso, ne diede una a Maria, l’altra a Giuseppe, affinché essi potessero introdurre tutti i loro servi fedeli nel luogo del refrigerio, della luce e della pace.

Capo XXII. Propagazione del culto ed istituzione della festa del 19 marzo e del Patrocinio di s. Giuseppe.
Qui custos est domini sui glorificabitur. (Chi custodisce il suo padrone sarà onorato. – Pr. 27,18)

            Come la divina Provvidenza dispose che s. Giuseppe morisse prima che Gesù si manifestasse pubblicamente quale Salvatore degli uomini, così fece pure che il culto verso questo santo non si propagasse prima che la fede cattolica si fosse universalmente diffusa nel mondo. Difatti l’esaltare questo santo nei primi tempi del cristianesimo sembrava pericoloso alla fede ancor debole dei popoli. Alla dignità di Gesù Cristo era di somma convenienza che s’inculcasse esser egli nato da una vergine per opera dello Spirito Santo; ora il metter innanzi la memoria di s. Giuseppe sposo di Maria avrebbe fatto ombra a quella dogmatica credenza presso alcune menti deboli, non ancor illuminate intorno ai miracoli della potenza divina. D’altronde importava in quei secoli di battaglia di far principale oggetto di venerazione quei santi eroi che per sostener la fede avevano versato il sangue col martirio.
            Come poi fu consolidata nei popoli la fede e furono sollevati all’onore degli altari molti santi che avevano edificato la Chiesa collo splendor delle loro virtù senza passare pei tormenti, parve tosto di somma convenienza che non si lasciasse sotto silenzio un santo di cui il vangelo stesso faceva sì ampio elogio. Quindi i Greci oltre la festa di tutti gli antenati di Cristo (che furono giusti) la quale celebrano nella domenica che precede il giorno di Natale, consacrarono la domenica che corre in quest’ottava al culto specialmente di s. Giuseppe, sposo di Maria, del santo profeta Davide e di s. Giacomo cugino del Signore.
            Nel calendario dei Cofti sotto il giorno 20 luglio si fa menzione di s. Giuseppe, ed è opinione sostenuta da alcuni che il 4 luglio sia stato il giorno della morte del nostro santo.
            Nella Chiesa latina poi il culto di s. Giuseppe rimonta all’antichità dei primi secoli come appare dagli antichissimi martirologi del monastero di s. Massimino di Treviri e di Eusebio. L’ordine dei frati mendicanti fu il primo a celebrarne l’uffizio proprio come rilevasi dai loro breviari. Il loro esempio fu seguito nel decimoquarto secolo dai Francescani e dai Domenicani per opera di Alberto Magno che fu maestro di s. Tommaso d’Aquino.
            Verso il fine del decimoquinto secolo la chiesa milanese e Toletana lo introdussero pure nella loro liturgia, finché nell’anno 1522 la sede apostolica ne estese il culto a tutto l’orbe cattolico. Pio V, Urbano VIII e Sisto IV ne perfezionarono l’ufficiatura.
            La principessa Isabella Clara Eugenia di Spagna, erede dello spirito di santa Teresa devotissima di s. Giuseppe, recandosi nel Belgio ottenne che vi fosse instituita nella città di Bruselles una festa di precetto addì 19 marzo in onore di questo santo, e divulgatosi il culto nelle provincie vicine veniva proclamato e venerato sotto il titolo di conservator della pace e protettore della Boemia. Questa festa ebbe principio in Boemia l’anno 1655.
            Una parte del manto con cui s. Giuseppe ravvolse il santo bambino Gesù è conservata in Roma nella chiesa di santa Cecilia in Trastevere dove si conserva pure il bastone che questo santo portava viaggiando. L’altra parte si conserva nella chiesa di santa Anastasia nella stessa città.
            Giusta quanto ci tramandarono testimoni di veduta questo manto è di color giallognolo. Una particella di questo fu data in dono dal Cardinale Ginetti ai Padri Carmelitani Scalzi di Anversa, custodita in una magnifica cassetta, sotto tre chiavi e viene esposta ogni anno alla pubblica venerazione nelle feste natalizie.
            Fra i sommi pontefici che concorsero colla loro autorità a promuovere il culto di questo santo si annovera Sisto IV il quale fu il primo ad instituirne la festa verso il fine del secolo XV. S. Pio V ne formulò l’uffizio nel Breviario Romano. Gregorio XV ed Urbano VIII si adoperarono con appositi decreti a riscuotere il fervore verso questo santo che pareva in alcuni popoli affievolito. Finché il Sommo Pontefice Innocenzo X cedendo alle istanze di moltissime chiese della cristianità, bramoso anch’esso di promuovere la gloria del santissimo sposo di Maria e così renderne alla religione più efficace il patrocinio, ne estese a solennità a tutto l’orbe cattolico.
            La festa di s. Giuseppe veniva pertanto fissata al giorno 19 di marzo, giorno che si crede piamente essere stato quello della beatissima sua morte (contro l’opinione di alcuni che vogliono essere questa avvenuta ai 4 del mese di luglio).
            Questa festa cadendo sempre nel tempo Quaresimale non poteva essere celebrata in giorno di Domenica, giacché tutte le Domeniche della Quaresima sono privilegiate: quindi avrebbe dovuto bene spesso passare inosservata se la pietà ingegnosa dei fedeli non avesse trovato modo di supplirvi altrimenti.
            Fin dal 1621 l’Ordine dei Carmelitani scalzi avendo solennemente riconosciuto s. Giuseppe come patrono e padre universale del loro Istituto consacrava una delle Domeniche dopo Pasqua a celebrarne la solennità sotto il titolo di Patrocinio di s. Giuseppe. Dietro fervorosa domanda e dello stesso Ordine e di molte Chiese della Cristianità la sacra Congregazione dei Riti con decreto del 1680 fissava questa solennità alla terza Domenica dopo Pasqua. Molte Chiese dell’orbe cattolico adottarono tosto spontaneamente questa festa. La Compagnia di Gesù, i Redentoristi, i Passionisti e la Società di Maria la celebrano con ottava ed uffizio proprio sotto il rito doppio di prima classe.
            La sacra Congregazione dei Riti finalmente per secondare ed animare sempre più la pietà dei fedeli verso questo gran Santo con un decreto del 10 settembre 1847 dietro istanza dell’Eminentissimo Cardinal Patrizi estendeva questa festa a tutta la Chiesa universale.
            Se mai furono tempi calamitosi per la Chiesa di Gesù Cristo, se mai la fede cattolica volse le sue preghiere al Cielo per implorarne un protettore sono pur troppo i giorni presenti. La nostra s. religione assalita nei suoi più sacrosanti principii vede numerosi figli strapparsi con crudele indifferenza dal suo materno seno per darsi pazzamente in braccio all’incredulità ed alla scostumatezza, e diventando scandalosi apostoli dell’empietà trarre a traviamenti tanti loro fratelli, e dilaniare così il cuore a quella madre amorosa che li ha nutriti. Or bene mentre la divozione a san Giuseppe attirerebbe copiose benedizioni sulle famiglie dei suoi devoti, procurerebbe alla desolata sposa di Gesù Cristo il validissimo patrocinio di un santo, il quale come seppe un giorno serbar illesa la vita di Gesù dalla persecuzione che gli muoveva Erode, saprà bene serbar illesa la fede dei suoi figli dalla persecuzione che le muove l’inferno. Come il primo Giuseppe figliuolo di Giacobbe seppe mantenere l’abbondanza nel popolo d’Egitto durante sette anni di carestia, il vero Giuseppe più felice amministratore dei celesti tesori saprà mantener nel popolo cristiano quella fede santissima per stabilir la quale discese sulla terra quel Dio, di cui fu egli per trent’anni l’aio ed il custode.

Sette allegrezze e sette dolori di S. Giuseppe.

Indulgenza accordata da Pio IX ai fedeli che reciteranno questa corona che può servire di pratica per la novena del Santo.

            Il regnante Pio IX, ampliando le concessioni dei suoi predecessori, specialmente quelle di Gregorio XVI, accordò ai fedeli dell’uno e dell’altro sesso, i quali dopo aver recitali i seguenti ossequi, detti comunemente le sette Allegrezze ed i sette dolori di s. Giuseppe, per sette consecutive domeniche, in qualunque tempo dell’anno, visiteranno, confessati e comunicati, una Chiesa, od Oratorio pubblico, ed ivi pregheranno secondo la sua intenzione: indulgenza Plenaria applicabile ancora alle anime del Purgatorio, in ciascuna di dette domeniche.
            A coloro poi che non sanno leggere, o non potranno portarsi in qualche Chiesa, ove pubblicamente si fanno detti Ossequi, lo stesso Pontefice accordò la medesima Indulgenza Plenaria purché, visitando la detta Chiesa e pregando come sopra, recitino, invece degli Ossequi suddetti, sette Pater, Ave e Gloria in onore del santo Patriarca.

Corona dei sette dolori ed allegrezze di s. Giuseppe.

            1. O sposo purissimo di Maria Santissima, glorioso s. Giuseppe, siccome fu grande il travaglio e l’angustia del vostro cuore nella perplessità di abbandonare la vostra illibatissima sposa: così fu inesplicabile l’allegrezza quando dall’angelo vi fu rivelato il mistero sovrano dell’Incarnazione.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza vi preghiamo di consolar ora e negli estremi dolori l’anima nostra coll’allegrezza di una buona vita e di una santa morte somigliante alla vostra, in mezzo di Gesù e di Maria.
Pater, Ave e Gloria.

            2. O felicissimo Patriarca, glorioso s. Giuseppe, che trascelto foste all’uffizio di Padre putativo dell’umanato Verbo, che dolore doveste sentire nel vedere nascere con tanta povertà il bambino Gesù! Ma questo si cambiò subito in giubilo celeste nell’udire l’armonia angelica e nell’udir le glorie di quella fortunatissima notte.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza vi supplichiamo d’impetrarci, che dopo il cammino di questa vita, ce ne passiamo ad udire le lodi angeliche, ed a godere gli splendori della celeste gloria.
Pater, Ave e Gloria.

            3. O esecutore delle divine leggi, glorioso s. Giuseppe, il sangue preziosissimo che sparse nella circoncisione il Bambino Redentore vi trafisse il cuore, ma il nome di Gesù ve lo ravvivò, riempiendolo di contento.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, otteneteci, che, tolto da noi ogni vizio in vita, col nome santissimo di Gesù nel cuore e nella bocca, giubilando spiriamo.
Pater, Ave e Gloria.

            4. O fedelissimo Santo, che a parte foste dei Misteri della nostra Redenzione, glorioso s. Giuseppe, se la profezia fatta da Simeone di ciò che Gesù e Maria erano per patire, vi cagionò spasimo di morte, vi ricolmò ancora di un beato godimento per la salute e gloriosa risurrezione, che insieme predisse dover seguirne, d’innumerabili anime.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci che noi siamo nel numero di quelli, che, per i meriti di Gesù e ad intercessione della Vergine sua Madre, hanno gloriosamente da risorgere.
Pater, Ave e Gloria.

            5. O vigilantissimo custode, famigliare intrinseco dell’Incarnato Figliuolo di Dio, glorioso s. Giuseppe, quanto penaste in sostenere e servire il Figlio dell’Altissimo particolarmente nella fuga che doveste fare in Egitto; ma quanto ancora molto gioiste avendo sempre con voi l’istesso Dio, e vedendo cadere a terra gli idoli egiziani.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci, che tenendo da noi lontano il tiranno infernale, specialmente colla fuga delle occasioni pericolose, cada dal nostro cuore ogni idolo di affetto terreno; e tutti impiegati nella servitù di Gesù e di Maria, per loro solamente da noi si viva, e felicemente si muoia.
Pater, Ave e Gloria.

            6. O Angelo della terra, glorioso san Giuseppe, che ai vostri cenni ammiraste soggetto il Re del Cielo, so che la consolazione vostra nel ricondurlo dall’Egitto si turbò col timore di Archelao; ma so pure che assicurato dall’Angelo, lieto con Gesù e Maria, dimoraste in Nazareth.
            Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci che da timori nocivi sgombrato il nostro cuore godiamo pace di coscienza e sicuri viviamo con Gesù e Maria e fra loro ancora moriamo.
Pater, Ave e Gloria.

            7. O esemplare d’ogni Santità, glorioso s. Giuseppe, smarrito che aveste senza vostra colpa il fanciullo Gesù, per maggior dolore tre giorni lo cercaste, finché con sommo giubilo godeste della vostra Vita ritrovata nel tempio fra i dottori.
            Per questo dolore e per questa vostra allegrezza vi supplichiamo, col cuore sulle labbra, ad interporvi, onde non ci avvenga mai di perdere con colpa grave Gesù. Che se per somma disgrazia lo perdessimo, fate, che con tale indefesso dolore lo ricerchiamo, finché favorevole lo ritroviamo, particolarmente nella nostra morte, per passare a goderlo in Cielo, ed ivi con voi in eterno cantare le sue divine misericordie.
Pater, Ave e Gloria.

            Antifona. Gesù stava per compiere trent’anni, e si riteneva essere figlio di Giuseppe.
            V. Prega per noi san Giuseppe.
            R. E saremo degni delle promesse di Cristo.

Oremus.

            O Dio, che con ineffabile provvidenza ti sei degnato di scegliere il Beato Giuseppe come sposo della tua santissima Madre, concedi a noi che lo veneriamo come protettore sulla terra di meritare di averlo come intercessore nel Cielo. Per Cristo nostro Signore
            R. Amen.

Altra orazione a s. Giuseppe.
            Dio vi salvi, o Giuseppe, pieno di grazia; Gesù e Maria sono con voi; voi siete benedetto fra gli uomini, e benedetto è il frutto del seno della vostra sposa Maria. S. Giuseppe, padre putativo di Gesù, vergine sposo di Maria, pregate per noi peccatori adesso e nell’ora della morte nostra. Così sia.

Raccolta dai più accreditati Autori, colla novena in preparazione alla festa del Santo.
Tipografia dell’Oratorio di s. Francesco di Sales, Torino 1867.
Sac. BOSCO GIOVANNI

Con permissione Ecclesiastica.

***

Oggi, la Chiesa concede indulgenza (Enchiridion Indulgentiarum n.19) per le preghiere in onore di san Giuseppe:
“Si concede l’indulgenza parziale al fedele che invoca san Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, con una preghiera legittimamente approvata (per esempio, A te, o beato Giuseppe).

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio, insieme con quello della tua santissima Sposa. Deh! per quel sacro vincolo di carità che ti strinse all’immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto soccorri ai nostri bisogni. Proteggi, o provvido custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità, e copri ciascuno di noi con il tuo continuo patrocinio, affinché con il tuo esempio e con il tuo soccorso possiamo virtuosamente vivere, piamente morire e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Amen.

Papa Leone XIII, Orazione a San Giuseppe, enciclica Quamquam pluries




Vita di san Giuseppe, sposo di Maria Santissima, padre putativo di Gesù Cristo (2/3)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo IX. La Circoncisione.
Et vocavit nomen eius Iesum. (E gli pose nome Gesù. – Mt. 1,25)

            L’ottavo giorno dopo la nascita si dovevano circoncidere i figliuoli d’Israele per espresso comando da Dio fatto ad Abramo, affinché vi fosse un segno che ricordasse al popolo l’alleanza da Dio giurata con lui.
            Maria e Giuseppe intendevano molto bene che tal segno non era per nulla necessario a Gesù. Questa dolorosa funzione era una pena che conveniva ai peccatori, ed aveva per scopo di cancellare il peccato originale. Ora Gesù essendo il santo per eccellenza, il fonte d’ogni santità non portava con sé alcun peccato che abbisognasse remissione. D’altronde egli era venuto al mondo per miracoloso concepimento, e non aveva da sottostare a veruna delle leggi che riguardavano gli uomini. Tuttavia Maria e Giuseppe ben sapendo che Gesù non era venuto a sciogliere la legge, ma ad adempierla; che veniva per recare agli uomini l’esempio della perfetta obbedienza, disposto a soffrire tutto ciò che la gloria del Padre Celeste e la salute degli uomini gli avrebbe imposto, non ristettero dal compiere sul Divino fanciullo la penosa cerimonia.
            Giuseppe il santo Patriarca è il ministro ed il sacerdote di quel sacro rito. Eccolo che cogli occhi molli di pianto dice a Maria: «Maria, ora è tempo che ci accingiamo a compiere in questo benedetto tuo figliuolo il segnacolo di nostro padre Abramo. Io mi sento perdere il cuore nel pensarvi. Io metter il ferro in queste carni immacolate! Io trarre il primo sangue di questo agnello di Dio; oh se tu aprissi la bocca, o bambino mio, e mi dicessi che non vuoi la ferita, oh come lancerei lontano da me questo coltello, e godrei che tu non la volessi! Ma io vedo che tu mi domandi questo sacrificio; che vuoi patire. Sì, o bambino dolcissimo, noi patiremo: tu nella tua carne mondissima; Maria ed io nei nostri cuori.»
            Giuseppe intanto aveva compiuto il doloroso uffizio offrendo a Dio quel primo sangue in espiazione dei peccati degli uomini. Poi con Maria lacrimosa e piena d’affanno pel patimento del suo Figliuolo aveva ripetuto: «Gesù è il suo nome, perché Egli deve salvare il suo popolo dai suoi peccati: vocabis nomen eius Iesum; ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum. – Mt. 1,25» O nome santissimo! o nome sopra ogni nome! quanto convenientemente in questo momento tu sei per la prima volta pronunciato! Dio volle che il bambino venisse chiamato Gesù allora quando incomincerebbe a sparger sangue, perché se egli era e sarebbe Salvatore, ciò era appunto in virtù e per effetto del suo sangue, per cui entrò nel santo dei santi una volta sola e col sacrificio di tutto sé stesso consumava la Redenzione d’Israele e di tutto il mondo.
            Giuseppe fu quel grande e nobile ministro della Circoncisione per cui si diede al Figliuol di Dio il suo proprio nome. Giuseppe ne ricevé la relazione dall’angelo, Giuseppe lo pronuncio il primo fra gli uomini, e al pronunziarlo fece che gli angeli tutti s’incurvassero, e che i demoni sorpresi da straordinario spavento, anche senza intendere il perché, cadessero adorando e si nascondessero nel più profondo dell’inferno. Gran dignità di Giuseppe! Grande obbligazione di ossequio che noi gli abbiamo per aver egli il primo chiamato Redentore il Figliuolo di Dio, ed egli il primo aver cooperato col santo ministerio della circoncisione a farcelo Redentore.

Capo X. Gesù adorato dai Magi. La Purificazione.
Reges Tharsis et insulae munera offerent, Reges Arabum et Saba dona adducent. (I re di Tarsis e le isole a lui faranno le loro offerte, i re degli arabi e di Saba porteranno i loro doni. – Ps. 71,10)

            Quel Dio che era disceso sulla terra per far della casa d’Israele e delle genti disperse una sola famiglia voleva intorno alla sua culla i rappresentanti dell’uno e dell’altro popolo. I semplici e gli umili avevano avuto la preferenza nel trovarsi attorno a Gesù: i grandi peraltro ed i sapienti della terra non dovevano esserne esclusi. Dopo i pastori vicini, Gesù dal silenzio della sua grotta di Betlemme moveva una stella del Cielo a ricondurvi adoratori lontani.
            Una tradizione popolarissima in tutto l’Oriente e registrata nella Bibbia, annunziava che un fanciullo nascerebbe in Occidente, il quale cangerebbe la faccia del mondo, e che un nuovo astro doveva in pari tempo comparire e segnare questo avvenimento. Or bene all’epoca della nascita del Salvatore vi erano all’estremità dell’Oriente alcuni principi detti comunemente i tre Re Magi, dotati di una scienza straordinaria.
            Profondamente versati nelle scienze astronomiche, questi tre magi aspettavano con ansietà l’apparizione della nuova stella che doveva loro annunziare la nascita del meraviglioso fanciullo.
            Una notte mentre questi osservavano il cielo attentamente, un astro d’insolita grandezza pareva distaccarsi dalla volta celeste, come se avesse voluto discendere sopra la terra.
            Riconoscendo a questo segnale che il momento era giunto, frettolosamente se ne partirono, e guidati sempre dalla stella giunsero a Gerusalemme. La fama del loro arrivo e sopra tutto la causa, che li conduceva, turbò il cuore dell’invidioso Erode. Questo principe crudele fece venire a sé i Magi e disse loro: «Pigliate esatte informazioni di questo fanciullo, ed appena l’avrete trovato, ritornate ad avvertirmene affinché io pure vada ad adorarlo.» I dottori della legge avendo indicato che il Cristo doveva nascere in Betlemme; i Magi uscirono da Gerusalemme preceduti sempre dalla misteriosa stella. Non tardarono ad arrivare a Betlemme; la stella si arrestò al disopra della grotta dove stava il Messia. I Magi vi entrarono, si prostrarono ai piedi del fanciullo e l’adorarono.
            Aprendo allora i cofanetti di legni preziosi che con sé avevano portato, gli offrirono dell’oro come per riconoscerlo re, dell’incenso come Dio e della mirra come uomo mortale.
            Avvisati poscia da un angelo dei veri disegni di Erode, senza passare per Gerusalemme, ritornarono direttamente ai loro paesi.
            Si avvicinava il quarantesimo giorno dalla nascita del Santo Bambino: la legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito venisse portato al tempio per essere offerto a Dio e quindi consacrato, e per essere purificata la madre. Giuseppe in compagnia di Gesù e di Maria moveva verso Gerusalemme per compiere la prescritta cerimonia. Offri due tortorelle in sacrificio e pagò cinque sicli d’argento. Poscia avendo fatto inscrivere il figlio sopra le tavole del censo e pagato il tributo, i santi sposi se ne ritornarono in Galilea, a Nazareth loro città.

Capo XI. Il tristo annunzio. – La strage degli innocenti. – La sacra famiglia parte per l’Egitto.
Surge, accipe puerum et matrem eius et fuge in Aegyptum et esto ibi usque dum dicam tibi. (L’angelo del Signore disse a Giuseppe: Levati, prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e fermati colà fino che io t’avvisi. – Mt. 2,13)

Vox in excelso audita est lamentationis, luctus, et fletus Rachel plorantis filios suos, et nolentis consolari super eis quia non sunt. (Si è sentito nell’alto voce di querela, di lutto e di gemito di Rachele che piange i suoi figli; e riguardo ad essi non ammette consolazione perché ei più non sono. – Ger. 31,15)

            La tranquillità della santa famiglia non doveva essere di lunga durata. Appena Giuseppe era rientrato nella povera casa ai Nazareth, un angelo del Signore gli apparve in sogno e gli disse: «Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre e fuggi in Egitto, e rimani colà finché io non ti dica di ritornare. Imperocché Erode cercherà il fanciullo per farlo morire.»
            E ciò non era che troppo vero. Il crudele Erode ingannato dai Magi e furioso di vedersi sfuggire una si bella occasione, per disfarsi di colui che egli considerava come un competitore al trono, aveva concepito l’infernale disegno di far massacrare tutti i bambini maschi di età inferiore a due anni. Quest’ ordine abbominevole fu eseguito.
            Un largo fiume di sangue scorse la Galilea. Allora si avverò quello che aveva predetto Geremia: «Una voce si è fatta intendere in Rama, voce mista di lacrime e di lamenti. È Rachele che piange i suoi figli e non vuol essere consolata; perché essi non sono più.» Questi poveri innocenti, si crudelmente scannati, furono i primi martiri della divinità di Gesù Cristo.
            Giuseppe aveva riconosciuto la voce dell’Angelo; né si permise alcuna riflessione sulla precipitata partenza, a cui dovevano risolversi; sulle difficoltà d’un viaggio così lungo e così pericoloso. E sì che gli doveva rincrescere di abbandonare la sua povera casa, per andare attraverso ai deserti a cercare un asilo in un paese che egli non conosceva. Senza nemmeno aspettare il domani, nel momento che l’angelo disparve egli si alzò e corse a svegliare Maria. Maria preparò frettolosamente piccola provigione di panni e di viveri che dovevano portare con sé. Giuseppe intanto preparò la giumenta, e partirono senza rammarico dalla loro città per obbedire al comando di Dio. Ecco dunque un povero vecchio, che rende vane le orribili trame del tiranno di Galilea; è a lui che Iddio affida la custodia di Gesù e di Maria.

Capo XII. Viaggio disastroso – Una tradizione.
Si persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam. (Quando vi perseguiteranno in questa città fuggite ad un’altra. – Mt. 10,23.)

            Due strade si presentavano al viaggiatore, che per la via di terra volesse recarsi in Egitto. L’una attraversava deserti popolati da bestie feroci, ed i sentieri ne erano malagevoli, lunghi e poco frequentati. L’altra si dirigeva attraverso a un paese poco frequentato, ma gli abitanti della contrada erano ostilissimi agli Ebrei. Giuseppe, che aveva soprattutto a temere gli uomini in questa fuga precipitosa, scelse la prima di queste due strade siccome la più nascosta.
            Partiti da Nazaret nel più fitto della notte, i cauti viaggiatori, il cui itinerario obbligava a passare vicino a Gerusalemme, batterono per qualche tempo i sentieri più tristi e tortuosi. Quando si doveva attraversare qualche grande strada, Giuseppe lasciando al riparo d’una roccia Gesù e sua Madre, andava in perlustrazione pel cammino, per accertarsi se l’uscita non ne fosse guardata dai soldati di Erode. Rassicurato da questa precauzione, ritornava a prendere il suo prezioso tesoro, e la santa famiglia continuava il suo viaggio, tra i burroni ed i colli. Di tratto in tratto si faceva una breve sosta sull’orlo d’un limpido ruscello, e dopo una frugale refezione si prendeva un po’ di riposo dalle fatiche del viaggio. Giunta la sera, era mestieri rassegnarsi a dormire a cielo scoperto. Giuseppe spogliandosi del suo mantello, ne copriva Gesù e Maria per preservarli dall’umidità della notte. Poi il domani sul far del giorno si ricominciava il faticoso viaggio. I santi viaggiatori, avendo oltrepassata la piccola città di Anata, si diressero dalla parte di Ramla per discendere nelle pianure della Siria, dove essi dovevano ormai esser liberi dalle insidie dei loro feroci persecutori. Contro alla loro abitudine avevano continuato a camminare malgrado fosse di già fatta la notte per essere più presto in salvo. Giuseppe andava quasi tastando il terreno avanti agli altri. Maria tutta tremante per questa corsa notturna spostava i suoi sguardi irrequieti nella profondità dei valloni, e nelle sinuosità delle rocce. D’un tratto in uno svolto, una frotta d’uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di scellerati, i quali devastavano la contrada, la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Giuseppe aveva arrestato la cavalcatura di Maria, e pregava il Signore in silenzio; perché era impossibile qualunque resistenza. Tutto al più si poteva sperare di ottener salva la vita. Il capo dei briganti si staccò dai suoi compagni e si avanzò verso Giuseppe per osservare con chi avesse egli da trattare. La vista di questo vecchio senza armi, di questo bambinello che dormiva sopra il seno di sua madre, toccò il cuore sanguinario del bandito. Ben lungi dal voler far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, offrendo ospitalità a lui ed alla sua famiglia. Questo capo si chiamava Disma. La tradizione ci dice, che trent’anni dopo egli fu preso dai soldati, e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù, ed è lo stesso che noi conosciamo sotto il nome del buon ladrone.

Capo XIII. Arrivo in Egitto – Prodigi avvenuti al loro ingresso in questa terra – Villaggio di Matari – Abitazione della sacra Famiglia.
Ecce ascendet Dominus super nubem levem et commovebuntur simulacra Aegypti. (Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggera ed entrerà in Egitto e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto. – Is. 19,1)

             Comparso appena il giorno, i fuggitivi, ringraziando i briganti diventati ospiti, ripresero il loro cammino pieno di pericoli. Si dice che Maria sul partire abbia detto queste parole al capo di quei banditi: «Ciò che tu hai fatto per questo bambino, ti sarà un giorno largamente ricompensato.» Dopo di avere attraversato Betlemme e Gaza, Giuseppe e Maria discesero nella Siria e avendo incontrato una carovana che partiva per l’Egitto si unirono ad essa. Da questo istante sino al termine del loro viaggio non videro più davanti a sé, che un immenso deserto di sabbia, la cui aridità non era interrotta che a ben rari intervalli da qualche oasi, ossia da alcuni tratti di terreno fertile e verdeggiante. Le loro fatiche si raddoppiarono durante questa corsa attraverso a queste pianure infuocate da ardente sole. I viveri erano poco abbondanti, e l’acqua ben sovente mancava. Quante notti Giuseppe, che era vecchio e povero, si vide risospinto, quando tentava di avvicinarsi alla fonte, cui la carovana si era arrestata per dissetarsi!
            Finalmente dopo due mesi di penosissimo cammino i viaggiatori entrarono in Egitto. Al dire di Sozomeno, dal momento che la santa Famiglia ebbe toccato questa terra antica, gli alberi abbassarono i loro rami per adorare il Figlio di Dio; le bestie feroci vi accorsero dimenticando il loro istinto; e gli uccelli cantarono in coro le lodi del Messia. Anzi se crediamo a quanto ci narrano autori degni di fede, tutti gli idoli della provincia, riconoscendo il vincitore del Paganesimo, caddero frantumati in mille pezzi. Così ebbero letterale compimento le parole del profeta Isaia quando disse; «Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggerà ed entrerà in Egitto, e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto.»
            Giuseppe e Maria, desiderosi d’arrivar presto al termine del loro viaggio, non fecero che attraversare Eliopoli, consacrata al culto del sole, per recarsi a Matari dove intendevano di riposarsi delle loro fatiche.
            Matari è un bel villaggio ombreggiato da sicomori, a due leghe circa dal Cairo, capitale dell’Egitto. Colà Giuseppe aveva intenzione di stabilire dimora. Ma non era ancora questo il termine delle sue pene. Gli era mestieri di cercarsi un alloggio. Gli Egiziani non erano per nulla ospitali; così la santa famiglia fu costretta a ripararsi per alcuni giorni nel tronco d’un antico e grosso albero. Alfine dopo lunghe ricerche Giuseppe trovò una modesta e piccola camera, in cui collocò alla meglio Gesù e Maria.
            Questa casa, che si fa vedere ancora in Egitto, era una specie di grotta, di venti piedi di lunghezza sopra quindici di larghezza. Non vi erano nemmeno finestre; la luce vi doveva penetrare per la porta. Le mura erano d’una specie d’argilla nera e schifosa, la cui vecchiezza portava l’impronta della miseria. A destra era una piccola cisterna, dalla quale Giuseppe attingeva l’acqua pel servizio della famiglia.

Capo XIV. Dolori. – Consolazione e termine dell’esilio.
Cum ipso sum in tribulatione. (Con lui son io nella tribolazione. – Ps. 90,15)

            Entrato appena in questa nuova abitazione ripigliò Giuseppe il suo lavoro ordinario. Cominciò a mobiliare la sua casa; un tavolino, qualche sedia, una panca, tutto quanto opera delle sue mani. Poscia andò di porta in porta in cerca di lavoro per guadagnar il sostentamento alla piccola famiglia. Egli senza dubbio ebbe a provare ben molti rifiuti, e a tollerare ben molti umilianti disprezzi! Egli era povero, e sconosciuto; e ciò bastava perché venisse rifiutata l’opera sua. A sua volta Maria, mentre aveva mille cure pel Figlio, si diede coraggiosamente al lavoro, occupando in esso una parte della notte per supplire ai guadagni piccoli ed insufficienti del suo sposo. Tuttavia in mezzo alle sue pene quante consolazioni per Giuseppe! Era per Gesù che lavorava, e il pane che il divino fanciullo mangiava era egli che l’aveva acquistato col sudore della sua fronte. E poi quando rientrava in sulla sera affaticato e oppresso dal caldo, Gesù sorrideva al suo arrivo, e lo accarezzava colle sue piccole mani. Ben sovente col prezzo di privazioni, che s’imponeva, Giuseppe riusciva ad ottenere qualche risparmio qual gioia provava allora nel poterlo impiegare nell’addolcire la condizione del divino fanciullo! Ora erano alcuni datteri, ora alcuni giocattoli adatti alla sua età, che il pio falegname recava al Salvatore degli uomini. Oh quanto erano dolci allora le emozioni del buon vecchio nel contemplare il viso raggiante di Gesù! Quando arrivava il Sabato, giorno di riposo e consacrato al Signore, Giuseppe prendendo per le mani il fanciullo, ne guidava i primi passi con una sollecitudine veramente paterna.
            Frattanto il tiranno che regnava sopra Israele moriva. Iddio, il cui braccio onnipotente punisce sempre il colpevole, gli aveva mandato una malattia crudele, che lo condusse rapidamente al sepolcro. Tradito dal suo proprio figlio, roso vivo dai vermi, Erode era morto, portando con sé l’odio dei giudei, e la maledizione dei posteri.

Capo XV. Il nuovo annunzio. – Ritorno in Giudea. – Una tradizione riferita da s. Bonaventura.
Ex Aegypto vocavi filium meum. (Dall’Egitto richiamai il mio figliuolo. – Os. 11,1)

            Da sette anni stava Giuseppe in Egitto, quando l’Angelo del Signore, messaggero ordinario dei voleri del Cielo gli apparve di nuovo durante il sonno e gli disse: «Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre, e ritorna al paese d’Israele, perché coloro che cercavano il fanciullo per farlo morire, non esistono più.» Sempre pronto alla voce di Dio, Giuseppe vendette la sua casa ed i suoi mobili, ed ordinò il tutto per la partenza. Invano gli Egiziani rapiti dalla bontà di Giuseppe e dalla dolcezza di Maria fecero le più vive istanze per ritenerlo. Invano gli promisero l’abbondanza d’ogni cosa necessaria per la vita, Giuseppe fu irremovibile. I ricordi della sua infanzia, gli amici, che egli aveva nella Giudea, la pura atmosfera della sua patria, assai più parlavano al suo cuore, che non la bellezza dell’Egitto. D’altronde Iddio aveva parlato, e null’altro abbisognava per decidere Giuseppe a far ritorno alla terra dei suoi antenati.
            Alcuni storici sono d’opinione che la Santa Famiglia abbia fatto per mare una parte del viaggio, perché vi s’impiegava minor tempo, ed aveva un desiderio grandissimo di rivedere presto la sua patria. Appena sbarcati ad Ascalonia, Giuseppe intese che Archelao era succeduto nel trono a suo padre Erode. Indi per Giuseppe era una nuova sorgente di inquietudini. L’angelo non gli aveva detto in quale parte della Giudea dovesse egli stabilirsi. Doveva ciò fare a Gerusalemme, o nella Galilea, o nella Samaria? Giuseppe pieno d’ansietà pregò il Signore che gli mandasse durante la notte il suo celeste messaggero. L’angelo gli ordinò di fuggire Archelao e di ritirarsi in Galilea. Giuseppe allora più non ebbe a temere, e prese tranquillamente la strada di Nazareth, che aveva sette anni prima abbandonata.
            Non dispiaccia ai nostri devoti lettori di sentir sopra questo punto di storia il serafico dottor s. Bonaventura: «Erano in atto di partirsi: e Giuseppe andò innanzi cogli uomini, e la madre veniva da lungi colle donne (venuti queste e quelli come amici della santa famiglia ad accompagnarli un tratto). E quando furono fuori della porta, Giuseppe rattiene gli uomini e non si lascia più accompagnare. Allora alcuno di quelli buoni uomini, avendo compassione della povertà di costoro, chiamò il fanciullo e gli diede alcuni denari per le spese. Si vergogno il Fanciullo di riceverli; ma, per amore della povertà, apparecchiò la mano e ricevé la pecunia vergognosamente e lo ringrazio. E così fecero più persone. Lo chiamarono ancora quelle onorabili matrone e fecero lo stesso; non si vergognava meno la madre che il fanciullo, ma tuttavia umilmente li ringraziò.»
            Preso dunque commiato da quella cordiale compagnia rinnovati i ringraziamenti ed i saluti, la santa famiglia rivolse i suoi passi verso la Giudea.

Capo XVI. Arrivo di Giuseppe in Nazareth. – Vita domestica con Gesù e Maria.
Constituit eum dominum domus suae. (Lo costituì padrone della sua casa. – Ps. 104,20)

            Erano finalmente terminati i giorni dell’esilio. Giuseppe poteva di nuovo rivedere la sospirata terra nativa, che gli richiamava alla mente le più care memorie. Bisognerebbe amare il proprio paese come lo amavano allora gli ebrei, per comprendere le dolci impressioni che riempivano l’anima di Giuseppe allorquando apparve da lontano la vista di Nazareth. L’umile patriarca accelerò il passo della cavalcatura di Maria, e ben presto arrivarono nelle strette vie della loro cara città.
            I Nazareni, i quali ignoravano la causa della partenza del pio operaio, videro con gioia il suo ritorno. I capi di famiglia vennero a dare il benvenuto a Giuseppe, e a stringere la mano del vecchio, la cui testa era incanutita lungi dalla sua patria. Le figlie salutarono l’umile Vergine, la cui grazia era ancora aumentata dalle cure, delle quali ella circondava il suo divino fanciullo. Gesù, il prediletto Gesù vide accorrere presso di sé i ragazzi della sua età, e, per la prima volta, intese il linguaggio dei suoi antenati invece di quello amaro dell’esilio.
            Ma il tempo e l’abbandono avevano ridotto la povera abitazione di Giuseppe in pessimo stato. L’erba selvaggia era cresciuta sopra le mura, e la tignola si era impossessata dei vecchi mobili della santa famiglia.
            Alcune terre che circondavano la casa furono vendute, e col loro prezzo furono comperate le masserizie più necessarie. Le meschine risorse dei due sposi furono impiegate negli acquisti più indispensabili. Non restavano adunque più a Giuseppe che il suo laboratorio e le sue braccia. Ma la stima che ciascuno sentiva pel santo uomo, la confidenza che si aveva nella sua buona fede come nella sua abilità, fecero sì che a poco a poco gli ritornassero e il lavoro e gli avventori; e il coraggioso falegname ebbe ben presto ripreso il suo consueto lavoro. Era invecchiato nelle fatiche, ma il suo braccio era pur sempre robusto, ed il suo ardore si era ancora accresciuto dopo che si trovava egli incaricato di nutrire il Salvatore degli uomini.
            Gesù cresceva in età e sapienza. Nella stessa guisa che Giuseppe aveva guidato i suoi primi passi, quando piccino ancora incominciava a camminare, diede pure a Gesù le prime nozioni di lavoro. Egli teneva la sua piccola mano e la dirigeva nell’insegnargli a tracciare le linee, e a maneggiare la pialla. Egli insegnava a Gesù le difficoltà e la pratica del mestiere. E il Creatore del mondo si lasciava guidare dal suo fedele servitore, che egli si era scelto per padre!
            Giuseppe, che era assiduo agli uffizi nel sacro tempio, come era diligente dei doveri del suo lavoro, osservava rigorosamente la legge di Mosè e la religione dei suoi antenati. Così giammai si sarebbe visto lavorare in giorno festivo, egli aveva compreso come non sia di troppo un giorno per settimana onde pregare il Signore e ringraziarlo dei suoi favori. Ogni anno alle tre grandi solennità giudaiche, alle feste di Pasqua, della Pentecoste e dei Tabernacoli, egli si recava al tempio di Gerusalemme in compagnia di Maria. Ordinariamente egli lasciava a Nazareth Gesù, che si sarebbe soverchiamente stancato dal lungo cammino; e soleva sempre pregare qualche suo vicino perché s’incaricasse della custodia del fanciullo nell’assenza dei suoi genitori.

Capo XVII. Gesù va con Maria sua madre e s. Giuseppe a celebrare la Pasqua in Gerusalemme. – È smarrito e ritrovato dopo tre giorni.
Fili, quid fecisti nobis sic? Ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te. Quid est quod me quaerebatis? Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse? (Figlio, perché ci hai tu fatto questo? Ecco che tuo padre ed io addolorati andavamo di te in cerca; [ed egli disse loro]: Perché mi cercavate voi? Non sapevate che nelle cose spettanti al Padre mio debbo occuparmi? – Lc. 2,48-49)

            Quando Gesù ebbe raggiunta l’età di dodici anni, ed approssimandosi le feste di Pasqua, Giuseppe e Maria lo giudicarono abbastanza forte per sopportare il viaggio, e lo condussero con loro in Gerusalemme. Essi rimasero circa sette giorni nella città santa per celebrare la Pasqua e compiere i sacrifici comandati dalla legge.
            Terminate le feste pasquali ripresero la strada di Nazareth in mezzo ai loro congiunti ed amici. La carovana era assai numerosa. Nella semplicità dei loro costumi le famiglie di una stessa città o di uno stesso villaggio se ne ritornavano alle case loro riunite in allegre brigate, in cui i vecchi discorrevano gravemente coi vecchi, le donne colle donne, mentre i ragazzi correvano e giuocavano insieme nel loro cammino. Così Giuseppe non vedendo Gesù presso di sé lo credette, come era naturale, presso la madre sua o coi ragazzi di sua età. Maria camminava ella pure in mezzo alle compagne persuasa egualmente che il fanciullo seguisse gli altri. Giunta poi la sera la carovana si arrestò nella piccola città di Machmas per passarvi la notte. Giuseppe venne a ritrovare Maria; ma quale non fu la loro sorpresa ed il loro dolore quando si domandarono reciprocamente dove era Gesù? Né l’uno, né l’altro l’aveva veduto dopo l’uscita dal tempio; i ragazzi dal canto loro non potevano darne alcuna notizia. Egli non era con essi.
            Subito Giuseppe e Maria malgrado la loro stanchezza si rimisero in viaggio per Gerusalemme. Rifecero pallidi ed inquieti la strada che avevano di già percorsa lo stesso giorno. Echeggiarono i dintorni delle loro grida di cordoglio; Giuseppe chiamava Gesù, ma Gesù non rispondeva. All’alba del giorno arrivarono a Gerusalemme, dove, dice il vangelo, essi passarono tre giorni intieri in cerca dell’amatissimo figlio. Quanti dolori pel cuore di Giuseppe! E quanto dovette egli rimproverarsi un istante di distrazione! Finalmente verso la fine del terzo giorno questi desolati genitori entrarono nel tempio, piuttosto per invocare i lumi dall’alto, che colla speranza di trovarvi Gesù. Ma quale non fu la loro sorpresa e la loro ammirazione nel vedere il divino fanciullo in mezzo ai dottori meravigliati della saggezza dei suoi discorsi, delle dimande e delle risposte che loro faceva! Maria piena di gioia, perché aveva ritrovato il figlio, non poté tuttavia trattenersi dal manifestargli l’inquietudine che l’aveva afflitta: «Mio figlio, gli disse, perché hai tu fatto così con noi? sono tre giorni da che immersi nel dolore andiamo in cerca di te.» – Gesù rispose: «Perché mi cercavate voi così? Non sapevate che mi è mestieri di occuparmi delle cose che riguardano mio padre?» Il vangelo soggiunge che Giuseppe e Maria non compresero immediatamente questa risposta. Fortunati di aver ritrovato Gesù se ne ritornarono tranquillamente alla loro piccola casa di Nazareth.

Capo XVIII. Seguita della vita domestica della santa famiglia.
Et erat subditus illis. (E Gesù era ad ossi ubbidiente. – Lc. 2,51)

            Il santo Vangelo dopo aver raccontato i principali tratti della vita di Gesù fino all’età di dodici anni, giunto a questo punto conchiude tutta la vita privata di Gesù fino a trent’anni in queste brevi parole: «Gesù era obbediente a Maria ed a Giuseppe, et erat subditus illis.» Queste parole, mentre nascondono ai nostri sguardi la gloria di Gesù, rivelano in magnifico aspetto la grandezza di Giuseppe. Se l’educatore d’un principe occupa una dignità onorifica nello stato, quale deve essere la dignità di Giuseppe, mentre fu incaricato della educazione del Figlio di Dio! Gesù cui le forze erano cresciute cogli anni diventò l’allievo di Giuseppe. Egli lo seguiva nelle sue giornate di lavoro, e sotto la sua direzione apprese il mestiere del falegname. S. Cipriano, vescovo di Cartagine, scriveva circa l’anno 250 dell’era cristiana, che si conservavano ancora con venerazione aratri fatti dalla mano del Salvatore. Era senza dubbio Giuseppe che ne aveva dato il modello e che aveva diretto nella sua bottega la mano del Creatore di ogni cosa.
            Gesù voleva dare agli uomini l’esempio dell’obbedienza anche nelle più piccole circostanze della vita. Così si fa vedere ancora presso di Nazareth un pozzo, cui Giuseppe mandava il divino fanciullo ad attingere l’acqua pei bisogni della famiglia.
            Ci mancano i particolari circa questi anni laboriosi che Giuseppe passò a Nazareth con Gesù e Maria. Ciò che possiamo dire senza timore di ingannarci è che Giuseppe lavorava senza tregua per guadagnar il pane. La sola distrazione che si permetteva era di conversare bene spesso col Salvatore, le cui parole rimanevano profondamente scolpite nel suo cuore.
            Agli occhi degli uomini Gesù passava per figlio di Giuseppe. E questi, la cui umiltà era tanto grande quanto l’obbedienza, serbava entro sé stesso il mistero che era incaricato di proteggere colla sua presenza. «Giuseppe, dice Bossuet, vedeva Gesù e taceva; egli lo gustava e non ne parlava; si contentava di Dio solo senza dividere cogli uomini la sua gloria. Compieva la sua vocazione, perché come gli apostoli erano ministri di Gesù Cristo conosciuto, Giuseppe era il ministro ed il compagno della sua vita nascosta.»

Capo XIX. Ultimi giorni di s. Giuseppe. Sua preziosa agonia.
O nimis felix, nimis o beatus Cuius extremam vigiles ad horam Christus et Virgo simul astiterunt Ore sereno! (O beata o felice anima pia, che del tuo esilio nell’estremo istante, godesti al lato di Gesù e Maria il bel sembiante. – La s. Chiesa nell’uffizio di s. Giuseppe).

            Giuseppe toccava i suoi ottant’anni, e Gesù non doveva tardare ad abbandonare la sua dimora per ricevere il battesimo da Giovanni Battista, quando Iddio chiamò a sé il suo fedele servitore. Le fatiche ed i travagli d’ogni sorta avevano logorato la tempra robusta di Giuseppe, e sentiva egli stesso che la sua fine era ben prossima. D’altronde la sua missione sulla terra era terminata; ed era giusto che egli ricevesse finalmente la ricompensa che meritavano le sue virtù.
            Per un favore affatto speciale un angelo venne ad avvisarlo della sua prossima morte. Egli era pronto a comparire innanzi a Dio. Tutta la sua vita non era stata che una serie di atti d’obbedienza alla volontà divina e poco gl’importava della vita, poiché si trattava d’ubbidire a Dio che lo chiamava alla vita beata. Secondo le testimonianze unanimi della tradizione Giuseppe non morì tra le sofferenze acute della malattia. Si spense dolcemente come una fiamma cui venga meno l’alimento.
            Steso sul letto di morte, avendo ai suoi fianchi Gesù e Maria, Giuseppe fu rapito in estasi per ventiquattro ore. I suoi occhi videro allora chiaramente le verità che la sua fede aveva credute sin allora senza comprendere. Egli penetrò il mistero di Dio fatto uomo e la grandezza della missione che Iddio aveva confidato a lui povero mortale. Assistette in spirito ai dolori della passione del Salvatore. Quando si risvegliò, il suo viso era illuminato e come trasfigurato da una beltà tutta celeste. Un profumo delizioso riempì la camera in cui egli giaceva e si sparse anche al di fuori, annunziando così ai vicini del santo uomo che la sua anima si pura e si bella stava per passare in un mondo migliore.
            In una famiglia di anime povere e semplici che si amano di quell’amor puro e cordiale che difficilmente si trova in seno alla grandezza ed all’abbondanza, quando queste persone si godettero in santa unione gli anni del pellegrinaggio, e che come ebbero comuni le domestiche gioie, così si divisero i dolori santificati dal conforto religioso, se avvenga che questa bella pace debba offuscarsi per la separazione di un caro membro, oh come si sente allora angoscioso il cuore nel dividersi!
            Gesù aveva come Dio un padre in cielo che comunicandogli da tutta l’eternità la sua divina sostanza e natura rendeva perenne alla sua persona sulla terra la celeste gloria (quantunque velata da spoglie mortali); Maria aveva in terra Gesù che le riempiva di paradiso il cuore. Chi tuttavia vorrà negarci che Gesù e Maria trovandosi ora presso al moribondo Patriarca e lasciando anche la tenerezza del loro cuore in balìa della natura non abbiano sofferto nel doversi temporaneamente separare dal compagno fedele del loro pellegrinaggio in terra? Maria non poteva dimenticare i sacrifici, le pene, i disagi, che per essa aveva dovuto soffrire Giuseppe nei penosi viaggi di Betlemme e di Egitto. È vero che Giuseppe trovandosi continuamente in compagnia di Lei veniva compensato di quanto soffriva, ma se questo era un argomento di conforto per l’uno, non era cagione che dispensasse il cuore tenerissimo dell’altra dal sentimento di gratitudine. Giuseppe l’aveva servita non solo con tutto l’affetto d’uno sposo, ma eziandio con tutta la fedeltà d’un servo e l’umiltà d’un discepolo, venerando in Lei la Regina del cielo, la Madre di Dio. Ora a Maria non erano certo sfuggiti dalla mente tanti segni di venerazione, di obbedienza e di stima, e non poteva non sentirne per Giuseppe profonda e verissima riconoscenza.
            E Gesù che in fatto di amore non doveva starsi certamente inferiore né all’uno né all’altra, dal momento che aveva disposto nei decreti della sua divina Provvidenza che Giuseppe fosse il suo custode e protettore in terra, dal momento che questa protezione aveva pur dovuto costare a Giuseppe tanti patimenti e tante fatiche, anche Gesù doveva sentir in quel suo cuore amantissimo i più dolci sensi di grata rimembranza. Nel contemplare quelle scarne braccia disposte in croce sull’affannoso petto egli ricordava che quelle si erano tante volte aperte per stringerlo al seno quando vagiva in Betlemme, che si erano stancate a portarlo in Egitto, che si erano logorate sul lavoro per mantenergli il pane della vita. Quante volte quelle care labbra si erano appressate riverenti a stampargli amorosi baci o a scaldargli nell’inverno le intirizzite membra; e quegli occhi, che allora stavano per chiudersi alla luce del giorno, quante volte si erano aperti al pianto, onorando le sofferenze di Lui e di Maria, quando doveva contemplarlo fuggiasco in Egitto, ma specialmente quando per tre giorni lo pianse smarrito in Gerusalemme. Queste prove di amore sviscerato non erano certamente da Gesù dimenticate in quegli estremi istanti di Giuseppe. Quindi mi immagino che Maria e Gesù nello sparger di paradiso quelle ultime ore di vita di Giuseppe avranno eziandio come sulla tomba dell’amico Lazzaro onorato collo sfogo delle più pure lagrime quello estremo solenne saluto. Oh sì che Giuseppe aveva il paradiso innanzi agli occhi! Egli volgeva lo sguardo da un lato e vedeva l’aspetto di Maria, e ne stringeva nelle sue le mani santissime, e ne riceveva le ultime cure, e ne sentiva le parole di consolazione. Volgeva gli occhi dall’altra parte ed incontrava lo sguardo maestoso ed onnipotente di Gesù, e sentiva le sue mani divine sostenergli il capo, e tergere i sudori, e raccoglieva dal suo labbro i conforti, i ringraziamenti, le benedizioni e le promesse. E mi pare che dicesse Maria: «Giuseppe, tu ci abbandoni; tu hai finito la peregrinazione dell’esilio, tu mi precederai nella tua pace, discendendo il primo nel seno di nostro padre Abramo; oh Giuseppe, come ti son grata della soave compagnia, che mi facesti, dei buoni esempi che mi hai dato, della cura che avesti di me e delle cose mie e delle pene gravissime che soffristi per cagione mia! oh tu mi abbandoni, ma vivrai pur sempre nella mia memoria e nel mio cuore. Sta di buon animo, o Giuseppe, quoniam appropinquat redemptio nostra.» E mi pare dicesse Gesù: «Giuseppe mio, tu muori, ma anch’io morrò, e se muoio io tu devi stimare la morte ed amarla come mercede. Breve, o Giuseppe, ha da essere il tempo delle tenebre e dell’aspettazione. Vanne da Abramo e da Isacco i quali bramarono di vedermi e non furono degni; vanne a loro che da molti anni aspettano la mia venuta in quelle tenebre e loro annunzia la prossima liberazione; dillo a Noè, a Giuseppe, a Davide, a Giuditta, a Geremia, ad Ezechiele, di a tutti quei Padri che ancor tre anni dovranno aspettare e poi sarà consumata l’Ostia ed il Sacrificio e scancellata l’iniquità del mondo. Tu intanto dopo questo breve tempo sarai ravvivato e glorioso e bellissimo, e con me più glorioso più bello sorgerai nell’ebbrezza del trionfo. Vanne lieto, caro custode della mia vita, tu fosti buono e generoso per me, ma vincermi di gratitudine non può nessuno.» La santa Chiesa esprime le amorose ultime assistenze di Gesù e di Maria verso s. Giuseppe con queste parole: «Cuius extremas vigiles ad horas Christus et Mater simul astiterunt ore sereno.» Nelle ore estreme di s. Giuseppe con volto sereno assistevano colla più amorevole vigilanza Gesù e Maria.

(continua)




Salesiani a Tarnowskie Góry

In Polonia esiste un luogo, forse unico, in cui i Salesiani si occupano di giovani provenienti da contesti sociali diversi. Bambini e giovani che provengono da aree urbane e rurali, ricchi e poveri, disabili, abbandonati dai genitori, emarginati si incontrano in un’unica opera. Alcuni studiano a scuola, altri hanno trovato qui una casa, un cortile, un luogo per incontrare Dio. Da venticinque anni l’Istituto Salesiano di Tarnowskie Góry è una seconda casa non solo per i giovani, ma anche un luogo in cui realtà diverse si mescolano, sostenendo l’uomo, ogni uomo.

Una breve storia
Tarnowskie Góry è una città di sessantamila abitanti situata nell’Alta Slesia, una regione molto particolare sulla mappa della Polonia per la sua cultura originale, il suo dialetto, le sue numerose tradizioni. È una città con una ricca storia, le cui origini sono legate alle miniere d’argento che qui operarono dalla fine del XV secolo fino all’inizio del XX secolo. La dedizione al lavoro e la fedeltà alla tradizione caratterizzano ancora oggi gli abitanti di queste terre.

I Salesiani dell’Ispettoria di Breslavia (PLO) sono arrivati a Tarnowskie Góry a cavallo tra il 1998 e il 1999 per prendere in consegna gli edifici dell’ex istituto di riabilitazione per disabili, situato in un bellissimo parco naturale noto come il Parco di Repty. Il parco apparteneva alla ricca famiglia Donnersmarck, che vi costruì un palazzo e un edificio per la servitù. Dopo la seconda guerra mondiale, il palazzo fu distrutto e al suo posto fu allestito un ospedale per i minatori vittime di incidenti. L’edificio della servitù fu ampliato e fu creata una struttura che si occupava della riabilitazione e dell’adattamento dei minatori e delle altre persone disabili. Con il tempo, questa istituzione fu chiamata l’istituto di riabilitazione per disabili e fu consegnata ai Salesiani. Una volta completati i lavori più necessari, il 30 settembre 1999 è stata inaugurata solennemente la presenza salesiana in città. È una presenza speciale, infatti, non si tratta solo di una scuola salesiana con oratorio, ma dell’intera struttura necessaria per accogliere ed integrare le persone disabili.

La struttura dell’Istituto
Oggi la struttura dell’Istituto salesiano include:
– Scuola Primaria e Secondaria con 633 studenti nell’anno scolastico 2023-2024;
– Scuola per Bisogni Speciali con quasi 50 studenti con un convitto, principalmente per i disabili, dove vivono 30 alunni;
– Centro di assistenza per persone con disabilità, con circa 40 persone;
– Centro di Riabilitazione, che fornisce ogni anno quasi 870 servizi di riabilitazione, a favore di quasi 530 giovani minorenni;
– l’Oratorio, dove circa 70 giovani ricevono la formazione;
– l’ospitalità che accoglie vari gruppi per ritiri o attività ricreative.
Nell’Istituto lavorano più di 150 persone che si occupano quotidianamente dei giovani.

Le scuole
La ricchezza delle scuole sta negli studenti e negli insegnanti. Le scuole dell’Istituto impiegano insegnanti che, oltre alla loro formazione specialistica, hanno qualifiche in pedagogia speciale e terapia. Le competenze di questi insegnanti sono la risposta alle esigenze particolari degli studenti con disabilità fisiche e difficoltà specifiche di apprendimento, che non mancano nelle scuole salesiane di Tarnowskie Góry. Gli insegnanti sono creativi, migliorano costantemente le loro competenze e hanno molta esperienza nel loro lavoro.

Il programma educativo delle scuole deriva dai principi del Sistema Educativo Salesiano e tiene particolarmente conto della formula di integrazione di questo lavoro. Allo stesso tempo, il programma definisce la specificità della scuola cattolica e salesiana, che basa le sue attività educative sui valori cristiani. In modo particolare, i giovani vengono educati all’accettazione e alla formazione di se stessi in base alle proprie capacità e ai limiti legati alla disabilità; alla gentilezza e alla tolleranza della visione del mondo, della religione e della razza, a vivere e ad agire in accordo con l’insegnamento della Chiesa cattolica; al patriottismo e alla preoccupazione per il bene comune; alla sensibilità per la sorte degli altri; alla capacità di gestire la preparazione alla vita professionale, familiare e personale; alla verità, all’indipendenza, alla responsabilità; alla comunione con la natura e all’uso dei suoi beni; alla formazione della cultura personale.

Scuola per Bisogni Speciali con un convitto

La scuola per Bisogni Speciali con un convitto accoglie alunni con disabilità provenienti da tutta la Polonia. Lo scopo delle scuole e del convitto è quello di consentire agli alunni di ricevere un’istruzione adeguata alle loro capacità e di fornire un’assistenza educativa completa, nonché di consentire la partecipazione alla riabilitazione terapeutica e sociale e di preparare gli alunni alla partecipazione indipendente alla vita sociale. Questa parte dell’opera salesiana a Tarnowskie Góry rende presente in modo speciale la dimensione della casa secondo i criteri del Sistema Preventivo di don Bosco e sensibilizza l’intera comunità verso i giovani più bisognosi.

Centro di assistenza per persone con disabilità
Centro di assistenza per persone con disabilità è una struttura pubblica all’interno dell’opera salesiana che svolge i compiti di riabilitazione sociale e professionale. Assiste lo sviluppo generale, migliorando l’idoneità degli adulti a funzionare nel modo più indipendente e attivo possibile nel loro ambiente. Le attività di riabilitazione sono adattate alle capacità e alle competenze individuali dei partecipanti. Essi hanno accesso a laboratori terapeutici allestiti adeguatamente, condotti da terapisti e istruttori qualificati.

Centro di Riabilitazione
È un’istituzione nata per fornire attività terapeutiche e riabilitative permanenti e complete agli alunni disabili e agli allievi con i bisogni specifici. Questo è un indubbio vantaggio dell’Istituto salesiano, in quanto i giovani che necessitano di riabilitazione possono usufruirne nel loro luogo di studio e di residenza e in orari coordinati con le attività scolastiche.

Oratorio

L’Oratorio è la realizzazione dell’idea fondamentale di don Bosco: creare per i giovani un ambiente che sia casa, scuola, cortile e chiesa. Offre agli allievi e agli incaricati del Centro, così come ai bambini e ai giovani esterni, l’opportunità di: impiegare bene il loro tempo libero, sviluppare le loro capacità sociali, artistiche e intellettuali, educarli a essere attivi e ad agire per il bene degli altri, e dare loro la possibilità di approfondire la loro vita spirituale. I giovani, soprattutto gli alunni delle scuole, vengono formati per essere “buoni cristiani e onesti cittadini” nella vita adulta; partecipano alla formazione nella comunità locale, ma anche a livello dell’Ispettoria di Breslavia. Prestano un servizio per i più giovani sia a scuola sia fuori scuola, come nell’estate ragazzi.

Ospitalità
La struttura del Centro offre un luogo per accogliere gli ospiti che desiderano riposare, rinnovarsi spiritualmente e godere della bellezza della campagna circostante. Infatti, tutto l’anno l’Istituto accoglie vari gruppi, soprattutto quelli che desiderano vivere momenti di formazione o di ritiro.

Il Colle delle Beatitudini, dove si realizza il sogno di don Bosco
Il cuore dell’Opera salesiana di Tarnowskie Góry è una cappella dedicata a don Bosco. Sull’altare si trova la statua dell’Educatore torinese che indica a san Domenico Savio la meta: il cielo. Infatti, lo scopo dell’attività salesiana a Tarnowskie Góry è l’educazione attraverso l’evangelizzazione e l’evangelizzazione attraverso l’educazione. È interessante notare che l’Istituto è situato su una collina. È in un certo senso il “Colle delle Beatitudini”: qui Dio benedice davvero i giovani, qui insegna loro lo stile di vita secondo le Beatitudini evangeliche attraverso le mani di insegnanti ed educatori. Su questo colle, ogni giorno, si realizza il sogno di don Bosco, anche se a volte deve essere realizzato lungo un sentiero cosparso di rose, come lui stesso sognava: “Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Renditi umile, forte e robusto (…). A suo tempo tutto comprenderai”.

don Krystian SUKIENNIK, sdb




Vita di san Giuseppe, sposo di Maria Santissima, padre putativo di Gesù Cristo (1/3)

San Giuseppe è patrono della Chiesa e anche compatrono della Congregazione Salesiana. Già dagli inizi, don Bosco lo ha voluto associare come protettore della nascente opera a favore dei giovani. Certo della sua potente intercessione ha voluto diffondere il suo culto e ha scritto a questo scopo una vita, più per istruire che per meditare, che vogliamo presentare a continuazione.

Prefazione

            In un’epoca in cui pare spiegarsi così universale la divozione verso il glorioso padre putativo di Gesù, san Giuseppe, crediamo non tornare discaro ai nostri lettori che venga oggi alla luce un fascicolo intorno alla vita di questo santo.
            Né le difficoltà che s’incontrano di trovare negli antichi scritti i fatti particolari della vita di questo santo deve minimamente diminuire verso di lui la nostra stima e venerazione; anzi nello stesso sacro silenzio di cui è circondata la sua vita noi troviamo qualche cosa di misterioso e di grande. S. Giuseppe aveva ricevuto da Dio una missione tutta opposta a quella degli apostoli (Bossuet). Questi avevano per incarico di far conoscere Gesù; Giuseppe doveva tenerlo celato; quelli dovevano essere fiaccole che lo mostrassero al mondo, questi un velo che lo coprisse. Quindi Giuseppe non era per sé, ma per Gesù Cristo.
            Era adunque nell’economia della Divina Provvidenza che s. Giuseppe si mantenesse oscuro mostrandosi solamente quanto era necessario per autenticare la legittimità del matrimonio con Maria, e sgombrare ogni sospetto sopra quella di Gesù. Ma quantunque non possiamo penetrare nel Santuario del Cuor di Giuseppe ed ammirare le meraviglie che Iddio ha in esso operato, tuttavia noi argomentiamo che per la gloria del suo Divin pupillo, per la gloria della sua sposa celeste, doveva Giuseppe riunire in sé stesso un cumulo di grazie e di doni celesti.
            Siccome la vera perfezione cristiana consiste nel comparire tanto grandi davanti a Dio quanto più piccoli avanti agli uomini, s. Giuseppe, che passò la sua vita nella più umile oscurità, si trova in grado di fornire il modello di quelle virtù che sono come il fiore della santità, la santità interiore, cosicché si può dire benissimo di s. Giuseppe ciò che Davide scriveva della sacra sposa: Omnis gloria eius filia Regis ab intus (Ps. 44).
            S. Giuseppe è riconosciuto universalmente ed invocato come protettore dei moribondi, e ciò per tre ragioni: 1° per l’impero amoroso che egli ha acquistato sopra il Cuor di Gesù, giudice dei vivi e dei morti e suo figliuolo putativo; 2° per la potenza straordinaria di cui Gesù Cristo lo ha insignito di vincere i demoni che assalgono i moribondi, e ciò in ricompensa d’averlo il santo salvato un tempo dalle insidie di Erode; 3° pel sublime onore di cui godette Giuseppe d’ essere stato assistito in punto di morte da Gesù e da Maria. Qual nuovo importante motivo per infervorarci nella sua divozione?
            Bramosi pertanto di porgere ai nostri lettori i principali tratti della vita di s. Giuseppe abbiamo cercato fra le opere già pubblicate qualcheduna che servisse allo scopo. Molte infatti da alcuni anni videro la luce, ma o per essere troppo voluminose o troppo aliene per la loro sublimità dallo stile popolare, oppure scarse di dati storici perché scritte collo scopo di servir di meditazione più che d’istruzione, non tornavano a nostro proposito. Noi qui adunque abbiamo raccolto dal Vangelo e da alcuni de’ più accreditati autori le principali notizie intorno alla vita di questo santo, con qualche opportuno riflesso dei santi Padri.
            La veracità del racconto, la semplicità dello stile, l’autenticità delle notizie renderanno, speriamo, gradita questa tenue fatica. Se la lettura di questo libretto servirà a procurare al casto sposo di Maria anche un solo devoto di più noi ci terremo già abbondantemente appagati.

Capo I. Nascita di s. Giuseppe. Suo luogo nativo.
Ioseph, autem, cum esset iustus. (S. Giuseppe era un uomo giusto. – Mt. 1,19)

            A due leghe [9,7 km] circa da Gerusalemme sulla vetta d’un colle, il cui terreno rossastro è cosparso di oliveti, sorge una piccola città celebre per sempre a cagione della nascita del bambinello Gesù, la città di Betlemme, da cui la famiglia di Davide traeva la sua origine. In questa piccola città circa l’anno del mondo 3950 nasceva colui che negli alti disegni di Dio doveva diventare il custode della verginità di Maria, ed il padre putativo del Salvatore degli uomini.
            I genitori gli diedero il nome di Giuseppe che significa aumento, quasi per farci intendere, che egli fu accresciuto dei doni di Dio e a dovizia ricolmato di tutte le virtù sin dalla nascita.
            Due Evangelisti ci tramandarono la genealogia di Giuseppe. Suo padre aveva nome Giacobbe al dire di s. Matteo (Mt. 1,16), e secondo s. Luca si chiamava Eli (Lc. 3,23); ma la più comune e la più antica opinione si è quella che ci fu tramandata da Giulio Africano che scrisse sullo scorcio del secondo secolo dell’era cristiana. Giusta quanto gli era stato riferito dai parenti stessi del Salvatore, egli ci dice che Giacobbe ed Eli erano fratelli e che Eli essendo morto senza figli, Giacobbe ne aveva sposata la vedova siccome era prescritto dalla legge di Mosè, e da questo matrimonio nacque Giuseppe.
            Della stirpe reale di Davide, discendenti da Zorobabele che ricondusse il popolo di Dio dalla cattività di Babilonia, i genitori di Giuseppe erano assai decaduti dall’antico splendore dei loro antenati in quanto all’agiatezza temporale. Secondo la tradizione, suo padre era un povero operaio che si guadagnava il quotidiano sostentamento col sudore della sua fronte. Ma Iddio che rimira non la gloria che si gode in faccia agli uomini, ma il merito della virtù agli occhi suoi, lo scelse per custode del Verbo disceso sopra la terra. D’altronde la professione di artigiano, che in sé ha nulla di abbietto, era in grande onore presso il popolo d’Israele. Anzi, ciascun israelita era artigiano, perché ogni padre di famiglia, qualunque fosse la sua fortuna e l’altezza del suo grado, era obbligato a far imparare un mestiere al figliuolo a meno che, diceva la legge, ne avesse voluto fare un ladro.
            Ben poche cose noi sappiamo circa l’infanzia e la gioventù di Giuseppe. Nella stessa guisa che l’indiano per trovare l’oro, che deve formare la sua fortuna, è obbligato a lavare la sabbia del fiume onde estrarne il prezioso metallo che non s’incontra se non in piccolissime particelle, così siamo noi costretti a cercare nel Vangelo quelle poche parole che qua e là ci lasciò sparse lo Spirito Santo intorno a Giuseppe. Ma come l’indiano lavando il suo oro gli dà tutto il suo splendore, così riflettendo sulle parole del Vangelo noi troviamo appropriato a s. Giuseppe il più bello elogio che possa essere fatto di una creatura. Il santo libro si contenta di dirci che era un uomo giusto. Oh ammirabile parola che esprime da sé sola ben più che intieri discorsi! Giuseppe era un uomo giusto, ed in grazia di questa giustizia egli doveva esser giudicato degno del sublime ministero di padre putativo di Gesù.
            I suoi pii genitori ebbero cura di educarlo alla pratica austera dei doveri della religione Giudaica. Conoscendo quanto la primitiva educazione influisca sull’avvenire dei figliuoli, si adoperarono di fargli amare e praticare la virtù appena la sua giovane intelligenza fu capace di apprezzarla. Del resto se è vero che la beltà morale si rifletta sull’esteriore, bastava dar uno sguardo alla cara persona di Giuseppe per leggere sui suoi lineamenti il candore dell’anima sua. Secondo ciò che ne tramandarono scrittori autorevoli il suo viso, la sua fronte, i suoi occhi, l’insieme tutto del suo corpo spiravano la più dolce purità e lo facevano rassomigliare ad un angelo disceso sopra la terra.

(«Era in Giuseppe un esimio pudore, una modestia, una prudenza somma, era eccellente nella pietà verso Dio e splendeva d’una meravigliosa bellezza di corpo.» Eusebio di Cesarea, lib. 7 De praep. Evang. apud Engelgr. in Serm. s. Joseph.)

Capo II. Gioventù di Giuseppe – Si trasferisce a Gerusalemme – Voto di castità.
Bonum est viro cum portaverit iugum ab adolescentia sua. (Buona cosa è per l’uomo l’aver portato il giogo fin dalla sua adolescenza. – Lam. 3,27)

            Appena le forze glielo permisero, Giuseppe aiutò suo padre nei suoi lavori. Egli apprese il mestiere di legnaiolo, il quale, secondo la tradizione, era altresì il mestiere del padre. Quanta applicazione, quanta docilità dovette egli usare in tutte le lezioni che riceveva dal padre!
            Il suo tirocinio finiva appunto allora quando Iddio permise che gli venissero tolti dalla morte i genitori. Egli pianse coloro i quali avevano avuto cura della sua infanzia; ma sopportò questa dura prova colla rassegnazione d’un uomo il quale sa che tutto non termina con questa vita mortale e che i giusti sono ricompensati in un mondo migliore. Ormai da nulla essendo egli ritenuto a Betlemme, vendette le sue piccole proprietà, e andò a stabilirsi in Gerusalemme. Sperava di trovarvi maggior lavoro che nella città natia. D’altronde si avvicinava al tempio ove la sua pietà continuamente lo attirava.
            Colà passò Giuseppe i più begli anni di sua vita tra il lavoro e la preghiera. Dotato d’una probità perfetta, non cercava di guadagnare più di quello che meritasse l’opera sua, ne fissava il prezzo egli stesso con una ammirabile buona fede, e giammai i suoi avventori erano tentati di fargli qualche diminuzione, perché conoscevano la sua onestà. Sebbene fosse tutto intento al lavoro, egli non mai permetteva al suo pensiero di allontanarsi da Dio. Ah! se si sapesse imparare da Giuseppe quest’arte così preziosa di lavorare e di pregare ad un tempo, si farebbe senza fallo un doppio guadagno; si verrebbe così ad assicurare la vita eterna guadagnandosi il pane quotidiano con assai maggior soddisfazione e profitto!
            Secondo le più rispettabili tradizioni Giuseppe apparteneva alla setta degli Esseni, setta religiosa, la quale esisteva nella Giudea all’epoca della conquista che ne fecero i romani. Gli Esseni professavano una austerità maggiore degli altri Giudei. Le loro principali occupazioni erano lo studio della legge divina e la pratica del lavoro e della carità, e in generale si facevano ammirare per la santità della loro vita. Giuseppe, la cui anima pura aveva in orrore la più leggiera immondezza, si era aggregato ad una classe del popolo, le cui regole sì bene corrispondevano alle aspirazioni del suo cuore; aveva anzi, come dice il venerabile Beda, fatto un voto formale di perpetua castità. E ciò che ci conferma in codesta credenza si è l’asserzione di s. Girolamo, il quale ci dice che Giuseppe non si era mai curato del matrimonio prima di diventare lo sposo di Maria.
            Per questa via oscura e nascosta Giuseppe si preparava, a sua insaputa, alla sublime missione che Dio gli aveva riserbato. Senz’altra ambizione che quella di compiere fedelmente la volontà divina, viveva lontano dai rumori del mondo, dividendo il suo tempo tra il lavoro e la preghiera. Tale era stata la sua gioventù, tale altresì, a suo credere, desiderava trascorrere la sua vecchiaia. Ma Iddio, che ama gli umili, altre cure serbava pel suo fedele servo.

Capo III. Matrimonio di s. Giuseppe.
Faciamus ei adiutorium simile sibi. (Facciamo all’uomo un aiuto che a lui rassomigli. – Gen. 2,18)

            Giuseppe entrava nel suo cinquantesimo anno, allorché Dio lo tolse alla pacifica esistenza che egli menava a Gerusalemme. Era nel tempio una giovane Vergine dai suoi genitori consacrata al Signore sin dalla sua infanzia.
            Della stirpe di Davide essa era figlia dei due santi vecchi Gioachino ed Anna, e si chiamava Maria. Suo padre e sua madre erano morti da parecchi anni, ed il carico della sua educazione era rimasto tutto intiero ai sacerdoti d’Israele. Quando essa ebbe raggiunta l’età di quattordici anni, età fissata dalla legge pel matrimonio delle giovani donzelle, il gran Pontefice si occupò di procurare a Maria uno sposo degno della sua nascita e della sua alta virtù. Ma un ostacolo si presentava; Maria aveva fatto voto al Signore della sua verginità.
            Ella rispose rispettosamente alle fatte proposizioni che avendo ella emesso il voto di verginità, non poteva rompere le sue promesse per maritarsi. Questa risposta sconcertò di molto le idee del gran Sacerdote.
            Non sapendo in qual maniera conciliare il rispetto dovuto ai voti fatti a Dio coll’usanza mosaica che imponeva il matrimonio a tutte le donzelle d’Israele, radunò gli anziani e consultò il Signore ai piedi del tabernacolo dell’alleanza. Ricevute le inspirazioni dal Cielo e convinto che si nascondeva in quella questione qualche cosa di straordinario, il gran Sacerdote risolse di convocare i numerosi congiunti di Maria, onde scegliere tra di loro colui che doveva essere lo sposo fortunato della Vergine benedetta.
            Tutti i celibi adunque della famiglia di Davide furono chiamati al tempio. Giuseppe, sebbene più vecchio, si trovava con essi. Il Sommo Sacerdote avendo annunziato loro che si trattava di gettar le sorti per dare uno sposo a Maria, e che la scelta sarebbe fatta dal Signore, ordinò che tutti si trovassero al sacro tempio il giorno seguente con una verga di mandorlo. La verga si sarebbe deposta sull’altare, e quegli la cui verga fosse fiorita, sarebbe stato il favorito dall’Altissimo ad essere il consorte della Vergine.
            Un numeroso stuolo di giovani si trovo il giorno seguente al tempio col suo ramoscello di mandorlo, e Giuseppe con essi; ma sia per spirito di umiltà, sia pel voto che aveva fatto di verginità, invece di presentare il suo ramo se lo nascose sotto il manto. Furono posti tutti gli altri rami sulla mensa, uscirono i giovani col cuore pieno di speranza, e Giuseppe tacito e raccolto con loro. Si chiuse il tempio ed il Sommo Sacerdote rimandò l’adunanza al domani. Era appena spuntato il nuovo sole, che già la gioventù era impaziente di sapere il proprio destino.
            Giunto il momento stabilito si aprono le sacre porte e si presenta il Pontefice. Tutti si affollano per vedere l’esito della cosa. Nessuna verga era fiorita.
            Il Sommo Sacerdote prostratosi colla faccia a terra davanti al Signore, lo interrogo della sua volontà, e se per sua poca fede, ovvero per non aver compreso la sua voce, non era apparso nei rami il segno promesso. E Dio rispose non essere avvenuto il segno promesso perché tra quelle tenere verghe mancava il ramoscello di quel solo che si voleva dal Cielo; cercasse e vedrebbe avverato il segno. Tosto si fece ricerca di chi avesse sottratto il ramo.
            Il silenzio, il casto rossore che imporporò le guance di Giuseppe, tradì tosto il suo segreto. Condotto davanti al santo Pontefice, confessò la verità: ma il Sacerdote intravide il mistero e tratto Giuseppe in disparte, lo interrogò perché avesse così disobbedito.
            Giuseppe umilmente rispose, aver avuto in animo di tener da sé lontano quel pericolo; avere da lungo tempo fisso in cuor suo di non unirsi in matrimonio con veruna donzella, e parergli che Dio medesimo al santo proposito l’abbia confortato, riconoscere d’altronde sé stesso troppo indegno d’una così santa fanciulla, come sapeva essere Maria; perciò ad altro più santo è più ricco si concedesse.
            Cominciò allora il sacerdote ad ammirare il santo consiglio di Dio, ed a Giuseppe senza più soggiunse: Sta di buon animo, o figliuolo: deponi pur come gli altri il tuo ramoscello ed aspetta il divino giudizio. Certo se egli ti elegge, ritroverai in Maria cotanto di santità e di perfezione sopra tutte le altre donzelle che non dovrai usar preghiere a persuaderla del tuo proposito. Anzi Ella stessa ti pregherà di quel medesimo che tu vuoi, e ti chiamerà fratello, custode, testimonio, sposo, ma non mai marito.
            Giuseppe rassicurato della volontà del Signore dalle parole del sommo Pontefice depose il suo ramo cogli altri e si ritirò in santo raccoglimento a pregare.
            L’indomani era di nuovo congregata la radunanza intorno al Sommo Sacerdote, ed ecco sul ramo di Giuseppe sbucciati fiori candidi e spessi colle foglie tenere e molli.
            Il Sacerdote mostrò ogni cosa agli accorsi giovani, ed annunciò loro che Dio aveva eletto per sposo di Maria, figliuola di Gioachino, Giuseppe figliuolo di Giacobbe ambedue della casa e della famiglia di Davide. Nel tempo stesso si intese una voce che diceva: «O mio fedele servitore Giuseppe! a te è riservato l’onore di sposare Maria, la più pura di tutte le creature; conformati a tutto ciò che Ella ti dirà.»
            Giuseppe e Maria riconoscendo la voce dello Spirito Santo accettarono questa decisione ed acconsentirono ad un matrimonio, che non doveva portar nocumento alla loro verginità.
            Al dire di s. Girolamo gli sponsali si celebrarono lo stesso giorno colla più grande semplicità.

Una tradizione della Storia del Carmelo ci racconta che fra la gioventù radunata per quella occasione si trovava un bel giovane nobile e vivace che aspirava ardentemente alla mano di Maria. Quando vide fiorito il ramo di Giuseppe e svanite le sue speranze rimase attonito e senza sentimento. Ma in quel tramestio d’affetti lo Spirito Santo scese dentro di lui e gli cambio d’un tratto il cuore. Alza il volto, scuote l’inutile ramo e con insolito fuoco: «Io, disse, non era per Lei. Ella non era per me. Ed io non sarò d’altra giammai. Sarò di Dio.» Spezzò il ramo e lo caccio da sé dicendo: Vada con te ogni pensiero di nozze. Al Carmelo, al Carmelo coi figli di Elia. Quivi avrò la pace che ormai mi sarebbe nella città impossibile. Ciò detto andò al Carmelo e domandò di essere anche accettato tra i figli dei Profeti. Venne accettato, vi fece rapidi progressi in spirito ed in virtù e divenne profeta. Egli è quel Agabo che a s. Paolo apostolo predisse i vincoli e la prigione. Egli prima di tutti fondò sul Carmelo un santuario a Maria. La chiesa santa ne celebra la memoria nei suoi fasti, e i figli del Carmelo l’hanno per fratello.

            Giuseppe, tenendo per mano l’umile Vergine, si presentò davanti ai sacerdoti accompagnato da alcuni testimoni. Il modesto artigiano offerse a Maria un anello d’oro, ornato d’una pietra d’amatista, simbolo di verginale fedeltà, e nel tempo stesso le diresse le parole sacramentali: «Se tu acconsenti a divenire la mia sposa, accetta questo pegno.» Maria accettandolo fu solennemente legata a Giuseppe ancorché le cerimonie pel matrimonio non fossero ancora state celebrate.
            Questo anello offerto da Giuseppe a Maria si conserva ancora in Italia nella città di Perugia, alla quale, dopo molte vicissitudini e controversie fu definitivamente accordato da Papa Innocenzo VIII nel 1486.

Capo IV. Giuseppe ritorna in Nazaret colla sua sposa.
Erant cor unum et anima una. (Erano un sol cuore ed un’anima sola. – At. 4,32)

            Celebrati gli sponsali, Maria ritornò a Nazareth sua patria con sette vergini che il gran Sacerdote le aveva accordato per compagne.
            Ella doveva attendere nella preghiera la cerimonia del matrimonio, e formare il suo modesto corredo di nozze. S. Giuseppe rimase a Gerusalemme per preparare la sua abitazione e disporre ogni cosa per la celebrazione del matrimonio.
            Dopo qualche mese secondo le usanze della nazione giudaica vennero celebrate le cerimonie che dovevano succedere agli sponsali. Benché poveri entrambi, Giuseppe e Maria diedero a questa festa tutta quella maggior pompa che loro permisero i pochi mezzi di cui potevano disporre, Maria allora abbandonò la propria abitazione di Nazareth e venne ad abitare collo sposo a Gerusalemme, dove si dovevano celebrare le nozze.
            Un’antica tradizione ci dice che Maria arrivò a Gerusalemme in una fredda sera d’inverno e che la luna spandeva luminosi sopra la città i suoi raggi d’argento.
            Giuseppe si fece all’incontro della sua giovane compagna sino alle porte della città santa seguito da una lunga processione di congiunti, aventi ciascuno una torchia in mano. Il corteggio nuziale condusse i due sposi fino alla casa di Giuseppe, dove da lui era stato preparato il festino di nozze.
            Entrando nella sala del banchetto e mentre i convitati prendevano il posto loro assegnato a tavola, il patriarca avvicinandosi alla santa Vergine, «Tu sarai come mia madre, le disse, ed io ti rispetterò come l’altare stesso di Dio vivente.» D’ allora in poi, dice un dotto scrittore, essi non furono più agli occhi della legge religiosa che fratello e sorella nel matrimonio, benché la loro unione fosse integralmente conservata. Giuseppe non si trattenne lungamente a Gerusalemme dopo le cerimonie nuziali; i due santi sposi lasciarono la città santa per recarsi a Nazareth nella modesta casa che Maria aveva avuto in eredità dai suoi genitori.
            Nazareth, il cui nome ebraico significa fiore dei campi, è una bella e piccola città, pittorescamente assisa sul pendio d’una collina alla estremità della valle di Esdrelon. È dunque in questa ridente città che Giuseppe e Maria vennero a stabilire la loro dimora.
            La casa della Vergine si componeva di due camere principali, di cui l’una serviva di laboratorio per Giuseppe, e l’altra era per Maria. La bottega, dove lavorava Giuseppe, consisteva in una camera bassa di dieci o dodici piedi di larghezza sopra altrettanti di lunghezza. Vi si vedevano distribuiti con ordine gli strumenti necessari alla sua professione. Quanto al legname di cui egli aveva bisogno, una parte rimaneva nel laboratorio e l’altra fuori, permettendo il clima al santo operaio di lavorare all’aperto una gran parte dell’anno.
            Sul davanti della casa si trovava, giusta l’uso d’oriente, una panca in pietra ombreggiata da stuoie di palma, dove il viaggiatore poteva riposare le sue stanche membra e ripararsi dai raggi cocenti del sole.
            Era assai semplice la vita che menavano codesti sposi privilegiati. Maria curava la pulitezza della sua povera dimora, lavorava colle proprie mani le sue vesti e racconciava quelle del suo sposo. Quanto a Giuseppe ora formava un tavolo per i bisogni di casa, o dei carri, o dei gioghi per i vicini da cui ne aveva ricevuto l’incarico; ora col suo braccio tuttora vigoroso si recava sulla montagna ad abbattere gli alti sicomori ed i neri terebinti che dovevano servire alla costruzione delle capanne, che egli elevava nella vallata.
            Sempre assiduo al lavoro bene spesso il sole era di già da lunga pezza tramontato quando egli rientrava in casa pel piccolo pasto della sera, che la sua giovane e virtuosa compagna non gli faceva al certo aspettare, anzi ella stessa gli rasciugava la fronte molle di sudore, gli presentava l’acqua tiepida che ella aveva fatto riscaldare per lavargli i piedi, e gli serviva la cena frugale che doveva ristorare le sue forze. Questa si componeva per lo più di piccoli pani d’orzo, di latticini, di frutti e di alcuni legumi. Poscia, fatta la notte, un parco sonno preparava il nostro santo Patriarca a riprendere il domani le sue giornaliere occupazioni. Questa vita laboriosa e dolce ad un tempo, durava da circa due mesi, quando giunse l’ora segnata dalla Provvidenza per l’incarnazione del Verbo divino.

Capo V. L’Annunciazione di Maria SS.
Ecce ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum. (Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me secondo la tua parola. – Lc. 1,38)

            Un giorno Giuseppe si era recato a lavorare in un paese vicino. Maria era sola in casa e secondo la sua abitudine pregava stando occupata a filare del lino. All’improvviso un angelo del Signore, l’arcangelo Gabriele, discese in questa povera casa tutto risplendente dei raggi della gloria celeste, e salutò l’umile Vergine dicendole: «Io ti saluto, o piena di grazie; il Signore è con te, tu sei benedetta tra tutte le donne.» Questi elogi tanto inaspettati produssero nell’anima di Maria una profonda turbazione. L’Angelo per rassicurarla, le disse: «Non temere, o Maria; poiché hai trovato grazia agli occhi di Dio. Ecco che concepirai e darai alla luce un figlio che si chiamerà Gesù. Egli sarà grande e sarà detto Figlio dell’Altissimo. Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre; egli regnerà eternamente nella casa di Giacobbe, ed il suo regno non avrà fine.» «Come ciò sarà possibile, domandò l’umile Vergine, mentre io non conosco uomo?»
            Ella non sapeva conciliare la sua promessa di verginità col titolo di madre di Dio. Ma l’Angelo le rispose: «Lo Spirito Santo discenderà in te, e la virtù dell’Altissimo ti coprirà colla sua ombra; il santo frutto che nascerà da te, sarà chiamato il figlio di Dio.» E per darle una prova della onnipotenza di Dio, l’arcangelo Gabriele soggiunse: «Ecco che Elisabetta tua cugina ha concepito un figlio nella sua vecchiaia, e quella che era sterile è di già al sesto mese della sua gravidanza. Perché nulla è impossibile a Dio.»
            A queste divine parole l’umile Maria non trovò più che ridire: «Ecco l’ancella del Signore, rispose all’Angelo, sia fatto di me secondo la tua parola.» L’Angelo disparve; il mistero dei misteri era compiuto. Il Verbo di Dio si era incarnato per la salute degli uomini.
            Verso la sera, allorché Giuseppe all’ora solita rientrò, terminato il suo lavoro, Maria nulla gli disse del miracolo di cui ella era stata l’oggetto.
            Si contentò di annunziargli la gravidanza di sua cugina Elisabetta: e siccome ella desiderava di andarla a visitare, da sposa sottomessa domandò a Giuseppe il permesso di intraprendere quel viaggio che a dir vero era lungo e faticoso. Questi nulla aveva a rifiutarle ed ella parti in compagnia di alcuni congiunti. È da credere che Giuseppe non potesse accompagnarla presso sua cugina, perché lo ritenevano a Nazaret le sue occupazioni.

Capo VI. Inquietudine di Giuseppe – È rassicurato da un Angelo.
Ioseph, fili David, noli timere accipere Mariam coniugem tuam, quod enim in ea natum est, de Spiritu Sancto est. (Giuseppe, figliuolo di Davide, non temere di ricevere Maria tua consorte: perché ciò che in essa è stato concepito è per opera dello Spirito Santo. – Mt. 1,20)

            S. Elisabetta abitava nelle montagne della Giudea, in una piccola città chiamata Ebron, posta a settanta miglia [113 km] da Nazareth. Noi non terremo dietro a Maria nel suo viaggio, ci basti il sapere che Maria restò tre mesi circa colla sua cugina.
            Ma il ritorno di Maria preparava a Giuseppe una prova che doveva essere il preludio di molte altre. Egli non tardò ad accorgersi che Maria era in uno stato interessante e quindi veniva tormentato da mortali inquietudini. La legge lo autorizzava ad accusare la sua sposa davanti ai sacerdoti e a coprirla di un eterno disonore; ma un simile passo ripugnava alla bontà del suo cuore, e all’alta stima che fino allora aveva avuto per Maria. In questa incertezza risolse di abbandonarla e di espatriare per rigettare unicamente sopra di sé tutta l’odiosità di una tale separazione. Anzi, aveva fatto già i suoi preparativi per la partenza, quando un angelo discese dal Cielo per rassicurarlo:
            «Giuseppe, figliuolo di Davide, gli disse il celeste messaggero, non temere di ricevere Maria per tua consorte, perché ciò che in essa è stato concepito è per opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figliuolo cui tu porrai nome Gesù, perché lui libererà il suo popolo dai suoi peccati.
            D’allora in poi Giuseppe rassicurato completamente concepì la più alta venerazione per la sua casta sposa; egli vide in essa il tabernacolo vivente dell’Altissimo, e le sue cure non furono che più tenere e più rispettose.

Capo VII. Editto di Cesare Augusto. – Il censo. – Viaggio di Maria e di Giuseppe verso Betlemme.
Tamquam aurum in fornace probavit electos Dominus. (Dio ha provato gli eletti come l’oro nella fornace. – Sap. 3,6.)

            Si avvicinava il momento in cui il Messia promesso alle genti doveva finalmente comparire nel mondo. L’impero Romano era allora arrivato all’apice della sua grandezza.
            Cesare Augusto impadronendosi del supremo potere, realizzava quella unità che secondo i disegni della Provvidenza doveva servire alla propagazione del Vangelo. Sotto il suo regno avevano cessato tutte le guerre, e il tempio di Giano era chiuso (era uso in Roma a quei tempi di tener aperto il tempio di Giano durante la guerra e di chiuderlo in tempo di pace). Nel suo orgoglio, il romano imperatore volle conoscere il numero dei suoi sudditi, e a questo scopo ordinò un censimento generale in tutto l’impero.
            Ciascun cittadino doveva far inscrivere nella sua città nativa sé stesso e tutta la sua famiglia. Dovette adunque Giuseppe abbandonare la sua povera casa per obbedire agli ordini dell’imperatore; e siccome egli era della stirpe di Davide e questa illustre famiglia era originaria di Betlemme, colà doveva andare per farsi inscrivere.
            Era una mattina trista e nebbiosa del mese di dicembre, l’anno 752 di Roma, Giuseppe e Maria lasciavano la loro povera abitazione di Nazareth per recarsi a Betlemme, dove li chiamava l’obbedienza dovuta agli ordini del sovrano. Non furono lunghi i loro preparativi per la partenza. Giuseppe mise dentro ad un sacco alcuni vestimenti, preparò la tranquilla e mansueta cavalcatura, che doveva portare Maria che era già nel nono mese di sua gravidanza, e si avviluppò nel suo largo mantello. Poscia i due santi viaggiatori uscirono da Nazareth accompagnati dalle felicitazioni de loro congiunti ed amici. Il santo patriarca, avendo da una mano il suo bastone da viaggio, teneva coll’altra la briglia del giumento su cui stava assisa la sua consorte.
            Dopo quattro o cinque giorni di cammino scorsero da lontano Betlemme. Il giorno cominciava a venir meno quando entrarono nella città. La cavalcatura di Maria era stanca; Maria d’altronde aveva un grande bisogno di riposo: perciò Giuseppe si mise sollecitamente in cerca di alloggio. Egli percorse tutte le osterie di Betlemme, ma furono inutili i suoi passi. Il censimento generale vi aveva attirata una folla straordinaria; e tutti gli alberghi riboccavano di forestieri. Invano Giuseppe andò a battere di porta in porta domandando ricovero per la sua sposa estenuata dalla fatica, che le porte rimasero chiuse.

Capo VIII. Maria e Giuseppe si rifugiano in una povera grotta. – Nascita del Salvator del mondo. – Gesù adorato dai pastori.
Et Verbum caro factum est. (Ed il Verbo si è fatto carne. – Gv. 1,14.)

            Un po’ scoraggiati dalla mancanza di ogni ospitalità, Giuseppe e Maria se ne uscirono da Betlemme speranzosi di trovare nella campagna quell’asilo che la città loro aveva rifiutato. Arrivarono essi presso ad una grotta abbandonata, la quale offriva un rifugio ai pastori ed ai loro armenti di notte e nei giorni di cattivo tempo. Giaceva in terra un po’ di paglia, ed una incavatura praticata nella roccia serviva egualmente di panca per riposarsi, e di mangiatoia per gli animali. I due viaggiatori entrarono nella grotta onde prendere riposo dalle fatiche del viaggio, e per riscaldare le loro membra intirizzite dal freddo dell’inverno. In questo miserabile riparo, lungi dagli sguardi degli uomini, Maria dava al mondo il Messia ai nostri primi padri promesso. Era la mezzanotte, Giuseppe adorando il divino fanciullo lo inviluppò con pannicelli, e lo pose entro alla mangiatoia. Egli era il primo degli uomini cui toccasse l’incomparabile onore di offrire i propri omaggi a Dio disceso sopra la terra per riscattare i peccati dell’umanità.
            Alcuni pastori guardavano le loro greggi nella vicina campagna. Un angelo del Signore comparve e loro annunziò la buona novella della nascita del Salvatore. Nel tempo stesso si udirono dei cori celesti a ripetere: «e Gloria a Dio nel più alto dei Cieli e pace sulla terra agli uomini di buona volontà.» Questi uomini semplici non esitarono a seguire la voce dell’angelo, «Andiamo, si dissero, sino a Betlemme e vediamo ciò che è accaduto.» E senza fare maggiori indugi entrarono nella grotta ed adorarono il divino fanciullo.

(continua)




L’acqua benedetta, le benedizioni, e gli altri sacramentali hanno ancora valore?

Assistiamo oggi a una indifferenza o a un disprezzo dei sacramentali. Le benedizioni sulle persone, dell’acqua, delle immagini religiose e il loro uso, come altri sacramentali, non hanno più valore agli occhi di tanti cristiani di oggi. Sicuramente questo atteggiamento ha qualcosa a che vedere con gli abusi o superstizioni che hanno deformato il loro vero significato. Ma non si può negare che esiste anche una grande ignoranza su di essi. Proviamo a fare un po’ di chiarezza.

In origine, i sacramentali (chiamati anche piccoli sacramenti) erano semplici cerimonie che accompagnavano la celebrazione dei sette sacramenti, e anche le opere pie e tutta la preghiera canonica della Chiesa. Oggi si riserva la nozione di sacramentali a certi riti, istituiti dalla Chiesa, che di per sé non fanno parte della celebrazione dei sette sacramenti, ma sono di struttura simile a quella dei sacramenti, e che la Chiesa suole usare per ottenere, con la loro impetrazione, effetti principalmente spirituali.

I sacramentali sono segni sacri per mezzo dei quali, con una certa imitazione dei sacramenti, sono significati e, per impetrazione della Chiesa, vengono ottenuti effetti soprattutto spirituali. Per mezzo di essi gli uomini vengono disposti a ricevere l’effetto principale dei sacramenti e vengono santificate le varie circostanze della vita (Catechismo della Chiesa Cattolica – CCC, 1667).
Essi sono istituiti dalla Chiesa per la santificazione di alcuni ministeri ecclesiastici, di alcuni stati di vita, di circostanze molto varie della vita cristiana, così come dell’uso di cose utili all’uomo. Comportano sempre una preghiera, spesso accompagnata da un determinato segno, come l’imposizione della mano, il segno della croce, l’aspersione con l’acqua benedetta (CCC, 1668).
I sacramentali non conferiscono la grazia dello Spirito Santo alla maniera dei sacramenti; però mediante la preghiera della Chiesa preparano a ricevere la grazia e dispongono a cooperare con essa (CCC 1670).

Sono innanzi tutto benedizioni di persone, di oggetti, di luoghi.
Sono anche benedizioni che hanno una portata più duratura, le consacrazioni; hanno per effetto di consacrare delle persone a Dio e di riservare oggetti e luoghi all’uso liturgico, come la benedizione dell’abate o dell’abbadessa, di un monastero, la consacrazione delle vergini, il rito della professione religiosa e le benedizioni per alcuni ministeri ecclesiastici (lettori, accoliti, catechisti ecc.),  o come la dedicazione o la benedizione di una chiesa o di un altare, la benedizione degli olii santi, dei vasi e delle vesti sacre, delle campane ecc.
E sono anche gli esorcismi, cioè una domanda che la Chiesa fa pubblicamente e con autorità, in nome di Gesù Cristo, affinché una persona o un oggetto sia protetto contro l’influenza del Maligno e sottratto al suo dominio (CCC 1671-1673).

Sono stabiliti della Chiesa, e solo la Sede Apostolica può costituire nuovi sacramentali o interpretare autenticamente quelli già accolti, abolirne alcuni o modificarli (Codice di Diritto Canonico – CDC, can. 1167, §1).
I sacramentali sono presentati nel Rituale Romano (specialmente nel Rituale delle Benedizioni e nel Rituale degli esorcismi), dove sono raccolte le forme e modalità per impartirle, essendo richiesta l’osservanza accurata dei riti e delle formule approvate dalla Chiesa (CDC, can. 1167, §2).

Il loro valore risiede in primo luogo nella preghiera della Chiesa (opus operantis Ecclesiae), ma perché producano il loro effetto è necessaria la fede viva, perché i sacramentali non agiscono come i sacramenti ex opere operato, ma ex opere operantis, cioè sono condizionati dalla fede di colui che è beneficiario. Ed è qui dove appare la poca considerazione dei sacramentali: quando non si ricevono con fede, non producono effetti e questo conduce alla falsa opinione che non abbiano nessuna virtù.

Nel loro uso si deve evitare tanto la mancanza di riverenza e rispetto (sono un’intercessione della Chiesa), quanto un impiego di tipo superstizioso o magico. I sacramentali non mutano la natura della realtà sulla quale agiscono, ma sono un’espressione dell’appartenenza a Dio.
Gli oggetti benedetti non sono degli amuleti (oggetti di varie nature e forme a cui si attribuiscono per superstizione una virtù protettiva contro malattie o disgrazie, virtù che risiede nello stesso oggetto), ma sono segni sacri che ci ricordano che Dio ci è sempre vicino con la sua grazia.

Riassumendo, i sacramentali consistono immediatamente e in primo luogo in una preghiera d’impetrazione che la Chiesa indirizza a Dio, e solo in secondo luogo e mediatamente, cioè, mediante questa preghiera d’intercessione della Chiesa, in una santificazione, in quanto la Chiesa, per mezzo di questi riti, impetra da Dio la santificazione delle persone o delle cose.

Le persone e le cose, senza essere fatte vere cause strumentali della grazia, né essere perfezionate ed elevate nelle loro qualità naturali, tuttavia in considerazione della preghiera impetrativa della Chiesa, sono prese sotto la speciale protezione o accettazione divina per il bene spirituale di chi le possiede o ne userà con le debite disposizioni, offrendo l’occasione di operare meglio la propria salvezza.

Trattandosi di cose consacrate, quella stessa accettazione di Dio implica anche che Egli darà speciali grazie a coloro che le useranno con le debite disposizioni d’animo; e, trattandosi di persone consacrate, essa implica in queste persone un titolo morale presso Dio per ottenere a suo tempo le grazie di stato necessarie per adempiere i doveri che comporta quella permanente consacrazione.

Si ritiene che nei sacramentali, la Chiesa chieda ed ottenga immediatamente grazie attuali per la persona cui le impetra, come contrizione dei peccati, atti di fede, di speranza, di carità, che siano disposizioni favorevoli al buon uso dei sacramenti o agli atti di carità perfetta. All’uso dei sacramenti e agli atti di carità perfetta si ritiene che Dio abbia riservato di dare immediatamente la grazia santificante o il suo aumento (Cipriano Vagaggini, Il senso teologico della liturgia).

Queste sono alcune spiegazioni che tentano di fare un po’ di chiarezza intorno ai sacramentali. Però la conferma del loro valore viene, come sempre, dai santi.

San Giovanni Bosco le usava moltissimo, e basta qui ricordare solo uno di questi, l’acqua benedetta, che lui voleva fosse usata anche dai suoi ragazzi.

Nel suo Regolamento dell’Oratorio raccomandava ai ragazzi che: “… entrando in Chiesa, ciascuno prendendo l’acqua benedetta faccia bene il segno della santa Croce, e la genuflessione all’altare del Sacramento” (MB III, 100-101).

E non solo nella chiesa chiedeva l’uso dell’acqua benedetta, ma anche nei dormitori e nelle sale di studio:
            “La camerata tenevasi come un santuario. In ogni dormitorio, e poi nelle sale di studio, D. Bosco prescrisse vi fosse la conchiglia coll’acqua benedetta, della quale facevasi uso (MB III, 339).

Instillava ogni volta che poteva l’efficacia dell’acqua benedetta. Raccontava ai suoi giovani in una buonanotte:
            “In San Pietro in Vaticano vi è una pila d’acqua lustrale veramente bella. La conca è sorretta da un gruppo rappresentante la tentazione. Vi è un demonio spaventoso, colle corna e colla coda, che corre dietro ad un giovanetto per afferrarlo. Il poverino fugge, ma è vicino a cadere nelle unghie di quella brutta bestia: in atto di gridare spaventato solleva le braccia, mettendo le mani nell’acqua benedetta e il demonio spaventato a sua volta non osa accostarglisi.
L’acqua benedetta, miei cari giovani, serve a cacciare le tentazioni e lo dice il proverbio accennando ad uno che fugga con rapidità: – Scappa come il demonio dall’acqua benedetta.
Nelle tentazioni adunque, e quindi principalmente entrando in chiesa, fate bene il segno della Croce, perché è lì dove il demonio vi aspetta per farvi perdere il frutto della preghiera. Il segno della croce respinge il demonio per un momento; ma il segno della croce coll’acqua benedetta lo respinge per molto tempo. Santa Teresa un giorno era tentata. Ad ogni assalto essa faceva il segno della croce, e la tentazione cessava, ma l’assalto ritornava pochi minuti dopo. Finalmente stanca di lottare S. Teresa si asperse di acqua benedetta e il demonio dovette andarsene colla coda fra le gambe” (MB VIII, 723-724).

San Giovanni Bosco ha tenuto sempre in grande apprezzamento i sacramentali. La sua stessa semplice benedizione era tanto richiesta dalle persone perché produceva effetti davvero miracolosi. Bisognerebbe stilare un elenco troppo lungo per ricordare quante guarigioni spirituali e corporali hanno prodotto le sue benedizioni ricevute con fede. Basta per questo leggere la sua vita.