Il Dio “misconosciuto” di san Francesco di Sales

Un episodio curioso
            Nella vita di Francesco di Sales, giovane studente a Parigi, c’è un episodio curioso che ha avuto grandi ripercussioni in tutto il resto della sua vita e nel suo pensiero. Era il giorno del carnevale. Mentre tutti pensavano a divertirsi, il diciasettenne sembrava preoccupato, persino triste. Non sapendo se fosse malato o semplicemente malinconico, il suo precettore suggerì di andare a vedere gli spettacoli della festa. Di fronte a questa proposta, il giovane formulò improvvisamente questa preghiera biblica: “Distogli i miei occhi dal vedere le cose vane”. Poi aggiunse: “Signore, fammi vedere”. Vedere che cosa? Rispose: “La sacra teologia; è lei che mi insegnerà ciò che Dio vuole che la mia anima impari”.

            Fino ad allora Francesco aveva studiato con grande profitto e anche successo gli autori pagani dell’antichità. Gli piacevano e poi riusciva molto bene negli studi. Il suo cuore però era insoddisfatto, cercava qualcosa o meglio qualcuno che potesse soddisfare il suo desiderio. Con il permesso del suo precettore, cominciò in quel periodo a frequentare le lezioni tenute dal grande professore di Sacra Scrittura Gilberto Genebrardo, che commentava proprio in quel tempo un libro della Bibbia che racconta la storia d’amore di due innamorati: il Cantico dei Cantici.

            L’amore che viene descritto in questo libro è l’amore tra un uomo e una donna. Tuttavia, l’amore celebrato nel Cantico dei Cantici può essere anche compreso come l’amore spirituale dell’anima umana con Dio, spiegava Genebrardo ai suoi allievi, ed è questa interpretazione tutta spirituale che incantò il giovane studente, il quale esultava con le parole della sposa: “Ho trovato Colui che il mio cuore ama”.

            Il Cantico dei Cantici diventò da allora in poi il libro preferito di san Francesco di Sales. Secondo il padre Lajeunie, il futuro dottore della Chiesa aveva trovato in questo libro sacro “l’ispirazione della sua vita, il tema del suo capolavoro (il Trattato dell’amor di Dio), e la migliore fonte del suo ottimismo”. Per Francesco, assicura anche padre Ravier, è stata come una rivelazione, e da allora “non ha più potuto concepire la vita spirituale che come una storia d’amore, la più bella delle storie d’amore”.

            Non c’è quindi da meravigliarsi se Francesco di Sales è diventato il “dottore dell’amore” e se il tema dell’amore è stato al centro della commemorazione fatta in occasione del quarto centenario della sua morte (1622-2022). Già nel 1967, in occasione del quarto centenario della sua nascita, san Paolo VI l’aveva definito “dottore dell’amore divino e della dolcezza evangelica”. Cinquantacinque anni dopo, in occasione dell’anniversario della sua nascita al cielo, papa Francesco con la sua Lettera apostolica Totum amoris est, ci offre nuovi tratti della vita e della dottrina del santo vescovo e ci ripropone autorevolmente il vero volto di Dio spesso ignorato o misconosciuto.

Il Dio misconosciuto
            Ai tempi di Francesco di Sales, il re di Francia Enrico IV, grande ammiratore delle capacità e delle virtù del vescovo di Ginevra, si rammaricava un giorno con lui per l’immagine distorta che i suoi contemporanei avevano di Dio. Secondo un testimone, il re “vedeva parecchi suoi sudditi vivere ogni sorta di libertà, dicendo che la bontà e la grandezza di Dio non si curava da vicino delle azioni degli uomini, ciò che egli biasimava decisamente. Vedeva poi altri, in gran numero, che avevano una bassa opinione di Dio col credere che egli fosse sempre pronto a sorprenderli, attendendo soltanto l’ora in cui fossero caduti in qualche leggera mancanza per condannarli eternamente, ciò che egli non approvava”.

            Francesco di Sales, da parte sua, era ben consapevole di offrire un’immagine di Dio diversa da quelle molto diffuse ai suoi giorni. In una sua predica, si paragonava all’apostolo Paolo mentre annunciava agli Ateniesi il Dio ignoto: “Non è che io voglia parlarvi di un Dio sconosciuto – precisava – poiché, grazie alla sua bontà, lo conosciamo – ma, senza dubbio, potrei parlare di un Dio misconosciuto. Io, dunque, non vi farò conoscere, bensì vi farò scoprire, quel Dio tanto amabile, che è morto per noi”.

            Il Dio di san Francesco di Sales non è un Dio carabiniere né un Dio lontano, come lo credevano molti del suo tempo, e non è il Dio della “predestinazione”, che da sempre ha predestinato gli uni al paradiso e gli altri all’inferno, come sostenevano molti tra i suoi contemporanei, ma un Dio che vuole la salvezza di tutti. Non è un Dio lontano, solitario e indifferente, ma un Dio provvidente e “portato alla comunicazione”, un Dio attraente come lo Sposo del Cantico dei Cantici al quale la sposa rivolge queste parole: “Traimi indietro a te e correremo noi all’odore dei tuoi profumi”.

            Se Dio attira l’uomo, è affinché l’uomo diventi cooperatore di Dio. Questo Dio rispetta la libertà e la capacità d’iniziativa dell’uomo, come ricorda papa Francesco. Con un Dio dal volto amante come quello proposto da Francesco di Sales, la comunicazione diventa un “cuore a cuore”, il cui scopo è l’unione con lui. È un’amicizia, perché l’amicizia è comunicazione di beni, scambio e reciprocità.

Il Dio del cuore umano
            Nell’Antico Testamento, Dio è chiamato Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. L’alleanza stabilita da Dio con i patriarchi significa veramente il legame profondo, irremissibile, tra il Signore e il suo popolo. Nel Nuovo Testamento, l’alleanza stabilita in Gesù Cristo riunisce tutti gli uomini, tutta l’umanità. D’ora innanzi ognuno può invocare Dio con questa preghiera di san Francesco di Sales: “O mio Dio, tu sei il mio Dio, il Dio del mio cuore, il Dio della mia anima, il Dio del mio spirito”.

            Queste espressioni significano che per san Francesco di Sales il nostro Dio è non soltanto il Dio dal cuore umano nella persona del Dio fatto uomo, ma anche il Dio del cuore umano. È vero, il Figlio di Maria ricevendo da lei la sua umanità, ha ricevuto allo stesso tempo un cuore d’uomo, forte e dolce. Ma con l’espressione “Dio del cuore umano”, il dottore dell’amore intende dire che il volto del nostro Dio corrisponde ai desideri, alle attese più profonde del cuore umano. L’uomo trova nel cuore di Gesù il compimento inatteso di un amore che non osava nemmeno pensare o immaginare.

            Il giovane Francesco l’ha sentito bene quando ha scoperto la storia d’amore consegnata nel Cantico dei Cantici. La sposa e lo Sposo, l’anima umana e Gesù si scoprono fatti l’uno per l’altro. Non è possibile che il loro incontro sia stato casuale. Dio li ha fatti l’uno per l’altro in tal modo che la sposa può dire: “Tu sei mio e io sono tua”. Tutto quello che san Francesco di Sales ha detto e scritto vibra di questa storia meravigliosa di appartenenza reciproca.

            Nel Salmo 72 san Francesco di Sales leggeva queste parole che lo hanno colpito: “Dio del mio cuore, mia parte è Dio per sempre”. L’espressione “Dio del mio cuore” gli piaceva molto. Secondo il dottore dell’amore, “se l’uomo pensa con un po’ di attenzione alla divinità, immediatamente sente una qual dolce emozione nel cuore, il che prova che Dio è il Dio del cuore umano”. A santa Giovanna di Chantal, con la quale fonderà l’ordine della Visitazione, raccomandava di dire spesso: “Tu sei il Dio del mio cuore e l’eredità che desidero eternamente”.

            Se abbiamo degli affetti sregolati oppure se i nostri affetti in questo mondo sono troppo forti, anche se buoni e legittimi, occorre tagliarli per poter dire a Nostro Signore come Davide: “Tu sei il Dio del mio cuore e mia parte di eredità eterna. Perché è per questa intenzione che Nostro Signore viene a noi, affinché siamo tutti in lui e a lui”.

            Il cuore di Gesù è il luogo del vero riposo. È la dimora “più spaziosa e più cara al mio cuore”, confidava san Francesco di Sales che aveva fatto questo proposito: “Stabilirò la mia dimora nella fornace d’amore, nel divin cuore trafitto per me. Presso questo focolare ardente, sentirò rianimarsi in mezzo alle mie viscere la fiamma d’amore finora così languida. Ah! Signore, il vostro cuore è la vera Gerusalemme; permettetemi di sceglierlo per sempre come il luogo del mio riposo.”

            Non c’è da dunque meravigliarsi se i tesori del Cuore di Gesù siano stati rivelati ad una figlia spirituale di san Francesco di Sales, Margherita Maria Alacoque, la religiosa della Visitazione di Paray-le-Monial. Gesù le disse: “Ecco questo Cuore che ha tanto amato gli uomini, fino a consumarsi interamente per loro”.

            Due secoli dopo san Francesco di Sales, suo discepolo e imitatore, don Bosco, diceva che “l’educazione è cosa di cuore”: tutto il lavoro parte da qui, e se il cuore non c’è, il lavoro è difficile e l’esito è incerto. Diceva inoltre: “Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati”. Amati da Dio e dai loro educatori. Da questo assunto che Don Bosco ha tramandato alla Famiglia Salesiana, prende avvio l’azione educativa salesiana.




Giuseppe Buzzetti, da immigrante a primo coadiutore salesiano

È uno dei tanti piccoli immigrati nella Torino dell’800. Ebbe la fortuna di incontrare presto Don Bosco e divenne il suo primo «vero» salesiano laico.

            Don Giovanni Bosco, giovanissimo prete, era arrivato a Torino nel novembre del 1841. Guardandosi intorno, e scendendo nelle carceri a fianco di Don Cafasso, si era reso conto della drammatica situazione in cui si trovavano i ragazzi della città. Aveva pregato il Signore di aiutarlo a «fare qualcosa» per loro.
            Nella mattinata dell’8 dicembre, festa di Maria Immacolata, aveva incontrato Bartolomeo Garelli, un muratorino di Asti. Nella sacrestia annessa alla chiesa di S. Francesco d’Assisi gli aveva fatto la prima le-zione di catechismo, e se l’era fatto amico.
            Nel pomeriggio di quella stessa festa, durante la celebrazione serale, Don Bosco vide tre muratorini che dormivano, uno stretto all’altro, sul gradino di un altare. La chiesa era affollata di gente, e sul pulpito un predicatore tesseva la sua laboriosa predica. Don Bosco si avvicinò ai tre in punta di piedi, scosse il primo, e sottovoce gli domandò:
            Come ti chiami?
            — Carlo Buzzetti — rispose confuso il ragazzo che dal prete si aspettava uno scappellotto —. Mi scusi, ma ho cercato di stare attento alla predica. Però non capivo niente, e mi sono addormentato.
            Invece di uno scappellotto, Carlo vide un sorriso buono sulla faccia di quel prete, che sottovoce continuò:
            — E questi chi sono?
            — Mio fratello e mio cugino — disse Carlo scuotendo i due piccoli dormienti —. Facciamo i muratori tutta la settimana e siamo stanchi.
            — Venite con me — sussurrò ancora Don Bosco. E li precedette in sacrestia.
            «Erano Carlo e Giovanni Buzzetti, e Giovanni Gariboldi» ricordava con commozione Don Bosco ai suoi primi Salesiani. Piccoli muratori lombardi che per trenta, quarant’anni gli sarebbero stati accanto, che tutti a Valdocco conoscevano.
            «Allora erano semplici garzoni, ora sono capomastri, costruttori stimati e rispettati».

Giuseppe, il fratellino
            I Buzzetti erano di Caronno Ghiringhello (ora Caronno Varesino), una famiglia numerosa che viveva lavorando la terra. Ma nella famiglia di Antonio e Giuseppina erano nati sette figli, troppe braccia per una terra piccolina. Appena varcata la fanciullezza, papà Antonio aveva pensato di mandare i due figli più grandi a Torino, dove c’era una colonia di muratori lombardi che guadagnavano bene, e tornavano con un bel gruzzolo di risparmi.

La famiglia Buzzetti al completo. Al centro in seconda fila Giuseppe (con la barba). Alla sua sinistra il fratello Carlo; alla destra gli altri tre fratelli.

            Carlo e Giovanni raccontarono a Don Bosco che erano partiti su dei carri da Caronno, in comitiva con altri compaesani più attempati e pratici del lungo cammino (un centinaio di chilometri). Un po’ sul carro un po’ a piedi, avevano camminato portandosi un fardello dei loro poveri indumenti, e avevano dormito presso qualche cascinale. «Ora sta per arrivare la stagione morta per noi muratori — disse Carlo —. A giorni riprenderemo la strada per il nostro paese. Ritorneremo in primavera, e porteremo con noi il nostro terzo fratello, Giuseppe.
            In quei pochi giorni che rimanevano, Don Bosco se li fece amici. Carlo e Giovanni tornarono tre giorni dopo, domenica, alla testa di una squadra di cugini e compaesani. Don Bosco disse la Messa e fece una predichina vivace tutta per loro. Poi fecero colazione insieme, seduti al sole nel cortiletto dietro la sacrestia. Parlarono delle famiglie lontane che presto avrebbero rivisto, del lavoro, dei primi risparmi che potevano portare a casa. Con Don Bosco si trovavano bene, sembrava che fossero amici da sempre.
            Nella primavera del 1842 da Caronno tornano a Torino i fratelli Buzzetti, accompagnati dal fratellino che ha appena compiuto 10 anni (è nato il 12 febbraio 1832). Giuseppe è un fanciullo pallido, tutto spaurito. Don Bosco lo guarda con tenerezza, gli parla da amico. Giuseppe gli si affeziona come un cucciolo. Non si staccherà mai più da lui. Anche quando i fratelli, finita una nuova stagione di lavoro, torneranno a Caronno, lui (anche perché la lunga strada lo sfinisce) rimarrà con il «suo» Don Bosco. Dalla primavera del 1842 all’alba del 31 gennaio 1888, quando Don Bosco morirà, Giuseppe gli sarà sempre accanto, testimone calmo e tranquillo di tutta la vicenda umana e divina del prete «che gli vuole bene». Molti avvenimenti della vita di Don Bosco sarebbero ormai classificati «leggende», nel nostro tempo diffidente e smitizzatore, se non fossero stati visti dagli occhi semplici del muratorino di Caronno, che era sempre lì, a due passi dal «suo» Don Bosco.

«Verresti a stare con me?»
            Don Bosco passa di cantiere in cantiere a incontrare i suoi ragazzi e a controllare che le condizioni di lavoro loro imposte non siano disumane. Vede con pena Giuseppe che porta mattoni e calcina dall’alba al tramonto. C’è tanta bontà e tanta intelligenza in quegli occhi. Fra qualche anno lo chiamerà con sé e gli proporrà di condividere la sua vita. Michele Rua, quello che diventerà il secondo Don Bosco, è ancora un bimbette di quattro anni. Ma colui che sarà il suo braccio forte, il suo primo, vero «coadiutore» nella costruzione dell’Opera Salesiana, è già arrivato. È Giuseppe Buzzetti.
            L’Oratorio trasborda dalla sacrestia di S. Francesco all’Ospedaletto della Marchesa Barolo, da un cimitero a un mulino, da una casupola a un prato. Finisce sotto una tettoia di Valdocco. Intanto, Don Bosco racconta ai suoi ragazzi che avranno un oratorio grandioso, laboratori e cortili, chiese e scuole. Più di uno dice che Don Bosco è impazzito. Giuseppe Buzzetti gli sta accanto. Lo ascolta, si illumina al suo sorriso, non pensa nemmeno che Don Bosco possa sbagliarsi.
            Nel maggio del 1847 la Provvidenza e una pioggia infinita porta a Don Bosco il primo ragazzo che ha bisogno di essere ospitato «giorno e notte». Nello stesso anno ne arrivano altri sei: orfani rimasti soli da un giorno all’altro, giovanissimi immigrati in cerca del primo lavoro. Per loro Don Bosco trasforma due camere vicine in un piccolo dormitorio, piazza i letti, appende alla parete un cartello con sopra scritto «Dio ti vede». Per gestire quella prima microscopica comunità (nutrita dall’orto e dalle pentole di mamma Margherita), Don Bosco ha bisogno di un giovane aiutante di cui fidarsi a occhi chiusi, un ragazzo che rimanga con lui per sempre, e sia il primo di quei chierici e preti che la Madonna in sogno gli ha promesso tante volte. Quel ragazzo sarà Giuseppe Buzzetti.
            Raccontalo stesso Giuseppe: «Era una domenica sera, e me ne stavo a osservare la ricreazione dei miei compagni. Quel giorno avevo fatto la Comunione con i miei fratelli, quindi ero proprio contento. Don Bosco faceva la ricreazione con noi, raccontandoci le più care cose del mondo. Intanto veniva notte, e mi preparavo a tornare a casa. Quando mi avvicinai a Don Bosco per salutarlo, mi disse:
            — Bravo, sono contento di poterti parlare. Dimmi, verresti a stare con me?
            — A stare con lei? Si spieghi.
            — Ho bisogno di raccogliere dei giovanetti che mi vogliano seguire nell’impresa dell’Oratorio. Tu saresti uno. Io comincerò a farti un po’ di scuola. E, se Dio vorrà, a suo tempo potresti essere sacerdote.
            Io guardai in faccia Don Bosco e mi pareva di sognare. Poi egli aggiunse:
            — Parlerò con tuo fratello Carlo, e faremo quanto sarà meglio nel Signore».

Invocatore di «miracoli»
            Carlo fu d’accordo, e Giuseppe venne ad abitare con Don Bosco e sua mamma Margherita. Don Bosco gli affidò il denaro e l’economia della casa, con fiducia totale. E in due anni lo preparò a vestire l’abito nero dei chierici. Era chiamato da tutti «il chierico Buzzetti». Fu lui a prendere da parte Michele Rua in un agosto asfissiante, e a fare a quel ragazzetto svogliato dal caldo una seria riflessione perché non si impegnava più nello studio.
            Anno dopo anno, Giuseppe Buzzetti prese dalle mani di Don Bosco e sviluppò la scuola di canto e la banda musicale, i laboratori (specialmente la tipografia di cui divenne il gestore totale), la sorveglianza dei lavori di costruzione, l’amministrazione dell’Opera che si ingrandiva sempre più, l’organizzazione delle lotterie che furono per anni l’ossigeno indispensabile per l’Oratorio.
            Fu il provocatore involontario di due celebri «moltiplicazioni» di Don Bosco. Nell’inverno del 1848, durante una festa solenne, al momento di distribuire la Comunione a trecento ragazzi, Don Bosco si accorse che nella pisside c’erano otto o nove ostie soltanto. Giuseppe, che serviva Messa, si era dimenticato di preparare un’altra pisside piena di ostie da consacrare. Quando Don Bosco si mise a distribuire l’Eucarestia, Giuseppe si mise a sudare perché vedeva (mentre reggeva il piattello) crescere le ostie sotto le mani di Don Bosco, finché bastarono per tutti. L’anno dopo, nel giorno dei morti, Don Bosco tornò dalla visita al cimitero con la turba dei giovani affamati a cui aveva promesso le castagne cotte. Mamma Margherita, a cui Giuseppe aveva riferito male le parole di Don Bosco, ne aveva preparato solo una piccola pentola. Giuseppe, nella baraonda generale, cercò di far capire a Don Bosco che di castagne c’era solo quella piccola quantità. Ma Don Bosco iniziò a distribuirle alla grande, a piene mestolate. Anche quella volta Giuseppe cominciò a sudare freddo, perché la pentola non si svuotava mai. Alla fine tutti avevano le mani piene di castagne calde, e Giuseppe guardava sbalordito la «pentola magica» da cui Don Bosco continuava a pescare allegramente…
            Poi ci fu il tempo in cui parecchie persone volevano far fuori Don Bosco, e Giuseppe (che si era fatto crescere un’imponente barba rossa) divenne il suo custode e difensore. «Noi lo vedevamo quasi con invidia — racconta Giovanni Battista Francesia — uscire dall’Oratorio per andare ad incontrare Don Bosco che da Torino doveva tornare a Valdocco. C’era bisogno di una mano forte e di un cuore a tutta prova, e Buzzetti era proprio la persona indicata». Quando mancava Giuseppe con la sua barba rossa, spuntava un cane misterioso dal pelo grigio, che Mamma Margherita, Michele Rua, Battistin Francesia guardavano con rispetto e paura, e che, Giuseppe, dovette difendere dai sassi di altri ragazzi spaventati…

I giorni della malinconia
            Il 25 novembre 1856 morì Mamma Margherita. Fu un giorno amaro per Don Bosco e per tutti i suoi. E fu anche il giorno che segnò la fine dell’«Oratorio familiare» che Giuseppe aveva visto e aiutato a crescere. I ragazzi erano diventati tanti, e ogni mese crescevano di numero. Non bastava più una mamma, occorrevano maestri, professori, superiori. Giuseppe, poco alla volta, cedette l’amministrazione a don Alasonatti, la scuola di canto e la banda a don Caglierò, la tipografia al cavalier Oreglia di Santo Stefano. Si era tolto la veste nera dei chierici ormai da tempo, perché le troppe occupazioni non gli avevano mai permesso di continuare seriamente gli studi. Ora si vedeva impegnato in lavori sempre più umili: assisteva in refettorio, apparecchiava le tavole, spediva le Letture Cattoliche, andava in città a cercar lavoro per i laboratori.
            E un giorno la malinconia e lo scoraggiamento ebbero il sopravvento, e decise di lasciare l’Oratorio. Parlò con i suoi fratelli (che avevano posti di responsabilità nell’edilizia torinese), trovò un posto di lavoro e andò a congedarsi da Don Bosco. Con la schiettezza di sempre gli disse che ormai stava diventando l’ultima ruota del carro, che doveva obbedire a quelli che aveva visto arrivare bambini, a cui aveva insegnato a soffiarsi il naso. Manifestò la sua tristezza nel dover partire da quella casa che aveva contribuito a far venir su dai giorni della tettoia. Per Don Bosco fu un colpo tremendo. Ma non compiacque sé stesso. Non gli disse: «Povero me! Mi lasci in un bel pasticcio!» Pensò invece a lui, al suo amico più caro, con cui aveva condiviso tante ore liete e dolorose.
            «Hai già trovato un posto? Ti daranno una paga buona? Ti occorrerà denaro per i primi tempi». Accennò ai cassetti della sua scrivania: «Tu li conosci meglio di me questi cassetti. Prendi tutto quello che ti occorre, e se non basta dimmi ciò che hai bisogno e te lo procurerò. Non voglio, Giuseppe, che debba patire qualche privazione per me». Poi lo guardò con quell’amore che solo lui aveva per i suoi ragazzi: «Ci siamo sempre voluti bene. E spero che non mi dimenticherai mai». Allora Giuseppe scoppiò a piangere. Pianse a lungo, e disse: «Non voglio lasciare Don Bosco. Resterò qui per sempre».
            Quando Don Bosco, nel dicembre 1887, dovette arrendersi al male dell’ultima malattia, accanto al suo letto andò a mettersi Giuseppe Buzzetti. Aveva ormai 55 anni. La sua favolosa barba rossa era diventata tutta bianca. Don Bosco non poteva quasi più parlare, ma cercava lo stesso di scherzare facendogli il saluto militare. Quando riuscì a mormorare alcune parole gli disse: «Oh, il mio Caro! Sei sempre il mio caro».
            Il 30 gennaio fu l’ultimo giorno di vita di Don Bosco. Verso l’una pomeridiana accanto al suo letto c’erano Giuseppe e don Viglietti. Don Bosco spalancò gli occhi, tentò di sorridere. Poi alzò la mano sinistra e li salutò. Buzzetti scoppiò a piangere. Nella notte, verso l’alba, Don Bosco morì.
            Ora che il suo grande amico se n’era andato con Dio, Buzzetti sentiva la vita come svuotata. Aveva l’aria stanca. «Noi guardavamo Giuseppe — ricorda don Francesia — tanto affezionato a Don Bosco, come una di quelle cose preziose che ci ricordano tante e tante memorie». Passava molta parte della giornata in chiesa, presso il tabernacolo, davanti al quadro dell’Ausiliatrice.
            Gli fecero dolce violenza perché andasse nella casa salesiana di Lanzo, a respirare un’aria più buona. «Ci vado volentieri — disse alla fine —. Perché vi andava anche Don Bosco, e perché vi morì il caro don Alasonatti. Andrò lassù, e poi andrò a rivedere Don Bosco».
            Morì stringendo il rosario tra le mani. Aveva 59 anni. Era il 13 luglio 1891.




E la stella si fermò su una sedia a rotelle

Incontri nel giorno dell’Epifania con persone stupende dal cuore buono e una fede luminosa

Carissimi amici del Bollettino Salesiano, insieme al mio affettuoso saluto vi porgo i migliori auguri per il nuovo Anno 2024 che abbiamo da poco inaugurato. Spero sinceramente che sia un anno pieno di presenza di Dio nella nostra vita e ricco di benedizioni.
Ho l’abitudine, quando mi è possibile, di scrivere questo saluto condividendo qualcosa che ho vissuto e che mi ha colpito per un motivo o per l’altro. Ebbene, il giorno dell’Epifania del Signore, mi trovavo nella mia città natale, Luanco-Asturias. In quel magnifico angolo di terra, respiravo piacevolmente in contatto con le mie radici e con il mare e la natura che mi hanno visto nascere e crescere, oltre che con i miei compaesani.  Quel giorno sono andato a celebrare l’Eucaristia. Il parroco del paese mi aveva gentilmente concesso questo privilegio, mentre lui si recava in un’altra delle parrocchie a lui affidate. Così abbiamo potuto celebrare questa solennità in più comunità cristiane.
Ebbene, quello che voglio dirvi è che è stata una mattinata in cui il Signore ha preparato per me degli incontri inaspettati in cui, venendo a conoscenza della situazione di alcune persone, il mio cuore si è riempito della certezza di come il Signore consola e conforta anche quando il dolore, la malattia o la limitazione si sono insediati in alcune vite.
Ho iniziato la mia giornata, prima di celebrare l’Eucaristia, facendo visita a una persona anziana che per molti anni è stata medico del mio paese. Era un grande medico di famiglia e un credente. Tra l’altro, era stato studente salesiano a Salamanca. Per anni e anni è stato uno dei personaggi di cui mi parlavano i miei genitori quando andavano dal medico.
Ebbene, in questa visita familiare che gli feci, rispondendo all’invito di sua figlia, incontrai un uomo di fede che mi disse che come medico poteva dare solo una parte del molto che aveva ricevuto da Dio e che ora, con una pesante malattia, chiedeva solo al buon Dio di prepararlo all’Incontro con Lui. Tale era la sua convinzione e la sua pace che andai a celebrare l’Eucaristia avendo già ricevuto la mia dose di “parola buona nell’orecchio”.

Nelle mani di Dio
E all’Eucaristia ho incontrato, come in altre occasioni, un giovane di una trentina di anni che, a causa di un incidente, è da anni su una sedia a rotelle. Anche in sedia a rotelle è andato con sua madre in India per entrare in contatto con i più poveri tra i poveri. E il mio giovane amico mi colpisce per la serenità, il sorriso e la gioia con cui vive nel suo cuore; la stessa gioia con cui partecipa all’Eucaristia quotidiana e con cui riceve il Signore. E questo giovane amico avrebbe sicuramente tutto per lamentarsi della “sua sfortuna”, o peggio ancora: potrebbe dare la colpa a Dio, come tendiamo a fare quando qualcosa ha la meglio su di noi. Invece no, lui vive semplicemente senza piangersi addosso ed è grato per il dono della vita anche su una sedia a rotelle. Alla fine delle celebrazioni, quando lo vedo, ci salutiamo sempre e le sue parole sono sempre parole di ringraziamento, ma sono piuttosto io che dovrei ringraziarlo per la grande testimonianza di vita e di fede nel Signore della vita che dà a tutti noi.
Ecco quanto è stato bello e suggestivo il mio giorno dell’Epifania quando, uscendo dalla chiesa, una coppia di mezza età mi ha salutato e mi ha fatto gli auguri per il nuovo anno. Anche loro con volti gioiosi; ho visto più gioia e serenità nel marito (malato di cancro) che nella sua amata moglie (che soffriva per lui). Ma entrambi mi hanno parlato della loro certezza di dover vivere questo momento e la malattia fidandosi e abbandonandosi a Dio.

Fede di madre
Infine, tra tutti i saluti me ne è sfuggito un ultimo. Una mamma anziana che, presentandosi, mi ha ricordato che qualche anno fa aveva perso uno dei suoi figli, morto di malattia, e che attualmente era malata di cancro. Mi ha chiesto di tenerla presente davanti al Signore. Le ho chiesto come si sentiva e mi ha detto che soffriva, ma era molto confortata dalla fede. Vi assicuro che non avevo parole da dire, perché l’emozione che ho provato durante la mattinata e le testimonianze di vita che mi sono arrivate e che mi hanno travolto sono state così intense.
E non potevo non promettere le mie preghiere a ciascuno, e l’ho fatto, e allo stesso tempo mi sono reso conto, ancora una volta e in modo più forte, di come il Signore continui a fare grandi cose negli umili, nelle persone più colpite dalle situazioni della vita, in coloro che sentono che solo Lui è veramente consolazione e aiuto.
E tutto questo mi sembra così importante che non posso tenerlo per me. Sembrerebbe addirittura che non sia qualcosa di cui scrivere, forse perché non è di moda, forse perché oggi si parla di altre cose, ma io mi ribello a tutto ciò che mi impedisce di condividere e testimoniare ciò che è importante, profondo e di speranza nella nostra vita.
E non so perché, ma ho l’intuizione che molti lettori si sentiranno in sintonia con quello che racconto e con quello che io stesso ho vissuto, perché quello vi racconto, avvenuto in una mattina dell’Epifania in un piccolo paese vicino al mare, non accade solo lì. In altre parole, fa parte della nostra condizione umana e in essa il Signore è sempre al nostro fianco, se glielo permettiamo.
Vi auguro ogni bene, cari amici. E continuiamo a credere che in ogni momento, anche in quelli più difficili, abbiamo motivo di sperare.